Cena

Eduard Schweizer

~ docente di Nuovo Testamento all'Università di Zurigo ~
(Tratto dal "Dizionario del Pensiero Protestante", ed. Herder-Morcelliana)


Ci sono state tramandate pochissime parole di Gesù, con le quali Egli abbia promesso ad un uomo il perdono dei peccati o gli abbia assicurato che, tra Dio e lui, era di nuovo tutto in ordine. Sovente, invece, ci viene riferito come Egli abbia chiamato a sé gli uomini, per vivere, per abitare, mangiare e bere con loro. Tra lo stupore, poi, dei suoi contemporanei, Egli ha invitato alla sua tavola soprattutto coloro che erano meno ecclesiali, quelli che non vivevano certo in un modo che poteva piacere a Dio. Ed è accaduto che uomini hanno trovato la strada verso Dio non tanto ascoltando una predica, quanto durante tali incontri conviviali, dove essi potevano non solo ascoltarne le parole, ma persuadersi come Dio si prendesse cura di loro e non li avesse mai abbandonati.
La sera che precedette la condanna a morte di Gesù fu, secondo i primi tre evangelisti, quella della festa ebraica del Passah; per Giovanni, invece, si trattò della vigilia di tale ricorrenza. Ogni anno, durante il banchetto del Passah, Dio ricordò sempre al suo popolo i favori concessi quando lo salvò dall'Egitto; ma assicurò parimenti il suo popolo dell'aiuto che gli avrebbe dato alla fine dei tempi. Si tratti ora della sera del giorno festivo o — storicamente più probabile — della vigilia, resta il fatto che erano ben vivi questi ricordi della storia di Dio con il suo popolo, allorché Gesù mangiò e bevette per l'ultima volta con i suoi discepoli, dando loro come viatico per tutti i tempi questa comunità di mensa, dalla quale durante la sua vita avevano tratto profitto tanti uomini non ecclesiali ed atei.
Quantunque tutte le narrazioni — ne parleremo più avanti — concordino nei tre punti essenziali, non possiamo, tuttavia, con assoluta certezza sapere ciò che Gesù disse in quella occasione. Prima di ogni cena nei primi tempi, si presentava alla comunità una breve esposizione di ciò che era avvenuto in quell'ultima cena e si ripetevano le parole di Gesù. Tutti sanno che, di regola, in tali comunicazioni orali si può conservare bensì il senso generale, ma non la formulazione letterale delle parole.
Il più antico documento che possediamo, in proposito, è il capitolo undicesimo della prima lettera ai Corinti, scritto circa vent'anni dopo la morte di Gesù. Secondo questa testimonianza, all'inizio del banchetto Gesù ha porto il pane ai suoi discepoli dicendo: «Questo è il mio corpo per voi». Gesù e le prime comunità di Palestina parlavano aramaico e non greco, come Paolo. Probabilmente la parola, in aramaico, significava soltanto «questo mio corpo», mentre il termine per dire 'corpo' può indicare, parimenti, l'«io», la persona.
Solo alla conclusione del banchetto, Gesù ha porto il calice ai discepoli; ma le parole che pronunciò allora non suonano parallele alle prime: cioè non disse «Questo è il mio sangue», ma «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Ciò è comprensibile, perché — come confermano, del resto, tutte le informazioni che possediamo sui banchetti ebraici — tra le prime e le seconde parole c'è di mezzo l'intera cena.
Però già ai tempi di Paolo, la comunità per considerazioni pratiche ha collocato la distribuzione del pane e del vino al termine del banchetto. Ciò contribuì molto a che le parole di Gesù venissero accentuate in forma parallela. Nella tradizione riferita da Marco, fissata per iscritto ancora circa quindici anni più tardi, le parole sono: «Questo è il mio corpo — questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti». Nella sua relazione, Matteo segue quasi alla lettera Marco, mentre Luca mette insieme le due tradizioni. Quantunque la cosa sia discussa, io sono del parere che la forma più antica della tradizione sia quella riferita da Paolo, nella quale, ad ogni modo, il vino non viene paragonato semplicemente con il sangue di Gesù, bensì con il segno della nuova alleanza nel sangue di Gesù, e nella quale, anche, originariamente la parola 'pane' voleva certo significare che Gesù stesso sarebbe sempre stato in mezzo a loro, allorché essi avessero mangiato insieme tale pane.
