UNA CHIESA CAPACE DI BUTTARSI IN ACQUA
di Maria Gloria Ladislao

Anno A - 11 agosto 2002 - XIX Domenica del Tempo Ordinario
(1Re 19,9.11-13 Sal 84 Rm 9,1-5 Mt 14,22-33)

Dopo la condivisione dei pani e dei pesci, Gesù si ritira dalla compagnia dei suoi discepoli per andare a pregare da solo. Il reincontro dopo questa separazione è tutto un processo di riconoscimento che fanno i discepoli nei confronti del loro Maestro. Un riconoscimento che avviene di notte, al buio, in mezzo ad un mare agitato, su una barca che affonda. È sorprendente! La scena precedente (Mt 14,13-21), dopo che avevano mangiato cinquemila uomini, donne e bambini, non ci mostra alcuna parola di riconoscimento dei presenti verso il Signore, né tantomeno una parola di ammirazione, nemmeno un dialogo dopo la condivisione del cibo, cosa che invece era avvenuta prima. È come se fosse stato necessario l'arrivo della notte e l'agitazione del mare per esprimere con chiarezza chi fosse quest'uomo.
La caratterizzazione della persona di Gesù viene messa in bocca ai discepoli, in questo caso rappresentati da Pietro.
In un primo momento la presenza di Gesù provoca confusione e paura: "È un fantasma!". Fantasma: qualcuno che c'è e non c'è, incorporeo però presente, figura evanescente. La paura li fa gridare e nessuno di loro può vedere più in là dello spettro che li spaventa. La parola di Gesù chiarisce la situazione: "Sono io, non temete".
Pietro fa un passo avanti: "Signore, se sei tu…". Signore, titolo che solo uno può portare, ma ancora senza convinzione, ancora al condizionale: "Se sei tu." Non è camminando sull'acqua, quando Pietro esclamerà "Signore" nella sua totale affermazione; no, non è camminando. È quando affonda. Quando cioè non si può reggere e la paura ritorna, allora non dice più "Se sei tu", in quel momento Pietro crede che quello è il suo Signore e gli chiede: "salvami". Riconoscimento che più tardi avverrà in modo pieno anche da parte di tutti gli altri discepoli quando, già sulla barca e messi in salvo, confesseranno: "veramente sei Figlio di Dio".
Ecco qui chiarito il processo del passaggio dal vedere un fantasma e gridare di paura, al riconoscere il Figlio di Dio in mezzo alla comunità dei discepoli. Per riconoscerlo, per continuare ad andare avanti sulla barca, senza paura, non è stata solo necessaria la parola di Gesù… È stato anche necessario buttarsi in acqua. Tutto questo non per mettere alla prova Dio: "vediamo se mi fai questo miracolo". No. Un buttarsi nell'acqua che nasce dalla fiducia in quello che Egli ci dice: "Vieni!"; dal credere in lui che viene verso di noi e che, al di sopra di tutte le agitazioni, ci tende una mano e ci regge forte.
Non vorrei che questo fosse interpretato come un invito a vivere una fede intimista e disinteressata per quello che succede intorno a noi, perché "io mi sento bene insieme a Gesù e questo è quello che importa". Traduciamo tutto questo molte volte in una totale fiducia nella sicurezza di alcune "barche" su cui ci troviamo: i nostri movimenti, le nostre strutture, i nostri rifugi; la sacrestia al posto del mondo.
Credo esattamente il contrario.
La questione non è considerare Gesù, o la "barca della Chiesa", come un semplice "rifugio" per fare in modo che quello che ci circonda non ci tocchi. Colui che non è un fantasma, ma è il Figlio di Dio, ci esorta invece a buttarci in acqua, per agitata che sia, a muoverci senza paura, a confidare non nella falsa sicurezza delle barche - che così facilmente affondano - ma a vivere il rischio di lanciarci al di sopra di tutte le agitazioni. La Buona Notizia ci dice anche questo: siamo una Chiesa che può buttarsi in acqua.