Aumentano le
dichiarazioni di
Giovanni Paolo II
meritevoli di censura
(A
cura dell'Istituto Mater Boni Consilii, fondato nel dicembre del 1985 da
quattro sacerdoti italiani, usciti dalla società religiosa San Pio X di
Mons. Marcel Lefrevre.
Il documento, pubblicato nella rivista Sodalitium,
edito a cura dell'Istituto, rappresenta l'espressione delle «preoccupazioni»
dell'ala ultraconservatrice della Chiesa cattolica per le «deviazioni
moderniste» originatesi con il Concilio Vaticano II)
«Contraccezione»
Si possono lasciare i penitenti in «buona fede»?
Il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha pubblicato, il 12 febbraio
1997, un Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla
vita coniugale (L'Osservatore Romano, Documenti, n. 51, 2 marzo 1997).
In questo documento si parla soprattutto del peccato di onanismo, pratica
chiamata oggigiorno «contraccezione». Televisione e giornali hanno
riferito che il Vaticano modificava o per lo meno addolciva la sua condanna
della «contraccezione». Cosa c'è di vero?
Nel documento romano, in realtà, viene ribadita la condanna della «contraccezione»,
anche se nella nuova visione personalista della quale abbiamo già
lungamente parlato (Sodalitium, n. 39 pagg. 40-44).
La novità si trova nel capitolo 3, intitolato Orientamenti pastorali dei
Confessori. I passaggi discutibili del Vademecum sono i seguenti:
«In linea di massima non è necessario che il confessore indaghi sui
peccati commessi a causa dell'ignoranza invincibile [cioè non colpevole,
n.d.r.] della loro malizia, o di un errore di giudizio non colpevole» (n.
7)
«Certamente, è da ritenere sempre valido il principio, anche in merito
alla castità coniugale, secondo il quale è preferibile lasciare i
penitenti in buona fede in caso di errore dovuto a ignoranza soggettivamente
invincibile, quando si preveda che il penitente, pur orientato a vivere
nell'ambito della vita di fede, non modificherebbe la propria condotta, anzi
passerebbe a peccare formalmente; tuttavia, anche in questi casi, il
confessore deve tendere ad avvicinare sempre più tali penitenti, attraverso
la preghiera, il richiamo e l'esortazione alla formazione della coscienza e
l'insegnamento della Chiesa, ad accogliere nella propria vita il piano di
Dio, anche in quelle esigenze» (n. 8).
Questi passaggi hanno per oggetto il dovere del confessore di interrogare il
penitente e di avvisarlo sulla gravità del peccato di onanismo. Il
Vademecum afferma che anche in questa materia si può applicare il principio
(valido senza dubbio in altri casi) secondo il quale si può non avvertire
il penitente che erra in buona fede se si prevede che, una volta avvertito,
non si correggerà, ma peccherà, questa volta, con piena coscienza del male
fatto. I documenti del magistero ecclesiastico insegnano il contrario. Scrisse
Pio XI:
«Perciò, come vuole la Nostra suprema autorità e la cura commessaCi della
salute di tutte le anime, ammoniamo i sacerdoti che sono applicati ad
ascoltare le confessioni (...) che non lascino errare i fedeli a sé
affidati in punto tanto grave della legge di Dio, e molto più che
custodiscano sé stessi immuni da queste perniciose dottrine, e ad esse, in
qualsiasi maniera, non si rendano conniventi. Che se qualche confessore o
pastore delle anime, che Dio non lo permetta, inducesse egli stesso in
simili errori i fedeli a sé commessi o, se non altro, ve li confermasse,
sia con approvarli, sia colpevolmente tacendo, sappia di dover rendere conto
severo a Dio, Giudice supremo, del tradimento del suo ufficio, e stimi a sé
rivolte le parole di Cristo: "Sono ciechi e guide di ciechi: e se il
cieco faccia da guida al cieco, entrambi cadranno nella fossa (Mt. 15,14)»
(enciclica Casti connubii, 31 dicembre 1930).
Queste parole severe del Papa sono rese ancora più chiare da un precedente
intervento del magistero. Un vescovo francese si rivolse alla S.
