LA CENA
DEL SIGNORE

 

(Prof. Fausto Salvoni, Chiesa di Cristo di Padova)


INDICE

Capitolo primo

L'eucaristia nel corso dei secoli

Capitolo secondo

Il Pane di Vita: preannuncio dell'eucarestia?

Capitolo terzo

Questo è il mio corpo

Capitolo quarto

La cena del Signore nel Nuovo Testamento

Capitolo quinto

Miracoli eucaristici



CAPITOLO PRIMO
L'EUCARISTIA NEL CORSO DEI SECOLI

Indice

1) La questione della presenza di Cristo
a) La Cena del Signore nei primi tre secoli
b) Dal VII al XIX secolo
c) Nuovi tentativi di spiegazione
2) Il sacrificio eucaristico
a) Messa e sacrificio della croce
b) Sacrificio e sacerdozio
c) Partecipazione al sacrificio da parte dei fedeli
3) Insegnamento moderno del magistero ecclesiastico
a) Accento sul sacrificio eucaristico piuttosto che sul realismo sostanziale della presenza di Gesù
b) Valore simbolico del pane e del vino
c) Presenza di Cristo

4) La pratica
a) La Messa
b) Norme per la distribuzione della comunione
5) Conseguenze pratiche
a) Esteriorizzazione
b) Adorazione dell'ostia
c) Sacralizzazione della natura
d) Sacralizzazione del tempio
e) Sacralizzazione della casta sacerdotale


1) La questione della presenza di Cristo

a) La Cena del Signore nei primi tre secoli

All'inizio del Cristianesimo continuò l'uso apostolico di celebrare la cena del Signore sotto l'aspetto gioioso di un pasto sacro ogni domenica – il dies domini – come appare per il 2° secolo dalla testimonianza del filosofo Giustino :

Nel giorno del sole (= domenica) coloro che abitano le città o le campagne si radunano in uno stesso luogo. Allora si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti... Poi quando il lettore ha finito, colui che presiede prende la parola per ammonire i presenti ed esortarli a seguire le belle lezioni udite. Quindi ci leviamo tutti in piedi, innalziamo preghiere e si portano il pane, il vino e l'acqua: colui che presiede innalza preghiere e azioni di grazie secondo le sue capacità e il popolo risponde: Amen (Apologia c. 66).

Il punto centrale di questa cena stava – come indica pure il nome – nel mangiare e nel bere. Ce lo documenta la prima preghiera liturgica a noi nota:

Quanto al rendimento di grazie, ringraziate così: anzitutto per il calice:

Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la santa vita di Davide, tuo servitore
che a noi rivelasti Gesù, tuo Servitore.
A Te gloria nei secoli!

Per il pane spezzato:

Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la vita e per la conoscenza,
che ci rivelasti per Gesù tuo Servitore.
A Te gloria neo secoli!

Come questo pane spezzato era prima sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno; Poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli!

Il popolo stesso portava all'altare il pane comune di tutti i giorni, il vino per il calice e l'olio per l'illuminazione; i più ricchi vi aggiungevano doni per i poveri. Queste offerte costituivano il sacrificio che i cristiani, secondo la profezia di Malachia, elevavano a Dio in ogni parte della terra.
I vescovi e gli scrittori che ne parlano non fanno altro che ripetere le parole di Gesù, sia pure accentuando la realtà della sua carne in senso antidoceta: « L'Eucaristia è farmaco di immortalità » e « antidoto per non morire »: è « la carne del nostro Signore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati e che il Padre per sua benignità ha risuscitato ».
Dal 2° secolo i fedeli si portavano a casa un po' di pane consacrato per conservarlo e mangiarlo in seguito. Spesso se lo tenevano addosso in un sacchetto di tela, per usarlo, quale talismano, nei viaggi e nei momenti di pericolo. In alcuni casi lo ponevano in bocca a un cadavere quale viatico, come facevano i greci con l'obolo, per cui i vescovi dovettero intervenire e biasimare alcune pratiche superstiziose e talora persino sacrileghe.
Nei secoli 4° e 5° sorgono le prime timide spiegazioni del mistero eucaristico.

1) In Oriente . I padri greci parlano di una « trans-elementatio » (metastoicheìosis), per mezzo della quale gli elementi (stoicheìa) del pane e del vino si convertono e si cambiano nel corpo e nel sangue di Cristo. Cirillo di Gerusalemme (m. 386), che esprime tale concetto più chiaramente dei suoi predecessori, lo paragona al cambiamento dell'acqua in vino, per cui il pane e il vino « sono » il corpo e il sangue di Cristo:

Non li considerate come elementi ordinari... anche se i sensi ti suggeriscono tale pensiero; la fede ti dà la certezza assoluta. Non giudicare la realtà dal gusto; dalla fede trai invece la certezza che tu sei stato reso degno del corpo e del sangue di Cristo.

Teodoro di Mopsuestia (m. 428), insistendo sul medesimo concetto, scriveva:

Il Signore non disse: Questo è il simbolo del mio corpo e questo è il simbolo del mio sangue; ma: Questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata, ma a credere che essa, per il rendimento di grazie, si è tramutata in carne e sangue.

Tuttavia domina in Oriente una concezione dinamica delle cose, differente da quella ontologica medievale. Le realtà materiali per i greci « possono rivestirsi di tutte le proprietà secondo il volere del Creatore » (Origene, Contra Celsum 3, 41 GCS 1, p. 237) tramite la potenza dello Spirito Santo che le compenetra. Lo Spirito, ad esempio, come permea l'olio rendendolo qualcosa di sacro, di divino, così, dopo l'invocazione a lui rivolta, trasforma il pane nel corpo di Cristo:

Come il pane eucaristico dopo l'episclesi (o invocazione dello Spirito Santo) non è più semplice pane, bensì il corpo di Cristo, così anche questo santo profumo con l'episclesi non è più un semplice profumo comune, ma è il dono di Cristo, essendo divenuto, per la presenza dello Spirito Santo, un dono efficace della sua divinità (Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 3, 3 SC 126, p. 124).
Noi supplichiamo Dio, amante dell'uomo, di inviare lo Spirito Santo sui doni deposti, per fare del pane il corpo di Cristo e del vino il sangue di Cristo; poiché tutto ciò che lo Spirito tocca, viene santificato e trasformato (ivi, Catech. Myst. SC 126, p. 154).

Come il cristiano è un uomo la cui carne è stata afferrata dallo Spirito Santo, cioè da Dio, così anche il pane e il vino sono in un certo qual modo compenetrati dallo Spirito Santo, che vi attua una specie di incarnazione sacramentale e culturale del Logos. Si veda come il concetto fondamentale degli orientali non sia affatto quello del cambiamento di sostanza; la sostanza metafisica del cristiano o dell'olio sacramentale rimane tale e quale, anche se è trasformata dallo Spirito Santo che dimora in essa. Così avviene pure per il pane e il vino eucaristici, che vengono tramutati in virtù della presenza divina che li compenetra. Non vi è una forma sacramentale magica, bensì un'invocazione dello Spirito Santo che è mezzo di santificazione. La chiesa torna a Dio e si apre allo Spirito Santo; Dio vi risponde rendendo presente il Cristo. Lì, in questa comunione con il Cristo, si realizzerà l'unità della chiesa, la cui autorità non può oltrepassare i limiti della propria giurisdizione sacramentale. Quindi non vi può essere alcun papato, perché il vescovo non ha autorità al di là della propria chiesa locale.
Questo concetto eucaristico si rifà alla metafisica platonica, secondo la quale tutti gli esseri sono una copia, più o meno lontana, dell'idea originale che ripetono in modo imperfetto. Solo che i cristiani hanno trasferito questo concetto metafisico dalle idee statiche a un fatto storico: l'originale è la morte salvifica di Cristo che si presenta a noi nella sua copia, quale il battesimo prima e la celebrazione eucaristica dopo. L'originale in un certo senso è presente nella copia, ma la copia non è tutto l'originale, proprio perché ne è una copia. E' visibile nella fede, ma tuttavia ancora nascosto perché poggia sulla fede. Il Cristo è presente nell'eucaristia, ma in modo nascosto e solo provvisorio. Tuttavia questa interpretazione dell'eucaristia non esprime sufficientemente l'elemento personalistico; la fede, che si richiede per accedere all'eucaristia, è solo un prerequisito, poi lo Spirito Santo fa tutto per conto proprio, La fede apre la porta, poi agisce Dio. Mentre nella Bibbia è l'uomo credente, che attua la Cena, che accoglie Gesù in se stesso tramite il pane e il vino ricevuto con fede, presso i padri greci, al contrario, il pane e il vino che prima erano possesso dell'uomo, diventano poi possesso dello Spirito Santo: è infatti lo Spirito Santo che se ne appropria e ne trasforma gli elementi. Il metabàllein esprime quindi un semplice cambiamento di possesso.

2) In Occidente. I latini, invece, meno speculativi, almeno all'inizio, misero l'accento più sull'aspetto sacramentale del segno o della figura del pane e del vino, restando così più vicini al senso biblico delle parole, senza profonde indagini metafisiche. Per Tertulliano e Agostino il pane e il vino nell'Eucaristia sono la « figura », il « tipo », il « segno » del corpo e del sangue di Cristo. E' ancora l'antica concezione immagine-copia, che qui affiora. Ambrogio ammette la presenza stessa del Cristo:

Il Signore Gesù stesso lo proclama: Questo è il mio corpo. Prima della benedizione delle parole celesti lo si chiama con un altro nome, dopo la consacrazione, è denominato corpo. Lui stesso dice che è il suo sangue. Prima della consacrazione lo si chiama diversamente, dopo la consacrazione lo si chiama sangue (De Mysteriis 54)
Lo stesso Signore Gesù ci ha testificato che riceviamo il suo corpo e il suo sangue. Forse che dobbiamo dubitare della verità e della autorità della sua testimonianza? (De Sacramentis IV, 23).
Ma forse tu dici: Questo è il mio pane ordinario. Ma questo pane è pane prima delle parole sacramentali. Quando avviene la consacrazione, il pane diventa la carne di Cristo ( de pane fit caro Christi, De Sacramentis IV, 14).

Questo è dovuto alla parola creatrice di Dio:

Non era il corpo di Cristo prima della consacrazione, ma dopo la consacrazione vi dico che è ormai il corpo di Cristo. Egli disse e fu fatto, egli ha ordinato e fu creato (De Sacramentis IV, 16).
Perché cerchi qui nel corpo di Cristo l'ordine della natura quando lo stesso Signore Gesù è nato da una vergine al di fuori dell'ordine della natura? (De Mysteriis 53).

E ancora:

Prima delle parole di Cristo il calice è pieno di vino e di acqua, ma quando hanno operato le parole di Cristo vi si forma il sangue che redime il popolo (De Sacramentis IV, 28).

Mentre accoglie il pensiero greco di originale-copia (immagine), Ambrogio lo sorpassa e apre un contrasto tra natura e benedizione; anziché poggiare come i greci sulla legge cosmica che tutto è immagine dell'idea divina, egli fa ricorso alla volontà creatrice di Dio e di Cristo.

Forse tu dici: io vedo però qualcosa d'altro (invece del corpo di Cristo)! Come fai a ritenere che io ricevo il corpo di Cristo? E veramente dobbiamo dimostrarlo. Quanti esempi (della Scrittura) dobbiamo presentare per provare che qui non si tratta di ciò che la natura ha formato, e che la potenza delle benedizione è più grande della forza naturale, perché con la benedizione la natura stessa viene mutata (De Mysteriis 9, 50 CSEL 73, 110).
Se la parola di Elia era tanto potente da far cadere il fuoco dal cielo, non deve la parola di Gesù essere capace di cambiare la natura (specie) degli elementi? Tu hai letto sulla creazione del mondo intero: Disse e fu fatto, comandò e fu creato. Non può dunque la parola di Cristo, che poteva creare dal nulla ciò che non esisteva, tramutare ciò che già esiste in ciò che ancora non è? Il dare alle cose una nuova natura non è (per la parola di Cristo) da meno del mutare la loro natura (ivi 9, 52 CSEL 73, 112).

Ad ogni modo, nonostante queste affermazioni così realiste, anche Ambrogio ricorda ancora un testo del canone eucaristico leggermente differente dal posteriore testo romano, che così suonava: « Accordaci che questa offerta spirituale sia approvata e accettabile, perché essa è il simbolo (figura) del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo » (De Sacramentis 4, 5, 21 SC. Botte 1961, p. 115).
I latini, anziché dare valore all'invocazione dello Spirito Santo, misero più in risalto l'aspetto commemorativo dell'Eucaristia tramite la ripetizione delle parole di Gesù, divenute poi la formula della consacrazione.
Al 4° secolo la celebrazione eucaristica aveva assunto le linee essenziali della messa futura, con le letture, il bacio fraterno, la recita del Padre nostro. Cirillo, vescovo di Gerusalemme, così descriveva la comunione come si attuava verso il 352:

I fedeli andavano all'altare porgendo la mano destra al di sopra della sinistra «quasi fosse un trono», e il celebrante vi deponeva un pezzo di pane, sul quale era stato pronunciato il ringraziamento. Il comunicando doveva stare attento a non perderne nemmeno la più piccola parte: «Dimmi un po' se uno ti desse della polvere d'oro, non la custodiresti con la massima cautela, stando attento di non perderne nulla, per non subirne danno?» Del vino se ne beveva un sorso stando in atto di adorazione.
Le donne anziché porgere la mano nuda, la ricoprivano con un panno di lino
(Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 5, 21 s SC 126, pp. 170-172).

Per mostrare in modo visibile l'unità della « chiesa locale », in molte città si celebrava nelle feste una sola Eucaristia, compiuta dal vescovo circondato dai suoi presbiteri, anche se non tutti i fedeli potevano prendervi parte. Così, ad esempio, a Milano solo 5000 persone potevano trovare posto nella basilica di S. Ambrogio, mentre tutti gli altri fedeli, circa 30.000, restavano senza il sacrificio eucaristico.

b) Dal VII al XIX secolo

Dal 7° secolo cessò l'offerta del pane da parte dei fedeli perché i monaci si incaricavano di prepararlo; nacque in tal modo l'ostia che con più facilità si poteva porgere ai comunicandi.. A partire dal 9° secolo tale uso si diffuse per tutta l'Europa. Sorse allora la consuetudine di ricevere il sacramento in ginocchio, non per venerazione gli antichi mostravano venerazione stando in piedi o prostrati ma per rendere più agevole al sacerdote di porre la particola sulla lingua del fedele. Si continuò a bere il vino, nonostante che esso riuscisse sgradevole a qualche persona, che creasse dei problemi igienici per la malattia di qualche cristiano e ce ne volesse una gran quantità per la cresciuta moltitudine dei fedeli. Talora si cercò di migliorarne l'igiene con l'uso di una cannuccia, che ognuno si prendeva o portava con sé. In Oriente sorse la consuetudine tuttora in uso di intingere dei bocconcini di pane nel vino, che poi di distribuivano con un cucchiaino ai singoli comunicandi.
Il mondo germanico ebbe la tendenza ad accentuare l'oggetto reale; basti ricordare la penitenza tariffata per espiare un colpa che poteva essere surrogata con opere di altro genere e perfino da parte di persone diverse dal colpevole. Questa tendenza « cosificante», direbbe il Gerken si fece sentire anche nella valutazione dell'eucaristia, ed esplose nella controversia del IX secolo ad opera di due monaci del monastero di Corbie nella Francia Settentrionale, provocata appunto dalla separazione tra il simbolo e la realtà, prima tra loro ricollegati. Pascasio Radberto, abate di Corbie (m. 851 o 860) ne accentuò la realtà fisica (fisico-ralistica o reale somatica), mentre il monaco Ratramno (m. 858) ne esaltò il valore simbolico (in figura).
Pascasio, al posto del rapporto precedente sta il Cristo (originale) e il cibo eucaristico (immagine) celebrato dalla comunità, vi sostituì il rapporto tra l'immagine data dalle apparenze percepite dai sensi e l'originale che è la realtà non percepita dai sensi, bensì dalla fede. L'invisibilmente presente è lo stesso Cristo:

Così noi riceviamo nel pane ciò che pendette dalla croce e beviamo nel calice ciò che fluì dal fianco di Cristo (Lettera a Frudegardo PL 120, 1355 A).

Contro questa visione « cafarnaitica» così chiamata dalla reazione suscitata nei cafarnaiti alle parole di Gesù si eresse Ratramno che vide « il corpo autentico del Salvatore » nel corpo che « patì, fu sepolto e risorse », mentre quello eucaristico è solo « immagine». « E' dimostrato con evidenza che il pane, chiamato corpo di Cristo e il calice chiamato sangue di Cristo, è immagine perché mistero » (De Corpore et sanguine Domini PL 121, 169 A). Mentre Pascasio tende ad identificare il corpo storico di Cristo con quello eucaristico, Ratramno cerca di insistere sulle differenze: per costui il corpo storico è realtà (veritas), il sacramento invece è immagine (figura) di quella realtà.
Due secoli dopo (XI secolo) sorse la famosa controversia di Berengario di Tours (m. 1088), arcidiacono della chiesa di Angers e scolastico (ossia Maestro di scuola) del monastero dei canonici di S. Martino di Tours, il quale sostenne che sull'altare, dopo la consacrazione, vi è nel pane e nel vino solo un « segno » della presenza di Gesù Cristo, perché il pane e il vino continuano ad essere « pane e vino ». Il pane e il vino non sono il vero corpo e il vero sangue, ma un'immagine (figura), una similitudine (similitudo). Biasimato dal Concilio di Roma nell'aprile del 1050 sotto Leone IX, fu ricondannato nel settembre dello stesso anno a Vercelli, dove Berengario non si era presentato. Sotto Nicolò II fu costretto ad accettare una professione di fede redatta dal Sinodo romano del 1059 a sfondo terribilmente sensualistico e che, in seguito, fu biasimata dallo stesso Tommaso d'Aquino. Essa tra l'altro asseriva:

Sono d'accordo con la chiesa di Roma e la sede apostolica... e professo con la bocca e con il cuore che il pane e il vino posti sull'altare, dopo la consacrazione sono il vero corpo e il vero sangue di Cristo; che sensibilmente e non solo sacramentalmente, vengono in realtà toccati dalle mani sacerdotali, spezzati e triturati dai denti dei fedeli.

Il problema si riaprì nel Sinodo romano del 1079 sotto Gregorio VII. Ecco come risulta dagli atti di quel Concilio:

Adunati nella chiesa del Salvatore, si trattò del Corpo e del Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, perché prima molti sentivano in un modo altri in un altro. La massima parte asseriva che il pane e il vino, tramite le parole della sacra orazione e consacrazione del sacerdote, per l'opera invisibile dello Spirito Santo, si converte sostanzialmente («substantialiter») nel corpo del Signore, che nacque dalla Vergine e fu appeso alla croce, e nel sangue che dalla lancia del soldato fu effuso dal suo costato, e questo difendeva in tutti i modi con le autorità degli ortodossi santi Padri, tanto greci che Latini. Alcuni, invece, colpiti da grande e lunga cecità, ingannando se stessi e gli altri con certi cavilli, si sforzavano di dimostrare trattarsi solo di una figura. Ma prima che si venisse al terzo giorno, la seconda parte cessò di adoperarsi contro la verità. Il fuoco dello Spirito Santo, annientando quel fuoco di paglia, e col suo fulgore oscurando la falsa luce, convertì in luce l'oscurità della notte. Alla fine Berengario, maestro di questo errore, dopo aver per lungo tempo insegnato l'empietà, confessò davanti al numeroso Concilio di aver errato, e per le sue suppliche meritò la clemenza Apostolica.

La formula uscita dal Concilio di Gregorio VII, e che fu imposta al giuramento di Berengario diceva:

Io Berengario, credo col cuore e affermo con la bocca che il pane e il vino posti sull'altare, per il mistero della sua orazione e per le parole del nostro Redentore, si convertono sostanzialmente («substantialiter») nella vera e propria vivificatrice Carne e nel Sangue di Gesù Cristo Nostro Signore, e dopo la consacrazione sono il vero Corpo di Cristo, che nacque dalla vergine, che fu appeso alla croce in offerta per la salvezza del mondo e siede alla destra del Padre, e il vero Sangue di Cristo sparso dal suo costato, non soltanto come segno e virtù del sacramento («non tantum per signum et virtute sacramenti»), ma anche nella propria natura e nella verità della sostanza («in proprietate naturae et veritate substantiae» Denz. Sch. 700).

Berengario giurò. Il papa gli ordinò di non disputare più sul Sangue e sul Corpo del Signore se non per richiamare alla fede allora professata e giurata quelli che per il suo insegnamento l'avevano abbandonata a proibì a tutti i fedeli di S. Pietro, di molestare Berengario « Figlio della chiesa Romana ». Forse per queste sue ultime parole, nel 1080 Enrico IV, re di Germania e d'Italia, riuniti a Brixen ventisette suoi vescovi dei quali diciotto dell'Italia settentrionale, ingiunse loro di deporre Gregorio VII per eleggervi al suo posto l'antipapa Guiberto, arcivescovo di Ravenna, e, tra le altre accuse, aggiunse questa: « antico discepolo dell'eretico Berengario, pone in questione la fede cattolica e apostolica del corpo del Signore ».
Principale avversario di Berengario fu Lanfranco di Bec (1010-1089) che, assieme a Guitmondo di Anversa (m. 1055), spianò la via alla transustanziazione dell'alto Medioevo. Accolto il concetto di sostanza introdotto da Berengario, come la somma delle proprietà percettibili dai sensi, egli distinse tra sostanza (substantia) e forma visibile (species visibilis) e per quanto concerne il corpo di Cristo tra essenza (essentia) e sue proprietà (proprietates). Di qui la sua affermazione: «
Noi crediamo... che le sostanze terrene... si trasformano nell'essenza del corpo del Signore » (De corpore et sanguine Domini PL 130, 430).
Quindi solo l'essenza e non le proprietà del corpo di Cristo sono presenti nel pane e nel vino eucaristici, mentre «
la forma esteriore delle cose stesse » (ipsarum rerum species) viene mantenuta nel pane e nel vino (ivi 150, 420 D). Di conseguenza per Lanfranco l'eucaristia è sì un « segno », ma anche una presenza di Gesù, per cui sbaglia Berengario nel ridurla a un puro segno.
Tommaso d'Aquino cercò di chiarire con più precisione il carattere sacrificale della messa e il modo in cui il Cristo diviene presente nell'Eucaristia. Essendo impossibile per il corpo glorioso di Cristo trasferirsi con moto locale dal cielo alla terra ogni qual volta il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, bisogna concludere che esso vi diviene presente mediante la conversione della sostanza del pane nella sostanza del suo Corpo e della sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue, senza che per questo il Cristo aumenti o diminuisca di volume. Che si tratti di conversione della sola sostanza risulta dal fatto che anche dopo tale mirabile conversione continuano a essere presenti le apparenza – colore, durezza, sapore e forma – del pane e del vino (specie). Per sottolineare tale fenomeno fu coniato in quel tempo il termine di « transustanziazione ».
Tuttavia, per concomitanza, anche il sangue di Cristo è presente nel pane e il corpo nel vino. Quindi colui che si ciba solo dell'ostia riceve tutto il Cristo allo stesso modo che colui che beve anche il vino. Poggiando su tali premesse il Concilio di Costanza, per ovviare ad alcuni inconvenienti, soppresse definitivamente nel 1415 l'uso del vino e introdusse l'obbligo del digiuno eucaristico dalla mezzanotte precedente la comunione. Tale dottrina si mantenne quasi inalterata – salvo alcune variazioni sul tempo del digiuno – sino ai più recenti documenti ufficiale della chiesa cattolica.
I fondatori del protestantesimo (sec. 16°) diedero interpretazioni diverse alla eucaristia: per Lutero, il corpo glorioso di Cristo si trova dovunque, anche in ogni pietra, nel fuoco e nell'acqua, come dovunque esiste Dio, al quale esso è personalmente unito. Per chi partecipa alla cena del Signore la presenza del Cristo nel pane e nel vino eucaristico diviene percepibile mediante le parole dell'istituzione (consustanziazione).
Per
Calvino
nella celebrazione eucaristica lo Spirito Santo attira a sé i partecipanti perché si incontrino con il Signore, così pure li attrae con la predicazione, con la preghiera e con il battesimo. Non è nel pane o nel vino, che si attua l'incontro – come affermava Lutero – bensì al di là dei due elementi materiali, vale a dire «» dove esiste il Cristo glorioso, l'unica realtà essenziale, che si unisce con i credenti.
Per
Zwingli ed Ecolampadio l'eucaristia è invece un puro simbolo e la presenza del Cristo si realizza nella nostra mente.
Contro quei protestanti, che, per riaffermare l'aspetto biblico della Cena del Signore insistevano più sul concetto di «
segno » che su quello di « sostanza » nella sessione 13° dell'ottobre 1551 il Concilio di Trento definì « transustanziazione » la mirabile « conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo... e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue », quale si attua con le parole della consacrazione pronunciate dal sacerdote. Con la presenza del Cristo sotto le apparenze visibili del pane e del vino, si « rinnova » e si « perpetua » il sacrificio della morte di Cristo. Eccone il passo fondamentale:

Prima di tutto il sacro Concilio insegna che in questo augusto sacramento della Santissima eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto le specie (= apparenze) di queste cose sensibili, si contiene veramente e sostanzialmente il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo... Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell'Eucaristia si contenga veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con l'anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo e perciò tutto Gesù Cristo, ma dirà che in questo sacramento Gesù vi è soltanto in segno o in figura o in potenza, sia scomunicato.