Ci si può chiedere, parimenti, se Luca non si riferisca ad una narrazione particolare ancora più antica. In essa troviamo, infatti, prima e dopo la specifica collocazione, parole di Gesù che, per lo stile, sono insieme collegate e pare costituiscano un'unità, ora rotta dalle parole riferite da Paolo e Marco. In proposito, Gesù ha anzitutto accentuato quanto egli abbia cordialmente desiderato partecipare a quell'ultimo convito dove voleva apparire tra loro come colui che serve, promettendo il compimento di questa intimità reciproca nel regno di Dio. Non è da escludersi, anche se la cosa è molto incerta, che qui ci si trovi di fronte alla più antica narrazione dell'ultima Cena.
Anche se il tono è molto diverso, tanto che la comunità ha posto l'accento ora su questo ora su quell'altro aspetto, tutti i racconti, però, concordano su tre punti importanti, storicamente sicuri. Iniziamo con i punti che le nostre attuali celebrazioni della cena hanno decisamente calcolato in secondo piano. La Cena è collegata, in primo luogo, con il nostro presente.
È una autentica, viva comunità conviviale. Già allora l'avevano dimenticato i fedeli di Corinto. Allorché si incontravano, la sera, per il servizio divino, ciascuno portava qualche cosa per la cena in comune. Alcuni, certo, non potevano giungere, per esempio gli schiavi, se non molto tardi. Era, quindi, difficile attendere, affamati, davanti a tavole imbandite. Si pospose, allora, la distribuzione del pane e del vino alla fine e intanto si cominciava a mangiare, in attesa che tutti arrivassero. Anche i più ritardatari giungevano in tempo per quel boccone di pane e quella sorsata di vino, al termine della riunione. Paolo però fa loro notare che avrebbero distrutto tutto il carattere della Cena se non avessero maggiormente preso in considerazione la comunità conviviale, nella quale anche il più povero schiavo avrebbe dovuto poter sedere a una tavola imbandita. Di più: la nota espressione secondo la quale si rende colpevole del corpo e del sangue di Cristo colui che mangia e beve indegnamente, da un altro passo della stessa lettera (8,11 s.) è da intendere nel senso che noi offendiamo Cristo — il quale ha dato il suo corpo e il suo sangue per il fratello — non appena non prendiamo del tutto seriamente il fratello e la convivenza semplicemente umana con lui, desiderando invece una assicurazione puramente sacramentale della nostra propria felicità. Da quanto noi sappiamo dei Corinti, essi avevano preso troppo, anziché troppo poco, in considerazione il sacramento; infatti, all'inizio e al termine di questa pericope Paolo rimprovera loro soltanto una cosa: per consumare la cena, non si aspettavano gli uni gli altri (11,17 ss, 33 ss).
Anche dal racconto particolare di Luca si ricava essere stata molto importante la comunità conviviale dei discepoli con Gesù e quando egli, dopo Marco e Matteo, come pure dopo Paolo parlò dell'alleanza di Dio, vi era implicata l'intimità della cerchia conviviale.
Gli uomini d'oggi, forse, dovrebbero trascorrere insieme un fine settimana o una settimana di ferie, per comprendere nuovamente che cosa significhi comunità conviviale nella Cena. Aiuterebbe, forse anche il ritorno, di tanto in tanto, alla forma cristiana primitiva, secondo la quale si trattava di un pranzo completo e di un reale 'stare insieme', nell'intervallo tra il pane e il vino.