Penitenzeria affermando che «il nodo della difficoltà» che egli
presentava era «la necessità di interrogare e ammonire i penitenti». Il
prelato esponeva alla Curia romana il fatto che tutti i confessori erano
d'accordo nel condannare l'onanismo, ma che essi dibattevano su questo
punto: è lecito il silenzio (nell'interrogare e nell'ammonire) se il
penitente è in buona fede e se avvertito diserterà i sacramenti, oppure il
silenzio non è lecito? La Sacra Penitenzeria aveva già risposto il 14
dicembre 1876 che non «è lecito favorire la buona fede» di detti
penitenti. Ora il vescovo chiede maggiori schiarimenti. Ecco i dubbi che
egli propose:
1) Il confessore che ha fondato sospetto che il penitente, il quale non
si accusa affatto di onanismo, è abituato a questo brutto peccato, può
tralasciare una interrogazione prudente e discreta, solo perché teme e
prevede che turberà la buona fede di parecchi e che molti si allontaneranno
dai sacramenti?
Anzi, non è obbligato a fare le interrogazioni in modo discreto e prudente?
2) Il confessore che è venuto a sapere, o per spontanea confessione o
per prudente interrogazione, che il penitente è onanista, non è forse
obbligato di avvertire il penitente della gravità di questo peccato, come
di ogni altro peccato mortale, e (come dice il Rituale romano) di riprendere
il penitente con paterna carità, negandogli l'assoluzione, se non dà segni
sufficienti di pentimento per i peccati passati e di proposito vero di non
più praticare l'onanismo?
La Sacra Penitenzeria rispose il 10 marzo 1886: «Al primo dubbio la
risposta è ordinariamente negativa per la prima parte [non può quindi
tralasciare di interrogare se c'è fondato sospetto che il penitente, che
tace, sia onanista anche se esso è in buona fede e non si correggerà,
n.d.a.] ed affermativa per la seconda [è obbligato a interrogare
prudentemente]. Al secondo dubbio la risposta è affermativa, secondo
l'insegnamento degli autori approvati [occorre ammonire il penitente della
gravità del peccato, e non assolverlo se non è pentito]». (H. Batzill,
Decisiones S. Sedis de usu et abusu matrimonii, Marietti, 1944, pp. 27-31,
doc. n. XII; A. Vermeersch, Catechismo del matrimonio cristiano, Marietti,
1944, pp. 138-143).
Il Vademecum pertanto innova rispetto al magistero della Chiesa.
«Cristiani ed ebrei»
Un discorso di Giovanni Paolo II
L'11 aprile 1997, Giovanni Paolo II ha ricevuto in udienza i
membri della Pontificia Commissione Biblica guidati dal Card. Ratzinger. In
questa occasione, ha rivolto loro un discorso, pubblicato da L'Osservatore
Romano (12/04/97, p. 5), sulla «natura delle relazioni tra cristiani ed
ebrei» (n. 1). Secondo Giovanni Paolo II, la «tentazione marcionita si
ripresenta, purtroppo, anche nel nostro tempo» (n. 2): una tentazione
consistente nell'accettare il Nuovo Testamento e nel rifiutare l'Antico. Non
ci sembra che, oggi, esista questa tentazione: semmai il contrario! In realtà
il problema che preoccupa Giovanni Paolo II è un altro: il fatto che,
nonostante il Concilio, che ha cercato di colmare il profondo fossato che
divideva cristiani ed ebrei (cf n. 2), in alcuni permanga «l'impressione
che i cristiani non abbiano niente in comune con gli ebrei» (n. 2). G. P.
II cerca di dimostrare invece i punti in comune; essi sarebbero: 1) l'Antico
Testamento, le «Scritture ebraiche» (n. 4). 2) l'inserimento del cristiano
nel popolo di Israele (n. 4). Infine, 3) risponde a una obiezione.
Analizziamo questi tre punti.
1) G. P. II nasconde un fatto di capitale importanza: gli «ebrei
non-cristiani» (per utilizzare una sua espressione, cf n. 5) che non sono
totalmente atei, preferiscono il Talmùd e la Cabala all'Antico Testamento,
interpretato, in ogni caso, alla luce della tradizione rabbinica, e quindi,
tra l'altro, contro il Nuovo Testamento. Quanto all'Antico Testamento
stesso, G. P. II afferma che la Chiesa «ha ritenuto le Scritture ebraiche
come parola di Dio perennemente valida, rivolta a se stessa, oltre che ai
figli di Israele» (n. 4). Anche qui G. P. II evita di dire tutta la verità:
l'Antico Testamento è, sì, parola di Dio, in quanto tale «perennemente
valida». Ma non precisa che, se i precetti morali dell'A. T. sono stati
perfezionati dal N. T. (cf n. 3), quelli cerimoniali e giudiziali sono
abrogati ( S. Tommaso, I-II, q. 103, a. 3 e 4, q. 104, a. 3), e, anzi, sono
diventati mortiferi. Infine, egli ci presenta un Gesù uomo che impara l'A.