Il vocabolo « transustanziazione », che fu « usato dalla chiesa cattolica per molti secoli, è, per il Concilio, assai conveniente e appropriato » (Sess. 13, Decreto sull'eucaristia c. 4, Denz. Sch. 1642). L'anno 1792 Pio VI ne lamentò l'omissione da parte del sinodo di Pistoia, come se non si fosse trattato di un termine coniato dalla chiesa per la salvaguardia di un « articolo di fede » (Cost. Auctorem fidei n. 29 Denz Sch. 2629).
Dal secolo XIX la pietà cattolica, lasciando nell'ombra il valore comunitario e simbolico dell'eucaristia, si rivolse particolarmente ad adorare nell'ostia il Cristo mediante le processioni e le benedizioni eucaristiche. La messa divenne il mezzo con il quale si rende presente il Cristo nell'ostia; mentre il carattere conviviale scomparve, in quanto basta una minima particella di ostia, per ricevere Gesù nella sua completezza. Alcuni teologi più recenti, volendo rifarsi meglio al concetto biblico di segno, ricordando che esso ha un legame inscindibile con la realtà significata e nel caso presente, con il Cristo che muore sul Calvario, dissero che egli divine in un certo qual modo presente nel segno. Sorsero così alcuni nuovi tentativi per spiegare meglio la presenza eucaristica di Gesù e per chiarire il concetto medievale di transustanziazione.
Mentre in Italia si svolgeva una discussione tra l'interpretazione fisicistica (F. Selvaggi) e quella ontologica (C. Colombo) della conversione eucaristica, la teologia d'oltralpe si impegnava in un altro problema: se mantenere la parola transustanziazione troppo ontologica o cercare un altro termine più antropologico. Si pensò quindi di sostituire il vocabolo « transustanziazione » con altri termini più appropriati e accessibili come « transfinalizzazione » e «transsignificazione », dai quali apparirebbe meglio il fatto che la sostanza del pane e del vino si muta non sul piano della sostanza ma su quello della relazione con il « credente ». Tale idea, diffusa nel 1950 tramite un dattiloscritto francese attribuito a un «noto teologo testè defunto», fu valorizzata per primo da I. De Baciocchi. Secondo questi teologi il pane e il vino possono essere visti sotto diversi aspetti.
Per il
chimico sono un puro aggregato di atomi, riuniti in modo caratteristico.
Il
filosofo li vede nel loro aspetto ontologico particolare, e ne ricerca l'elemento costitutivo o sostanziale, per cui essi sono pane e vino e non sasso o acqua.
Per il
religioso sono segno della provvidenza divina che viene incontro ai suoi figli dando loro il necessario nutrimento.
Per il
cristiano, che partecipa all'eucaristia, il pane e il vino assumono un nuovo valore, in quanto significano il corpo e il sangue di Cristo, per mezzo dei quali l'amore di Dio dona salvezza ai credenti.

C) Nuovi tentativi di spiegazione

Per la fede dl cristiano tutto è mutato in quel momento. prima il pane e il vino erano solo segno e prova della Divina Provvidenza, che procura ai suoi figli gli elementi indispensabili alla loro vita naturale; ma in quell'attimo diventano il simbolo efficace del sacrificio di Cristo, e conseguentemente della sua presenza spirituale. per volere di Dio creatore, gli alimenti della cena acquistano un nuovo valore: subiscono una trasformazione – la più profonda – che li tocca nel grado più intimo dell'essere, che è il costitutivo della loro vera realtà.
Ecco che cosa indica il nome di transustanziazione: non ne diminuiamo la realtà, ma affermiamo che essa non si attua a livello delle apparenze o della scienza o della filosofia. Per credere che questa trasformazione sia reale, basta solo credere che la verità religiosa è l'ultima parola della realtà
(Citazione tratta con piccole modifiche, a.c., p. 59, n.7. Da questo brano appare inesatta l'asserzione di Schillebeeckz: « Non mi consta che nella teologia cattolica anteriore al 1950 sia mai stata avanzata una interpretazione simbolica dell'eucaristia. E' però probabile che la critica di Roma poggi su di un malinteso » (la presenza eucaristica o. c., p. 117)).

B. Welte, in un simposio sull'eucaristia tenuto a Passau (Germania) dal 7 al 10 ottobre 1959, recava alcuni esempi significativi. Una cosa può cambiare la sua essenza secondo la diversa relazione che ha con Dio o con l'uomo: una stessa sostanza chimica può essere un alimento oppure un combustibile. Un tempio greco da un'opera artistica com'era per il costruttore, divenne una casa sacra («casa di Dio») per i fedeli che vi prestavano culto, e ora è un ricordo del passato per un turista. Un panno colorato può essere una tela multicolore, ma può divenire una bandiera nazionale, e quindi il simbolo di un popolo, assumendo così una realtà oggettivamente diversa da quella che era prima. Allo stesso modo il pane e il vino per volere di Dio diventano nella cena qualcosa di diverso dal comune pane e vino in quanto sono simbolo del corpo e del sangue di Gesù; quindi per il credente vengono transustanziati in un certo qual modo nel corpo e nel sangue di Cristo morto e risorto.
Un carissimo amico mi è più intensamente presente e agisce in me tramite una sua lettera più fortemente che non un estraneo che stia accanto a me con il suo corpo. « Due uomini possono trovarsi in stretto contatto fisico su di un tram sovraffollato ed essere infinitamente lontani l'uno dall'altro » (Ratzinger). Il regalo dei genitori in un giorno decisivo della vita conserva un peso e un significato che trascende il suo valore materiale; l'amore e l'amicizia sono capaci di elevare tali realtà al rango di segni realizzativi. Il fatto che Cristo dona se stesso nell'eucaristia, fa sì che il pane e il vino non sono più solo un nutrimento corporeo e un segno di comunione tra uomini; ma segni realizzativi della sua presenza in noi, della sua donazione per noi, del suo sacrificio che ci redime. « Proprio questa ampiezza di donazione, al di là di ogni spazio, è l'essenza del Risorto passato attraverso la morte » (Ratzinger).
Sia pure con sfumature diverse, pare che tale idea sia stata accolta da Ch. Davis, P. Schoonenberg, L. Smits, E. Schillebeeckz, A. Gerken e dallo stesso Catechismo Olandese dove si legge, tra l'altro, che «
il pane è stato sottratto alla sua normale destinazione ed è divenuto il pane che il Padre ci ha offerto in dono: Gesù stesso ». La presenza di Cristo sussiste « fin tanto che sussiste qualcosa che il buon senso può chiamare ancora pane. Insomma: il termine pane va inteso non come concetto fisico, ma come concetto antropologico ».Perciò quando si mangia e scompare il pane, oppure quando il frammento è troppo minuscolo da non essere più considerato pane, allora non vi è neppure la presenza di Gesù. « Quando riceviamo il corpo di Cristo, la sua presenza diviene più intensa in noi, per mezzo dello Spirito ».

Prima del medio Evo non si è riflettuto in maniera speciale su ciò. Andava da sé che la realtà della presenza di Gesù consistesse in questo segno.
ll Medio Evo approfondiva maggiormente. La coscienza religiosa trovò allora questa espressione del mistero: gli «accidenti», cioè le specie, colore, gusto, ecc. del pane, restano; la «sostanza», cioè il fondo proprio, l'essenza del pane non resta, ma diventa Cristo stesso. Se si continua tale approfondimento secondo il nostro pensiero contemporaneo, ci si esprimerebbe così: il fondo proprio, l'essenza delle cose materiali e ciò che essi sono
– ciascuna alla sua maniera – per l'uomo –. Ora nella messa l'essenza del pane diventa radicalmente un'altra: il corpo di Gesù come nutrimento per la vita eterna. Corpo significa in ebraico la persona presa come un tutto. Il pane è diventato tutta la persona di Gesù... (Catechismo Olandese, pp. 403-404).

Secondo un recente studio di Ratzinger la transustanziazione non sarebbe un cambiamento nell'ordine delle realtà fisico-chimiche, bensì dell'autonomia, essenziale ad ogni essere. Quando il pane e il vino sono consacrati, essi perdono la propria autonomia per divenire puri e semplici segni della presenza di Cristo fra noi, sussistono solo « per lui e in lui ». Nella loro stessa essenza e nel loro essere sono ora segni, così come prima nella loro essenza erano « cose». E in tal modo sono veramente transunstanziati e raggiunti nella loro più segreta profondità e incomunicabile proprietà, nel loro essere, nel loro vero senso: in sé.

2) Il Sacrificio eucaristico

a) Messa e sacrificio della croce

Assieme al problema della presenza di Gesù nel pane e nel vino eucaristico, si andò sviluppando anche lo studio dell'eucaristia nel suo aspetto sacrificale.
Ignazio di Antiochia nelle sue sette lettere non chiama mai sacrificio (thusìa) l'eucaristia.. I primi che ne parlano presentano come tale non la consacrazione del pane e del vino, bensì le preghiere dei cristiani che accompagnano la celebrazione eucaristica in armonia con i passi biblici. Giustino scrive:

(Dio) gradisce le preghiere degli individui della nazione (ebraica) dispersi (tra i popoli) e chiama sacrifici le loro preghiere. ora le preghiere e le azioni di ringraziamento compiute da uomini degni sono i soli sacrifici perfetti e graditi a Dio...; infatti solo questi i cristiani hanno avuto l'ordine di compiere, anche nella cerimonia del loro cibo solido e liquido, durante la quale commemorano la passione subita dal Figlio di Dio (Giustino, Dial. contro Trifone 117).

Egli vi unisce l'offerta del pane e del vino, sui quali a partire dal 2° secolo si sposta l'accento nel ricordare le offerte dei fedeli; questi elementi terrestri, che i cristiani portano a Dio, sono il sacrificio universale predetto da Malachia (1, 11).

Circa il sacrificio offerto a Dio da noi gentili in tutti i luoghi, cioè il pane e il calice dell'Eucaristia, ci fu allora una profezia nella quale Dio afferma che noi onoreremo il suo nome, quello che voi (ebrei) bestemmiate (Giustino, Dialogo 41, cita Ml 1, 11).

Nel nostro sacrificio presentiamo a Dio ciò che già gli appartiene sostiene Ireneo vale a dire il pane e il vino:

Nel dare le sue istruzioni ai discepoli perché offrissero a Dio le primizie della sua stessa creazione – non perché egli ne avesse bisogno ma perché essi recassero frutti di gratitudine – Gesù prese tra le cose create un po' di pane e un po' di vino, rese grazie e disse: Questo è il mio corpo. Anche per lo stesso calice che è parte della sua creazione e che appartiene a lui, egli confessò che era il suo sangue e in tal modo insegnò come doveva essere l'offerta della nuova alleanza. La Chiesa ha ricevuto il comando dagli apostoli e la offre in tutto il mondo a Dio che fornisce gli alimenti, come primizia dei suoi doni (Ireneo, Adv. Haer. 4, 17, 5).

Così, anche secondo Ireneo, si compie la profezia di Malachia circa il futuro sacrificio puro, offerto da Dio in ogni luogo. Che le parole di Giustino di riferiscano alla semplice offerta del pane e del vino, è reso chiaro in tutto il capitolo seguente (c. 18) di solito trascurato dai teologi:

«Noi siamo obbligati a offrire a Dio le primizie della sua creazione, come comandò Mosè dicendo di non apparire dinanzi a Dio con mani vuote ». La differenza tra le antiche offerte e le nuove sta nel fatto che noi, cristiani, siamo liberi e non schiavi come gli ebrei. « Solo la chiesa offre al creatore questa offerta pura, presentandogli, con ringraziamenti, cose prese dal creato ». «Noi ora gli presentiamo delle offerte, non perché egli ne abbia bisogno, ma per ringraziarlo dei suoi doni, e in tal modo santifichiamo quello che egli ha creato ». Inizialmente, come appare al tempo di Ippolito (3° secolo), l'eucaristia fu appunto chiamata anche «offerta», proprio per il risalto che si dava alla presentazione dei doni: pane, vino, olio, aiuto per i poveri. Appunto tale offerta costituiva allora il vero e proprio sacrificio dei fedeli, e non un solo rito preparatorio al sacrificio eucaristico. L'eucaristia, al dire di Agostino, non era la rinnovazione di un sacrificio della croce, ma solo « la memoria del sacrificio della croce che si attua dopo l'ascensione di Gesù (al cielo) » (Agostino, Contra Faustum 20, 21).

b) Sacrificio e sacerdozio

Con lo sviluppo liturgico della messa, la presidenza fu riservata a qualche persona (vescovi-sacerdoti) per cui si andò formando l'idea che il sacerdote avesse un potere superiore a quello dei semplici laici. Prima ognuno compiva la sua offerta sacerdotale, in seguito i fedeli la presentavano al sacerdote scelto dalla comunità. Il primo passo si compì in Africa con Cipriano che così scrive:

Dal momento che Gesù Cristo, Signore e Dio nostro sommo sacerdote di Dio e primo offerente di se stesso al Padre in sacrificio, comandò di fare questo in sua memoria, davvero il sacerdote che imita quello che Gesù ha fatto, compie esattamente l'ufficio di Cristo e nella chiesa di Dio offre un vero e completo sacrificio qualora si accinga ad offrirlo nello stesso modo con cui ha visto il Cristo offrirlo (Cipriano, Ep 63 (62) PL 4, 385).

L'offerta dei doni (pane e vino), pur essendo ancora un atto del sacerdozio universale dei credenti, è ora data nelle mani dei sacerdoti ufficiali perché essi stessi la presentino a Dio.

Il sacerdote scrive Agostino – prende da voi ciò che egli sta per offrire per conto vostro, quando volete riconciliarvi con Dio per i vostri peccati (Agostino, Enarrationes in Ps 129, 7).

Tuttavia anche la processione dei fedeli conserva tuttora il suo valore perché ad essa nota Ambrogio non possono partecipare i neo-battezzati prima degli otto giorni dal loro battesimo e nemmeno gli scomunicati, come prescrive il Sinodo di Elvira (c. 50) (Ambrogio, In Ps 118, prol. 2; Sinodo di Elvira (a. 305) can. 60). Ancora al 6° se4colo il concilio di Maçon (a. 585) prescriveva a tutti i cristiani, uomini e donne, di portare all'altare ogni domenica del pane e del vino (can. 4).
Con l'idea della transustanziazione l'offerta compiuta dai fedeli, sia pure tramite il sacerdote, passò in seconda linea e si ritenne un sacrificio quello che il sacerdote compie rendendo presente Gesù, senza alcun riguardo al sacrificio dei fedeli. Ormai è il celebrante che rinnova nella messa il sacrificio di Cristo, per cui l'accento passò dall'offertorio ritenuto ormai una sua semplice preparazione alla consacrazione, che, come vero sacrificio, rinnova in modo incruento quello della croce.
Tommaso D'Aquino ha mostrato che anche i cristiani hanno nell'eucaristia, un sacrificio da offrire, perché è legge di natura che ogni religione abbia il suo sacrificio (Summa Teol. 2.2 ae q. a. 1). Esso non consiste nella comunione bensì nella consacrazione; la partecipazione al sacrificio è tuttavia necessaria per cui i sacerdoti si comunicano sia per se stessi, sia in rappresentanza dei fedeli (ivi 3, 80, 12). L'eucaristia è offerta dallo stesso Cristo per bocca del sacerdote e possiede la stessa efficacia del sacrificio della croce, che essa rappresenta e commemora (3, 83, 1).
I protestanti, poggiando sull'affermazione biblica che unico e irripetibile è il sacrificio della croce, negarono che la messa fosse un vero sacrificio. La prima testimonianza ufficiale del termine transustanziazione si ebbe solo nel 1215 con il concilio Lateranense IV.

Nella chiesa il sacrificio è dato dallo stesso sacerdote Cristo Gesù, il cui corpo e sangue si contengono nel sacramento dell'altare sotto le specie del pane e del vino dal momento in cui, per divino potere, il corpo si transostanzia nel pane e il sangue nel vino (c. 1 De fide catholica contra Albigenses et Catharos, Denz. Sch. 802).

Per tale motivo il Concilio di Trento scomunicò chiunque negasse il sacrificio della messa.

Se qualcuno dirà che nella Messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, oppure che questo consiste solo nel fatto che Cristo viene dato in cibo, sia scomunicato (Concilio di Trento, Sess. 22 (a. 1562) Denz. Sch. 1751).

In epoca moderna i teologi hanno tentato di chiarire meglio l'essenza del sacrificio eucaristico, seguendo due correnti: l'offerta a Dio e l'immolazione.

1) Offerta . Secondo il Lepin, Suarez, Scheeben è solo l'offerta e non l'immolazione che appartiene all'essenza del sacrificio. L'olocausto è ucciso solo per essere bruciato e così produrre qualcosa di profumato e gradito da offrire a Dio. Dopo il sacrificio di Noè: « Il Signore odorò la fragranza soave e disse: Non... colpirò ogni essere vivente (mediante il diluvio) » (Ge 8, 21). La Messa è quindi un sacrificio perché è una nuova offerta della croce, compiuta da Gesù tramite il sacerdote.

2) L'immolazione sarebbe invece essenziale al sacrificio, per cui senza l'effusione di sangue, non vi sarebbe remissione di peccato. Quindi anche la messa deve consistere in una immolazione, che però è intesa in modo diverso.

a. Essa consiste nel fatto che Gesù glorioso (che già una volta si incarnò) ora di annichila e assume la forma di cibo e di bevanda. Così in passato sostennero il De Kugo e Vasquez.

b. Per altri (Billot, O. Casel, A. Piolanti, O. Betz) l'immolazione avverrebbe solo simbolicamente, perché dopo la consacrazione il corpo e il sangue (anche se nella realtà non sono disuniti tra loro) sono tuttavia rappresentati come se fossero separati sotto le specie del pane (corpo) e del vino (sangue). « La Messa è una celebrazione rituale e la ripresentazione dell'azione divina (...) nella quale il fatto salutare del passato diventa presento nel rito (...) per cui la comunità che vi partecipa ottiene in tal modo la salvezza » (Casel).

3) Per il De La Talle la Messa sarebbe un nuovo sacrificio solo per il fatto che la chiesa aggiunge la propria offerta sacrificale alla immolazione compiuta da Gesù sulla croce e che viene ricordata dai simboli eucaristici. Ma in tal caso non sarebbe più il sacrificio della croce (che è unico ed irripetibile), bensì un nuovo sacrificio diverso dal precedente.

c) Partecipazione al sacrificio da parte dei fedeli

Anche i fedeli hanno parte nell'azione liturgica della santa Messa, come asseriva già nel medio Evo Innocenzo III (m. 1216).

Non soltanto offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli; perché ciò che (nell'Eucaristia) si compie per il ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli (Innocenzo III, De sacro altaris mysterio 3, 6).

Scriveva Pio XII:

E' necessario che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al sacrificio eucaristico non con una assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore, da porsi in intimo contatto con il sommo sacerdote (Gesù) (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947)).

Come partecipano i fedeli a questo sacrificio? Ce lo spiega la Mediator Dei di Pio XII.

A questa oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo: perché essi offrono il sacrificio non soltanto per mano del sacerdote, ma in un certo modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione la stessa offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947) Denz. Sch. 3851).

Sin dai primi tempi della chiesa i cristiani contribuivano attivamente alle spese per la cena del Signore e per la stessa comunità presentando i propri doni nel cosiddetto offertorio: pane, vino, cibo per i poveri, olio per le lampade della illuminazione. Più tardi questo comportamento comunitario fu sostituito da un modo di agire più individualistico: la Messa fu valutata per i suoi effetti che produce per se stessa e si è pensato di indirizzare tali benefici spirituali verso se stessi o verso i defunti. perché tale applicazione si effettuasse, i cristiani hanno pensato di offrire del denaro al sacerdote perché offrisse una o più messe per una determinata intenzione. Il sacerdote si tiene tale denaro per il proprio sostentamento o per altri bisogni. Solo nel caso che egli celebri di domenica più messe, ha il diritto di tenersi l'offerta di una sola Messa, mentre l'eventuale contributo per l'altra o le altre viene devoluto al vescovo oppure utilizzato in opere di carità secondo le disposizioni episcopali. Nel Medioevo si infiltrarono al riguardo anche delle superstizioni, come nel caso delle cosiddette messe gregoriane.
Paolo VI con il motu proprio Firma in traditione spinto forse dalla crescente diminuzione di tali offerte ne sottolineò il vantaggio spirituale:

Costoro, spinti dal loro senso religioso ed ecclesiale, si uniscono alla celebrazione della Pasqua del Signore con un loro personale concorso... si associano in un modo più intimo al Cristo sofferente e ne percepiscono frutti più abbondanti.

In qualche luogo l'offerta di messe costituisce l'unico mezzo con cui i sacerdoti e i loro collaboratori possono venire sostentati. La chiesa quindi «non solo approva ma incoraggia il contributo dei fedeli tramite l'offerta di sante messe » (Firma in traditione del 13 giugno 1974; Oss. Rom. 28-6-74, p. 1).
Penso che i cristiani dovrebbero evidentemente aiutare le loro guide spirituali come suggerisce l'apostolo Paolo (1 Co 9, 4-11; 1 Ti 5, 17 s) e come lui pure venne aiutato in particolari momenti di necessità (Fl 4, 10-20), ma ciò entro i limiti suggeriti dalla parola di Dio. Tale aiuto deve essere effettuato per amore e non per interesse personale (come nel caso delle messe applicate a se stessi o a propri defunti), senza incorrere nella superstizione (messe gregoriane) e senza attribuire un'efficacia inesistente a un sacrificio non biblico. L'efficacia viene ai cristiani dal sacrificio della croce, di cui ogni credente si appropria tramite la fede obbediente.

3) Insegnamento moderno del magistero ecclesiastico

La dottrina eucaristica del Vaticano II e, specialmente di Paolo VI, pur riallacciandosi sostanzialmente alla dottrina tradizionale, ha messo in particolare rilievo i seguenti punti:

a) Accento sul sacrificio eucaristico piuttosto che sul realismo sostanziale della presenza di Gesù

Nella Cost. Sacrosantum Concilium leggiamo: « Il nostro Salvatore nell'ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della croce... Sacramento nel quale si riceve il Cristo » (n. 47).

«La Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo, i quali sono così in un certo modo presenti» (Cost. Lit. 47); è «il sacrificio per eccellenza » (Presbyt. ordinis 5), nel quale i sacerdoti « ripresentano... l'unico sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ha offerto se stesso al Padre» (Cost. Chiesa n. 28) e «perpetua nei secoli... il sacrificio della croce» (Cost. Lit. n. 47).

Paolo VI, nell'Omelia per la festa del Corpus Domini (29 maggio 1975), ha detto: «Gesù compie gesti insoliti... distribuendo ad un dato momento pane e vino così radicalmente investi da nuove, qualificanti ed essenziali definizioni del suo proprio corpo e del suo proprio sangue da trasformare il pasto in sacrificio» (Oss. Rom. 30-5-75 p. 1).

b) Valore simbolico del pane e del vino

Sulla scia dell'insegnamento biblico Paolo VI ha accentuato il valore simbolico dei segni visibili, che riguarda tanto la comunione con il Cristo quanto la comunione dei fedeli tra loro.

1) Comunione con il Cristo

Il pane e il vino, queste specie tanto comuni hanno valore di simbolo, di segno: segno di che? ... segno che Cristo vuol essere nostro cibo, nostro alimento, principio interiore di vita per ciascuno di noi... L'incarnazione si estende nel tempo affinché ogni cristiano divenga davvero come il tralcio alimentato dal ceppo dell'unica vie (Gv 15, 1), il prolungamento di Cristo» (Paolo VI, Allocuzione del 5-6-69, Oss. Rom. 6/7-6-69, p. 1).

2) Simbolo dell'unità ecclesiastica. Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito questo concetto:

Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e si compie l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (Cost. Chiesa (21-11-64) n. 3).

«L'eucaristia è segno perfetto di unità », è « causa meravigliosa dell'unificazione dei credenti con Gesù Cristo e fra di loro » « benché alimenti grandemente la vita intima, essa eccelle anche per l'efficacia sociale », ed è « sorgente della vera amicizia ». L'eucaristia « è istituita perché diventiamo fratelli; è celebrata dal sacerdote ministro della comunità cristiana, perché da estranei, dispersi e indifferenti gli uni dagli altri, noi diventiamo uniti, uguali ed amici; è a noi data perché da massa apatica, egoista, gente fra sé divisa ed avversaria, noi diventiamo un popolo, un vero popolo, credente e amoroso, di un cuore solo e di un'anima sola ». « La grazia specifica di questo sacramento è precisamente l'unità del corpo mistico... l'eucaristia è figura e causa di questa unità », Essa «significa e produce una comunione di fede che può avere un enorme e incomparabile beneficio riflesso sulla società temporale degli uomini... è il sacramento capace di renderli fratelli ».
«
Gesù ha dato se stesso come alimento interiore di vita personale e come principio di unità sociale, vivente ed organica, così da compaginarci tutti, nella pienezza della nostra singola personalità, in un solo corpo, il suo corpo mistico, che è la comunione dei santi, la chiesa cattolica» Appunto perché l'eucaristia è simbolo di unità ecclesiale non è possibile l'intercomunione con i fratelli separati, a meno che non si tratti di ortodossi, assai più vicini al cattolicesimo di tutti gli altri credenti separati. Di qui la preghiera eucaristica: « Guarda con amore e riconosci nell'offerta della tua chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione, a noi che ci nutriamo del suo corpo e del suo sangue dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo, un solo corpo e un solo spirito ».
Non si tratta evidentemente di novità, perché era vissuta tale idea dai primordi del cristianesimo: già la Didachè, verso la fine del 1° secolo, affermava: «
Come questo pane era sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno» (9, 4). Tale concetto dominava in Africa dove Cipriano, vescovo martire del 3° secolo, scriveva: « Quando il Signore chiama il suo corpo pane, risultante dall'unione di molti grani, vuole indicare il nostro popolo adunato ». E altrove « nel sacramento stesso si mostra il nostro popolo riunito ».
Sulla scia di tali idee unitarie, Agostino sottolineava che l'unità della chiesa è creata nell'eucaristia:

Uno solo pane formato da molti grani, un solo corpo composto da molti membri, così la chiesa di Cristo, è composta da molti fedeli, che sono uniti nella carità.

