GLI OPERAI
di Maria Caterina Jacobelli
Anno A - 22 settembre 2002 - XXV Domenica
del Tempo Ordinario
(Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20-27; Mt 20,1-16)
Amico, io non ti faccio torto. Non hai
forse convenuto con me per un denaro? (Mt 20,1-16).
Signore Gesù, non c'è
dubbio che il tuo modo di pensare sovverta le nostre categorie.
Spesso sembri condurre apposta chi ti ascolta al limite
di rottura con i princìpi che guidano il nostro agire;
ma forse mai come in questa parabola metti a soqquadro il
nostro mondo.
Se io lavoro un'ora e per questo mio lavoro guadagno dieci,
come non pensare che, per lo stesso mio lavoro, colui che
lavora due ore non debba guadagnare venti? È giusto,
è sacrosanto. Ad applicare le tue parole, Signore,
salta tutta la nostra organizzazione sociale. Ti manca completamente
il senso pratico, e non sai come vada gestito il mondo del
lavoro.
Ma è in queste pagine assurde che il vangelo riesce
a catturare il nostro cuore; è da questo completo
capovolgimento dei nostri concetti di "giusto" e "ingiusto"
che erompe il vento vivificante, la Vita nuova che tu sei.
Ci sconcerti, Signore, ma le tue parole riescono a rinnovarci
il cuore spalancando orizzonti sconfinati.
Certo, nessun datore di lavoro potrebbe operare oggi come
ha fatto il padrone della parabola: neanche a pensarci.
Ma quanta verità nelle parole tue! Quella verità
vera, essenziale, al di fuori di tutte le regole del mercato
e del profitto; la Verità che sei tu. E che si può
cogliere spostando il nostro punto di vista, uscendo fuori
dall'ottica in cui da sempre ci muoviamo. Occorre compiere
un semplice fondamentale spostamento: rimettere Dio nel
posto che abbiamo occupato noi. Perché se è
vero che siamo noi a lavorare, se è vero che il lavoro
è un dovere e un diritto dell'uomo e che - sono parole
tue, Signore - l'operaio deve avere il suo guadagno, ancora
più vero è che il lavoro e soprattutto il
tempo sono doni tuoi. E questo cambia completamente il panorama.
Gli operai che brontolano con il padrone perché dopo
un'intera giornata hanno ricevuto la stessa paga di chi
ha lavorato soltanto un'ora, mettono al centro del problema
se stessi e la loro azione. Nella nostra ottica è
giusto, ma non nella tua, Signore; tu hai una visione immensamente
più vasta del nostro quantificare, del nostro tradurre
il tempo in denaro e, di conseguenza, del nostro valutare
il giusto e l'ingiusto. Tu ti accordi con chi lavora fin
dal mattino per una certa somma, e a sera gliela dai: non
gli togli nulla. Perché non potresti dare del tuo
allo stesso modo anche ad altri? Non è il nostro
lavoro a regolamentare il tuo comportamento, Signore: è
la tua liberalità insindacabile.
Sei forse invidioso perché io sono buono?
Certo che lo siamo, se misuriamo Te e ciò che è
tuo con le nostre categorie del dare e dell'avere; certo
che lo siamo, se poniamo noi stessi e le nostre azioni come
misura del tuo operare, se poniamo il guadagno come fondamento
e scopo della nostra esistenza. Forse, tu con questa parabola
non volevi presentare agli uomini un modello di società,
ma farci vedere quanto diversa sia la tua giustizia dalla
nostra, tu che liberamente doni il tuo paradiso al ladro
morente che te l'ha chiesto nell'ultimo istante di vita.
Però, Signore, le tue parole devono sempre coinvolgerci.
Se tu ci spieghi che il tuo regno è simile ad
un padrone che uscì all'alba..., e ci insegni
a chiedere al Padre che venga questo tuo regno, se vogliamo
prenderti sul serio dovremmo impegnarci a rivedere anche
tutta la nostra struttura sociale... C'è di che tremare,
Signore. Infatti nel corso dei secoli abbiamo fatto molti
tentativi di organizzare la società e il lavoro,
cercando quasi sempre una giustizia migliore, ma abbiamo
sempre fallito. Ciò che tu insegni è solo
un'utopia? In molti se lo sono domandato. Oppure, veramente,
hai spalancato davanti ai nostri occhi miopi un panorama
immenso che ancora non sappiamo vedere?
Qualche anno fa avevo concordato per prendere in affitto
una piccola casa in un paesino di montagna. Al momento di
prenderne possesso vidi che in cucina accanto alla stufa
c'era una cassa piena di legna. "Grazie per aver pensato
anche a questo - dissi alla vecchietta proprietaria della
casa - quanto le devo?". Mi guardò stupita, senza
capire. "Ma sì, per questa legna, quanto le devo?".
"Signora - rispose - non è che un po' di bosco".
Insistetti ancora: "Ma lei ha impiegato il suo tempo per
raccoglierla…". A questo punto lo stupore della vecchina
divenne ancora più grande: "Il mio tempo? Ma il tempo
non è mio: il tempo è di Dio!".
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