Ma una cosa differenzia questa comunità conviviale da qualsiasi altra associazione. La Cena è infatti in secondo luogo collegata con il nostro futuro. Anche l'incontro più lieto d'una associazione non può far dimenticare le occupazioni quotidiane che iniziano il mattino seguente. La Cena nella cristianità primitiva veniva consumata in una letizia quasi inconcepibile per noi, perché i fedeli sapevano che l'unione che con essa cementavano non si sarebbe potuta spezzare nemmeno con la morte. Essi non potevano intravedere il futuro, ma imparavano a capire che la comunità che loro veniva offerta si radicava nel fatto che Dio stesso li aveva accolti con sé, nella comunità stessa. Ed erano parimenti consapevoli che essa non sarebbe mai finita, ma si sarebbe solo perfezionata e compiuta.
Questa gioia nella quale la comunità poteva guardare nel futuro, sovrasta nel racconto particolare di Luca e negli Atti degli apostoli ogni altra cosa. «Spezzando il pane nelle loro case, prendevano cibo con gioia e semplicità di cuore» (At 2,46). Anche Marco e Matteo riferiscono la promessa di Gesù, secondo la quale egli avrebbe bevuto nuovamente il calice con i suoi discepoli, nel regno di Dio. Paolo scrive poi ai Corinti che essi dovrebbero celebrare la cena del Signore fino a quando Egli stesso giunga.
Ed ecco il terzo punto. Nelle nostre celebrazioni della Cena esso è stato collocato quasi solo al centro e può essere inteso veramente, soltanto quando si è un po' 'vissuta', nella comunità, la gioia di questa 'comunità conviviale' e la certezza della speranza. Consiste semplicemente nel fatto che la comunità sapeva che tale unione e speranza erano sempre dono di Dio, e non qualche cosa di organizzato per proprio conto. Con la loro formulazione delle parole dell'ultima cena, Marco e Matteo l'hanno accentuato al massimo. «Il mio corpo — il mio sangue»: nella maniera più chiara si alludeva al mistero della morte di Gesù. Comunque essi l'abbiano potuto capire, l'hanno inteso in questo senso: Dio è andato tanto avanti e ci ha comunicato non solo con le parole, ma l'ha reso chiaro e 'afferra-bile' il più possibile con i fatti, che Egli vuole essere con noi, in mezzo a noi.
Anche Paolo scrive proprio che tutta la Cena è un annuncio della morte di Gesù. In essa si comunica, a chi mangia e a chi beve, la morte di Gesù: e questo è accaduto proprio per ciascuno di noi. Secondo il racconto di Luca, Gesù ha affermato che si considerava come il servo tra i suoi discepoli e poco dopo si è alzato per andare incontro ai suoi carnefici. Tutto ciò stava ad indicare il servizio, che è il fondamento di questo banchetto. Dai testi del Nuovo Testamento risalta che ogni Cena dei discepoli era veramente un'autentica comunità conviviale. E ogni Cena è anche ricolma di speranza e di attesa del compimento finale. Ogni Cena, dunque, si radica in quella morte avvenuta circa duemila anni fa, nella quale Dio non solo ha parlato del suo amore, ma l'ha attuato.
Come si è potuto, da queste testimonianze del Nuovo Testamento, giungere alle controversie tra riformati e luterani e, anche, tra protestanti e cattolici? Sono state motivate dal fatto che, nel medioevo, si è formato tutto un altro modo di intendere la sostanza, diverso da quello contenuto nel Nuovo Testamento. E d'improvviso assunse grande importanza un problema, che la comunità neotestamentaria, partendo dalle sue premesse, non avrebbe capito per nulla, come cioè si rapportasse la sostanza del pane e del vino a quella del corpo e sangue di Cristo. Posto però questo falso problema, si finisce necessariamente sulle diverse strade sbagliate.