Dello stesso è l'espressione: « O sacramentum pietatis! O signum unitatis! O vinculum caritatis! ».

Anche Tommaso, riallacciandosi al vescovo di Ippona, scriveva:

L'Eucaristia realizza l'unità della chiesa perché consiste in una comunione mediante la quale gli uomini sono uniti a Cristo, in quanto partecipano al suo corpo e alla sua divinità, e di conseguenza vengono puri uniti tra di loro. L'unione comprende due unità: la prima riguardante l'incorporazione che ci unisce a Cristo e la seconda consiste nell'unità che noi stessi riceviamo dal Cristo capo.

Ma nel corso dei secoli tale idea rimase soffocata dai problemi riguardanti la presenza reale di Cristo, per cui ha fatto bene il magistero della chiesa cattolica e riesumarla nei tempi moderni. Il concetto dell'eucaristia come segno di unità ha fatto sorgere il problema se alla comunione eucaristica dei non cattolici possano partecipare i cattolici, per i quali « l'unica chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste solo nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui ». Secondo costoro, dal momento che l'eucaristia è il sacramento dell'unità della chiesa, ne deriva che quanti non sono cattolici non possono accedere all'eucaristia cattolica. Il problema è stato più volte esaminato dal Concilio Vaticano II sia dal Segretariato per l'unione dei cristiani.
Nel decreto conciliare sull'ecumenismo
Unitatis redintegratio su dichaiara che «comunicazione nelle cose sacre non si deve usare indiscriminatamente come mezzo per ristabilire l'unità dei cristiani » (n. 8). In altre parole non si può permettere la comunione eucaristica ai fratelli separati con lo scopo specifico di facilitare il loro ingresso nella chiesa cattolica. Il Segretariato per l'unione dei cristiani si è espresso prima nel suo Direttorio ecumenico (1967 nn. 44 e 55) e poi nell'Istruzione del 1972 sui «casi di ammissione di altri cristiani alla comunità eucaristica della chiesa cattolica».
Nel sacrificio della Messa, celebrando il mistero di Cristo, la chiesa celebra il proprio mistero e manifesta concretamente la sua unità (n. 2b). la relazione tra la celebrazione locale dell'eucaristia e l'intera comunione ecclesiale viene indicata anche nel ricordo speciale del papa, del vescovo locale e degli altri vescovi (n. 2c). Quindi per sua natura la celebrazione eucaristica esige una piena professione di fede e una completa comunione ecclesiale (n. 4a).
Ora tale principio sarebbe alterato qualora un fratello separato, pur professando una fede diversa dalla cattolica, chiedesse di ricevere questo sacramento per manifestare la sua unione fraterna con i cattolici, senza però entrare a far parte della loro chiesa. Ma se invece, non potendo ricorrere « al ministro della propria fede ecclesiale per un periodo prolungato di tempo », sentisse il bisogno « di questo nutrimento spirituale », il vescovo locale deve giudicare se quel fratello separato, vivente nella diaspora a riguardo della sua chiesa, possa essere ammesso alla comunione eucaristica (n. 6). Questo riguarda particolarmente gli ortodossi perché costoro, pur essendo separati da Roma, di fatto riconoscono la successione apostolica, il sacerdozio e l'eucaristia, e quindi sono uniti alla chiesa cattolica da uno stretto legame. I cattolici, nelle stesse condizioni, possono pur essi partecipare alla comunione ortodossa..
Infine una nota del 17 ottobre 1973 dello stesso Sgretariato osserva che: «
il desiderio della partecipazione comune all'eucaristia esprime in fondo il desiderio stesso della perfetta unità ecclesiale di tutti i cristiani come Cristo l'ha voluta» (n. 10). Quindi essa concludeva con:

«la speranza che il movimento ecumenico ci conduca a una comune professione di fede tra i cristiani e ci permetta così di poter celebrare nell'unità ecclesiale l'Eucaristia, adempiendo le parole (dell'apostolo): Perché v'è un solo pane, noi pure siamo un corpo solo » (n. 10).

Siamo anche qui ben lontani dalla valutazione di Paolo che suggeriva la credente di «esaminare personalmente se stesso» prima di accedere alla cena del Signore, senza bisogno di legislazioni ecclesiastiche che gli permettano o gli proibiscano di fare la comunione.

c) Presenza di Cristo

Molti teologi moderni hanno notato l'assenza della parola « transustanziazione» tanto nei documenti conciliari (Vaticano II) quanto in molti discorsi di Paolo VI; hanno pure rilevato che la dichiarazione ecumenica di Windsor (commissione internazionale anglicana e cattolico-romana) del 7 settembre 1971, ha evitato, sia pure per evidenti ragioni di carità fraterna verso i « fratelli separati » non cattolici, di nominare la « transustanziazione ». Ma da questo fatto sarebbe arbitrario ed erroneo dedurre che il magistero cattolico odierno abbia accolto il pensiero di quei teologi particolarmente olandesi che cercano di minimizzare la trasformazione ontologica del pane e del vino a vantaggio della sua simbologia. Troppi documenti vi sono contrari:: bisogna credere dice Paolo VI che dopo la consacrazione, il pane e il vino « sono un'altra cosa del tutto diversa » e ciò non solo in base al giudizio della fede ecclesiastica ma per la realtà oggettiva, in quanto convertitasi la sostanza del pane e de vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla più rimane del pane e del vino se non le sole specie, sotto le quali tutto intero il Cristo è presente nella sua fisica realtà, anche corporalmente...

Nell'Omelia del Corpus Domini 1970, Paolo VI ha ripetuto:

La presenza di Cristo è vera e reale, ma sacramentale... Si tratta di una presenza rivestita di segni speciali, che non lasciano vedere la sua divina e umana figura, ma solo ci assicurano che Egli, Gesù del vangelo ed ora Gesù vivente nella gloria del cielo, è qui, è nell'Eucaristia. Dunque si tratta di un miracolo? Sì, di un miracolo che Egli, Gesù Cristo diede il potere di compiere, di ripetere, di moltiplicare di perpetuare ai suoi apostoli, facendoli Sacerdoti, e dando a loro questo potere di rendere presente tutto il suo Essere, divino e umano, in questo sacramento... che sotto le apparenze del pane e del vino contiene il corpo, il sangue, l'anima e la divinità di Gesù Cristo.

Anche in un'altra circostanza Paolo VI volle richiamare alla mente questa misteriosa trasmutazione «del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù, che sbalordisce la mente umana e la rende attonita:

L'agàpe a questo punto si fa mistero. La presenza del Signore si fa viva e reale. Le apparenze sensibili restano quelle che erano, pane e vino; ma la loro sostanza, la loro realtà è intimamente cambiata; quelle restano solo per significare ciò che le ha definite la parola onnipotente, perché divina: corpo e sangue. Noi rimaniamo attoniti. Anche perché questo prodigio è proprio ciò che il Signore ci ha detto di ricordare; anzi di rinnovare.

I documenti più importanti si trovano nell'enciclica Mysterium fidei (1965) e nella Professione di fede del popolo di Dio (30 giugno 1968). Nella prima, dopo aver respinto alcuni termini moderni come « transignificazione » e «transfinalizzazione » che non accennano alla reale conversione ontologica di tutta la sostanza del pane e del vino nelle sostanze del corpo e del sangue di Cristo, Paolo VI soggiunge:

« La norma di parlare che la chiesa nel suo lungo secolare lavoro non senza l'aiuto dello Spirito santo, ha stabilito, confermandola con l'autorità dei concili, norma che spesso è divenuta la tessera e il vessillo dell'ortodossia, dev'essere religiosamente osservata: né alcuno, secondo il suo arbitrio o col pretesto di nuova scienza, presuma di cambiarla ».

Gli enunciati del Tridentino non esprimono concetti legati a una certa forma di cultura, a una determinata fase di progresso scientifico, all'una o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che la mente umana percepisce della realtà... e perciò tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
E' quindi «necessario serbare un esatto modo di parlare, affinché con l'uso di parole incontrollate non ci vengano in mente false opinioni circa la fede nei più alti misteri».
Quindi con grande chiarezza, Paolo VI sconfessa alcuni modi recenti di intendere questa presenza reale:

Malamente dunque qualcuno spiegherebbe questa forma di presenza immaginando il corpo di Cristo glorioso di natura pneumatica onnipresente, oppure riducendola ai limiti di un simbolismo, come se questo augustissimo sacramento in neint'altro consistesse che in un segno efficace della spirituale presenza di Cristo e della sua intima congiunzione con i fedeli membri del corpo mistico.
La sostanza del pane e del vino non è più quella che era prima, ma un'altra cosa tutta diversa; e ciò non soltanto in base al giudizio della fede della chiesa, ma per la realtà oggettiva, poiché convertita la sostanza o natura del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla rimane più del pane e del vino che le sole specie, sotto le quali Cristo tutto i9ntero è presente nella sua fisica realtà... Perciò (è questa realtà) che è contenuta, offerta e mangiata.

Anche nel Credo del popolo di Dio (1968) Paolo VI dichiara: «Questa conversione in modo conveniente si chiama transustanziazione da parte della Santa chiesa ». Quindi nessun cedimento nei riguardi della tradizione di fronte ai movimenti moderni, anche se talune idee sono state reinserite nel pensiero tradizionale. A ragione J. Guitton nella sua prefazione a un recente libro di un domenicano francese, così concludeva:
«
Rileggendo Pascal, ho trovato alcune formule mirabili per esprimere questo mistero, che egli aveva posto al centro della sua vita e della sua morte: Noi crediamo che la sostanza del pane essendo cangiata e trasformata in quella del corpo del Nostro Signore Gesù Cristo, egli è realmente presente. Ecco una delle verità. Un'altra è che questo sacramento è altresì la figura della croce e della gloria, ed è il memoriale di entrambe. Questa è la fede cattolica comprendente queste due verità, che sembrano opposte.»

4) La pratica

Le idee precedenti sono state inserite praticamente nella nuova liturgia della Messa e nelle norme riguardanti la distribuzione della comunione recentemente emanate dal Vaticano.

a) La Messa

Il 25 marzo 1970 Paolo VI ha pubblicato il nuovo Messale Romano che si apre con le costituzioni apostoliche Missale Romanum del 3 aprile 1969 e Mysterii Paschalis del 14 febbraio 1967 per la promulgazione del nuovo calendario romano. In questo nuovo rito il sacerdote bacia dapprima la mensa ridotta a un semplice tavolo comune con poche candele accese e con un calice di materiale non prezioso. Saluta poi il popolo con le parole: «Fratelli, riconosciamo i nostri peccati per essere degni di celebrare i sacri misteri ». Seguono tre letture bibliche tratte rispettivamente dall'Antico Testamento, dalle lettere apostoliche e dai vangeli in modo di presentare in tre anni tutte le più importanti parti della Bibbia. Dopo l'omelia si svolge una preghiera universale, il cui tema può anche essere proposto dai fedeli.
Recitato il credo, si fa l'offerta del pane e del vino, possibilmente anche di altri doni, per la chiesa e per i poveri, mentre si recita la seguente preghiera: «
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo; dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane (vino) frutto della terra e del nostro lavoro, e lo presentiamo a te perché divenga per noi cibo di vita eterna ».
Segue l'usuale consacrazione del pane e del vino, poi la rottura del pane, che dovrà apparire visibilmente, per cui il «
pane eucaristico, sebbene azzimo, deve essere fatto in modo tale che il sacerdote nella messa celebrata con il popolo, possa spezzare l'ostia in varie parti e distribuirla almeno ad alcuni fedeli ». La «rottura del pane», secondo l'istruzione, «è la definizione più apostolica dell'eucaristia », perché nell'unico pane distribuito tra i fedeli si raffigura l'unità e la carità che tutti riunisce.
Prima di distribuire il pane (e talora anche il vino) ai fedeli, che lo ricevono in piedi con le proprie mani, il sacerdote invita l'assemblea a scambiarsi il «
segno di pace»: abbraccio, bacino o inchino, stretta di mano ecc. Esso deve mostrare l'amore e il mutuo perdono che lega tutti i partecipanti alla celebrazione della Messa. I laici possono anche autocomunicarsi, prendendo personalmente l'ostia dalla pisside, purché si elimini ogni pericolo di irriverenza e non se ne lasci cadere in terra alcun frammento. In alcuni casi, come in occasione delle nozze, i fedeli possono anche bere un sorso di vino dal calice.
Il rito termina con un cantico di ringraziamento, un'ultima preghiera sacerdotale, la benedizione finale e la frase di commiato; «
La Messa è finita, andate in pace ». Se si vuole, il culto può prolungarsi ancora con una breve discussione su qualche brano biblico o sopra un argomento di attualità.
Il papa, presentando la nuova Messa ai fedeli, suggeriva il dovere di «
fare della Messa più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana ».
L'obbligo di santificare la domenica con la Messa (sotto pena di peccato mortale) è imposto a tutti i cattolici, che non ne siano fisicamente o moralmente impediti. La celebrazione domenicale cattolica è quindi più vicina alla pratica neotestamentaria che non l'uso di alcuni gruppi protestanti, che limitano la celebrazione della cena del Signore a qualche festività annuale. Al contrario l'obbligatorietà sotto minaccia di colpa grave non corrisponde alla responsabilità che dovrebbero avere tutti i cristiani: al culto essi devono andare spontaneamente, per fede, per bisogno interiore e non per una imposizione dall'esterno. Per meglio dare ai fedeli la possibilità di santificare la festa si è ora concessa, a discrezione del vescovo diocesano, la facoltà di anticipare la celebrazione della Messa domenicale al sabato sera. Tale facilitazione può accordarsi (almeno in parte) con l'uso dei primi giudeo-cristiani che celebravano la cena del Signore al principio della domenica, la quale per loro iniziava con il tramonto del sabato.

b) Norme per la distribuzione della comunione

Possono distribuire la comunione non solo i ministri ordinari (sacerdoti, diaconi, accoliti) ma in casi particolari concorso di popolo, carenza di personale anche altre persone a ciò deputate dal vescovo. Si noti la solita gerarchizzazione degli atti di culto per i quali si allarga sempre più la cerchia degli addetti dietro permesso vescovile, mentre sino al secolo VIII tutti i cristiani potevano tranquillamente e senza alcun permesso da parte della gerarchia prendere e portare altrove il pane e il vino eucaristico. Solo in seguito ciò fu riservato al clero propriamente detto, esentandone del tutto i laici. Con la Istruzione Fidei Custos emessa il 30 aprile del '66 dalla S. Congregazione dei sacramenti si attribuiva ai vescovi e agli abati dei monasteri il diritto di designare i ministri straordinari secondo la successione seguente: « suddiacono (ora non più esistente), chierico minore, tonsurato, religioso laico, religiosa, catechista, semplice fedele, uomo o donna». Con la recente istituzione del '73 (Immensae caritatis) solo i vescovi (e non più gli abati) possono scegliere i ministri straordinari, seguendo la precedenza che essi ritengono più opportuna, preferendo per la sua capacità magari un religioso a un seminarista, una donna a un uomo e via dicendo.. So confermò invece la proibizione dell'autocomunicazione sia che essa si attui accostandosi direttamente al vaso contenente il pane o il vino, sia facendo circolare il vaso con gli elementi consacrati; è pure proibito conservare l'eucaristia in casa propria. Si ammette invece la possibilità in casi particolari celebrazione comunitaria, ma non per devozione di una duplice comunione in un sol giorno, però solo durante la celebrazione della Messa, rimanendo stabile la norma generale semel tantum in die (una volta soltanto al giorno).
Che direbbe l'apostolo Paolo
il cantore della libertà in Cristo di fronte a questo abbondante legalismo proprio del potere gerarchico (il vescovo nel caso presente a scapito della semplicità e della spontaneità dei primi cristiani, per i quali la cena eucaristica, come indica lo stesso nome, era una vera cena, nella quale prendevano del pane e del vino senza timore di violare particolari tabù liturgici? Solo l'amore vi doveva regnare, privo di qualsiasi legalismo creato arbitrariamente da uomini e imposto in nome di Dio.

5) Conseguenze pratiche

a) Esteriorizzazione

Per i primi credenti occorreva prepararsi alla comunione con viva fede e con amore, vedendo, al di là del pane e del vino che si prendeva, il corpo straziato di Gesù e il sangue da Lui versato dall'alto della croce. Ora invece ci si deve preparare anche con una particolare disposizione del corpo, data dal digiuno, mentre al tempo di Paolo la comunione eucaristica si svolgeva al termine di un vero banchetto d'amore e quindi senza alcun digiuno (agàpe cf 1 Co 11, 2). Nel corso dei secoli si volle invece che il corpo di Cristo, entrando nello stomaco, non vi trovasse altri cibi fermentati, di qui il digiuno richiesto fino a qualche anno fa dalla mezzanotte precedente al momento della comunione. In alcune città (Brescia ad esempio), dove vigeva l'uso di celebrare la Messa natalizia alla sera della vigilia, due sacerdoti dovevano stare digiuni per timore che uno dei due avesse a violare il digiuno bevendo inconsciamente un sorso d'acqua o una medicina. Dopo il Vaticano II la legge del digiuno si è andata sempre più affievolendo: due ore per il cibo e poco meno per le bevande. Di recente si è ridotto tale periodo a un quarto d'ora per gli ammalati e gli anziani (senectus ipsa morbus) congiuntamente ai familiari e agli addetti alla loro assistenza.

L'istruzione (Memoriale Domini 28-5-69) ha poi cercato in modo curioso di spiritualizzare il digiuno eucaristico:

Per riconosce la dignità del sacramento e suscitare il gaudio per la venuta del Signore, è opportunamente determinato un tempo di silenzio e di riflessione prima di ricevere la S. Comunione. Per gli ammalati invece sarà sufficiente segno della loro pietà e del loro rispetto, se un qualche breve tempo essi rivolgano l'animo a così profondo mistero.

Parole ottime ma mi vien da chiedere in che rapporto esse stiano con il digiuno corporale!
L'istruzione raccomanda pure che si abbia rispetto verso la sacra ostia anche quando la si riceve sulla mano (in Italia ciò non è ancora stato autorizzato dalla conferenza episcopale!). Da molti secoli la comunione si distribuisce infatti deponendola sulla lingua, mentre nei primi secoli la si prendeva tranquillamente con le proprie mani (con o senza fazzoletto). La recezione sulla lingua fu occasionata da un senso di «rispetto » verso «il SS. Sacramento» e da un senso di umiltà; non vi fu estranea la premura di evitare i pericoli della profanazione con la dispersione di alcuni frammenti dell'ostia consacrata. Chissà che ne direbbe un cristiano di oggi se potesse trasportarsi alla celebrazione eucaristica di Corinto dove queste preoccupazioni mancavano del tutto e dove l'apostolo Paolo esigeva solo che al di là del pane si vedesse il Cristo morente e risorto e che vivesse l'amore fraterno senza prescrizioni sterili, che poi si vanno tranquillamente mutando nel corso degli anni secondo il volere del legislatore! Non capisco come mai toccando l'ostia con la lingua anziché con la mano si abbia a rispettare meglio il mistero eucaristico, quasi che la mano abbia meno dignità della lingua! In ciò appare straordinariamente preponderante il peso dell'abitudine: secondo un'inchiesta promossa dal Vaticano la stragrande maggioranza dell'episcopato mondiale si è mostrata contraria a permettere che l'ostia sia presa con la mano anziché con la lingua e questo per la riverenza dovuta ad essa a anche per meglio salvaguardare l'ortodossia circa la dottrina eucaristica.. Ad ogni modo se si prende l'ostia con la mano, va presa solo dopo che il comunicante ha risposto Amen al distribuente e va posta in bocca prima di tornare al proprio posto (si ricordi che la pisside con le ostie non può circolare tra i comunicandi!). Si veda come la legge liturgica complichi il gesto stupendo stabilito da Cristo a «ricordo» della sua passione, morte e resurrezione.

b) Adorazione dell'ostia

La presenza di Cristo non si limita alla celebrazione della messa, ma perdura anche dopo nelle ostie consacrate fino a quando non perdono l'apparenza del pane.

Il Signore dice Paolo VI – rimane nella specie sacramentale e questa permanenza non solo giustifica ma esige il culto suo proprio.: l'adorazione specialmente, la santa Comunione fuori dalla messa... la processione solenne.

Di qui la festa del Corpus Domini dedicata a Gesù eucaristico, celebrata con la caratteristica processione dove è possibile, la quale sorta nel 13° secolo per impulso della «beata» Giuliana di Monte Cornillon, fu estesa a tutta la chiesa con la bolla Transiturus di Urbano IV (m. 1264).
Paolo VI nel suo
Credo del popolo di Dio, presentò «il santo sacramento del Tabernacolo» come « il cuore vivente della nostra chiesa » che di continuo intercede per noi. Di qui il suggerimento di conservarlo in un apposito altare laterale dove i fedeli lo possano debitamente visitare.

Sarà bene inoltre rivendicare, contro certe negazioni qua e là circolanti, la permanenza della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche oltre la celebrazione della Messa, durante la quale esse furono consacrate. Cristo rimane; ed allora si giustifica anzi si esige un culto specialissimo all'Eucaristia... Così il culto del Tabernacolo, l'adorazione privata e pubblica del SS. Sacramento, la processione... In occasione del Corpus Domini, i congressi eucaristici hanno la loro ragione di essere secondo la fede, la liturgia, la teologia, la pietà.

La Istruzione sul culto del mistero eucaristico della Sacra Congregazione dei riti (25 maggio 1767) ha messo in risalto l'utilità dei pii esercizi eucaristici sopra ricordati. Al n. 49 così esso afferma:

La conservazione delle sacre specie per gli uomini infermi fece sorgere la lodevole abitudine di adorare quel cibo celeste, che è riposto nel tempio. E in vero questo culto di adorazione poggia su di una valida e solida base, soprattutto perché la fede nella presenza reale del Signore conduce naturalmente alla manifestazione esterna e pubblica di quella fede medesima.

c) Sacralizzazione della natura

E' un fatto indiscutibile che spesso l'uomo utilizza in senso deleterio gli elementi naturali che lo circondano e che perciò bramano la propria liberazione (Rm 8, 22).
Ora nei sacramenti alcuni elementi naturali servono di veicolo per conferire doni spirituali: olio nella cresima, acqua nel battesimo. Nella eucaristia il pane e il vino diventano addirittura il mezzo mediante il quale Gesù stesso divine presente in mezzo a noi. In tal modo il creato dà gloria a Dio e diviene strumento di salvezza, preannunciando la situazione escatologica finale, quando servirà solo per il bene. Quindi il Vaticano II disse che nell'eucaristia «gli elementi naturali, coltivati dall'uomo, sono trasformati nel corpo e nel sangue glorioso di Gesù Cristo.

d) Sacralizzazione del tempio

I pagani avevano dei templi consacrati ad alcune divinità, le quali distribuivano i loro favori ai devoti che vi si recavano in pellegrinaggio. Anche gli ebrei ritenevano che Dio dimorasse particolarmente nel tempio di Gerusalemme, considerato per questo l'ombelico della terra e lo ritenevano un potente talismano contro ogni malanno per cui al preannuncio di Geremia, che profetizzava la distruzione della città, opponevano la loro fiducia nel santuario divino: « Tempio di Jahvè! Tempio di Jahvè! Non periremo mai » (Gr 7, 4). La tradizione rabbinica pose a Gerusalemme i più importanti atti salvifici di Dio: sepoltura di Adamo, immolazione di Isacco, deposizione dell'arca al tempo di Davide, costruzione del tempio ad opera di Salomone. Anche la tradizione giudeo-cristiana, riprendendo tale concetto, suppose che Adamo fosse stato seppellito proprio sotto il Calvario, per cui il sangue del nuovo Adamo colando dalla croce sul teschio del primo uomo ne avrebbe purificato la colpa. Tale leggenda sopravviveva ancora nel Medio Evo con l'albero della vita (Gesù Cristo), che affonda le sue radici nel sepolcro adamitico.
Con la conversione al cristianesimo delle masse pagane (secolo IV d.C.) i cristiani cercarono di dedicare ai loro martiri molti santuari pagani (Pantheon, ecc). Con la convinzione che Gesù, uomo-Dio, fosse presente nell'eucaristia, venne rafforzata l'idea del tempio, ritenuto in tal modo la sede della divinità, racchiusa nel Tabernacolo e dinanzi al quale di continuo deve ardere una lampada a segno della presenza divina.
Nelle chiese e negli oratori, Cristo è davvero l'Emmanuele, cioè Dio con noi, perché giorno e notte egli è in mezzo a noi, abita con noi pieno di Grazia e di verità (Gv 1, 14).
Di qui la sacralità della casa di Dio, che deve essere consacrata e benedetta, il desiderio che sia bella e adatta al Cristo che vi abita. La chiesa ha perciò sempre voluto che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza. Anche l'arte moderna deve sapersi esprimere con la dovuta riverenza e il divino onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti.

e) Sacralizzazione della casta sacerdotale

Dal momento che solo i sacerdoti hanno il potere di consacrare l'eucaristia e di rendere presente il Cristo nel pane e nel vino, ecco che il sacerdote viene elevato a una dignità del tutto particolare. E' lui che, come alter Christus in terra parla a nome di Gesù, quando dice nella consacrazione eucaristica «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». Con quel «mio» non parla del proprio corpo o del proprio sangue, bensì del corpo e del sangue di Gesù, del quale si fa portavoce. Il sacerdozio di Cristo si esercita particolarmente attraverso l'atto dei suoi ministri sacerdoti e il suo sacrificio unico e la sua unica mediazione si continuano nei gesti liturgici dei suoi sacerdoti. Quindi nell'ultima cena, invitando i suoi apostoli a ricordarlo nel dire: «Fate questo in memoria di me», Gesù li costituiva suoi sacerdoti.
Quel comando di Gesù «Fate questo» è una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione di un potere, ch'Egli solo possedeva; è l'istituzione di un sacramento, il conferimento cioè di un sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell'organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell'ultima cena (Paolo VI, Oss. Rom. 9-4-66, p. 1).
Nell'Istituzione del 1972, da parte del Segretariato per l'unione dei cristiani, Paolo VI sostiene che il potere ministeriale fu conferito da Cristo «ai suoi apostoli e ai loro successori, vale a dire ai vescovi con i presbiteri, perché attuino sacramentalmente il suo atto sacerdotale, con cui egli è offerto una volta per sempre al Padre... e si è dato ai suoi fedeli perché siano uno con lui». Di conseguenza vedere un sacerdote è vedere Cristo, offendere il sacerdote è offendere Gesù (sacrilegio) ed amare il sacerdote è amare Gesù.
Di fronte a questo continuo sviluppa della originaria cena eucatistica, ci viene da chiedere quanto sia uno sviluppo armonico del pensiero biblico e quanto sia invece una deviazione da esso. Si deve perciò tornare anche qui alle sorgenti bibliche per vedere che cosa era in realtà la cena del Signore e che cosa essa deve significare per i credenti di ogni tempo e di ogni luogo.