T. nella sinagoga, e per cui «l'opposizione [di chi?] sempre più
consistente con la quale (...) ha dovuto confrontarsi fino al Calvario è
stata da lui compresa alla luce dell'Antico Testamento, che gli rivelava la
sorte riservata ai profeti» (n. 3). In realtà Gesù non era «uno dei
profeti» ma «il Figlio del Dio vivente» (è questa la professione di fede
di Pietro, il primo Papa, cf Mt 16, 14-16), e lui stesso distinse la sua
morte violenta da quella, simile, dei profeti: essi erano i servi, lui era
il Figlio (vedi la parabola dei vignaiuoli omicidi, Mt 21, 33-46). E chi
furono, di grazia, gli assassini dei servi e del Figlio, dei Profeti e di
Gesù?
2) «Il cristiano - scrive poi G. P. II - deve sapere che, con la sua
adesione a Cristo, è diventato ëdiscendenza di Abramo» (Gal 3, 29) e che
è stato innestato sull'olivo buono (cfr Rm 11, 17-24), cioè inserito nel
popolo di Israele, per essere ëpartecipe della radice e della linfa
dell'olivo» (Rm 11, 17)». Da questa premessa, una conseguenza: «se
possiede questa forte convinzione, egli non potrà più accettare che gli
ebrei, in quanto ebrei, siano disprezzati o, peggio, maltrattati» (n. 4).
Premessa e conseguenza sono ambigui, perché sono ambigui, nel contesto, i
termini «cristiano», «ebreo» e «Israele». San Paolo invita il Gentile
a non gloriarsi: egli è stato innestato nell'«olivo buono», il popolo
eletto; ma non dobbiamo credere che i cristiani siano innestati nell'attuale
ebraismo e negli ebrei non-cristiani! Questi ultimi sono «dei rami [che]
sono stati tagliati via» (Rm 11, 17), e non sono l'«olivo buono» come G.
P. II vuol far credere.
3) Ed ora, l'obiezione: «non intendo ignorare che il Nuovo Testamento
conserva le tracce di chiare tensioni esistite tra comunità cristiane
primitive e alcuni gruppi di ebrei non-cristiani. San Paolo stesso attesta,
nelle sue lettere, che in quanto ebreo non-cristiano aveva perseguitato
fieramente la Chiesa di Dio (cfr Gal 1, 13; Cor 15, 9; Fil 3, 6)» (n. 5).
Così come è presentata, la difficoltà è falsificata. Infatti:
a) laddove l'Antico Testamento è detto perennemente valido come parola di
Dio, questi passi del N. T. vengono invece storicizzati e, come vedremo, gli
viene negato un valore teologico. Si tratterebbe solo di cronaca dei tempi
che furono, senza valore per l'oggi.
b) lo scontro non era (non è) tra alcune «comunità cristiane» e «alcuni
gruppi di ebrei non-cristiani». Lo scontro era (è) tra la Chiesa e la
Sinagoga, guidate ciascuna dalle proprie autorità. L'unico persecutore
della Chiesa che G. P. II osa designare col suo nome è... San Paolo!
c) Ancora più grave sarebbe questa frase se essa volesse affermare, in
maniera solo più sfumata, quanto insegnato dal documento vaticano Ebrei ed
ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica (24
giugno 1985) ove si afferma che «alcuni riferimenti ostili o poco
favorevoli agli ebrei che si trovano nel N. T. non riportano fedelmente il
pensiero di Gesù, ma «riflettono le condizioni dei rapporti tra ebrei e
cristiani, che cronologicamente sono molto posteriori e Gesù. In questo
caso, G. P. II negherebbe la storicità e veridicità dei Vangeli.
La soluzione che propone G. P. II a riguardo dei passi del N. T. ostili agli
ebrei non-cristiani è questa: «questi ricordi dolorosi devono essere
superati nella carità (...)» ; bisogna «diminuire le tensioni e dissipare
i malintesi» (n. 5).
Questa soluzione, apparentemente caritatevole, è in realtà quanto di più
nocivo si possa fare contro gli ebrei non-cristiani: non ricordare loro il
«ricordo doloroso» del rinnegamento del Dio incarnato e del Messia di
Israele non favorirà certo la loro conversione a Cristo. Questo modo di
agire non è secondo la pedagogia divina che sempre, nell'Antico e nel Nuovo
Testamento, ha rimproverato a Israele i suoi tradimenti e le sue
fornicazioni, per richiamarla al suo Sposo divino.