Affermando Zwingli e, teologicamente in forma ancora più chiara, Calvino — in opposizione alla Chiesa cattolica — che non si dovrebbe credere ad una trasformazione magica della sostanza del pane e del vino, ci si avvicinava al rischio di intendere la Cena unicamente come un puro simbolo. Lutero si è schierato contro questa teoria. Egli non voleva insegnare — come la Chiesa cattolica — che si trattava di una vera e propria trasformazione, transustanziazione; intese, però, spiegare il processo come «consustanziazione», perché Cristo, cioè, prendeva dimora corporalmente, nel pane e nel vino. Assieme alla Chiesa cattolica, Lutero ha quindi detto — a ragione — che come noi non possiamo incontrare Dio, nell'annuncio, senza usare parole umane, così non lo incontriamo, nella Cena, senza i segni umani del pane e del vino. Al contrario, Zwingli e Calvino affermarono che questo incontro è sempre di nuovo solo opera di Dio e non una sostanza, che il sacerdote o il pastore possano amministrare. Probabilmente cattolici, luterani e riformati sono molto più vicini tra loro di quanto ora si possa riconoscere. Nel Nuovo Testamento, infatti, si parla in effetti della reale, vera presenza di Dio e del Cristo risorto e non della presenza di un oggetto fisico che si possa fotografare, prendere in mano, analizzare chimicamente. La sua presenza è quella di un incontro, non di un fenomeno naturale; è azione di Cristo con e in noi, non la formazione di una nuova sostanza, della quale ci si possa impadronire.
Forse la cosa si comprende meglio se la si paragona con quanto il Nuovo Testamento dice dell'annuncio della parola: «Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me. Ma chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato» (Le 10,16; cfr. Mt 10,40). Una casa, o un villaggio, che hanno rifiutato gli inviati di Gesù, secondo le parole di Cristo non sono più quelli di prima. Sono passati da una indeterminata lontananza di Dio all'inimicizia contro Dio (Mt 10,12-15). A proposito delle parole dell'annuncio, Paolo afferma che esse sono un odore che conduce alla vita o alla morte (2 Cor 2,16). Esse generano realmente la comunità, le danno la vita (1 Cor 4,15; Ciac. 1,18; iPt 1,23). Anche le parole dell'annuncio, dunque, non sono soltanto fragili parole umane. Secondo il Nuovo Testamento in esse viene Dio stesso all'uomo. Chi le accoglie o le respinge diventa con ciò stesso un uomo diverso da come era prima.
Il medesimo discorso vale -per i segni della Cena. Non dipende dunque primariamente dalla nostra fede, se Cristo viene o no. Egli viene comunque, o per nostra benedizione o per nostra condanna. Ma egli viene come persona, non come sostanza.
Forse ci può servire l'immagine della banconota; anche se non è, sotto parecchi rispetti, sufficiente, almeno in questo punto. Una banconota non è certo solo un'immagine di cento marchi; essa 'è' cento marchi. Ma, altrettanto sicuramente, la carta non si è trasformata in un'altra sostanza. È la conferma, garantita, della Banca nazionale che conferisce a questa carta il suo valore. Senza di essa, la carta non varrebbe neanche un centesimo. Ma senza la carta non possiamo nemmeno ricevere i cento marchi. Nella Cena, l'azione di Cristo, nei nostri riguardi, è legata certamente al pane e al vino; come è legata, nell'annuncio, a parole umane, a proposizioni grammaticalmente comprensibili, a voci che si possono sentire. Ma come le parole non si possono trasformare in qualche cosa d'altro, se non in parole umane, anche se portano con sé Dio, ciò non avviene neppure nei riguardi del pane e del vino.
Ricapitoliamo: nella comunità conviviale di Gesù, gente non ecclesiale ed atei hanno di nuovo capito che Dio è presente e vuole rimanere con loro. Ma Dio non ha dato loro soltanto le parole. Li ha accolti nella comunità viva di un banchetto, alla tavola di Gesù, affinché si possano trovare bene con Lui, dopo che non si erano trovati bene, per lungo tempo, presso i suoi sacerdoti e fedeli. E Gesù ha dato ai suoi discepoli, per tutti i tempi, questa comunità conviviale nella quale, di nuovo, gli uomini si sono riuniti con Dio.
Ogni Cena dovrebbe quindi portare il sigillo di una reale fratellanza, perché si richiama, andando indietro nel tempo, a quella sera nella quale Gesù stesso ha istituito questa comunità conviviale, sigillandola, il mattino seguente, con la sua morte; si richiama, pure, guardando avanti nel futuro alla totale, piena comunione con Dio, che noi, qui sulla terra, esperimentia-mo, ora frammentariamente, ma che sarà, un giorno verità.


             Ikthys