CAPITOLO SECONDO
IL PANE DI VITA: PREANNUNCIO DELL'EUCARISTIA?


Indice

1) L'uso dei primi cristiani
2) Il discorso di Gesù a Cafarnao
3) Sviluppo unitario del discorso
4) Tutto il discorso concerne la fede
5) La chiave interpretativa del discorso
6) Chiarimento dato da Gesù ai discepoli
7) Simbolismo del tempo
8) Storia dell'interpretazione


Il pane è pane. Ma è un ebreo che parla. La sua natura empirica non interessa lo spirito dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in sé stesso. per un ebreo... il pane è ciò che esso divine in rapporto al suo riferimento ultimo (F.J. Leenhardt)
1) L'uso dei primi cristiani

Secondo gli Atti degli apostoli, sin dai primi tempi, i cristiani erano assidui «nel rompere il pane », espressione che probabilmente fu la prima usata dalla Bibbia per designare quello che più tardi Paolo chiamerà « cena del Signore» e i cattolici « eucaristia » (1 Co 11, 20). Siccome in essa si parla solo del pane, H. Lietzmann vi ha voluto vedere un semplice pasto comunitario fraterno, che secondo l'uso giudaico aveva inizio spezzando un po' di pane; in tal modo si ripeteva quello che Gesù aveva compiuto in Galilea dove saziò le folle e mangiò con il gruppo dei suoi discepoli. Il pasto gioioso ricordava la presenza invisibile del Risorto in mezzo ai suoi. Fu solo Paolo, che in seguito a una speciale rivelazione, gli diede il senso commemorativo della morte di Gesù, mangiando quindi con tristezza. Mentre per i primi giudeo-cristiani la cena era un pranzo gioioso (agàpe fraterna); per i primi gentili convertiti sarebbe stata invece una pasto di mestizia. Ma questa ipotesi è superflua; Paolo non modifica nulla, ma si rifà alla tradizione (1 Co 11, 23); sarebbe poi incredibile che l'apostolo dei gentili sia riuscito a far accettare da tutta la chiesa un'innovazione, qualora vi fosse stata. Che l'espressione « spezzare il pane » non parli di vino, lo si deve al fatto che prima di incominciare la cena si spezzava il pane (di qui il nome); la cena poi non fu mai segnata dalla tristezza perché non ricordava la morte di Gesù, bensì la morte del « Signore », vale a dire del Gesù risorto e quindi trionfatore della morte (Lc 24, 30-35.36-48; Gv 21, 9 ss).
In At 2, 42 lo «
spezzare il pane » indica probabilmente la cena del Signore sia per la presenza dell'articolo che lo identifica con un « pane speciale », quello cioè che è simbolo di Cristo, sia per il contesto culturale. Il successivo v. 46 indicherebbe al contrario un « pasto comune », sia per l'assenza dell'articolo dinanzi a « pane » (E' spezzare del pane), sia per il contesto che parla di pasti fraterni di casa in casa, probabilmente allude alla cena del Signore anche il pasto attuato in giorno di domenica da Paolo a Troade, prima del suo imbarco per Gerusalemme. pare che, almeno all'inizio, specialmente presso i giudeo-cristiani, la cena si attuasse la notte tra il sabato e la domenica, nelle ore in cui il Cristo era risorto, cioè dopo la fine del sabato giudaico, giorno sacro e di riposo, per i giudei che terminava appunto al calar del sole.
Che valore aveva la cena del Signore nel pensiero dei primi cristiani? Si pensa di trovarne il significato in due insegnamenti presentati rispettivamente da Giovanni nel suo vangelo (c. 6) e da Paolo nell'epistola ai Corinzi (1 Co 10, 16-21; 11, 17-34), che bisogna quindi esaminare alla luce della mentalità ebraico-biblica.

2) Il discorso di Gesù a Cafarnao

Dopo aver moltiplicato nei pressi di Cesarea, ad oriente del lago di Tiberiade, cinque pani di orzo e due pesci per sfamare 5000 uomini più donne e bambini, la folla entusiasta volle creare re Gesù, ma egli in tutta fretta allontanò gli apostoli prima che fossero contagiati da tale entusiasmo, licenziò la folla, e poi, nottetempo, camminando sull'acqua del lago, raggiunse gli apostoli in barca e con loro scese a Cafarnao (Gv 6, 1-10). Il giorno dopo al popolo, che lo ritrova, Gesù raccomandò di andare alla ricerca non di un cibo materiale come il pane prima moltiplicato, bensì di uno « eterno » (v. 27) quale si può trovare solo nella fede in colui che parlava a loro. Lui infatti è la vera « manna », ossia un « pane (sceso) dal cielo » (Sl 78, 24); quella manna che gli ebrei si attendevano per il futuro regno instaurato sulla terra dal Messia:

Accadrà verso lo stesso tempo che il tesoro della manna scenderà di nuovo dall'alto, e gli ebrei ne mangeranno in quegli anni, perché essi sono giunti alla consumazione del tempo (Apocalisse siriaca di Baruch 29, 8).

In un frammento degli Oracoli Sibillini citato da Teofilo nell' Ad Autolycum e che è probabilmente precristiano, torna il medesimo concetto:

Ma quelli che onorano il vero ed eterno Dio ereditano la vita; sono questi coloro che abitano, nel tempo dell'eone futuro, il lussureggiante giardino del paradiso (e) banchettano con il dolce pane proveniente dal cielo stellato.

Di fronte alla richiesta dei Giudei rivolta a Gesù perché rinnovasse il miracolo della « manna » – ricollegato da loro con il tempo messianico – e provasse in tal modo di essere il messia, Gesù nega che la manna del tempo mosaico sia stata un vero pane del cielo, perché non aveva saputo impedire la morte delle persone. Invece Gesù è il vero cibo che discende dal cielo e dona la vita al mondo.
Il discorso di Gesù tenuto a Cafarnao, è appunto uno sviluppo di questo tema.

In verità, in verità vi dico:
Se non mangiate la mia carne,
e non bevete il mio sangue
non avete vita in voi
(v. 53).

Dunque secondo questo preannuncio dell'eucaristia, chi mangia il pane mangia il corpo di Cristo e beve il suo sangue, per cui il corpo e il sangue devono tenere il posto del pane e del vino.
Che tali parole siano da intendersi in senso letterale e non simbolico – insistono alcuni teologi – si deve dedurre dal fatto che Gesù preferì perdere i propri discepoli, anziché spiegare loro che la sua espressione doveva intendersi in senso figurato.

Quando (i giudei) gli obiettano: come può quest'uomo dar da mangiare la propria carne?, Gesù non spiega la sua dottrina in senso figurato, anzi ripete il proprio insegnamento urtante in modo ancora più enfatico. Egli lo espone in forma di comando: Se mangiate la mia carne... e aggiunge: La mia carne è veramente cibo... Gesù insegna che il mangiare e il bere è garanzia di vita eterna; vincolo che unisce l'uomo intimamente a se stesso... E quando molti suoi discepoli continuano a rifiutare tale idea, Cristo non ritrattò le proprie parole, né disse che parlava in modo figurato. Al contrario li rimproverò per la loro mancanza di fede ed esigette da essi che accettassero le sue parole (B.L. Conway, The question Box, p. 249 s).

Proprio per questa tematica diversa: eucaristia (e non più fede come prima), R. Bultmann ritiene che le parole del v. 53, non siano di Gesù ma della Chiesa che le ha attribuite al suo fondatore, e il Boismard le ritiene un brano di un altro discorso di Gesù (ora perso) che Giovanni, per non ometterlo, ha trasferito e introdotto nel discorso di Cafarnao con il quale non si amalgama perché questo parlava della fede e non della eucaristia. Sono tutte ipotesi superflue in quanto anche il v. 53, come vedremo, può inserirsi assai bene anzi è richiesto dal discorso, che è un tutto unitario riguardante la fede in Gesù, quale inviato di Dio.

3) Sviluppo unitario del discorso

L'unità del discorso appare dal fatto che Gesù procede per gradi, sviluppando progressivamente i concetti da lui prima solo accennati. Il v. 35 ne costituisce la chiave esplicativa:

Io sono il pane di vita (a).
Chi viene a me non avrà più fame (b),
e chi crede in me non avrà più sete (c).

Ora tutto il discorso svolge le tre idee presenti in queste poche parole, che vengono riprese e sviluppate più ampiamente:

― Gesù è vero pane di vita, perché è sceso dal cielo, ma è tale solo per chi crede in lui dietro istruzione divina (vv. 37-47 = 35 a).

― Occorre mangiare questo pane vivente, ben superiore alla manna per non morire (vv. 48-51 = 35 b).

Occorre mangiare la sua carne e bere il suo sangue per possedere la vita (vv. 52-58 = 35 c).

Secondo l'uso del linguaggio orale il discorso contiene alcune parole chiave, che ricorrono in tutto il discorso (pane, carne, vita, credere, ecc.) che ne facilitano il ricordo mnemonico. Tutto il discorso si suddivide in due parti correlative (35-47; 48-58) con inizio identico: «Io sono il pane di vita» (vv. 35-48) e una finale simile: « chi crede in me ha una vitalità eterna» (v. 48) e « Chi continua a masticare questo pane vivrà in eterno» (v. 58). Ecco le due parti tradotte letteralmente, che hanno tutte al centro un fatto storico riferentesi alle mormorazioni dei giudei:

Parte I (6, 35-47)

Strofa 1)

35

Io sono il pane della vita;
chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà più sete


36

Ma vi dico: pur avendomi visto, non avete creduto

Strofa

2) 37

Quelli che il padre mi dà, verranno a me
e chi viene a me non lo caccerò fuori,



38

perché sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà
ma la volontà di colui che mi ha mandato.
Strofa 3) 39 Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato:
che tutti quelli che mi ha dato
non ne perda alcuno
ma lo risusciti nell'ultimo giorno.
Strofa 4) 40 Questa infatti è la volontà del Padre mio,
che chiunque vede il Figlio e crede in Lui
abbia vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
... (cenno storico sulla mormorazione dei giudei)
Strofa 5) 43 Finitela di mormorare tra boi!


44 Nessuno può venire a me
se il Padre, che mi ha mandato, non lo attira,
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Strofa 6) 45 Sta scritto nei profeti:
E saranno tutti ammaestrati da Dio
(Is 54, 13).
Chiunque ascolta e impara dal Padre
viene a me.
Strofa 7) 46 Non che alcuno abbia visto il padre;
solo colui che è da Dio ha visto il Padre.


47 In verità, in verità vi dico:
Chi crede in me ha vitalità eterna!

Parte II (48-58)

Strofa 1) 48 Io sono il pane della vita


49 I vostri Padri mangiarono la manna del deserto e morirono.


50 Questo è il pane che scende dal cielo.
affinché chi ne mangia non muoia.
Strofa 2) 51 Io sono il pane vivente sceso dal cielo.
Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno.
E il pane che io darò per la vita del mondo
è la mia carne.
(Relazione storica sopra la mormorazione dei giudei)
Strofa 3) 53 In verità, in verità vi dico:
Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo
e non bevete il suo sangue
non avete la vita in voi.
Strofa 4) 54 Chiunque continua a mangiare la mia carne
e continua a bere il mio sangue
già possiede la vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Strofa 5) 55 Perché la mia carne è veramente un cibo
e il mio sangue è veramente una bevanda.


56 Chi di continuo mangia la mia carne e beve il mio sangue
rimane in me e io in lui.
Strofa 6) 57 Come il Padre, che vive in me, ha mandato me
e io vivo per il padre,
così chi continua a mangiare me,
vivrà anche lui di me.
Strofa 7) 58 Questo è il pane sceso dal cielo,
non come quello mangiato dai vostri Padri che pur morirono.
Chi continua a mangiare di questo pane
vivrà in eterno.

a) Parte prima: si va a Gesù credendo in Lui (vv. 35-47)

Alla domanda «Dacci di questo pane». Gesù presenta se stesso come il pane del quale uno si nutre «andando a lui e credendogli » (v. 35). L'endiadi usata esprime un'azione unica: si va a Gesù quando gli si crede e gli si crede quando si va a Lui. Il Cristo poi non lascerà perire alcuna persona affidatagli dal Padre; Dio vuole infatti che « chiunque continua a contemplare il Figlio e continua a credere in lui abbia una vitalità eterna » e sia da Gesù risuscitato « nell'ultimo giorno» (v. 40).
A tale pretesa i giudei gli oppongono la sua umile vita terrena trascorsa a Nazaret che contraddice la sua presunta missione divina.. Giovanni usa qui il verbo «mormorare », termine tecnico per esprimere l'opposizione con cui gli ebrei nel deserto contestarono sia Mosè, sia Dio (Nm 11, 1; 14, 27).
Gesù risponde loro che sono ormai giunti i giorni predetti dai profeti (Is 54, 13) nei quali Dio stesso avrebbe istruito gli uomini (didaktòi theoû) attirandoli dall'interno (v. 45). Solo costoro possono capire questa discesa di Gesù dal cielo, come precedentemente aveva detto che solo quelli nei quali dimora la parola divina sono in grado di capire le pretese di Gesù (Gv 5, 38). Appunto perché sceso dal cielo, Gesù possiede la visione di Dio a la può comunicare agli altri, per cui chi « vede » il Cristo possiede la vita eterna (6, 40). Di qui la conclusione: « Chi crede ha una vitalità eterna », una forza cioè che conduce alla vita eterna (v. 47). Questa prima parte, che non presenta alcuna allusione all'eucaristia, insegna l'obbligo per tutti gli uomini di ascoltare la parola di Dio che conduce a Cristo e lo fa accogliere quale inviato divino.

b) parte seconda: Gesù salva morendo (vv. 48-58)

Identificandosi di nuovo con il pane di vita, Gesù mostra la differenza tra la manna, che non ha impedito la morte di chi ne mangiava, e la sua propria persona, la quale invece eliminerà tale morte. Egli infatti non è un pane comune, ma un pane « già vivo»; un pane costituito dalla sua stessa persona umana («carne») – destinata ad essere offerta a Dio in dono sacrificale per la salvezza del mondo.

Il pane che io darò
è il mio essere mortale
offerto per la vita del mondo
(Gv 6, 51)

Il verbo «dare per» indica la morte violenta accolta per un nobile ideale: si usa non solo per Gesù (1 Ti 2, 6; Tt 2, 14), ma anche per i martiri: Eleazaro « diede se stesso per salvare il popolo» (1 Mac 6, 44). Anche in un passo del Midrash sull'Esodo si legge: « I padri e i profeti diedero la loro vita per Israele». La particella «per» (gr. upèr) esprime il fine per il quale al vita di Gesù « viene offerta in sacrificio»: essa fu data per le sue pecore (Gv 10, 11-15), per il popolo (11, 50), per la nazione (11, 52), per i discepoli (Gv 17, 19). Siccome dare la vita per un altro è la suprema prova d'amore (15, 13), anche il cristiano dovrebbe dare la sua vita per Gesù (Mt 10, 39). Il «dare la vita » divenne anzi un termine tecnico per designare il sacrificio di Gesù sulla croce (Mt 20, 28; Ga 1, 4).
Ma come si può mangiare questa « carne » (= persona) mortale di Gesù offerta in sacrificio, come di solito si faceva nei pasti sacrificali dei giudei? Gli uditori, scossi da tali parole, «litigavano », vale a dire, discutevano tra loro con accanimento, in quanto ciò per alcuni era ripugnante, per altri privo di senso, per altri ancora da intendersi in senso simbolico (v. 52). Ma Gesù insiste sul suo concetto con espressioni ancora più dure, sulle quali tornerò in seguito. Siccome « la carne» precedentemente indicata significava la sua « persona umana », mortale e siccome questa, secondo gli ebrei, risultava di « carne e sangue », Gesù, per meglio sottolineare quanto già aveva asserito, secondo la legge del parallelismo biblico assai amato dagli orientali, ne scinde in due gli elementi e ripete enfaticamente che occorre « mangiare la sua carne » e« bere il suo sangue». Infatti la sua carne e il suo sangue sono « davvero » (alethés) cibo e bevanda (v. 55) qualcosa di concretamente mangiabile e bevibile, non di puramente immaginario e fittizio.
Questa seconda parte chiarisce meglio la prima e spiega che Gesù è vero cibo e non soltanto per la sua parola che deve essere accolta con fede, ma particolarmente per la sua morte sacrificale in favore dell'umanità, i cui benefici sono accessibile soltanto a coloro che mangiano la sua carne e bevono il suo sangue, vale a dire riconoscono in questo essere che muore l'inviato di Dio e il Salvatore atteso (cf v. 35).
Come si vede il discorso è pienamente armonico e può essere spiegato tutto con la fede
– come vedremo meglio in seguito – senza alcun richiamo all'eucaristia di cui Gesù non aveva ancora parlato.
Una conferma dell'interpretazione precedente si ha nel fatto che gli effetti del mangiare e del bere sono gli stessi di quelli attribuiti alla fede.

4) Tutto il discorso concerne la fede

a) Fede

b) Mangiare/bere

40 Chiunque crede in lui
avrà vita eterna
53 Se non mangiate la carne e non bevete questo sangue non avrete la cita in voi
47 Chiunque crede in me
possiede una vitalità eterna
54 Chiunque continua a mangiare la carnee a bere il mio sangue
possiede una vitalità eterna
48/51 Io sono il pane che dà vita
... se uno mangia questo pane,
vivrà in eterno
58 Chiunque continua a mangiare
questo pane
vivrà in eterno

Mi sembra quindi naturale e logico riferire tutto il discorso, compresi i versetti nei quali si parla di « mangiare la mia carne e bere il mio sangue» alla fede in Gesù anziché all'eucaristia. Ecco le ragioni principali che mi consigliano ad agire così:

a) I verbi usati da Gesù sono al presente

Gesù, parlando agli abitanti di Cafarnao, non disse: «Se non mangerete... se non berrete » (futuro), bensì «Se non mangiate... se non bevete» (presente) ossia da questo preciso istante in avanti, voi non «potete aver vita in voi se non mangiate... se non bevete». Dunque proprio nel momento in cui egli parlava, i suoi uditori potevano mangiare la sua carne e bere il suo sangue, il che evidentemente non poteva riferirsi alla cena del Signore non ancora esistente, ma solo al nutrimento spirituale che si ha con la fede in Gesù accolto come l'atteso Messia, nonostante le sue apparenze mortali e la sua morte preannunziata. E' quanto già nel 15° secolo suggeriva il grande letterato Enea Silivio Piccolomini – divenuto poi papa Pio II (m. 1474) – al cardinale De Carvial che l'aveva interrogato su questo punto:

Vuoi tu sapere con certezza se l'evangelista intenda parlare del nutrimento spirituale, quale si ha per fede?
Considera come il Signore dica: Chiunque mangia e chiunque beve. Sono verbi al tempo presente e non al futuro. Perciò proprio mentre Cristo parlava vi erano delle persone che in quel momento avrebbero potuto mangiare e bere. Eppure allora il Signore non aveva ancora sofferto e il sacramento (dell'Eucaristia) non era ancora stato istituito.

Ci si potrebbe tuttavia chiedere se Giovanni abbia qui conservato le parole stesse di Gesù o ne abbia modificato l'espressione in modo da illuminare meglio i lettori per spiegare loro l'eucaristia della quale già conoscevano l'esistenza. In tale caso la coloritura sacramentale del passo rispecchierebbe la situazione ecclesiastica propria della fine del primo secolo. Con le parole « carne e sangue » egli li avrebbe indotti a pensare all'eucaristia alla quale ogni domenica essi prendevano parte.
Ma era proprio questo l'intento di Giovanni? Lo pensano moltissimi esegeti moderni, anche non cattolici. Tuttavia se Giovanni avesse modificato le parole di Gesù per presentare l'eucaristia come era attuata al suo tempo, non capisco perché non abbia alluso anche al vino pur esso parte integrante della cena del Signore? perché parla solo di pane? Vale quindi la pena di andare contro corrente (senza rinvenire troppi sensi misteriosi nella Bibbia) e presentare con maggiore semplicità il significato che i lettori del Vangelo potevano trovare al loro tempo.

b) «La carne e il sangue» sono i costitutivi della persona umana

Il «mangiare la carne» e il « bere il sangue» non designano due atti distinti, ma un atto unico perché l'espressione « carne e sangue » è solo un'endiadi per indicare i due elementi costitutivo della persona umana terrena. tale frase presente l'uomo mortale in opposizione al Dio immortale, l'uomo ignorante di fronte al Dio sapiente. D'uso normale presso i rabbini, divenne comune nel Talmùd. Il rabbino Jochanan ben Zaccai in punto di morte piange perché sa di dover comparire dinanzi al re dei re e non dinanzi a un re « di carne e sangue» vale a dire « umano » (Berakot 28 b.). Se un re di « carne e sangue» si onora in un territorio, il re del mondo, cioè Dio, è onorato da tutte le creature.
L'endiadi «carne e sangue» per designare l'uomo mortale fu coniata all'epoca intertestamentaria, perché si trova nel Siracide (Ecclesiastico).

Come le foglie germoglianti su un albero frondoso,
alcune cadono mentre altre spuntano;
così tra le generazioni di carne e sangue,
alcune muoiono mentre altre nascono
(Sir 14, 18).
Che cosa vi è di più luminoso del sole?
pure anch'esso si eclissa.
Così chi è di carne e sangue
pensa al male
(Sir 17, 31).

Gesù usò tali parole rivolgendosi a Pietro quando disse che la sua professione di fede non era frutto di insegnamento umano, bensì di rivelazione divina:

Né la carne né il sangue te lo hanno rivelato,
ma il Padre mio che sta nei cieli
(Mt 16, 17).

In tre passi l'apostolo Paolo utilizza questa espressione, una volta per dire che la lotta del cristiano non è contro « la carne e il sangue», vale a dire contro gli uomini, bensì contro i demoni (Ef 6, 12). L'ex-persecutore Saulo, dopo la sua conversione a Cristo, non andò a chiedere consiglio a « carne e sangue» cioè a uomini, ma si ritirò a meditare tutto solo nell'Arabia (Ga 1, 16 s). L'uomo terreno (« carne e sangue») non può raggiungere con le sue forze il regno di Dio, ma vi riesce solo l'uomo trasformato e glorificato dallo Spirito Santo (1 Co 15, 50).
Perciò l'espressione «carne e sangue » nel discorso di Cafarnao è semplicemente sinonimo di persona, come appare chiaramente dal fatto che essa è continuata in seguito dalle frasi seguenti: « Chi mi mangia » e «chi mangia di questo pane » (vv. 57-58). Si identificano quindi con il pronome personale di prima persona (mi) o con « il pane » che era simbolo della persona di Gesù.
Lo riconosce apertamente anche il gesuita Xavier Léon Dufour, studioso dalle idee aperte:

I verbi mangiare e bere sono tra loro paralleli come lo sono le espressioni «venire a me – credere in me...»; l'aggiunta dei complementi carme, sangue, rafforza il parallelismo delle espressioni... I due atti: mangiare la carne e bere il sangue, sono così poco considerati come due riti distinti da essere ricapitolati nei versetti seguenti con: chiunque mi mangia vivrà per me (6, 57) e: Chiunque mangia di questo pane vivrà eternamente (6, 58). Carne e sangue sono dunque equivalenti a «me» e a «pane». Mediante questo sdoppiamento letterario Gesù di designa anzitutto come un essere concreto, debole e mortale destinato al sacrificio... Con tali parole Gesù invitava i contemporanei a trovare la vita mediante la fede nella sua persona e nel suo sacrificio redentore.

c) Giovanni parla di «carne e sangue» anziché di «corpo e sangue» come si usa invece nell'Eucaristia

A un occidentale la differenza può apparire minima, ma tale non lo era per un semita. «Carne» (sarx) indica l'essere concreto, debole, passibile di morte, che non poteva di conseguenza essere adoperata per l'eucaristia la quale ricorda invece non solo la morte di Gesù, ma anche la sua resurrezione. Mentre il termine corpo (sôma) può essere usato anche per un risorto glorificato, la parola «carne», che indica sempre un essere debole e passibile di morte, non può riferirsi a un corpo glorioso, destinato a vita eterna: « La carne e il sangue non possono infatti ottenere la vita eterna » (1 Co 15, 50), perché ciò che è corruttibile non può raggiungere l'incorruttibilità (ivi v. 57). Ora l'eucaristia annuncia la morte del Signore risorto e glorioso che si attende dal cielo: per cui deve usare in tal caso la parola sôma, applicabile anche ad un corpo glorioso, non la parola «carne» riservata solo ad un corpo mortale, del quale mette in enfasi la morte sacrificale.
Il tentativo di trovare che nell'Asia Minore esistesse una corrente che nella liturgia eucaristica usasse il termine «carne» (sârx) anziché «corpo» (sôma) non mi pare che finora sia riuscito. Di solito lo si vuole provare con il fatto che Ignazio, quando parla dell'eucaristia, la chiama «carne» di Cristo; egli infatti afferma contro gli gnostici: «Costoro non venerano l'eucaristia perché non riconoscono l'eucaristia come la carne di Gesù Cristo ». Anche Giustino lo conferma quando scrive: « Ci hanno insegnato che questi alimenti sono la carne e il sangue dello stesso Gesù, fattosi carne». Tuttavia tale ragionamento non implica necessariamente l'uso della parola «carne» nella loro liturgia eucaristica, perché il vocabolo «carne» fu da loro preferito per motivi apologetici, in quanto con esso volevano opporsi agli gnostici negatori della realtà carnale e terrestre del corpo di Gesù. Del resto quando lo stesso Giustino riporta le parole nell'istituzione, adopera anche lui il vocabolo «corpo» (sôma) e non carne (sârx), come tutta la tradizione orientale.
Dobbiamo quindi concludere che le parole « carne e sangue», usate da Gesù, più che alludere all'eucaristia, richiamano la morte sacrificale dell'inviato di Dio. Occorre quindi nutrirsi di questa carne mortale, bere il suo sangue versato per noi. Ma in che modo?
Ce lo spiega Gesù stesso con la sua chiave interpretativa di tutto il discorso.