Il discorso di Giovanni Paolo II
ai partecipanti all'Incontro di studio su «Radici dell'antigiudaismo in
ambiente cristiano»
Il 31 ottobre 1997 Giovanni Paolo II ha ricevuto in udienza i
partecipanti all'Incontro di studio su «Radici dell'antigiudaismo in
ambiente cristiano». In quest'occasione, ha loro rivolto un discorso in
francese, pubblicato su L'Osservatore Romano del 1 novembre (p. 6) e
tradotto in italiano dallo stesso quotidiano, in data 3-4 novembre (p. 7).
Mentre del convegno (di cui non sono noti gli atti) parliamo nell'editoriale
e nella «rassegna stampa», in questa rubrica commenteremo solo il discorso
wojtyliano.
Dopo aver inscritto il simposio nel clima della preparazione al Giubileo,
Giovanni Paolo II ha detto: «L'oggetto del vostro simposio è la corretta
interpretazione teologica dei rapporti della Chiesa di Cristo con il popolo
ebreo, di cui la dichiarazione conciliare Nostra Aetate ha posto le basi, e
sui quali, nell'esercizio del mio Magistero, io stesso ho avuto l'opportunità
di intervenire in diverse occasioni» (n. 1). L'oggetto in questione è
della massima importanza, poiché concerne il dato rivelato (i rapporti tra
la Chiesa e il popolo ebreo); eppure, per Giovanni Paolo II, il Magistero
della Chiesa non si sarebbe mai espresso a proposito, prima del Vaticano II.
In realtà, ciò di cui ci si vuole occupare, è l'antigiudaismo cristiano,
così descritto da Giovanni Paolo II: «In effetti, nel mondo cristiano -
non dico da parte della Chiesa in quanto tale - interpretazioni erronee e
ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta
colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di
ostilità nei confronti di questo popolo» (n. 1). Giovanni Paolo II cerca
di distinguere le responsabilità della «Chiesa in quanto tale» da quella
del «mondo cristiano» (o, come recita il titolo del convegno, dell'«ambito
cristiano»). Invano. Poiché la tesi della responsabilità morale
collettiva del popolo ebreo nella morte di Cristo (il «deicidio»), nella
misura in cui esso rifiuta ancor oggi Cristo, si trova nell'interpretazione
che i Padri della Chiesa, i santi, i Papi e i Dottori hanno sempre dato,
unanimi, del Nuovo Testamento. «Il nostro fine - ha dichiarato il
domenicano Georges Cottier, teologo della Casa Pontificia - è capire come
fu possibile che vescovi, papi e santi abbiano giustificato le persecuzioni».
Non si vede, pertanto, come la Chiesa «in quanto tale» possa non essere
coinvolta nella condanna wojtyliana. «I vostri lavori» aggiunge Wojtyla «completano
la riflessione condotta soprattutto dalla Commissione per i Rapporti
Religiosi con l'Ebraismo, tradotta, fra le altre cose, negli Orientamenti
del 1 dicembre 1974 e nei «Sussidi per una corretta presentazione degli
Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa
Cattolica» del 24 giugno 1985» (n. 1). Egli conferma pertanto, col suo «magistero»
ordinario, i documenti succitati. A uno di questi ho già fatto allusione,
ma vale la pena di citare in intero la proposizione che Giovanni Paolo II fà
propria: «I vangeli sono il frutto di un lavoro redazionale lungo e
complesso. (...) Non è quindi escluso che alcuni riferimenti ostili o poco
favorevoli agli ebrei abbiano come contesto storico i conflitti tra la
Chiesa nascente e la comunità ebraica. Alcune polemiche riflettono le
condizioni dei rapporti tra ebrei e cristiani, che, cronologicamente, sono
molto posteriori a Gesù» (IV, 1, a). Questa affermazione, fatta propria da
Giovanni Paolo II, è di una estrema gravità. Prima si insinua (non è
quindi escluso...) e poi si afferma chiaramente (alcune polemiche
riflettono...) che una parte dei vangeli, quella ostile agli «ebrei», non
è autentica, in quanto attribuisce a Gesù delle parole e delle idee che
Egli, in realtà, non avrebbe mai pronunciato né concepito. Ma se le cose
stanno così, è la storicità dei Vangeli a essere compromessa, assieme
alla loro ispirazione divina; tutta la fede cristiana crollerebbe, pertanto,
miserabilmente, ed i Giudei avrebbero affibbiato a ragione a Cristo il
titolo poco onorevole di «impostore» (Mt 27, 63), ed ai cristiani la colpa
di essere ancora più imbroglioni del loro Maestro (cf Mt 27, 64). Che
questo documento sia stato proposto da un organismo della «Santa Sede» è
stupefacente; che «il Papa» lo abbia approvato e fatto suo è un vero e
proprio «mistero di iniquità»; che la maggioranza dei cattolici non se ne
sia neppure accorta o che non faccia una piega nel leggere simili blasfemie,
è una autentica vergogna...
