L'ECONOMIA EQUA E SOLIDALE DI DIO
di Letizia Tomassone

Anno A - 20 ottobre 2002 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario
(Is 45,1.4-6; Sal 95; 1 Ts 1,1-5; Mt 22,15-21)

La domanda sul tributo a Cesare è posta in malafede, per prendere in trappola Gesù, e tuttavia essa ci può aiutare a riflettere sulla nostra prassi.
La nostra domanda riguarda la nostra partecipazione alle ingiustizie della società: dall'utilizzo delle nostre tasse per gli armamenti alla complicità verso il lavoro schiavizzato, spesso insita nei nostri acquisti quotidiani. Anche comprare un fiore oggi - lo denunciano le donne del Kenia - può significare farsi complici di uno sfruttamento disumano.
Gli ebrei osservanti dell'epoca di Gesù, gli zeloti, i radicali, che non volevano essere complici della dolorosa occupazione romana della loro terra, avevano trovato nel denaro un buon simbolo da combattere. Tirandosi fuori dall'economia dell'Impero si illudevano di farsene oppositori efficaci.
Quell'utopia un po' purista noi l'abbiamo certamente persa. Insieme ad essa, però, abbiamo perso anche il senso dell'economia di Dio che si fonda sul dono della vita e si oppone così ad un'economia che vede solo il profitto e procura morte e sofferenza. Abbiamo perso il senso della materialità della nostra fede, della sua incidenza sui semplici gesti che compiamo ogni giorno.
Se, per esempio, decidiamo di obiettare alle spese militari prelevate dalle nostre imposte, o se scegliamo di acquistare prodotti equi e biologici, spesso lo facciamo solo per ragioni dettate da scelte sociali o umane di solidarietà. Il senso racchiuso nel gesto di acquistare, comprando le sofferenze di altri esseri umani con i nostri beni, non ci è ancora trasparente. Di solito poi succede che se le singole persone cercano di conformare la loro etica di consumo a criteri di giustizia, le istituzioni, e tra queste le chiese, non sanno neanche porsi il problema. Perché anche le chiese istituzioni hanno bisogno di rispondere agli imperativi dell'economia e del profitto, prima che a quelli della giustizia.
E allora ci accorgiamo che quella parola di Gesù ha ancora un impatto dirompente sulle nostre pratiche economiche. Stare davanti a Gesù con la moneta in mano, come fanno qui i discepoli dei farisei, è come lasciare che il Signore pesi la nostra economia e la nostra capacità critica verso di essa. Saper distinguere il piano di Cesare e quello di Dio non significa affatto accettare logiche economiche e morali differenziate a seconda del contesto. Significa invece vedere che si tratta veramente di due logiche diverse e operare una scelta di giustizia e di pace anche attraverso le nostre opzioni economiche.
Qualcuno pensa che bisogna essere molto eroici o molto ricchi per scegliere la finanza etica e i consumi equi. Io credo invece che la nostra consapevolezza di essere parte di una solidale umanità e di un creato altrettanto solidale, nel bene e nel male, ci può condurre ad una sobrietà che apra la strada alla giustizia. Solo se le galline non saranno torturate e schiacciate nelle batterie di allevamento io potrò ricevere il dono delle loro uova senza assorbirne anche il dolore. Solo se i bambini e le bambine dell'Asia non saranno costrette a lavorare ogni giorno tutti i giorni troppe ore per stampare i giochini che mio figlio butta in fondo a una cassa dopo uno sguardo veloce, si apriranno prospettive di pace per questa generazione che sta crescendo.
Le nostre scelte economiche sono radicate nel nostro rapporto con Dio. Proviamo a prendere in mano il modo in cui usiamo il nostro denaro e a stare di fronte a Gesù: sarà lui a mostrarci che la dimensione del dono e della condivisione appartengono a Dio, e che anche lo spreco generoso nel donare è manifestazione del suo amore immenso, coinvolto e coinvolgente.