5) La chiave interpretativa del discorso

Ci viene data dalle parole iniziali e da alcuni elementi che vi si trovano.

1) Parole iniziali. Gesù incomincia il suo discorso dicendo:

Chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà più sete
(v. 35).

Ecco come si mangia e si beve Gesù: andando a lui tramite la fede, secondo un'endiadi cara ai semiti. Quando una persona lo accoglie come « figlio» di Dio e come « l'inviato » per eccellenza del Padre, allora va a lui e beve di lui, vale a dire riceve da lui una forza, una vitalità imperitura.
Quindi le parole iniziali illuminano tutto quanto il discorso e ne chiariscono il significato fondamentale.

2) Nelle sue parole: « Se non mangiate... se non bevete» Giovanni usa qui un presente di durata che significa una continuazione dell'atto e si dovrebbe perciò tradurre con «Se non continuate a mangiare... se non continuate a bere» (v. 53). Non basta un atto compiuto una volta sola, occorre ripetere di continuo tale atto; quando una persona cessa di mangiare quella carne e cessa di bere quel sangue, muore la vita in noi. Ora ciò evidentemente non può riferirsi all'eucaristia, che non si può continuare a mangiare, bensì alla fede che deve durare per l'intera nostra vita. Nell'attimo stesso in cui cessa la fede in Cristo, ha pure fine la vita divina in noi.

3) Dicendo: «Se non mangiate... se non bevete » Gesù parla di necessità assoluta. Se si applicassero queste parole all'eucaristia, si dovrebbe concludere che non basta la fede testimoniata dal battesimo per essere rivestiti di Cristo e per avere la vita, ma vi occorre pure la comunione eucaristica.
Data poi l'identificazione della carne con il pane e del sangue con il vino, ne segue che sarebbe assolutamente necessario per la salvezza non solo mangiare del pane, ma anche bere del vino. Per cui tutti i cattolici che muoiono senza continuare a «bere il vino » eucaristico che per molti secoli fu loro proibito non potrebbero salvarsi. Queste conclusioni assurde ci fanno capire che la premessa è sbagliata e che Gesù non intendeva parlare dell'eucaristia bensì della fede nella persona carne e sangue di Gesù.

6) Chiarimento dato da Gesù ai discepoli

Al vedere che anche molti dei suoi discepoli « mormoravano», perché ritenevano inconcepibile tale discorso, Gesù osservò che «la carne » ossia la persona destinata a perire non giova a nulla, mentre quello che vale è «lo spirito », ossia l'alito vivificante.

Lo spirito è quel che dà vita:
a carne non giova nulla:
le parole che vi ho detto sono spirito e vita
(v. 63).

Espressioni alquanto enigmatiche, intese dagli esegeti in modo ben diverso.. P. Batiffol, Wisemann e B.L. Conway, tra altri, le hanno applicate all'uomo, che, se è solo carne, non può capire le parole di Gesù mentre se è guidato dallo Spirito Santo e dalla fede riesce a percepirne l'insegnamento eucaristico. Tuttavia la «carne » e lo «spirito» non si riferiscono agli uditori, ma allo stesso Gesù, come appare evidente dal contesto. Questa interpretazione antropologica lacera il contesto dell'esposizione giovannea.
Per tale motivo gli esegeti vanno alla ricerca di altre interpretazioni. Per L. Tondelli la carne è l'umanità peritura di Gesù, mentre lo spirito sarebbe l'amore con cui Gesù offre la sua morte al Padre. Tuttavia mai altrove nella Bibbia la parola « spirito» assume un tale significato.
Di solito gli antichi, come Cirillo di Alessandria, Agostino e i moderni, quali Bulen, Billot, Lagrange, Van Noort, pensano che la carne si debba identificare con l'umanità di Gesù e lo Spirito con la sua natura divina, che si manifesta mediante le opere miracolose. Tuttavia se ben si guarda al contesto, Gesù distingue tra la persona umana destinata a perire (carne) e le parole da lui presentate in questo stesso discorso, che lo presentano figlio di Dio sceso dal cielo, le quali quando sono accolte con fede, diventano appunto «spirito e vita »: « Le parole che vi ho detto sono spirito e vita» (v. 63).
Nel suo discorso Gesù non intendeva presentare la necessità di mangiare materialmente la sua carne, perché in tal modo si sarebbe dovuto ucciderne la persona e mangiare la carne priva di vita e quindi riducibile a polvere (Ge 2, 7; Gb 10, 9; Ec 12, 7). Egli intendeva insegnare la necessità di mangiare le sue parole, che sono «spirito vivificante ». Per questo occorre riconoscere che le sue parole non vengono dall'uomo perituro, bensì da Dio che è Spirito, e la cui parola è creatrice. Nell'uomo terreno, che stava dinanzi a loro, gli uditori dovevano vedere l'inviato di Dio, il Figlio di Dio. Di fronte all'incredulità dei giudei, a lui contemporanei, Gesù fa appello alla futura ascensione: «Che direte quando mi vedrete salire al cielo donde sono venuto?». Si tratta dunque di credere che egli non è un semplice uomo come gli altri, bensì l'inviato di Dio. La sua ascensione avrebbe documentato lo sbaglio di chi non voleva credergli. Egli tuttavia conosce che anche fede è un dono divino, al quale l'uomo può resistere. Perciò molti suoi discepoli, allontanatasi (dal Cristo), « non continuarono più ad andare (imperfetto) con lui» (v. 66).
Quando Gesù chiede ai suoi discepoli se anche loro avessero intenzione di abbandonarlo come gli altri, Pietro, mostrando d'aver ben capito il senso del discorso, disse a nome di tutti: «Signore a chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto, anzi continuiamo a credere e a conoscere (tale è il senso del tempo perfetto in greco) che tu sei il Santo di Dio » (v. 68). Pur pensando che era nato da Maria, moglie di un falegname di Nazaret, pur conoscendo che doveva morire come un uomo qualsiasi, l'apostolo Pietro riconobbe in Lui l'inviato di Dio tanto atteso, uomo come gli altri uomini, ma unico nella storia umana per la missione ricevuta da Dio e per la Parola che si era incarnata in lui.
Questo è il profondo e imperituro valore spirituale del messaggio di Giovanni. La cena del Signore ha valore, ma solo in quanto serve per accrescere la fede in Gesù Cristo, che tramite la propria morte ci darà una vitalità imperitura.

7) Il simbolismo del tempo

Va poi preso in considerazione un altro concatenamento di idee diffuso nella letteratura rabbinica, dove il pane (manna) è il simbolo della Torah, cioè la controfigura della legge. Tale simbologia può essere fatta risalire almeno a Eliezer ben Ircano e a Joshua ben Anania, che vissero poco tempo dopo la composizione del quarto vangelo.
Quando commenta il fatto che la manna deve essere ripartita equamente (Es 16, 16 ss), Filone osserva: «Il Logos divino distribuisce equamente a tutti quelli che lo vogliono il celeste nutrimento dell'anima (tèn ouranion trofèn tês psuchés), cioè la sapienza». La Torah infatti dà vita, contiene, contiene «parole di vita» (Es b 29, 9), è «Legge di vita» (Sir 17, 11; 45, 5; 4 Ed 14, 30). Tali pensieri non sono altro che una amplificazione di quanto scriveva il Deuteronomio: « Dio ti ha nutrito con la manna... per farti capire che l'uomo non vive di pane soltanto, ma che l'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8, 3). Anche il libro deuterocanonico della Sapienza (ispirato per i cattolici) commenta la bontà della manna scrivendo che essa fu data «perché i tuoi figli, o Signore, comprendessero che non sono i diversi frutti del suolo a nutrire l'uomo, ma che è la tua parola a tenere in vita i credenti» (Sap 16, 23 s).
Al posto della legge, simboleggiata dal pane sceso dal cielo, Gesù pone ora se stesso e la sua parola che, superiore alla stessa manna, è vero «pane di vita»: « Io sono il pane di vita sceso dal cielo» (Gv 6, 35-48). I lettori del vangelo e gli uditori di Gesù, dovevano ben capire che con tali parole Gesù alludeva alla sua persona e alle sue parole, non al futuro rito eucaristico allora inesistente e del quale egli non aveva ancora parlato.
Anche l'espressione « istruiti da Dio » (Gv 6, 45 s da Is 54, 13) designava coloro che Dio istruiva tramite la Legge, nel caso presente tramite Gesù che è immagine di Dio (Gv 5, 37-47). Di fronte a Gesù il popolo di Israele è diviso in due gruppi: quelli che, accettando solo il dono Manna-Legga, negano il Cristo ritenendolo inutile e quelli che, al contrario, accogliendo il significato spirituale dell'insegnamento di Gesù, lo riconoscono il figlio di Dio e la nuova Manna scesa dal cielo. Attratti da Dio vanno a Gesù e gli sono affidati perché ne ricevano la vita.
Possiamo a conclusione ripetere la frase di Xavier Léon Dufour: « Noi abbiamo potuto senza difficoltà leggere questi versetti senza fare allusione all'eucaristia. La manducazione richiesta da Gesù può significare solo un'adesione stretta alla sua persona come salvatore del mondo. Ecco l'appello che doveva capire chiunque udiva Gesù »

8) Storia dell'interpretazione

Anche se gran parte degli scrittori ecclesiastici riferiscono all'eucaristia il sermone che Gesù pronunciò a Cafarnao, non mancano tuttavia delle persone di grande valore che lo ricollegano alla fede in Gesù quale Figlio di Dio. Tertulliano (m. 122.123) così scrisse:

Quando dice: Le mie parole sono spirito e vita, Gesù la chiama sua carne perché, dal momento che la parola si è fatta carne, essa doveva essere ricercata per ottenere la vita ed essere divorata ascoltandola, ruminandola mediante l'intelligenza e digerendola per mezzo della fede (Tertulliano, De carnis resurrectione 37 PL 2, 894 (AD 208-211).

Clemente d'Alessandria (m. 211-15), così scrive:

Quando Gesù disse: Mangia la mia carne e bevi il mio sangue, evidentemente usava un linguaggio simbolico per indicare che egli era atto ad essere bevuto tramite la fede (Clemente Aless. , Ped. 1, 6, 46/47 PG 8, 296 (poco dopo il 195).

Origene, uno scrittore della stessa scuola (m. 254-55), ripeteva:

Noi abbiamo l'obbligo di bere il sangue di Cristo, il che facciamo quando diamo ascolto ai suoi discorsi (Origene, in Num Homeliae 16, 9 PG 12, 701, dopo il 244), perché mediante la carne e il sangue delle sue parole, che sono una vera carne e una vera bevanda, egli abbevera e rinfresca tutta la razza umana (Origene, in Lev. Hom. 7, 5 PG 12, 487, dopo il 244).

Anche Girolamo (m. 420) scriveva:

Io suppongo che il vangelo è il corpo di Gesù e la Bibbia la sua dottrina. Di conseguenza quando Gesù dice: Chiunque non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, anche se poteva riferirsi al mistero (eucaristico), con più ragione si riferiva alla dottrina divina dal momento che il corpo di Cristo e il suo sangue sono il tema della S. Scritture... Se ascoltiamo la parola di Dio, si riversano nelle nostre orecchie la carne ed il sangue di Cristo, ma quando noi pensiamo a qualcosa d'altro, incorriamo in un grande pericolo (Girolamo, In pslamos commentarioli 147, 3 PL 26, 1334 ,a. 392.401).

Agostino (m. 430), vescovo d'Ippona, insegnava che:

Noi mangiamo questa carne e beviamo questa bevanda quando viviamo in Cristo e Cristo vive in noi (Agostino, In Joannis evangelium tractatus 26). E giustamente concludeva con la frase lapidaria: Credi ed hai mangiato (Agostino, Tract. in Joh. 25  n. 12; cf 26 n. 13).

Nicolò Cusano (m. 1464), Giansenio di Gand (m. 1576), il Gaetano (m. 1534) intesero il discorso di Gesù nel senso di mangiare il Cristo spiritualmente per fede, come pensarono pure i Calvinisti e Grozio. Al Concilio di Trento molti vescovi dissero che questo pensiero era non solo l'interpretazione di Agostino, ma anche di Tommaso d'Aquino, per cui il 16 luglio 1562 i vescovi quivi raccolti non vollero imporre l'interpretazione eucaristica di Gv 6: Dodici teologi si astennero dal votare, 19 lo intesero in senso eucaristico, 9 sostennero l'interpretazione spirituale della fede e 21 riferirono il discorso tanto alla fede quanto all'eucaristia. Quest'ultima ipotesi era già stata difesa da Tommaso d'Aquino: «Si deve dire che queste parole di Gesù («se non mangiate la mia carne») vanno riferite alla manducazione spirituale di Gesù (per fede) e non solo al cibo eucaristico». Quest'ultima interpretazione poggiava sul fondamento assai fragile dei molti sensi letterali della S. Scrittura e che a buon diritto è oggi respinta dagli studiosi.

Dalle scarne considerazioni precedenti risulta come già in antico ciascuno studioso potesse intendere il discorso cafarnaico anche in senso metaforico (fede) senza sentirsi per nulla vincolato alla sua interpretazione eucaristica. Il contesto ci fa capire, come abbiamo visto, che Gesù alludeva alla fede e non alla eucaristia.



CAPITOLO TERZO
QUESTO E' IL MIO CORPO


Indice

1) Presenza reale di Cristo
2) Contesto simbolico
3) Interpretazione degli apostoli e di Gesù stesso
4) Tutta l'azione è un simbolo
5) L'ebraico non ha il verbo «simboleggiare»
6) Un obiezione: Offesa al pane, offesa a Gesù?
7) La questione sacrificale


1) Presenza reale di Cristo

In tono prima enfatico ed ora più moderato, i teologi cattolici insistono sulle parole dell'istituzione per sostenere che il pane e il vino si trasformano sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Bastino le seguenti due citazioni:

La frase: Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue, che sono espressioni di identità, indicano con esattezza e sufficienza la presenza viva del corpo e del sangue di Gesù. Las presenza reale vi è asserita vi verborum (ossia in forza delle stesse parole) dell'istituzione, essendo la conversione implicita nella presenza. Logicamente se vogliamo che la forma di identità insita nella frase: Questo è il mio corpo, sia retta, bisogna concludere che il pane non è più il pane bensì il reale corpo di Cristo (P. Batiffol, L'Eucharistie. La presence réelle et la transubstantiation, Paris 1913, p. 102 nota 1. Il Batiffol fu un pioniere della storia dei dogmi).

Forse che il Cristo – continua il Conway – lui che è Dio infinito, amante delle anime, può essersi permesso di usare una figura retorica capace di ingannare milioni di suoi seguaci di ogni tempo, e di condurli proprio a quell'idolatria che egli era venuto ad abolire? (B.L. Conway, The Question Box, p. 252).

Tuttavia la «idolatria» non viene da Gesù, bensì da chi si accosta al testo biblico con la mentalità occidentale dimenticando che le parole del vangelo sono scritte secondo il modo espressivo degli orientali. L'unica via per non incorrere in errori interpretativi sta nel dimenticare la mentalità filosofica medievale per tuffarci in quella semitica, presente nei vangeli. L'espressione « questo è» può intendersi in due modi diversi: in senso letterale o in senso simbolico. Se indicando un ragazzo dico: «Questo è mio figlio», chiunque capisce che quella persona è realmente la creatura da me generata o partorita, ma se, presentando la fotografia di un ragazzo, ripeto le medesime parole, ognuno comprende che parlo un senso metaforico: «Questa foto raffigura mio figlio». Quindi il contesto serve per conoscere quale senso si debba dare a una espressione. Quando Gesù diceva: «Questo è il mio corpo, questo calice è il mio sangue» che significato intendeva darvi? Letterale o simbolico? Ecco l'indagine indispensabile ad ogni studioso per cogliere il vero significato di queste parole, anteriormente a tutti i problemi teologici moderni. La risposta non dovrebbe riuscire difficile a chiunque si accosti senza preconcetti al pensiero biblico, dal quale in varie maniere risulta che Gesù intendeva parlare in senso metaforico. Ciò appare già dalla mentalità diversa con cui un occidentale e un orientale si accostano alla realtà: il primo, al vedere un essere concreto si chiede: «Che cosa è questo?», e ne ricerca l'intima natura costitutiva (sostanza). L'orientale invece dinanzi alla stessa realtà, si domanda: «Che cosa è mai questo per me?» ricercandone non la natura bensì i suoi rapporti con la persona che indaga (relazione). Vedendo il pane l'occidentale dice: «Questo è pane»; l'orientale invece afferma: «Questo è pane per me, ossia del cibo per me». Di conseguenza, all'udire le parole di Gesù: « Questo è il mio corpo», un semita non era indotto a pensare che la sostanza del pane si fosse trasformata nella sostanza del corpo di Cristo, ma che tale pane era, per il credente, il «corpo» di Cristo, vale a dire la persona di Cristo, presentata nel suo aspetto esteriore percepibile di corpo. Sentendo dire: « Questo è il mio sangue », un semita non era portato a pensare che la sostanza del vino, contenuto nel calice, si era trasformata nella sostanza del sangue di Cristo, ma che la persona vivente del Cristo (il sangue è la vita) era destinata ad essere sacrificata per la salvezza umana, come viene chiarito dal participio aggiunto: « che sta per essere versato per voi».
Ma l'occidentale, dimenticando questo aspetto, ha operato un illecito passaggio dal campo relazionale alla sfera della natura e dell'essenza, deducendo dalle parole di Gesù che la sostanza del pane si cambia nella sostanza del Cristo. Ha ben affermato l'illegittimità di questo processo il calvinista F.J. Leenhardt, che così scrive:
Logicamente il pane è pane. Ma è un ebreo che parla. Il pane è riferito ad un fine che lo trascende. La sua natura empirica, che solo interessava lo spirito greco, non interessa lo spirito dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in se stesso. Per un ebreo, questa realtà bruta e immobile del pane è riferita ad uno scopo. Il pane è ciò che esso diviene in connessione a questo riferimento ultimo (F.J. Leenhardt, Ceci est mon corps, Neuchâtel - Paris 1955. p. 28).

2) Contesto simbolico

Anche il contesto nel quale le parole di Gesù furono pronunciate ci spinge a dare loro un senso simbolico e non sostanziale.

Nei sinottici la «cena del Signore » è chiaramente inclusa nella cena Pasquale ebraica tutta impregnata di simbolismo: si ricordino le erbe amare, il pane azzimo, la coppa della benedizione, l'agnello pasquale, che richiamavano alla mente la grandiosa liberazione di Israele dalla triste schiavitù egizia ad opera della potente mano di Dio. Ai figli che chiederanno: « Che è per voi questo?», ossia che cosa raffigura questa azione (cena pasquale), risponderete: « Questo è (ossia raffigura) Jahvè che passò oltre la casa dei figli di Israele, quando colpì gli egiziani e salvò le nostre vite» (Es 12, 24 ss). La cena Pasquale raffigurava quindi l'angelo sterminatore che, quale messaggero di Jahvè, oltrepassò le case degli ebrei segnate col sangue dell'agnello senza colpirvi nessuno di morte, per entrare solo nelle case egizie e uccidervi i primogeniti. In tale atmosfera doveva riuscire spontaneo anche per gli apostoli intendere in senso simbolico la nuova cena stabilita da Gesù che sarebbe succeduta all'antico banchetto pasquale. Mentre la cena Pasquale ricorda simbolicamente la liberazione dalla schiavitù egizia, la cena cristiana simboleggia la salvezza realizzata da Cristo con la sua morte in croce tramite la liberazione dalla schiavitù del peccato. Va poi ricordato che, quando parlava loro, Gesù era tuttora presente di persona, per cui è impossibile supporre che gli apostoli annettessero a quell'atto la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di colui che stava loro dinanzi.

3) Interpretazione degli apostoli e di Gesù stesso

1. Che gli apostoli, anche dopo la discesa dello Spirito Santo, abbiano inteso le parole di Gesù in senso metaforico appare chiaro dalla modifica, possibile solo nel caso di un simbolo. Paolo e Luca, infatti, alle parole «Questo calice è il mio sangue » (Mt, Lc) sostituiscono «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue versato per voi» (Lc 22, 20; 1 Co 11, 25). E' evidente che il «calice », vale a dire il vino contenuto nel calice, non può sostanzialmente trasformarsi in un patto, che è qualcosa di astratto ma può essere solo simbolo o figura di questa nuova alleanza, così come esso è pure figura o simbolo del sangue di Gesù. Il senso simbolico che si adatta ad entrambe le formule, deve essere proprio quello inteso da Gesù e non il senso letterale ontologico (relativo alla sostanza) che, al contrario, si adatta solo alla formula usata da Matteo e da marco, ma non a quella di Luca e di Paolo.
2. Alla medesima conclusione ci conduce l'apostolo Paolo, quando non dice che mangiando il pane e bevendo il vino si compie la «conversione» di tali sostanze nel corpo e nel sangue di Cristo, ma afferma invece che «si predica» quello che Cristo ha compiuto per noi sul Calvario: «Ogni volta infatti che voi mangerete di questo pane (si noti la conservazione del nome pane) e berrete di questo calice proclamerete la morte la morte del Signore fino a che il Cristo venga» (1 Co 11, 26).
Lo stesso apostolo fa pure un interessante parallelo tra l'eucaristia e i pasti sacrificali laici o pagani:

«Guardate l'Israele secondo la carne: Quelli che mangiano i sacrifici non sono essi in comunione (koinonòi) con l'altare (= Dio)?... Io dico che le carni che i non ebrei sacrificano, le sacrificano ai démoni e non a Dio, ora io non voglio che siate in comunione (koinonoùs) con i démoni. Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei démoni; voi non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 18.20s).

Si hanno qui i seguenti parallelismi:
a) i giudei mediante le offerte sacrificali entrano in comunione con Dio (altare);
b) i pagani con i loro pasti (mangiare della carne, bere del vino) stabiliscono una comunione con i démoni;
c) i cristiani mangiando il pane e bevendo il vino entrano in comunione (koinonìa) con Gesù Cristo: « Avete koinonìa con il corpo e il sangue di Cristo» (1 Co 10, 16). Ma tale comunione con il Cristo non esige il cambiamento della sostanza del pane e del vino nel corpo e del sangue di Gesù, altrimenti in forza del parallelismo dovremmo concludere che anche le bevande dei pagani si sarebbero dovute cambiare sostanzialmente nei démoni, e il cibo degli ebrei in Dio, il che è assurdo.. Come gli ebrei attuavano una comunione con Dio (= altare) e i pagani una comunione con i loro dei, senza alcuna transustanziazione del cibo, così, in virtù del parallelismo, si deve concludere che anche la comunione con il Cristo si può attuare senza esigere la conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore.
Per mezzo di tale cena si avvera quindi una maggiore comunione (koinonìa) con il corpo e il sangue di Cristo: «Il calice delle benedizione che noi benediciamo, non è esso la comunione (koinonìa) con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è la comunione (koinonìa) con il corpo di Cristo?» (1 Co 10, 16).
L'espressione «il calice della benedizione che noi benediciamo» è tratta dagli usi giudaici ed era familiare ad ogni ebreo. I giudei «benedicevano », ossia lodavano Dio all'inizio e alla fine dei pasti, così avevano un calice della benedizione con il quale chiudevano i pasti. Anche la comunità cristiana ritenne questo modo di parlare, come risulta d Paolo e dalla Didachè (9, 10). Il « che noi benediciamo» viene usato per distinguere tale benedizione da quella simile dei giudei. Che si tratti di questo uso e non della « consacrazione » risulta chiaro anche dal fatto che Paolo non dice nulla per il pane, che avrebbe dovuto essere consacrato anch'esso.
Paolo, tra il puro ricordo intellettuale e la transustanziazione medievale, segue una via di mezzo: la cena è sì un ricordo (anàmnesis), ma un ricordo che stabilisce una maggiore comunione tra chi partecipa alla cena e il Cristo stesso, senza che vi sia trasformazione sostanziale dei simboli nel corpo e nel sangue di Gesù.
3. Del resto lo stesso Cristo ce ne diede la spiegazione (ritengo genuino il comando, perché i discepoli non avrebbero potuto ripetere i gesti di Gesù fin dall'inizio, se lui stesso  non ve li avesse invitati) quando disse agli apostoli: «Fate questo in memoria (anàmnesis) di me» sia per il pane (Lc 22, 14; 1 Co 11, 25) sia per il vino (1 Co 11, 25).
Il greco anàmnesis «ricordo ». «memoriale» indica usualmente un momento eretto per ricordare un defunto oppure una vittoria; poteva anche essere una festività. Dal testamento di Epicuro leggiamo: « E così avvenga per la festa che avrà luogo il 20 di ogni mese tra tutti quelli che hanno seguito con me lo studio della filosofia, in memoria nostra (eis tèn emôn mnèmen) e di quella di Metrodoro» (Diogene Laerzio, Epicurea 10, 18, p. 165). Lo riconosce chiaramente anche E. B. Allo nel suo magistrale commento alla prima lettera di Paolo ai Corinzi, anche se poi senza alcuna ragione filologica, spinto a quanto pare dal dogma cattolico, aggiunge che qui, in bocca a Paolo, tale parola significa « il rinnovamento del sacrificio della croce».