Ma il discorso di Giovanni Paolo II non si limita a questo. «Questo popolo
- aggiunge - è invitato e guidato da Dio, creatore del cielo e della terra.
(...) Questo popolo persevera a dispetto di tutti perché è il popolo
dell'Alleanza e perché, nonostante le infedeltà degli uomini, il Signore
è fedele alla Sua Alleanza. Ignorare questo dato importante significa
impegnarsi sulla via di un marcionismo contro il quale la chiesa aveva
reagito subito con vigore...» (n. 3). Questa frase di Giovanni Paolo II,
che esprime un concetto da lui espresso già più volte è, sicut sonat,
contraria alla divina Rivelazione. Giovanni Paolo II vuol probabilmente far
allusione a quanto scrive San Paolo (Rm 11, 28-29): Riguardo al vangelo,
sono nemici per via di voi, ma rispetto all'elezione sono amati per via dei
padri; i doni e la vocazione di Dio non sono cose che soggiacciono a
pentimento. Giovanni Paolo II, innanzitutto, mutila in questo punto la
dottrina di San Paolo: gli ebrei non cristiani sono nemici per quanto
riguarda il Vangelo. In seguito, egli distorce il pensiero dell'Apostolo.
San Paolo, come si vede dal contesto, annuncia la futura conversione del
popolo ebraico, ora incredulo (Rm 11, 25 ss): in questo si manifesta l'amore
di Dio, e la sua misericordia (vv. 31-32), a causa dei padri. Ma egli non
intende affatto dichiarare eterna la antica alleanza col popolo ebraico.
Esso non è più il popolo eletto (cf Mt 21, 41; Rm 9, 25-26; 1 Tess 2,
15-16; Pio XI: decreto del S. Uffizio del 25 marzo 1928, e ëAtto di
consacrazione al Sacro Cuore di Gesù»). Anche Giuda fu eletto come
Apostolo, e i doni e la vocazione di Dio non sono cose che soggiacciono a
pentimento; eppure egli perse l'apostolato (Atti 1, 20 e 25) per la sua
infedeltà. È questa l'interpretazione tradizionale e vera di questo
versetto (cf S. Tommaso, ad Romanos, lectio IV, n. 925; Mons. Landucci, La
vera carità verso il popolo ebraico, in Renovatio, n. 3, 1982, pp. 360-363;
Mons. Spadafora, Cristianesimo e giudaismo; ed. Krinon Caltanisetta 1987:
vedere il commento dell'epistola ai Romani pagg. 83-106, specialmente pagg.
103-106 che riguarda Rom. XI, 28-29; il testo di Landucci è ripreso da
Spadafora pagg. 107-126; Sodalitium, n. 26, pp. 30-31).
Ultima osservazione. Giovanni Paolo II conclude l'insegnamento della sua
allocuzione con questa esortazione: L'insegnamento di Paolo nella Lettera ai
Romani ci indica quali sentimenti fraterni, radicati nella fede, dobbiamo
nutrire verso i figli di Israele (cfr Rm 9, 4-5). L'Apostolo lo sottolinea:
ëa causa dei loro padri» essi sono amati da Dio, i cui doni e la cui
chiamata sono irrevocabili (cfr Rm 11, 28-29) (n. 4). Quanto all'ultima
citazione, abbiamo già notato l'omissione (gli ebrei sono nemici, dice san
Paolo) e la distorsione (i doni di Dio sono irrevocabili da parte di Dio, ma
possono essere perduti dall'uomo) del testo paolino fatti da Giovanni Paolo
II. Quanto a Rm 9, 4-5, S. Paolo precisa subito dopo (vv 6-12) che non tutti
i discendenti da Israele sono Israeliti, nè per essere seme d'Abramo son
tutti figli: quanti rigettano Cristo non sono dei Giacobbe ma degli Esaù,
rigettati da Dio (cf v. 13): applicare fraudolentemente ai giudei infedeli
quanto la scrittura attribuisce solo a quelli fedeli è un inganno che
avalla la menzogna stigmatizzata da S. Giovanni: dicono di essere Giudei e
non lo sono; ma [sono invece] sinagoga di Satana (Ap 2, 9).
