SE LA TENTAZIONE VIENE DA DIO...
di Elena Lea Bartolini*

Anno A - 17 febbraio 2002 - I Domenica di Quaresima
(Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11)

* Cristiana di origini ebraiche da parte materna, specializzata in Teologia ecumenica di indirizzo biblico-giudaico, saggista, docente e consulente nell'ambito di iniziative locali e nazionali per il dialogo fra i cristiani e gli ebrei, collabora con diverse Istituzioni Accademiche tra le quali la Pontificia Facoltà Auxilium di Roma. Fra le sue recenti pubblicazioni: Anno sabbatico e giubileo nella tradizione ebraica, Ancora, Milano 1999. Come sono belli i passi... La danza nella tradizione ebraica, Ancora, Milano 2000. Dialogo interreligioso con particolare riferimento alla Teshuvah, in AA. VV., Icone di riconciliazione (Dalla parola alla vita 14), Paoline, Milano 2001, pp.169-196.

La Scrittura ci presenta un interessante rapporto fra elezione-vocazione per un servizio di testimonianza e conseguente tentazione da parte di Dio, la quale si presenta sempre come un "essere messi alla prova": è il caso di Abramo che, dopo aver ricevuto la berit, la "promessa-patto di Alleanza" (cf. Gen 12,1-4a), deve affrontare la prova della "legatura" (1) di Isacco, il figlio attraverso il quale Dio stesso gli ha garantito una discendenza (cf. Gen 22,1); è il caso anche del popolo di Israele liberato dalla schiavitù d'Egitto, "separato dagli altri popoli" per diventare "una nazione santa" (cf. Es 19,5-6), e più volte messo alla prova nel deserto per valutarne le "intenzioni del cuore" e la "fedeltà nell'osservanza degli insegnamenti rivelati" (cf. Es 15,25; Dt 8,2); è inoltre il motivo per cui Mosè, al termine della grande teofania rivelativa delle "dieci parole" (comandamenti), si rivolge al popolo dicendo: "non abbiate paura: è soltanto per mettervi alla prova che il Signore è venuto a voi affinché il timore di Lui (riconoscimento della sua grandezza) vi sia sempre presente in modo che non abbiate a peccare" (Es 20,20); ed è il caso anche di Gesù "tentato nel deserto" dopo il "battesimo" nel Giordano e dopo la manifestazione dello Spirito di Dio attestante la sua "unzione" (cf. Mt 3,16-17).
Nella lingua ebraica il significato del verbo "tentare-mettere alla prova" è espresso dalla radice nsh, che l'interpretazione rabbinica del testo biblico collega con la parola nes, "segno-vessillo": "Dio mise alla prova Abramo, lo rese grande nel mondo come il vessillo della nave" (Genesi Rabbah LV,6). La messa alla prova serve pertanto a far diventare chi è già chiamato e riscattato da Dio luogo di riferimento e segno di testimonianza per il mondo. Il Signore infatti mette alla prova la fedeltà di chi coinvolge in prima persona nel "patto di Alleanza" e nell'esperienza del dispiegarsi della Sua salvezza nella storia.
Coerentemente a ciò, Gesù è condotto dallo Spirito nel deserto, cioè nel luogo ove si possono sperimentare sia la tentazione e la prova che la prossimità di Dio, e qui, come i figli di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso, è chiamato a mostrare la sua fedeltà e la sua radicalità nei confronti della parola-evento del Padre che "si è compiaciuto" in lui (cf. Mt 3,17). Dalle risposte che egli dà alle parole tentatrici di Satana, emerge con forza che il suo mostrarsi "via, verità e vita" (cf. Gv 14,6) costituisce la conferma e il compimento della Torah, l'insegnamento divino rivelato al Sinai (cf. Mt 5,17-19): l'uomo non può vivere di "solo pane" ma ha bisogno di "cibarsi" di ciò che "esce dalla bocca di Dio" (Dt 8,3), un Dio che "non deve essere tentato"(Dt 6,16) ma rispettato e adorato come l'unico Signore degno di culto e di lode (Dt 6,13). Il superamento della prova a cui Gesù viene sottoposto, sta dunque nel riaffermare e testimoniare con forza sia l'unicità e la grandezza del Dio di Israele che il primato e la centralità di una parola-insegnamento rivelato che va vissuto senza compromessi. È tale fedeltà alla Torah che lo costituisce testimone autorevole dello stesso Dio che si è rivelato nei due Testamenti. È a tale fedeltà che anche ciascuno di noi è chiamato.
Se la tentazione viene da Dio è dunque una prova, una sorta di garanzia nella prospettiva di una testimonianza provocatoria: nel passo biblico in questione viene infatti rimessa in discussione ogni pretesa di autosufficienza nei confronti di una rivelazione capace di orientare il cammino, così come con forza si denuncia qualsiasi tentativo di strumentalizzazione del "potere divino" per obiettivi estranei al Suo progetto universale di salvezza, per questo anche ogni forma di idolatria diventa pericolosa, in quanto rischia di riconoscere autorità e potere a chi non è in grado di garantire giustizia e benessere per tutti. Una testimonianza di questo tipo richiede una continua teshuvah, che significa "conversione" nel senso di "ritorno" a Dio e alla Sua Torah, un ritorno che deve passare attraverso relazioni autentiche, attraverso gesti concreti di pace e riconciliazione: è questo infatti il "vero culto", il senso del digiuno gradito al Signore di cui quello fisico deve essere segno (cf. Is 57,14-58,12; Mt 5,23-25), altrimenti è solo ipocrisia. Lasciamoci dunque "tentare da Dio", dalla Sua parola, attraverso tutti quegli eventi di fronte ai quali andare controcorrente non è sicuramente facile, ma costituisce l'unica scelta autentica possibile.

(1) Così viene chiamato nella Tradizione ebraica il "sacrificio non compiuto" di Isacco che, di fatto, viene "legato" ma non immolato, segno dunque che il Dio di Israele è colui che mette alla prova la fede dell'uomo ma non vuole sacrifici imani.