4) Tutta l'azione è un simbolo

Il significato della cena del Signore non sta soltanto nei simboli del pane e del vino, ma in tutta l'azione che si compie su di loro: «Quello che io realizzo sul pane spezzato e distribuito è il corpo di Gesù che sta per essere ferito e sacrificato per voi sulla croce »... «Quello che io attuo sul vino versandolo e distribuendolo da bere è il mio sangue che sta per essere versato in sacrificio a vostro favore» (Mt, Mc), oppure rappresenta «il nuovo patto che sta per essere sancito con il sangue da me versato» (Lc - Paolo). Per tale motivo il comando di Gesù non dice di recitare le parole della consacrazione, bensì di ripetere la medesima azione allora compiuta: « Fate questo in memoria di me» ( 1 Co 11, 24; Lc 22, 19).
Di conseguenza benché la parola «pane» (o àrtos) sia maschile in greco, il pronome che vi si riferisce (oùtos) non sta al maschile bensì al neutro (toùto), perché non si ricollega direttamente al pane, ma a tutta l'azione precedentemente compiuta che esige il neutro. Perciò, se riguarda tutta l'azione svolta e non solo il pane o solo il vino, non può indicare che questi due elementi si trasformino sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Cristo, come in passato si soleva dedurre dall'analisi del pronome « questo». Per questo motivo l'atto liturgico dei primi credenti si chiamava «cena del Signore» oppure «rottura del pane», per meglio sottolineare l'azione simbolica, anziché essere detta, come avvenne in seguito, consacrazione del pane e del vino. Il mutamento del nome è indice del cambiamento di concezione.
Innegabile è il rapporto tra l'azione di Gesù e quella simbolica compiuta da Ezechiele. Il profeta con un coltello affilato si rade barba e capelli, ne butta un terzo nel fuoco, un terzo lo taglia con la spada e un terzo lo disperde al vento, conservandone soltanto un piccolo numero che lega al lembo del proprio mantello. Poi continua: « Questo (è) Gerusalemme», vale a dire « la mia azione simboleggia ciò che sta per avvenire agli abitanti della Città santa» (Ez 5, 1-5). La frase finale, identica per costruzione a quella di Gesù, ci mostra come essa possa e debba avere un significato simbolico, senza esigere un sostanziale cambiamento dei due elementi del pane e del vino.

5. L'ebraico non ha il verbo «simboleggiare»

Se Gesù avesse voluto dire che l'azione simbolica compiuta sul pane e sul vino è soltanto un simbolo della sua morte in croce, ci si può chiedere come mai non abbia usato un verbo più chiaro e più esplicito, quale «simboleggia, significa » che avrebbe eliminato ogni ombra di dubbio, anziché adoperare l'enigmatico verbo «essere»? Per la semplicissima ragione che il verbo «simboleggiare » «significare», inesistente in ebraico o in aramaico, era espresso in queste due lingue semitiche accostando semplicemente il soggetto al predicato: «questo – mio corpo» o, nel greco biblico, con il verbo « essere»: «questo è il mio corpo». Tutte le volte che in una versione della Bibbia appare il verbo «significa», l'originale ebraico non ha alcun verbo e il greco presenta il verbo «essere».

a) A + B equivale ad «A rappresenta B»

E' la forma comune nell'Antico Testamento dove il verbo «essere» usualmente si sottintende in ebraico, per cui il simbolo è accostato direttamente alla realtà significata. « I tre tralci tre giorni», ossia «rappresentano tre giorni dopo dei quali il coppiere sarà riammesso al servizio del Faraone (Ge 40, 12); «I tre cesti tre giorni», ossia equivalgono a tre giorni dopo dei quali il panettiere del re verrà ucciso (Ge 40, 16). «Le sette vacche grasse sette anni e le sette spighe altrettanti sette anni», ossia « raffigurano» sette anni di abbondante raccolto (Ge 41, 26; cf pure il v. 27). Alla domanda del figlio « Che cosa queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni? (equivale a «che cosa sono, oppure significano queste istruzioni...? »), risponderai che, quando i nostri padri furono liberati dall'Egitto, Dio diede loro questi comandi » (Dt 6, 20). «Che queste pietre? », (ossia « che cosa sono (= significano) queste pietre?») Vi diranno i vostri figli e voi risponderete loro che le acque del Giordano si sono divise per lasciare passare gli Israeliti » (Gs 4, 6).
Anche la lingua aramaica non usava la copula: «L'albero dal fogliame bello tu, o re», dice Daniele, nella sua spiegazione del sogno di Nabucodonosor, intendendo dire «rappresentano te» (Dn 4, 22). Anche nelle parole dell'istituzione, parlando del calice, Luca segue tale uso perché scrive: « Questo calice la nuova alleanza», vale a dire «rappresenta» il nuovo patto stabilito tramite il sangue di Cristo (Lc 22, 20). Questa frase ci mostra come Gesù nell'originale aramaico (qui letteralmente tradotto in greco) non espresse la copula, ma accostò semplicemente il simbolo alla realtà significata.

b) «A é B» equivale ad «A rappresenta B»

E' la forma dominante nel Nuovo Testamento perché la lingua greca esprime il verbo «essere », sottaciuto invece nell'ebraico. « Che è questa parabola? », vale a dire «Che cosa significa la parabola del seminatore? » (Lc 8, 4). Poi Luca continua: « Il seme è la parola di Dio »; « quei semi che sono nella roccia sono coloro che hanno udito ma restano soffocati dalle cure e dalla ricchezza»: « quel seme che è caduto in buona terra sono coloro che ritengono la parola in un cuore onesto » (Lc 8, 11.13.14.15). In queste frasi le varie parti del seme, cadute in terreno diverso, «raffigurano» le persone che rispondono diversamente alla parola divina sparsa nei loro cuori.
Paolo usa spesso tale forma: «
Agar e Sara sono (= rappresentano) le due alleanze ». «Agar è (rappresenta) il monte Sinai » (Ga 4, 24; cf 1 Co 11, 26). « La roccia che seguiva gli ebrei nel deserto era (= rappresentava) il Cristo » (1 Co 10, 3 s). Anche nell'Apocalisse si legge: « Le sette stelle sono (= rappresentano) gli angeli delle sette chiese e le sette lampade sono (= rappresentano) le sette chiese » (Ap 1, 20).
E' quindi naturale che Gesù, pur volendo indicare, come abbiamo visto precedentemente che l'azione sul pane e sul vino era solo simbolo del sacrificio di Gesù sulla croce, abbia usato il verbo essere, anziché quello inesistente di «
simboleggiare ». Si può quindi concludere questo studio con le parole del benedettino J. Dupont:

Dicendo: questo è il mio corpo; Gesù non afferma necessariamente che la sostanza del pane è cambiata nella sostanza del suo corpo; nel modo di pensare di un semita e della Bibbia stessa il senso più naturale sarebbe: Questo significa il mio corpo, rappresenta il mio corpo. Si ricordi Ezechiele (5, 1-5) che dice dei suoi capelli: Questo è Gerusalemme, ossia questo è il simbolo di Gerusalemme; simbolo nell'ordine dell'azione; ciò che è avvenuto ai miei capelli deve riprodursi anche per Gerusalemme. Abbandoniamo quindi senza esitare un argomento troppo semplicista, che non prova proprio nulla (J. Dupont, Ceci est mon corps, ceci est mon sang, in Nouv. Rev. Theol. 90 (1968) 1025-1044, p. 1037).

6) Un obiezione: Offesa al pane offesa a Gesù?

Se ben si riflette al fatto che il pane e il vino sono l'immagine del Cristo risorto, si vede come sia inconsistente l'obiezione di C. Wisemann:

Un uomo non può essere colpevole di lesa maestà a meno che la maestà regale non esista nell'oggetto contro il quale si commette il crimine di lesa maestà. Così uno non può offendere il corpo e il sangue di Cristo nella beata Eucaristia, se queste cose non vi sono presenti (C. Wisemann, Lectures in the Real Presence of Jesus Christ in the Blessed Eucharist, London 1836, p. 319).

Si ricordi tuttavia che si offende il capo di uno stato o il papa, quando si brucia una loro statua o un loro ritratto; che si offende una nazione quando se ne strappa la bandiera per il semplice motivo che tali oggetti, pur non essendo sostanzialmente quelle persone e quello stato, di fatto li raffigurano. Per un cattolico un'offesa compiuta verso un'immagine del Cristo o di Maria viene considerata un sacrilegio contro il Cristo stesso e Maria, anche se di fatto Gesù e Maria non vi sono sostanzialmente presenti. Il culto rivolto a una reliquia, che storicamente fosse falsa, non è una male secondo la dottrina cattolica, perché il culto va alla persona ricordata da quella reliquia senza arrestarsi alla reliquia in se stessa. Anche se questi esempi non sono conformi al pensiero biblico, di fatto confermano il principio che non deve essere sostanzialmente presente una persona per offenderla; la si può offendere anche maltrattando ciò che la rappresenta (fotografia, ambasciatore, ecc.). Dunque lo stesso vale per la cena del Signore che deve essere compiuta con serietà: « Perciò chiunque mangerà il pane e berrà il vino del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore» (1 Co 11, 17).
Mi si permetta di concludere questo studio con una citazione tratta da un recente libro del noto studioso protestante Eduard Lohse:

L'idea di una mutazione degli elementi, di una transubstanziazione è del resto così poco presente nel Nuovo testamento come poco lo è un particolare interesse per gli elementi stessi della cena come tali: pane/vino-corpo/sangue. Proprio la correlazione corpo/alleanza che troviamo in Paolo e Luca mostra che tutto sta nell'azione, nel compimento del rito. E' nel celebrare questa azione che la comunità sa di essere unita al suo Signore (E. Lohose, La storia della passione e morte di Gesù Cristo, Studi Biblici 31, Brescia, Paideia 1975, p. 65).

7) La questione sacrificale

Di solito si prova l'esistenza del sacrificio eucaristico (S. Messa) mediante la profezia di Malachia e tramite alcune riflessioni su determinati passi neotestamentari, che dobbiamo quindi esaminare sia pure brevemente.

a) Malachia
Per condannare la grettezza dei sacerdoti ebraici che gli offrivano animali tarati e quindi impuri, Dio così dice:

Dal sorgere del sole al suo calare grande è il mio nome tra le nazioni e in ogni luogo mi si offre incenso e un'offerta pura (minchah) perché grande è il mio nome tra le nazioni, dice il Signore degli eserciti (Ml 1, 11).

Il Concilio di Trento nella sua sessione XXII ha così commentato il passo: «(la messa) è appunto quel puro sacrificio predetto per bocca di Malachia e che sarebbe offerto in ogni luogo» (Denz. Sch. 1742).
Questo sacrificio è detto minchàh, vocabolo che primariamente, anche se non esclusivamente, consisteva nell'offerta incruenta di fiore di farina (Lv 2, 1-5). L'incenso è solo un dato figurato per indicare le preghiere dei Santi. Alcuni teologi protestanti identificano invece la profezia con i sacrifici del popolo cristiano consistenti in preghiere e sacrifici spirituali inerenti ad una vita veramente cristiana (cf Rm 12, 1 ss; Eb 13, 15).
Va tuttavia ricordato che il sacrificio di cui parla Malachia non si riferisce a una realtà futura da riservarsi all'epoca messianica, per la quale il profeta usa sempre il tempo futuro (Ml 3, 1-5. 16-21), ma di un fatto già realizzatosi durante la sua vita, come è suggerito dal participio presente.
Inoltre il sacrificio minchah non è riservato all'offerta del fiore di farina, ma è riservato pure per l'agnello offerto da Abele (Ge 4, 4 cf 1 Sm 2, 15). Inoltre se si intende il sacrificio (minchah) come qualcosa di reale, non si capisce perché l'incenso debba essere al contrario preso in senso simbolico e non reale. Se il sacrificio di cui parla Malachia si riferisce al 5° secolo a.C., a che cosa allude?
1. Alcuni hanno pensato ai sacrifici pagani che le genti, pur ignorandolo, avrebbero rivolto al Dio degli ebrei indicato con nomi diversi. per questo il Pope così cantava:

Padre di tutti! In ogni età,
in ogni dimora adorato
dal santo, dal selvaggio e dal saggio;
Jehova, Giove, o Signore!

Così anche il Lods così scrive:

In una diatriba indignata contro i sacerdoti negligenti, Malachia ha l'ardire di dichiarare che Jahvè è onorato dal culto a lui offerto dall'universo intero molto meglio che da quello celebrato nel tempio di Gerusalemme (Lods, Les Prophètes d'Israel, Paris 1935, pp. 313ss).

Le parole di Malachia significherebbero dunque che Dio non ha bisogno dei doni giudaici perché tutti i pagani, anche se offrono in apparenza sacrifici ad altri dei, siano essi Ormuz, Zeus, Osiride, di fatto sacrificano al vero Dio. Malachia sarebbe dunque il più tollerante dei sincretisti religiosi.
Tuttavia, di fronte alle critiche bibliche contro l'idolatria (Sl 115, 3-8; Ez 14, 1-8; Rm 1, 18-23) è difficile pensare che Dio abbia ispirato a Malachia una simile frase di intonazione tanto larga. Essa equivarrebbe a dire che Jahvè preferisce il culto rivolto a Giove, perché è Jahvè che i pagani adorano sotto il nome di Zeus.
2. Malachia intende parlare dei sacrifici che gli ebrei della dispersione offrono, perché costoro sono i veri giudei che tengono alto il suo nome tra tutti i popoli e si mostrano ben più religiosi dei palestinesi. Gli ebrei infatti non erano tutti rimpatriati al tempo di Esdra e Neemia (V secolo), come ci assicura Giuseppe Flavio:
La maggioranza del popolo rimase in quella regione. Quindi solo due tribù in Asia e in Europa sono sottomesse ai romani; le altre dieci tribù stanno al di là dell'Eufrate e la loro gente è innumerevole.
Per la loro pietà, si ricordi che il famoso rabbino Hillel venne da Babilonia, come fecero più tardi anche R. Hiyya e i suoi figli. In Babilonia sorse il Talmud babilonese; a Babilonia si recò Pietro per visitare i giudeo-cristiani (1 Pt 5, 13). Quivi gli ebrei «adoravano il nome di Dio» (Baruch 2, 30-32); i suoi abitanti erano simboleggiati da un cesto di fichi buoni, mentre quello con i fichi marci raffigurava Gerusalemme (Gr 24, 1-10).
Gli ebrei della diaspora mandavano doni a Gerusalemme, i quali erano protetti contro eventuali furti da migliaia di robusti giudei che li accompagnavano. Essi mandavano pure le loro offerte sacrificali al tempio di Gerusalemme, dove si recavano in pellegrinaggio (At 2, 9).
Sembra tuttavia che Malachia parli di sacrifici compiuti in tutte le parti del mondo e dalle nazioni (goyim) e non di quelli inviati dagli ebrei a Gerusalemme. Il profeta afferma infatti che il suo nome è grande «tra le nazioni» e non «tra gli ebrei dispersi nelle nazioni». E' quindi necessario tentare un'altra soluzione.
3. Le nazioni sono quelle sottoposte al regno persiano, il cui fondatore Ciro era considerato «re delle nazioni». Il montone che cozza contro tutti gli altri imperi «a occidente, a settentrione e a mezzogiorno» è simbolo dell'impero persiano (Dn 8, 4). Ciro, scelto dal Signore, che lo chiama «suo eletto» (Is 45, 1 s) è il «pastore di Dio» (Is 44, 28). Egli «mosso dalla giustizia di Dio» rimanderà i giudei deportati e ricostruirà la città sacra (Is 45, 13), dopo aver rovesciato gli idoli di Babilonia (Is 46, 1). I persiani adoravano il Dio Ahura-Mazda, assai vicino allo Jahvè ebraico, il Dio della luce e dei cieli, con il quale in un certo senso poteva essere identificato. Nessuna pietra porta incisi i suoi lineamenti; nemmeno il segno spesso inciso sulle rocce è il suo nome: Ahura-Mazda è soltanto una parola, che nasconde e circoscrive il suo vero nome, che non può essere scritto, né pronunciato dai fedeli e che soltanto poche labbra conoscono segretamente. Egli abita nella luce infinita e creata, il sole è l'occhio di Ahura-Mazda, il cielo il suo mantello, di cui nessuno riesce a vedere le ultime frange, le stelle sono le sue spie. Il fuoco sacro ne è il suo simbolo. Dio domina l'universo: «L'Eterno, il Dio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra e mi ha comandato di edificargli una casa in Gerusalemme» (Ed 1, 2). Il persiano Dario scrive: «a tutti i poli, a tutte le nazioni e lingue che abitano sulla terra... Io decreto che in tutto il dominio del mio regno si tema e si tremi davanti al Dio di Daniele» (Dn 6, 26 ss). Il culto persiano, privo di immagini, accompagnato dall'offerta dell'incenso, caratterizzato dall'unicità del loro Dio, li ha indubbiamente elevati nella considerazione degli ebrei, che proprio sotto i persiani poterono tornare in Patria. Era quindi possibile che Malachia parlasse del nome di Jahvè stimato tra tutte le nazioni per ordine del re persiano e al quale si offrivano sacrifici a lui più graditi di quelli ebraici. Ad ogni modo, qualunque interpretazione si segua, è difficile vedere in questo passo un qualsiasi nesso profetico con il sacrificio eucaristico.

b) Le parole della consacrazione

Nell'ultimo atto in cui stabilì l'eucaristia, Gesù pronunciò le parole: «Questo è il mio sangue che si versa (in questo momento ekchunnòmenon) per la salvezza dei peccati» (Mt 26, 28). «Questo è il mio corpo che si dà per voi (didòmenon)» (Lc 22, 19). Il participio presente fa capire che in quell'attimo si attuava un vero sacrificio eucaristico, dal momento che quello sulla croce si doveva realizzare più tardi.
La migliore risposta viene data dal noto gesuita M. Zerwick, che così scrive:

Al posto del participio futuro si usa il presente (come in ebraico ed aramaico)... Questo deve essere tenuto in mente quando si vogliono interpretare le parole dell'istituzione eucaristica (Lc 22, 19 s; toûto estin tò sôma ti uper umôn didomenon («dato per voi»), che va inteso in senso atemporale... toûto to potérion to uper umôn ekchunnomenon («versato per voi», similmente). Un argomento teologico del carattere sacrificale dell'ultima cena non può essere basato sul fatto che i participi sono al presente, mentre se si riferiscono al sacrificio dovrebbero essere al futuro (M. Zerwick, Biblical Greek, Roma, Biblico 1963, pp. 95-96 (n. 283); Grecitas biblica, Roma 1949, p. 65).

Anche il Dupont osserva:

Non si può concludere da questi presenti che i discepoli hanno sotto gli occhi il corpo del Signore già attualmente sacrificato, il suo sangue già attualmente versato. Il participio futuro non è quasi più adoperato dagli autori del Nuovo Testamento, il presente lo sostituisce particolarmente nel caso di un futuro prossimo o di un futuro certo. O erchòmenos non è colui che viene attualmente, ma colui che deve venire; oi sozòmenoi non sono le persone attualmente salvate, ma che sono destinate alla salvezza. La Volgata ne traduce bene il senso quando usa il futuro: sanguis qui pro multis effundetur. Si tratta del corpo che sta per essere ucciso, del sangue che è sul punto di essere versato (J. Dupont, Ceci est mon corps, a.c., in Nouv. Rev. Theol. 1958, pp. 1037).

A questi esempi se ne possono aggiungere altri. Nella preghiera sacerdotale Gesù dice: «Io prego non solo per questi ma anche per quelli che avrebbero creduto (part. presente) a loro», vale a dire per quelli che in seguito avrebbero creduto in Gesù per mezzo degli apostoli (Gv 17, 20). Gesù «il nascente» (to gennomenon) è colui che sta per nascere (Lc 1, 35), egli è «segno che si contraddice» (antilegòmenon participio presente), ossia colui che sarà contraddetto in futuri (Lc 2, 34. Si può quindi concludere che l'argomento filologico non serve a nulla.

c) Il confronto di Paolo con i sacrifici giudaici e pagani

Un altro testo per la teologia cattolica sembra suggerire che anche la cena del Signore sia un sacrificio: «Non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 20s). Tuttavia i pasti sacrificali presso i giudei e i gentili non erano propriamente un sacrificio, ma un modo di prendere parte ai benefici del sacrificio prima compiuto. Erano un convito sacro, con una successione di riti, le carni della vittima già prima sacrificata. Anche la cena del Signore non è quindi un nuovo sacrificio, ma un modo di partecipare ai benefici dell'unico sacrificio compiuto da Gesù sul Calvario.

Per convincersi della validità di questo ragionamento suggerisco di leggere un articolo del cattolico T. Barosse, che così è da lui sintetizzato:

Il parallelo stabilito da Paolo tra l'Eucaristia e le thysiai (cene sacrificali) giudaiche sembra basato sugli effetti simili del mangiare l'Eucaristia e le thysiai, piuttosto che sul desiderio di affermare il carattere sacrificale del rito cristiano (T. Barosse, The Eucharist. Sacrifice and Meal? An Examination of the New Testament Data, in Yearbook of Liturgical Studies 1966 p. 74).

Non vi è quindi nella Bibbia alcun testo che documenti l'esistenza del sacrificio eucaristico, il quale anzi è in contrasto con l'affermazione biblica che unico è il sacrificio cristiano, quello della croce.

 


CAPITOLO QUARTO
LA CENA DEL SIGNORE NEL NUOVO TESTAMENTO
 


Indice

1) Per Gesù l'ultima cena era un segno prefigurativo
2) Per i cristiani la cena è un segno che parla di Gesù
3) La cena del Signore è una comunione
4) La cena è una predicazione ai non credenti
5) La cena preludio del convitto finale
6) Conseguenze teologiche della cena cristiana


Risvegliati! Risvegliati! Guarda! vedi!
su tutte le vette, e su tutte le pianure,
su tutte le chiuse valli, su tutti gli aperti golfi,
su tutti gli arcipelaghi, su tutti gli oceani,
hanno apparecchiato la tavola umana!
E, sulla tavola fatta del legno di tutti i boschi,
ecco hanno messo un'universale tovaglia
tessuta con tutte le luci del cielo.
E, il coperto è messo, e le coppe benedette,
e intorno la creazione.
Ed ecco, fra gli animali
la cui vita sovrabbonda,
davanti a tutti gli umani, il lupo e l'agnello
fanno la pace del mondo!
...
Alzati! Alzati! Il tuo posto in mezzo a loro è vuoto,
e i loro visi sono felici,
intorno alla tavola immensa!
Guarda: hanno spezzato il pane!
Guarda: hanno alzato il calice del vino!
Ascolta: hanno pregato nel silenzio:
la santa cena umana incomincia!

(Edmond Fleg, poeta ebreo, m. 1963)

Per ben capire i vari significati simbolici ed evocativi, racchiusi nella cena del Signore, occorre richiamare il valore insito nel segno biblico.