«Giovanni
Hus, eretico o riformatore della Chiesa?»
Praga, 27 aprile: incontro di preghiera ecumenica nella Cattedrale. G. P.
II ha ripetuto i noti errori ecumenisti.
1) «La ricerca della verità ci fa sentire peccatori. Ci siamo divisi a
motivo di reciproche incomprensioni, dovute spesso a diffidenza, se non a
inimicizia. Abbiamo peccato. Ci siamo allontanati dallo Spirito di Cristo»
(n. 2).
Queste parole sono gravissime. G. P. II attribuisce indistintamente ai
cattolici e agli eretici la colpa della separazione di questi dalla Chiesa
cattolica. Presenta questa separazione come se la Chiesa si fosse divisa (cf
n. 2: «Comunità cristiana ancora indivisa»). Attribuisce anche alla
Chiesa un «allontanamento dallo Spirito di Cristo» incompatibile con la
sua santità e indefettibilità.
2) G. P. II ha ripetuto l'inammissibile elogio di un eretico quale Hus,
definito «riformatore della Chiesa» (n. 4), ripetendo quanto già
detto nel 1990. Ha pure ricordato il suo mea culpa di Olomouc (1995) «a
nome della Chiesa di Roma» per i «torti inflitti ai non cattolici».
Queste parole di G. P. II, ormai così frequenti al punto che non ci
facciamo più caso, sono scandalose, ingiuriose per la Chiesa, favorevoli
agli eretici, ed insinuano numerose eresie, delle quali la più grave
sarebbe un presunto allontanamento della Chiesa dallo «Spirito di Cristo».
Se questo allontanamento ci fu nel XV-XVI sec., chi può escludere che
non ci sia anche ora, con Giovanni Paolo II?
«La Madonna è morta?»
È quanto afferma Giovanni Paolo II nella sua catechesi, durante l'udienza generale del 25 giugno 1997 (cfr L'Osservatore Romano, 26 giugno 1997, p. 4). Egli ricorda (n. 1) come Pio XII, nel definire il dogma dell'Assunzione, ed il Vaticano II (Lumen gentium, 59), evitarono di parlare della morte di Maria, utilizzando la circonlocuzione al termine della sua vita terrena. Wojtyla, però, ha ritenuto opportuno uscire dal riserbo dei suoi predecessori, e negare apertamente questo privilegio mariano (nn. 2-5), qualificando la tesi mortalista come «tradizione comune» e screditando quella opposta in quanto «sconosciuta fino al XVII secolo» (n. 1). L'opinione di Giovanni Paolo II è legittima. Tuttavia, non la condividiamo. Essa si inserisce, invero, nella corrente «minimalista» che ha trionfato al Vaticano II; la scuola dei Roncalli e dei Montini, che si opposero, rispettivamente, alla definizione dell'Assunzione e della Mediazione di Maria. Wojtyla passa per un gran devoto della Madonna: il discorso del 25 giugno va in senso opposto a questa fama. Esso va in senso opposto anche a Pio XII: se è vero che egli non si pronunciò esplicitamente sulla questione della morte di Maria, è vero altresì che egli fece cancellare le parole «dopo la vostra beatissima morte» da una preghiera da lui indulgenziata nel dicembre del 1950. In effetti, il grande sviluppo della mariologia, che ha portato alle definizioni dogmatiche dell'Immacolata Concezione e dell'Assunzione, ha permesso di mettere meglio in luce che nel passato il problema della «morte di Maria», che è come un corollario di questi due dogmi già definiti. La morte, in effetti, è una conseguenza del peccato originale: Maria, immacolata, non doveva morire. E difatti non morì. Implicitamente, lo afferma la stessa definizione dogmatica dell'Assunzione: Maria, «al termine della sua vita terrena, fu assunta in anima e corpo alla gloria del cielo». Se Maria è morta, argomenta il Padre Oblato dell'Immacolata Mario De Rosa nel suo libro del 1961, La trionfatrice della morte [egli dà ben dieci argomenti probanti in favore della tesi della non morte di Maria], la sua anima si sarebbe separata, anche un solo istante, dal corpo. In quell'istante, la