1) Per Gesù l'ultima cena era un segno prefigurativo
Le azioni profetiche, compiute per volere di Dio, mostravano che ad esse sarebbe ineluttabilmente seguita la realtà presignificata; anzi il compimento futuro della profezia avrebbe dato la prova che i profeti agivano davvero in nome di Dio (Dt 18, 21s; Ez 13, 6s).
Quando mise a marcire la propria cintura nelle acque dell'Eufrate o ruppe un vaso in presenza del popolo, Geremia profetizzava con tali gesti che il legame tra Dio e Israele ormai era spezzato e che ineluttabilmente Gerusalemme sarebbe stata distrutta (Gr 13, 1-11; 19, 1-13). Quando si pose un giogo sulle spalle, lo stesso profeta presignificava che la futura sottomissione degli abitanti di Gerusalemme a Nabucodonosor, re di Babilonia, era inevitabile e quando occultò le fondamenta del trono di Nabucodonosor nel delta del Nilo compì un gesto che necessariamente sarebbe stato completato con la realtà del futuro dominio assiro su quella regione egizia (Gr 27, 2; 43, 10). Gli atti compiuti da Ezechiele (bagaglio da deportato, mangiare del pane con paura, bere l'acqua con trepidazione) indicavano che senza dubbio gli ebrei dovevano andare esuli da Gerusalemme in Mesopotamia (Ez 12, 3-71).
Con i segni profetici « gli atti dell'uomo di Dio fanno entrare anticipatamente nella realtà gli eventi futuri da essi prefigurati. L'atto compiuto costituisce una parte – già realizzatasi – dell'evento preannunciato e divine così garanzia del suo necessario adempimento totale» (A. Lods, Prophètes d'Israel et les debuts du Judaisme, Paris 1935, p. 59).
Un esempio chiarissimo di questa assimilazione tra segno e realtà l'abbiamo nel caso di Eliseo che dice a Joas, re di Israele, di scagliare dalla sua finestra delle frecce in direzione di Damasco. Al primo colpo il profeta afferma: «E' la freccia della salvezza del Signore, è la freccia della salvezza contro la Siria; tu batterai la Siria in Afec fino allo sterminio». Scagliate altre due frecce, Joas si arresta d'improvviso suscitando l'ira di Eliseo, che dichiara: «Se tu avessi percosso la terra cinque, sei o sette volte, avresti percosso la Siria fino alla sterminio, mentre ora non la vincerai che tre volte soltanto» (2 Re 13, 14-19). Le frecce evocano inesorabilmente altrettante vittorie, che erano una realtà già contenuta nel segno che le prefigurava.
Molte persone cercavano anzi di addurre con i loro gesti la realtà, che però si avverava solo quando era Dio a volere tale segno (così si distingueva il vero dal falso profeta).Mentre Geremia se ne andava in giro con un giogo al collo, il falso profeta Aanania per eliminare tale segno, glielo spezzò sperando in tal modo di distruggere la realtà prefigurata e in esso contenuta; ma il profeta di Dio gli rispose: «Tu hai spezzato il giogo di legno, ma in sua vece ne hai costruito uno di ferro » (Gr 28, 10-13).
Un'azione profetica che per il suo modo di esprimere s'accosta più delle altre alla cena del Signore è quella di Ezechiele, che dopo essersi tagliato con un rasoio barba e capelli, in parte li bruciò, in parte li tagliò con una spada o li disperse, e in parte se li pose in seno, concludendo: « Questo è Gerusalemme» (Ez 5, 1-5). Egli intendeva: l'azione che ho compiuta sui miei capelli è segno di ciò che necessariamente si attuerà per Gerusalemme, la quale sarà bruciata, mentre i suoi abitanti verranno in parte uccisi, in parte deportati in modo che ne rimanga per Dio solo un piccolo resto. Quando Geremia prese un vaso, lo portò fuori della porta di Gerusalemme e lo spezzò in presenza del popolo, avrebbe potuto dire: « Questo (siete) voi» (Gr 19, 1-15).
Gesù, che durante la sua vita pubblica compì varie azioni profetiche, nell'ultima cena, preso del pane, attuò su di esso l'azione simbolica della rottura e della distribuzione accompagnandola con le parole esplicative: den gufi (secondo altri den bisri), vale a dire: il mio corpo – ossia me stesso – è questo. Con il gesto profetico della rottura egli preannunziava la propria morte. prendendo del vino e distribuendolo ai suoi discepoli mentre diceva den idmi, Gesù presignificava che la sua morte si sarebbe avverata con l'effusione del proprio sangue (morte violenta) a favore di quanti avrebbero creduto in lui. L'azione compiuta liberamente da Gesù era non solo una profezia, ma quasi un dare già corpo all'evento, che dopo tale gesto diveniva inevitabile. Era un dire che Gesù. nonostante la sua naturale opposizione alla morte – si pensi alla scena del Getsemani (Lc 22, 42) –, con tale gesto profetico metteva in movimento quel complesso di cause che l'avrebbero condotto alla morte. Dando un pezzo di quel pane a Giuda Iscariota, Gesù compiva un atto simbolico assai efficace, che contribuiva a mettere in atto il suo tradimento e di conseguenza la propria morte. Tale gesto confermava le parole di Gesù riportate da Giovanni: « Nessuno mi toglie (la vita) ma io la depongo da me stesso per ripigliarla poi. Tale compito ho ricevuto dal Padre» (Gv 10, 18)
Il gesto compiuto da Gesù nell'ultima cena era l'offerta della propria vita, perché egli ben sapeva che dopo tale atto profetico compiuto volontariamente, non vi sarebbe più stato alcuno scampo, in quanto con esso la sua morte diveniva inevitabile. La cena, supremo atto d'amore di Gesù, è quindi introdotta da Giovanni con le parole: « Li amò sino alla fine » ossia fino al massimo consentito a un uomo.
Il tardo giudaismo a proposito dei patriarchi e dei messaggeri di Dio parla di un banchetto di addio nel quale l'uomo di Dio dona la sua benedizione sui discendenti e sui discepoli (cf Giubilei 22, 1-9; 31, 22s; Testamento di Neftali 1, 2). Similmente Gesù in questo banchetto di addio annunzia con un'azione simbolica che mediante la sua morte imminente egli avrebbe dato ai suoi discepoli (raffigurati dai Dodici) le benedizioni della nuova alleanza già preannunziate dai profeti e che avrebbe lui stesso suggellato con la sua morte ormai prossima. Nella cena Gesù si presenta come il servo di Dio, che va incontro alla morte espiatrice e che cammina verso la vittoria escatologica.
 
2) Per i cristiani la cena è un segno che parla di Gesù
Un gesto parla con più realismo della parola, perché penetra nelle più profonde zone dell'essere umano, dove il linguaggio comune non può arrivare. E' ciò che cercano di evocare gli studi sulla moderna psicologia dell'inconscio. Un eccellente discorso sul valore del cibo non avrà mai la stessa efficacia del mangiarlo.. Gesù, precorrendo le scoperte psicologiche contemporanee, ha capito che il modo migliore per far capire come egli sia il cibo dell'uomo, è quello di farci mangiare del pane. Quindi egli ha voluto che i cristiani partecipassero alla cena creata in suo ricordo: « Fate questo in memoria di me» (1 Co 11, 24-25). La « memoria» qui suggerita è duplice, in quanto può riferirsi tanto a Dio quanto ai credenti che partecipano alla cena, assumendo di conseguenza un significato del tutto diverso.
a) Riferita a Dio «la memoria» significa: ciò si compie perché egli ricordi quanto Gesù ha fatto per noi
Tale era il senso dei dodici pani di fior di farina non lievitati, simbolo delle dodici tribù di Israele, che stavano di continuo sull'altare del santuario e sui quali si offriva ogni sabato un po' d'incenso puro « come memoriale» (azkarah) perché Dio non dimenticasse il patto stabilito con il suo popolo: « Ogni giorno di sabato si disporranno i pani davanti al Signore, di continuo; da parte degli Israeliti (in) alleanza eterna», vale a dire come segno dinnanzi a Dio del patto eterno stabilito con le dodici tribù di Israele (Lv 24, 8). Il termine «memoria, memoriale » (eb. zikkaron) si applicava pure ai nomi delle dodici tribù incisi sulle pietre preziose ornanti le spalle del sommo sacerdote e delle dodici pietre preziose del suo « pettorale » (Es 28, 12-19). Nei momenti più sacri, quando il sommo sacerdote entrava «davanti al Signore » nella parte più intima e sacra del tempio, essi richiamavano a Dio il ricordo dell'alleanza stabilita con le dodici tribù di Israele: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Ez 37, 27; cf 2 Co 6, 16).
Il ricordo divino non è soltanto intellettuale, ma si trasforma in azione benefica o punitiva. Quando ricorda i peccati dell'uomo, Dio li punisce; egli ricorda le colpe dell'umanità e le punisce con il diluvio (Ge 9, 15 ss), i delitti di Roma e ne distrugge la città, le iniquità di Israele e ne disperde la gente in schiavitù « essi torneranno in Egitto» (Os 8, 13).
Quando Dio ricorda il bene è per premiarlo: ricorda Abramo per benedirne la stirpe (Ge 19, 29), Davide per attuarne le promesse (Sl 132, 1), «il suo patto» e dà la Palestina ai figli di Abramo (Sl 105, 8; 111, 5), Anna e le fece avere il figlio desiderato: « O Jahvè Zebaot. Deh! Guarda all'afflizione della tua schiava e ricordati di me. Non dimenticare la tua schiava e donale un figlio: ... e Jahvè si ricordò di lei, perciò mise al mondo un figlio » (1 Sm 1, 11-19).
Anche un segno può ricordare a Dio le sue promesse: l'arcobaleno gli ricorda la promessa di non voler più annientare l'umanità con il diluvio (Ge 9, 14 s). I nomi delle tribù sull'abito sacerdotale e i pani presentati dinnanzi all'altare, come abbiamo visto sopra, gli ricordano il patto stabilito con Israele affinché egli non vi venga meno.
Si tratta evidentemente di un modo antropomorfico di esprimersi, perché Dio non dimentica mai le sue promesse. Tale espressione vuole solo tenere viva nei Giudei la fiducia in quel Dio che ha fatto le sue promesse, che di continuo gli dona sicurezza; anche in mezzo alle prove più dolorose, egli farà sussistere il suo popolo e lo ricondurrà nella terra promessa anche dai luoghi dell'esilio.
Quando i cristiani partecipano alla cena del Signore, Dio ricorda il nuovo patto d'amore stabilito nel sangue di Cristo, per proteggere il suo nuovo popolo in ogni difficoltà. I credenti non sono soli; Dio è con loro. In quel momento Gesù compie la sua funzione di avvocato presso il Padre: «non solo per i nostri peccati, ma anche per quelli del mondo intero» (1 Gv 2, 1-2). Anche in questo caso, Dio non ha bisogno di un simile segno per ricordare i suoi discepoli; sempre se ne ricorda e li protegge. Il segno della cena assicura i cristiani dell'amore e dell'aiuto divino e accresce la loro fiducia nel Padre e in Gesù avvocato di tutti gli uomini.
b) I cristiani ricordano la morte di Gesù
Il termine ebraico zikkârah (aramaico dukrân?) era adoperato anche per la Pasqua giudaica: «Questo giorno sarà un memoriale (zikkarôn); lo celebrerete come la festa di Jahvè. Di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perpetuo» (Es 12, 14). « Sarà per te un segno sulla mano e un memoriale per i tuoi occhi, affinché la legge del Signore sia nella tua bocca. Infatti con mano potente il Signore ti ha fatto uscire dall'Egitto» (Es 13, 9). « Per sette giorni mangerai degli azzimi, pane dell'afflizione, perché uscisti in fretta dall'Egitto, affinché tu ti ricordi (tizkôr) del giorno che uscisti dal paese dell'Egitto tutto il tempo della tua vita » (Dt 13, 3). Qui sono gli uomini a ricordare la salvezza donata da Dio.Mentre mangia le erbe amare, il popolo ebraico rivive la dolorosa esperienza di quando era schiavo in Egitto; mentre si ciba dell'agnello pasquale, rinnova la gioiosa esperienza di essere stato preservato dalla morte dei primogeniti che colpì invece gli Egizi e di aver così ottenuto la liberazione dall'Egitto.
Quando il cristiano mangia il pane e il vino della cena del Signore rivive l'esperienza dell'amore di Gesù che con la sua morte in croce è divenuto per noi il pane di vita. Un artista riproduce con il suo strumento musicale la stessa melodia che ha allietato gli animi quando fu composta e ristabilisce la stessa atmosfera di gioia o di dolore, di esaltazione o di sconforto che l'ha originata. Mediante i segni del pane che si mangia e del vino che si beve si ricrea l'atmosfera di amore e di perdono misericordioso quale si è avverata sulla croce. Nella cena il credente esperimenta che Gesù è il suo pane di vita e che è divenuto tale con la sua morte espiatrice.
1. Gesù è il pane di vita. Il pane evoca per sua natura il nutrimento, perché presso tutti i popoli del mediterraneo e del Medio Oriente esso era il prodotto base dell'alimentazione. Chi non ha pane è destinato a morire: la vedova di Sarepta ad Elia, che le chiedeva del pane, risponde: «Com'è vero che Jahvè il tuo Dio vive, del pane non ne ho. Ho solo una manciata di farina in un vaso e un po' d'olio nell'ampolla. Ne farò una focaccia per me e per mio figlio con questi due pezzi di legno che sto raccogliendo. La mangeremo e poi moriremo» (1 Re 17, 12).
Nel deserto il popolo di Israele rimpianse il pane che lo nutriva in Egitto, mentre lì nella steppa sinaitica non aveva né pane né acqua ed era quindi destinato a perire (Es 17, 3: Nm 21, 5). Per evitare che la gente venisse meno per la strada, Gesù moltiplicò miracolosamente sette pani e ne sfamò la gente (Mt 5, 23 ss). Sfortunato chi è costretto a mendicare il pane altrui perché non può guadagnarselo per conto proprio; però è ancora più triste la sorte di quei ragazzi che chiedono del pane, ma nessuno glielo può dare (1 Sm 2, 5; Lm 4,4).
I cristiani quando mangiano del pane, reso segno del corpo, vale a dire della persona di Gesù, esperimentano che questo è il nutrimento spirituale, datore e conservatore di vita. L'uomo « che non vive di solo pane» (Dt 8, 3; Mt 4, 4) è tenuto in vita dal quel Gesù che gli si presenta come « il pane sceso dal Cielo» (Gv 6, 35).
2. Gesù è pane vivificante, perché ha dato il suo sangue per noi. Il sacrificio di Gesù è la radice che ha reso Gesù pane di vita per l'umanità che a lui si affida. Il sangue era ed è sinonimo di vitalità, perché mentre esso fuoriesce dal corpo, ne fa uscire progressivamente anche la vita, per cui l'antico ebreo diceva: «il sangue è la vita» (Ge 9, 4). Dal momento che la vita è dono divino, le antiche mitologie della Mesopotamia facevano impastare il primo uomo con il sangue di un Dio. Invece la Bibbia, priva di simili presentazioni mitologiche, fa capire che la vita è dono divino obbligando l'uomo ad offrire a Dio il sangue dell'animale ucciso, che va versato sull'altare, o almeno per terra, senza mangiarlo nemmeno assieme alla carne (Lv 17, 7-11; cf At 15, 29).
Il sangue serviva per suggellare un'alleanza. Mosè, quando ebbe promulgato (sul Sinai) «ogni comandamento della legge a tutto il popolo, prese il sangue dei vitelli e dei capri... lo asperse sul popolo e sul libro dicendo: Questo è il sangue del patto che Dio volle contrarre con voi» (Eb 9, 19-21; cf Lc 22, 20).
Il sangue dei sacrifici aveva pure un valore espiatorio: « Siccome la vita di una persona sta nel sangue, io do il sangue per espiazione a favore della vostra vita. Infatti è il sangue che espia » (Lv 17, 11). Con il sangue si purifica un colpevole dai suoi peccati (Lv 16), un lebbroso, una casa contaminata, un altare, il sommo sacerdote (Lv 14, 8), per cui si può concludere: « Senza effusione di sangue non vi è remissione» (Eb 9, 22).
Anche il sangue di Gesù ha sancito la nuova alleanza non con un popolo, come aveva fatto il patto sinaitico che riguardava solo gli ebrei, bensì con l'intera umanità. Quindi Matteo può scrivere: «Il sangue dell'alleanza è questo atto che io compio sul vino» (Mt 26, 28; Mc 14, 24). E ancor più chiaramente Luca: « Questo calice (su cui agisco versandone il vino) è l'alleanza che io stabilisco nel mio sangue» (Lc 22, 20; 1 Co 11, 25).
Con l'alleanza nuova firmata con il sangue di Gesù si è compiuta anche la purificazione dei peccati dell'uomo:
« Il Cristo non ha offerto il sangue di capri e vitelli, ma ci ha liberati per sempre dai nostri peccati offrendo il suo sangue per noi... Quanto più efficace il sangue di Cristo... Il suo sangue purifica la nostra coscienza dalle opere morte e ci rende adatti a servire il Dio vivente » (Eb 9, 12-14; cf Lv 16, 14-16; Eb 10, 19; 1 Pt 1, 18-19; 1 Gv 1, 7).
Come simboleggiare questo sangue nella cena del Signore? Non vi era simbolo più adatto del vino. Il vino, sia per il colore rosso, sia perché spremuto dagli acini, sia per la sua efficacia corroborante (era usato come medicina), si prestava a divenire un simbolo naturale del sangue che sprizza dai pori, ha il medesimo colore rosso e dà vitalità ad una persona. Non fa quindi meraviglia che verso il quarto millennio a.C. gli antichi Sumeri chiamassero la vite « albero di vita », e la stessa vita fosse raffigurata da un pampino. Il condottiero vittorioso spiega come mai le sue vesti siano imbrattate di sangue, mettendo in parallelismo la spremitura dell'uva con lo sprizzare del sangue nemico:
Nel vino ho pigiato da solo dei popoli, nessuno era come; è sprizzato il loro sangue sulle mie vesti, e tutti i miei abiti sono macchiati (Is 63, 1-3).
Per tale motivo, al posto dell'antica offerta del sangue, propria dei sacrifici cruenti, Gesù ha voluto utilizzare il simbolo del vino, che non di rado si offriva già in passato, come libagione a Dio.
Bevendo il vino, i cristiani ricordano che la morte di Gesù, simboleggiata dal vino versato, ha dato inizio alla nuova alleanza di Dio con gli uomini i cui peccati per mezzo suo ottengono espiazione.

3) La cena del Signore è una comunione
La cena del Signore non è un puro ricordo intellettuale, ma crea una maggiore comunione con Cristo e con i fratelli.
a) Comunione con Gesù Cristo
Il cristiano è già in unione con Gesù, perché con il battesimo si riveste di Cristo (Ga 3, 27). Nella sua preghiera sacerdotale, poco prima di morire, Gesù disse: «che io sia in loro e loro in me» (Gv 17, 23).
Paolo dichiara: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Ga 2, 20).
Lo stesso apostolo pregava: «Piego le mie ginocchia... perché Dio vi conceda che, per mezzo della fede, il Cristo dimori permanentemente nei vostri cuori» (Ef 3, 17).
Cristo è poi presente in modo spirituale dovunque due o tre sono riuniti nel nome di Gesù (Mc 18, 20). Cristo, il capo, non può essere assente là dove si riunisce il suo corpo.
Vi sono però dei momenti della vita nei quali le realtà diventano più reali. Nel momento in cui partecipo al culto, leggo le Scritture e prego, Dio è presente in modo come non lo è quando lavoro nella cucina, nei campi, in uno stabilimento (Joseph R. Schultz, The Soul of the Symbols. A Theological study of Holy Communion, Grand Rapids (Michigan), Eerdmans Publ, Company, 1966, p. 129).
Il luogo non crea la presenza di Dio, ma accresce il nostro sentimento di tale presenza e dispone i nostri cuori a percepire meglio la presenza divina. Nel momento della cena del Signore Gesù è presente, in un certo senso, in quanto fa ricordare, attraverso i simboli da lui stabiliti, quanto egli ha fatto per me. Come nell'ultima cena, Gesù mi distribuisce il suo pane e il suo vino. Il capofamiglia ebreo non faceva circolare il suo calice; solo in casi eccezionali, per mostrare la sua stima e il suo affetto verso una persona, le inviava il proprio calice per onorarla in modo particolare. Nell'ultima cena Gesù mandò il suo calice a tutti, facendolo circolare tra gli apostoli, mostrando così come essi fossero suoi amici. Mediante il calice che circola egli mostra come i discepoli siano resi partecipi della benedizione da lui procurata con la sua morte e resurrezione. per questo Paolo concludeva: «I l calice di benedizione che noi benediciamo non è una comunione (koinonìa) con il sangue di Cristo? e il pane che noi spezziamo non è una comunione con il corpo di Cristo?» (1 Co 10, 16).
Di conseguenza tra il cristiano, che partecipa alla cena del Signore, e Gesù Cristo si stabilisce uno scambio di beni: i peccati di debolezza, l'egoismo dei credenti sono eliminati dalla purezza, dalla potenza, dall'amore altruista di Gesù. Il credente viene così fortificato e rallegrato, perché come il pane «fortifica il cuore dell'uomo, così il vino lo rallegra» (Sl 104, 15).
Procura delle bevande forti per l'afflitto
del vino al cuore pieno di amarezza.
Che ne beva! Che dimentichi la sua miseria!
Che più non si ricordi della sua pena!
(Pr 31, 69).
Per questo i soldati volevano dare a Gesù crocifisso un po' di vino per calmarne i dolori (Mc 16, 35). Ma la dimenticanza prodotta dal vino è solo passeggera e più tardi il dolore riappare a tormento del sofferente. Gesù, vino spirituale, rende invece la nostra gioia più profonda e ci fa superare ogni difficoltà con la potenza dello Spirito Santo che egli ci dona. Per questo Paolo gioisce in ogni sofferenza (si legga ad esempio la lettera ai Filippesi, da lui scritta in carcere).
Come fanno gli ebrei in occasione della pasqua, anche i cristiani durante la cena del Signore, devono ringraziare Dio per tutti questi benefici: « Abbiamo quindi il dovere di ringraziare e lodare... colui che ha operato prodigi al tempo dei nostri padri, colui che dalla schiavitù ci ha portati alla libertà, dai dispiaceri alla gioia, dalla mestizia alla letizia; dalle tenebre ad una gran luce » (Pesach 10, 5).
b) Unione con i fratelli
In occasione del banchetto pasquale, Dio così parla agli ebrei: « Oggi il tuo Dio ti comanda di mettere in pratica questi statuti e questa legge... Oggi il Signore si è impegnato ad esserti Dio, mentre tu camminerai nelle sue vie» (Dt 26, 16-19). Anche i cristiani nel mangiare assieme del pane e nel bere del vino compiono un gesto che è però inutile se non è accompagnato da un corrispondente atteggiamento di vita. Sedersi a mensa con il Signore con sentimenti opposti ai suoi è profanare la cena del Signore. tale atto diviene sacrilegio non perché vi manca la decenza rituale, ma perché non esprime la volontà di inserirsi nel disegno amoroso di Dio, svelato dal Cristo. I gesti senza adesione interiore dell'uomo, sono pure mimiche o pantomime, si trasformano in scenografie nelle quali l'uomo mostra degli atteggiamenti che non sono suoi, ai quali non crede. Il culto vero si esplica non solo nelle riunioni cultuali dell'assemblea, ma deve svilupparsi in una vita intonata a quella di Cristo. Nel ricordare l'amore di Gesù che ha dato la propria vita per i suoi amici, i cristiani sentono più vivo il loro mutuo amore fraterno e percepiscono più viva la necessità di aiutare gli uomini bisognosi di aiuto materiale o spirituale che essi incontrano: « Perché vi è un solo pane, noi che siamo molti siamo un unico corpo, perché tutti prendiamo parte di uno stesso pane» (1 Co 10, 17). La comunione con il capo, Gesù Cristo, produce pure comunione con i membri del suo corpo. E' impossibile essere uniti con il capo, ma separati con le sue membra. Gesù Cristo, psicologo, precorrendo ogni scoperta umana, ha ben capito che il miglior modo per avere comunione con le persone è quello di mangiare qualcosa assieme. prendere del cibo in comune è sempre stato simbolo di amicizia e di amore.
Quando un beduino trova uno straniero, dapprima lo guarda come se fosse un nemico. Ma quando l'estraneo mangia con lui del pane o del sale, allora lo straniero cessa di essere straniero e diviene membro della sua famiglia, gode della sua ospitalità, e trova, anzi, una persona pronta a difenderlo in ogni pericolo che possa incorrere. La peggiore colpa di una persona è quella di fare del male a chi gli dà del cibo: « Persino chi ha mangiato del mio pane, ha levato il suo tallone contro di me » (Sl 41, 9).
Anche i cristiani nel mangiare alla stessa tavola di Dio costituiscono la vera famiglia, nella quale dovrebbe dominare l'amore degli uni verso gli altri. Per meglio attuare tale fraternità sino al 150 d.C. i cristiani univano alla cena del Signore un vero pasto, detto agàpe. Paolo si lamenta che in questo pasto d'amore quei di Corinto rompevano tale fraternità, perché mentre gli uni gozzovigliavano, gli altri non avevano neppure da mangiare (1 Co 11, 20)
Le comunioni prodotte dall'Eucaristia disse Paolo VI – sono due: una è con Cristo... l'altra e con gli uomini... Con quegli uomini che siedono alla stessa mensa divina. Non si può accedere all'altare con l'odio nel cuore o con il rimorso di aver offeso un fratello; e non si può lasciare la mensa del Signore, dimenticando il precetto nuovo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13, 34). E l'Eucaristia diventa in noi la grande sorgente dell'amore fraterno, anzi della carità sociale (Oss. Rom. 2/3-5-72 p. 1 s).
Tertulliano ci ha tramandato una stupenda testimonianza di questo amore fraterno:
I pagani sono irritati con noi, perché ci chiamiamo gli uni gli altri con il nome di fratelli. Poi aggiunge – Proprio questo nobilissimo atto d'amore conduce molti a colpirci: guarda come si amano gli uni gli altri... come sono pronti a morire gli uni per gli altri (Tertulliano, Apologia 39).
Questo amore fraterno è reale, come reale è la loro figliolanza verso Dio: è quanto raccomandava Giovanni: « Chiunque non continua ad agire bene non è da Dio, né lo è chiunque non continua ad amare il fratello. Questo infatti è il messaggio che avete udito sin dal principio, che ci dobbiamo amare scambievolmente » (1 Gv 3, 10 s). Come diceva Cipriano è appunto « nella cena del Signore che il nostro popolo si mostra unito» (Cipriano, lettera sull'Eucaristia).
Colui che meglio di altri ha presentato l'amore che sgorga dalla cena del Signore è stato Paolino, patriarca di Aquileia (m. 802), il quale, durante il periodo carolingio, ha scritto un canto liturgico stupendo, anche se talora è animato da allegorismo politico religioso. Esso è stato integralmente ritrovato solo di recente. Ecco come suona in traduzione italiana:
1 Ci ha riuniti in un solo cuore – Cristo – Amore
Siamo dunque in lui esultati – siam festanti.
Iddio vivo sol temiamo – ed amiamo,
ed amiamoci di vero – cuor sincero.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
2 Chi l'amore in sé non sente – non ha niente,
Lui di tenebre, Lui d'ombra – di morte ingombra.
Noi l'un l'altro che ci amiamo – camminiamo
nella luce, ché del sole – siamo prole
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
3 Dio ci grida nella mente – chiaramente
«Nel mio nome ove adunate – siano
pur due sole o tre persone – in unione,
sono presente io stesso – nel consesso».
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
4 Quando dunque siam ciascun – nel raduno
non facciamo che sian le menti – dissidenti.
Mettiamo via maligni attriti – via le liti!
Fra noi Cristo è allor presente – veramente.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
5 Come amor lega ai presenti – pur gli assenti,
la discordia anche gli astanti – tiene distanti.
Che il sentire di ciascuno – sia solo uno,
che non stiamo insieme assisi – ma divisi.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
6 E' l'amore un bene intenso – dono immenso,
su cui l'ordine si regge, – d'ogni legge,
a cui vecchia o nuova norma – si conforma,
che nel ciel l'alma mena – d'esso piena.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
7 Dunque a Dio con tutto il cuore – diamo amore,
e nessun amore preposto sia – al suo posto;
per il prossimo in Dio poi – qual per noi,
sia l'amor. Sia in Cristo amato – chi ci ha odiato.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
8 Questo duplice precetto – dell'affetto
chi umilmente sa cercare – e osservare,
davvero in Cristo egli resta – se poi questa
tetra notte in fuga ha visto – sta in lui Cristo.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
9 Sol la via ch'è stretta e ardita – va in salita,
ma se scende a largo il passo – porta in basso;
sol fraterno amor dà vita – infinita,
mentre dà lotta fraterna – pena eterna.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
10 Or da tutti insieme i cuori – Dio s'implori,
perché pace al dì presente, – dia clemente;
voglia a fede e speme unire – retto agire,
perché al regno ci si interni – dei superni.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
11 All'eterno Re sian canti – osannanti,
per la vita ai reggitori – pur s'implori,
per goder con loro molt'anni – senza affanni,
che per loro amor siam stati – consociati.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
In occasione della cena del Signore gli schiavi mangiavano assieme ai propri padroni, il che non si avverava mai in altre circostanze (Ef 6, 9); le donne sedevano a mensa con gli uomini, il che era proibito dai rabbini; i gentili mangiavano assieme agli ebrei, il che era tollerato dai giudei non cristiani (cf Ga 2, 11; Ef 2, 15). 
Ne conseguiva pure la libera comunione dei beni (At 2, 42), l'aiuto ai poveri di Gerusalemme raccolto ogni domenica (1 Co 16, 1), l'aiuto ai missionari (Fl  4, 15-16). L'amore infatti non deve consistere in parole sterili, ma concretizzarsi nella generosità dell'azione (1 Gv 3, 15-19).