sua anima avrebbe goduto del Paradiso (giacché Ella non finì certo nel Purgatorio!) senza il suo corpo, contrariamente al dogma dell'Assunzione, che afferma come «al termine della sua vita terrena» (e non un attimo dopo) ella godette del Cielo in corpo e anima. Né vale obiettare che anche Cristo morì. Cristo poteva meritare anche nella morte, non così Maria. Per di più, fa notare padre Roschini, servita, salvo nel caso di Gesù, in cui Corpo e Anima restarono uniti alla Persona divina, la separazione dell'anima dal corpo (la morte) distrugge la persona: la persona di Maria, nella morte, non sarebbe esistita, il corpo si sarebbe metafisicamente corrotto, e così pure la Sua verginità fisica, per mantenere la quale tanti miracoli fece il Signore. Per questi e molti altri argomenti, eccellenti mariologi contemporanei come Roschini (cf Dizionario di Mariologia, ed. Studium, alla voce Morte), Landucci, Lattanzi, Guérard des Lauriers, Laurentin, e la maggioranza dei teologi che si occupò dell'argomento dopo il 1950, sostennero che Maria non morì. A nulla vale l'argomento di tradizione avanzato anche da Giovanni Paolo II; non manca, infatti, anche una antica tradizione opposta (cf Roschini, pag. 363) e, per di più, la tradizione «mortalista» è tutta dipendente dagli scritti dello ps.-Dionigi l'Areopagita, che si riteneva, a torto, testimone oculare della morte della Madonna. L'Istituto Mater Boni Consilii, con Pio XII, pensa quindi che Maria non sia mai morta, ma che, al termine della sua vita terrena, fu assunta in anima e corpo alla gloria del cielo.
«Santa Teresina,
«Dottore della Chiesa»...
È stato violato un precetto apostolico?
Il 19 ottobre 1997, Giovanni Paolo II ha «proclamato» Santa Teresa di
Lisieux, «dottore della Chiesa», e questo nel centenario della morte della
grande Santa. Non vogliamo qui discutere se la dottrina spirituale di S.
Teresa del Bambin Gesù può essere paragonata a quella di un San Tommaso o
di un San Bonaventura: lo stesso Giovanni Paolo II non nasconde che S.
Teresa non ebbe un corpus dottrinale completo e sistematico. Il problema è
un altro: può una donna, sia pure una grande Santa, essere nominata «dottore
della Chiesa»?
Pare che qualcuno avesse proposto a Pio XI, che considerava Teresa di
Lisieux la più grande santa dei nostri tempi, di attribuire all'umile
carmelitana il titolo di «dottore della Chiesa». Il Papa avrebbe rifiutato
la proposta rispondendo: obviat sexus, una donna non può essere «dottore»
della Chiesa. Questa dottrina fu appannaggio pacifico della Chiesa fino al
Vaticano II: nessuna donna, pur eminente in santità e sapienza, fu inclusa
tra i Padri della Chiesa o tra i Dottori della medesima. Il primo a
infrangere questa regola fu Paolo VI, il quale proclamò «dottore della
Chiesa» prima Santa Teresa d'Avila (il 27 settembre 1970) e poi Santa
Caterina da Siena (il 4 ottobre successivo).
A dire il vero, Paolo VI non evitò la difficoltà: «Santa Teresa d'Avila
- dichiarò il 27 settembre 1970 - è la prima donna alla quale la Chiesa
conferisce il titolo di dottore. E allora non si può non pensare a quel
severo avvertimento di san Paolo: Le donne tacciano nelle assemblee (1 Cor
14, 34), il che significa, ancor oggi, che la donna non è destinata ad
avere nella Chiesa delle funzioni gerarchiche di magistero e di ministero.
Questo precetto apostolico è stato forse violato oggi? Possiamo rispondere
chiaramente: no. In realtà, non si tratta di un titolo che comporta
funzioni gerarchiche di magistero e di ministero» (cf Documentation
Catholique, anno 1970, col. 908, che traduce in francese da L'Osservatore
Romano del 28-29 settembre 1970). Paolo VI pose il problema. Lo risolse
correttamente?
Vediamo innanzitutto l'insegnamento della Sacra Scrittura. San Paolo
insegna: Le donne nelle assemblee tacciano (1 Cor 14, 34) e Alla donna
non permetto di insegnare (1 Tim 2, 12). Come ha interpretato, la
Chiesa, questi passaggi del Nuovo Testamento? San Tommaso, il dottore
comune, riassume così la dottrina cattolica: «Della parola uno se ne può
servire in due maniere. Primo, privatamente, per parlare familiarmente con
uno o con pochi. E in tal senso il carisma della parola può essere
accordato anche alle donne. Secondo, per parlare in pubblico a tutta la
Chiesa. E questo alla donna non è concesso. Prima di tutto e
principalmente, per la condizione del sesso femminile, che deve essere
sottoposto all'uomo, come dice la Scrittura (Gen 3, 16). Ora, esortare e
insegnare pubblicamente in Chiesa non appartiene ai sudditi, ma ai prelati.
E gli uomini, anche se sudditi, possono meglio eseguire per delega questo
incarico, perché non hanno questa dipendenza come un'imposizione naturale
del sesso, ma per altri motivi accidentali...» (II-II, q. 177, a. 2).
Nello stesso luogo, San Tommaso aggiunge: «le donne che abbiano ricevuto
i carismi della sapienza o della scienza possono metterli a servizio degli
altri nell'insegnamento privato, non già in quello pubblico» (ad 3).
Paolo VI, come abbiamo visto, cerca di eludere la difficoltà spiegando i
testi scritturali in un senso restrittivo: San Paolo vieterebbe alle donne
solo l'insegnamento gerarchico. Ora, è ben vero che i passaggi succitati di
san Paolo precludono alle donne ogni potere gerarchico (di giurisdizione
come di ordine); ma tale preclusione non si limita a questo campo! Ciò
appare con evidenza dal contesto. Nell'epistola a Timoteo: «la donna
impari silenziosa e in tutta soggezione; di far da maestra, alla donna non
lo permetto, né di dominar sull'uomo, ma se ne stia zitta». San Paolo
fa una affermazione generale: la donna è subordinata all'uomo, in
particolare nell'insegnamento, e non solo alla gerarchia. Così pure
nell'epistola ai Corinti: «le donne nelle assemblee tacciano». E perché?
«Poiché non è loro permesso di parlare; ma stiano sottoposte, come anche
dice la legge». Sottoposte a chi? Forse solo alla Chiesa gerarchica, alla
Chiesa docente? No: «se vogliono imparar qualche cosa - prosegue San Paolo
- in casa interroghino i proprii mariti; è cosa indecorosa per una donna
parlare in una assemblea». La donna, quindi, non può insegnare non solo «con
funzione gerarchica di magistero e di ministero», come pretende Paolo VI,
ma in ogni modo pubblico, giacché deve sottostare in ciò (e «in tutto»:
cf Efesini, 5, 23) al marito, che invece non ha il divieto di parlare nelle
assemblee, pur non essendo Vescovo o sacerdote! San Tommaso, nel passo
citato, afferma che l'uomo, anche se suddito e non prelato, può, in un
certo senso, insegnare: non così la donna. E difatti, dei 29 dottori
proclamati dalla Chiesa fino a Pio XII, alcuni non erano Vescovi (cioè
prelati, membri della Chiesa docente) ma solo sacerdoti e uno, addirittura,
solo diacono. Il titolo di «dottore della Chiesa», quindi, non è
riservato, è vero, a quanti hanno avuto un potere gerarchico di
insegnamento autentico; ma include però, per sua natura, l'aver svolto un
ruolo di insegnamento a tutta la Chiesa: un insegnamento pubblico pertanto,
e non solo privato.
Vorremmo, noi di Sodalitium, avere la santità e la sapienza infusa di
Caterina e delle due Terese! Tuttavia, questi doni eccelsi che esse hanno
ricevuto dal Signore non le abilita al ruolo di «dottore» della Chiesa,
ufficialmente riconosciuto dalla medesima, ruolo che, come il sacerdozio, è
precluso alle donne per volontà di Dio. Questo non toglie che molte
donne siano più grandi, davanti a Dio, di tanti uomini: basti pensare alla
dignità unica della Madre di Dio; solamente, esse non hanno, nella Chiesa e
nella società, lo stesso ruolo dell'uomo. A nostro parere, un vero
successore di Pietro non può dichiarare una donna, per quanto santa, «dottore
della Chiesa».
«L'Islam»
«L'Islam non è un nemico, ma il partner di un dialogo indispensabile
per la costruzione della nuova civiltà umana»
(ai Vescovi della gerarchia cattolica d'Egitto, O. R. 25/6/97, p. 5).