4) La cena è una predicazione ai non credenti
I non credenti, che avevano libero accesso alle riunioni cristiane, anche se tenute originariamente in case private (1 Co 14, 23-25), tramite l'azione simbolica della cena si sentivano proclamare che anche per loro era pronta la salvezza in Cristo Gesù: « Ogni volta che voi mangiate di questo pane o bevete di questo vino voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Co 11, 26). Il verbo greco (katàngèllete) ha la stessa forma sia all'imperativo che al presente, per cui può essere inteso come un comando: «dovete cioè proclamare agli altri» la morte del Signore, oppure come l'attuazione presente di un fatto: «con la vostra stessa cena voi annunziate agli altri la morte del Signore». Questo secondo senso mi sembra più aderente al contesto dove è l'azione stessa della cena che costituisce tale proclamazione. Questa, anziché essere un annunzio espresso solo a parole, è compiuta da parole congiunte con un gesto.
L'azione non sarebbe capita da un non cristiano, se non fosse spiegata verbalmente, il che si attuava mediante la benedizione che l'accompagnava. Paolo parla infatti del « calice di benedizione», sul quale cioè si pronunciava una benedizione. Questa benedizione (eulogia 1 Co 10, 16) non consisteva – come spesso si crede erroneamente – nel chiedere la benedizione a Dio dicendo, ad esempio: «Padre benedici questo pane... questo vino», quasi che i due elementi dovessero ricevere una certa consacrazione. Essa consisteva, secondo l'uso dei pasti ebraici, in un « ringraziamento» rivolto a Dio per il dono di se stesso che Gesù ha compiuto e che sta simboleggiato nel pane e nel vino. per tale motivo al «benedire » di Matteo, Marco, Paolo l'apostolo e l'evangelista Luca sostituiscono il verbo eucharistèo che significa «ringraziare », e dal quale proviene il termine «eucaristia ». nella cena del Signore, cioè del Gesù risorto e glorificato, tutti, maschi e femmine, proclamano ad ogni persona presente che Gesù è donatore di salvezza con la sua morte e resurrezione. Nella cena del Signore la chiesa fa propria la lode a Dio padre e al Cristo, ricordata nell'Apocalisse: «A colui che siede sul trono (Dio) a all'agnellino (Gesù Cristo) siano lode, onore e gloria e potenza per i secoli dei secoli» (Ap 5, 13).

5) La cena preludio del convito finale
La vita cristiana è un paradiso: i cristiani sono già redenti, ma continuano ad attendere la redenzione del corpo; essi sono già nel regno, ma continuano a pregare: «Venga (nella sua completezza) il tuo regno»; sono già rivestiti di Cristo, ma camminano  sulla terra lungi dal Signore (Fl 1, 23); credono nel Gesù che è già venuto a salvarli, ma ne attendono il ritorno glorioso. Anche nella pasqua giudaica si attende ancora oggi la venuta del Messia, per il quale si lascia vuota una sedia, perché quando egli giungerà possa trovare il posto pronto. Nel Targum palestinese su Es 12, 42, detto « il poema delle quattro notti», si commenta il testo biblico ricordando i quattro interventi divini al 14 Nisan (data della Pasqua ebraica): creazione del mondo, promessa ad Abramo, liberazione dall'Egitto e finale liberazione messianica della quale così si dice:
La quarta notte verrà quando il mondo sarà giunto al momento della sua fine per essere liberato. I gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni di iniquità saranno annientate. E Mosè uscirà dal deserto... L'uno camminerà in testa al gregge e l'altro (Messia) in capo al suo gregge e la sua parola camminerà tra i due, ed essi cammineranno insieme. E' la notte di Pasqua per il nome di Jahvè; notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni di Israele (R. Le Deut, la nuit pascale, Roma, istituto Biblico 1963, pp. 64-65).
Per il tempo messianico i profeti annunziano la sazietà: « Essi non avranno né fame né sete, non li abbatterà l'arsura e il sole, perché li guiderà colui che ha pietà di loro; alle sorgenti delle acque ci guiderà» (Is 49, 99). Anche il salmo 22, dopo aver descritto le sofferenze del Messia, ne nota il trionfo finale sotto il simbolo di un banchetto: « Mangeranno gli umili e si sazieranno; loderanno Jahvè coloro che lo cercano » (Sl 22, 26; Is 55, 1).
L'apocalisse nel descrivere la felicità finale, non trova di meglio che presentarla sotto l'immagine di un banchetto: « E vidi la città sante, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da presso Dio, come una sposa rivestita per il suo sposo. Non vidi in essa alcun santuario, perché suo santuario è il Signore Dio onnipotente, insieme all'agnellino (Cristo Gesù)» (Ap 21, 2-22 s). Allora avverrà il banchetto nuziale di Gesù con i credenti: «Rallegriamoci ed esultiamo, diamo a lui gloria perché sono giunte le nozze dell'agnellino e la sua sposa è preparata... Poi l'angelo mi disse: Felici gli invitati al banchetto nuziale dell'agnellino» (Ap 19 7.9).
Nell'attesa di tale convito celestiale, tra il tempo dell'ascensione di Gesù e la sua comparsa finale, i cristiani pregustano nella vena del Signore la gioia del banchetto finale. Essi infatti la celebreranno fino al momento della sua venuta: «finché egli venga », quando questa anticipazione simbolica avrà termine. In presenza della realtà cessano i simboli. Per cui ogni volta che i cristiani celebrano la cena del Signore professano la loro fede e la loro speranza nella sua venuta. Anzi, se si dovesse accettare la traduzione di Joachim Jeremias: «affinché egli venga», nella cena i cristiani, non solo professano tale attesa, ma pregano perché la sua venuta si realizzi al più presto.
Lo conferma l'invocazione aramaica che vi si ripeteva « Maran-ata» («Vieni, o Signore »). Tale senso escatologico è pure ricordato dalla Didachè (fine primo secolo):
Come questo pane spezzato era sparso qua e là per i colli e dopo la raccolta (dei chicchi) divenne una cosa sola, così dai confini della terra, la sua chiesa si raccolga nel regno perché tua è la gloria e la potenza di Gesù nei secoli... Osanna al figlio di Davide. Chi è santo si accosti, chi non lo è faccia penitenza. Maranatha (Didachè 9, 4).
Si può quindi sintetizzare il significato della cena del Signore con le note parole di C.H. Dodd:
In ogni culto eucaristico noi siamo nella notte in cui Gesù è stato tradito, siamo nel Golgota, siamo di fronte alla tomba vuota nel giorno di Pasqua e siamo pure al momento della sua venuta, con gli angeli, gli arcangeli, in compagnia di tutti gli esseri del Cielo, siamo alla vigilia della tromba finale (C.H. Dodd, The Apostolic preaching and its Developments, Londra, Hodder and Soughton 1944 p. 94).

6) Conseguenze teologiche della cena cristiana
Si riducono fondamentalmente a tre: presenza di Cristo nella comunità, non nel pane; ricordo, non ripetizione, del sacrificio di Gesù; inesistenza di un sacerdozio ministeriale.
a) Cristo è presente nella comunità, non nel pane
Gesù ha detto che sarebbe stato presente in mezzo ai suoi ogni qualvolta due o tre si sarebbero riuniti nel suo nome (Mt 18, 20). Ora, quale momento migliore per attuare questa unione se non nella cena eucaristica? In questo atto mangiando il segno del corpo e bevendo quello del sangue di Cristo, ossia il pane e il vino, i credenti entrano in comunione più intima con il Cristo, lo sentono presente in modo tutto particolare.
Ma, terminato quel momento, il pane e il vino cessano di essere segni del corpo e del sangue di Cristo e tornano a presentarsi come pane e vino comuni, senza alcun altro significato particolare.
Resta quindi escluso ogni gesto idolatrico, come l'adorazione dell'ostia consacrata, la processione, la visita al S.S. Sacramento, la genuflessione dinanzi ad essa.. Ne viene esclusa la speciale abitazione «Dell'Iddio con noi» (Emmanuele) nei templi specialmente consacrati a Dio. Tutto questo s'accorda con il fatto che Gesù è venuto ad abolire il tempio sia giudaico sia pagano. Non più a Garizim o a Gerusalemme, o in un tempio particolare, ma dovunque si adorerà il Signore in modo verace, perché il culto di adorazione seguirà l'impulso dello Spirito Santo:
Donna, credimi – disse Gesù alla Samaritana – l'ora viene ed è adesso, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre per mezzo dello Spirito e in verità: poiché tali sono gli adoratori che il Padre vuole. Dio è spirito, quelli che l'adorano devono adorarlo per mezzo dello Spirito, secondo la verità (Gv 4, 23 s).
Dinanzi agli aeropagiti di Atene, Paolo affermò in modo chiaro:
Quel Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mano d'uomo, né si fa servire da mani umane, egli che dà a tutti la vita, respiro e ogni cosa (At 17, 24).
Il vero tempio per i cristiani è il Cristo, il cristiano e tutta la chiesa riunita. Gesù Cristo è personalmente il tempio del Signore, come egli affermò dinanzi ai giudei con la frase enigmatica: «Distruggete questo tempio e io lo riedificherò in tre giorni» E' infatti in lui che ora noi incontriamo Dio. Giovanni, illuminato dallo spirito di Dio, spiegò tali parole aggiungendo il commento: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2, 19). Fanno eco a tali affermazioni le chiare professioni della lettera agli Ebrei, quando affermano che il vero nostro tempio si trova in cielo, dove si entra per mezzo del Cristo (Eb 9, 11 s; 10, 19 ss; Ap 21, 22).
Dopo l'assunzione di Cristo presso il Padre, il tempio di Dio continua a sussistere in terra dove è costituito dai cristiani, non da sassi e mattoni. I credenti, uniti come sono a Cristo, tramite la fede coronata dal battesimo, trasformano il loro corpo individuale in un tempio del Signore. Ma anche collettivamente i cristiani, riuniti in comunità (chiesa), formano un tempio divino: «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» (1 Co 3, 16). «Noi siamo infatti il tempio di Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò e camminerò con loro, sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo» (2 Co 6, 16; Rm 8, 9).
Quindi, accostandoci a Cristo, pietra vivente, i cristiani «sono eretti in un edificio spirituale» e costituiscono in tal modo il «nuovo tempio di Dio» (1 Pt 2, 5).
Se si pensa all'importanza che il tempio materiale di Gerusalemme aveva assunto in seno al giudaismo contemporaneo, il silenzio dei libri neotestamentari e della tradizione più antica sugli edifici cultuali dei cristiani è altamente significativo. La casa o basilica, inizialmente, erano solo luoghi di riunione del vero «tempio» costituito dai cristiani. Ma, ad un certo momento della storia ecclesiastica (4° secolo), fu di nuovo assolutizzato il concetto del tempio materiale e la «chiesa» divenne così un edificio, dove dimora il Gesù eucaristico, mentre passò in sottordine la dottrina biblica della comunità cristiana, vero tempio di Dio, perché unita al Cristo.
b) Unicità del sacrificio irripetibile del Cristo
Il Nuovo Testamento in diversi passi è assai esplicito nell'asserire l'unicità del sacrificio di Cristo; non ci resta che l'imbarazzo della scelta:
Noi siamo stati santificati mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Egli non ha quindi bisogno di offrire ogni giorno dei sacrifici... perché questo egli ha compiuto una volta per sempre, quando ha offerto se stesso (Eb 7, 27)
Perciò Cristo, quale sommo sacerdote dei beni futuri (giunti con lui), attraverso la più grande e perfetta tenda – non fatta da mani d'uomo e non di questa creazione – è entrato una volta per sempre nei luoghi santi, non mediante il sangue di capri e torelli, ma mediante il suo proprio sangue, assicurandoci in tal modo una redenzione eterna (Eb 9, 11 s).
«Come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, cos' anche Cristo dopo essere stato offerto una volta sola per portare i peccati altrui; apparirà una seconda volta, senza peccato, a quelli che l'aspettano per la propria salvezza» (Eb 9, 27 s). «Gesù dopo aver offerto un unico sacrificio per i peccati e per sempre, si è posto a sedere alla destra di Dio» (Eb 10, 11).
Per ben comprendere il sacrificio di Gesù, presentato dalla lettera agli Ebrei, occorre ricordare che la funzione principale del sommo sacerdote non era quella di uccidere un animale, bensì di prenderne il sangue e di portarlo nel Santissimo. L'uccisione della vittima non era compiuta dal sacerdote, ma da semplici leviti, oppure dallo stesso offerente; l'atto propriamente sacerdotale consisteva nell'offrire il sangue:
L'animale era ucciso non perché la sua vita fosse uccisa (poiché «il sangue è la vita»), ma perché questa vita offerta nella morte, divenisse adatta al santo scopo del sacrificio (A.G. Herbert, A Root of Difference and of Unity, in Intercommunion, ed. D. Baille and J March, p. 239).
Il sangue costituiva per il Sommo Sacerdote il biglietto d'ingresso del Santissimo, così come per il Cristo il suo proprio sangue fu il biglietto d'ingresso nel santuario del cielo.. Quivi egli, come sacerdote eterno, continua a presentare l'offerta del proprio sangue. La croce più che essere il sacrificio, fu la preparazione, la fonte da cui sgorgò il perenne sacrificio ministeriale del Cristo.
Essa non fu l'altare sul quale il sacrificio di Gesù ebbe inizio e fine, ma solo l'elemento preparatorio, perché il ministero del nostro Sommo Sacerdote si attuasse in cielo:
Cristo è il sacerdote eterno, che offre una volta per tutte il sacrificio nella tenda celeste. E questo sacrificio eterno, introdotto nel mondo, ha un'eterna qualità. Così – come osserva A.G. Herbert – l'autore della lettera si rivolge ai suoi lettori perché si avvicinino a Gesù e a lui di uniscano nella liturgia cristiana, non per immolare il Cristo un'altra volta, perché tale nozione gli sembrerebbe blasfema; non per offrire alcuni sacrifici addizionali al suo sacrificio, perché questo sarebbe un tornare indietro alle manipolazioni levitiche dei sacrifici; ma per unirsi come partecipanti all'unico sacrificio che il Signore compì sull'altare del cielo. Essi sono sulla terra, perciò egli li esorta ripetutamente a elevare con fede i loro occhi e ad avere comunione con lui dove egli si trova ( (W.E. Brooks, The Perpetuity of Christ's sacrifice a.c. p. 212).
Ora per i cristiani non rimangono altri sacrifici che quelli personali consistenti un una vita conforme al volere di Dio (Rm 12, 1), nella lode (1 Pt 2, 5.9) e nella beneficenza con cui essi danno ad altri parte dei loro beni, «perché è di tali sacrifici che Dio si compiace» (Eb 13, 12-16).
Mantengono quindi tutto il loro valore le parole di Lutero, che, dopo aver addotto i passi sopra citati della lettera agli Ebrei, dove si afferma l'unicità del sacrificio di Cristo, così continua:
Avete udito? Cristo si offrì una volta sola, non volle essere offerto di nuovo da alcuno, ma volle che fosse compiuta la memoria del suo sacrificio. E a voi donde viene l'audacia di trasformare in sacrificio quella memoria?
c) Non sacerdozio ministeriale
Ne viene come logica conseguenza che la casta sacerdotale, alla quale apparterebbe in modo particolare l'azione liturgica sacrificale dell'eucaristia, non ha più motivo di essere secondo il Nuovo Testamento. La cena del Signore, che è un segno commemorativo della morte e della resurrezione del Cristo, si compie mangiando del pane e bevendo del vino per rendervi presente il Cristo, ma è un pasto di comunione con il Cristo e con i fratelli, nel quale tutti i credenti, e non solo alcuni cristiani dotati di poteri arcani (sacerdoti), mangiano e bevono.
La cena del Signore è una «proclamazione della morte e resurrezione del Cristo compiuta da ciascun credente in un atto comunitario. E' un pregare assieme il Signore, «finché venga», auspicandone in tal modo il ritorno. Tale atto è perciò comune a tutti: a tutti Paolo rivolge i suoi rimproveri nella lettera ai Corinzi, dove probabilmente a quel tempo non sussistevano neppure i vescovi-presbiteri. Infatti a tutti egli dice:
Ogni volta che voi mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finché (o affinché) egli venga (1 Co 11, 26).
Sono concetti che timidamente affiorano in espressioni come quelle del consiglio pastorale olandese del 1970 nelle quali si dice che, eccezionalmente chiunque potrebbe presiedere alla celebrazione eucaristica.
Si deve investigare più particolareggiatamente in quali casi si possa dare a coloro che non hanno ricevuto la consacrazione ministeriale tradizionale l'incarico di presiedere alla celebrazione dell'Eucaristia (Aanbevekingen [= Raccomandazioni] IV, 6 Pastoral Concilie van de Nederlamdise Kerk provicie. Intwerps-rapport, Rotterdam 1969).
A queste parole fanno eco quelle del cattolico R. J. Bunnik, il quale, pur con cautela, attesta che come sacerdoti di Cristo tutti i credenti potrebbero celebrare l'Eucaristia:
Tenendo conto del fatto che il ministero è essenzialmente costituito anche «dal basso», si potrebbe con altrettanta logica affermare che il potere di celebrare l'Eucaristia fu concesso per sé al sacerdozio comune, ma che, per motivi in massima parte disciplinari, non è mai esercitato, se non eccezionalmente, dai non ministri (R.J. Bunnik, C'è un prete per il domani? Brescia 1969 p. 94).
Lo studio sistematico della Bibbia, privo di preconcetti, dovrebbe condurre alla eliminazione del sacerdozio ministeriale e ridurre i vescovi a sorveglianti delle singole chiese locali, dotati di un sacerdozio che è pari a quello di tutti gli altri fedeli.
Solo quando i partecipanti al banchetto del Signore si sentiranno del tutto uguali, senza attribuire poteri miracolistici a un gruppo di essi, si avrà il banchetto veramente comunitario di fratelli e sorelle che si sentono tra loro uniti dall'unica fede in Cristo Salvatore. Ma sino a quando, per la validità della cena del Signore, si esigerà la presenza di un sacerdote, sia pure ministeriale, che solo può celebrare l'eucaristia validamente, questa azione comunitaria non sarà mai davvero comunitaria.
La cena del Signore è quindi un mangiare del pane e un bere del vino in ricordo di Cristo; con tale gesto si raffigura la comunione con la morte e la resurrezione del Cristo, pane di vita; si predica il suo messaggio di salvezza con atti e non solo a parole; se ne invoca ardentemente il ritorno. E' l'atto compiuto non da alcuni cristiani soltanto, insigniti di un sacerdozio ministeriale, ma è opera di tutta la comunità credente, che in quel momento si sente particolarmente unita a Dio nella fede. Fu la concezione fisicista cattolica che portò a materializzare gli effetti del sacramento eucaristico.
La grazia appare il più delle volte una forza che, dall'esterno, attraverso un rito opportuno viene a raggiungere l'uomo esausto del suo travaglio quotidiano. Essa lo rinnova, lo santifica. Dopo il sacramento egli acquisisce qualcosa (qualità, abiti, doni) che non aveva in precedenza o aveva solo in modo incipiente, imperfetto. Ci si può invece chiedere che l'azione sacramentale non sia da concepire più che come un'ondata che viene dal di fuori, come una risposta che preme e sale dall'interno dell'uomo. I segni stabiliti da Cristo intendono appunto suscitare nell'intimo della coscienza umana un dialogo sempre più proficuo tra Dio e l'uomo. (R. J. Bunnik, o.c. ivi)



CAPITOLO QUINTO
MIRACOLI EUCARISTICI


Indice

1) Fenomeni nelle persone
2) Fenomeni sulle sacre specie
3) Conclusione


Usualmente i miracoli eucaristici non sono portati dai teologi a sostegno della transustanziazione, anche se non di rado li utilizzano per sorreggere la fede della gente semplice.

Il miracolo eucaristico, particolarmente volto a confermare la fede nel mistero della reale presenza, è pertanto fuori discussione quanto alla sua possibilità e alla sua efficacia probativa, ma è soggetto a tutte le cauzioni, che una sana critica storica impone (A. Piolanti, Miracoli  Eucaristici, in Enc. Catt. 8 1067-1068).

Per la teologia cattolica la transustanziazione, o mutamento della sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, è certamente un fenomeno miracoloso, che però non è percepibile dai nostri sensi. Tuttavia alcuni fatti sensibili e straordinari, come il cambiamento dell'ostia in carne e del vino in sangue, la levitazione e la conservazione di alcune ostie, sono dei fatti controllabili. La devozione cattolica è costellata da molti di questi fenomeni, che qui posso quasi solo elencare essendo impossibile darne una critica particolareggiata.

1) Fenomeni nelle persone

a) Aiuto divino nei miracoli

Si narra che alcune persone vennero miracolosamente guarite per la loro devozione eucaristica, mentre altre, che agirono sacrilegamente verso le ostie consacrate, ne subirono una punizione gravissima. Segno che la presenza di Cristo agisce nell'ostia consacrata. Il Piolanti rimanda ad alcuni casi riferiti dai padri della chiesa, che io ho voluto esaminare di persona senza però trovarvi quanto il teologo afferma (Gregorio Magno, Dialoghi 3, 36 PL 77, 304).
L'episodio narrato da Gregorio Magno più che di un miracolo eucaristico, parla di una particolare provvidenza divina, non necessariamente miracolosa. Secondo lui Massiminiano, vescovo di Siracusa, sorpreso in alto mare da una furiosa tempesta che ne squassava la nave,

dopo aver preso il corpo e il sangue del nostro Salvatore e Dio Gesù Cristo, egli e i suoi compagni gli affidarono le loro anime. Ma Dio onnipotente che aveva prima atterrito le loro menti, salvò miracolosamente le loro vite.

Infatti la nave, priva di alcuna possibilità di manovra, arrivò fortunosamente al porto di Crotone.
Migliore è l'episodio riferito da Gregorio Nisseno relativo alla sorella Gorgonia e di cui il Piolanti non parla: essa potè guarire da una malattia quando, andata all'altare, prese in mano, mischiandoli con le lacrime, « gli antitipi del prezioso corpo e del prezioso sangue». Quel Gesù che aveva già guarito la donna sofferente di sangue, perché aveva toccato la frangia del mantello di Gesù, fece lo stesso in questo caso. Tale guarigione si allinea a quelle che si avverano tuttora nei santuari mariani di Loreto, Fatima e particolarmente di Lourdes. In essi, quando il sacerdote durante la processione eucaristica, si ferma a benedire con l'ostia consacrata i singoli ammalati, talora provoca, anche se raramente, delle guarigioni istantanee dovute a una forza improvvisa che pervade gli infermi. Questi episodi rientrano nel quadro dei miracoli creati dalla suggestione favorita dalle invocazioni ritmicamente scandite da un sacerdote o da un barelliere, che con insistenza grida: «Signore, fa che io ci veda... Signore! che io cammini! che ci veda... che cammini... che ci veda... Signore! che ci senta...» e vi dicendo. Nella coreografia del momento esse acquistano talvolta una suggestività enorme, atta a scatenare le capacità di recupero di una persona, facilmente suggestionabile per la debolezza del proprio fisico.
Per le azioni punitive si può risalire alla stessa lettera ai Corinzi dove leggiamo:

Quindi ognuno esamini se stesso e così magi del pane e beva del vino, perché colui che mangia e beve, mangia e beve la propria condanna se non discerne il corpo. Per questo molti di voi sono deboli e infermi e muoiono in buon numero. Se invece esaminassimo noi stessi, non saremmo condannati (1 Co 11, 28-36).

Va notato che secondo Paolo l'esame della propria persona deve essere fatta direttamente da chi accede alla cena del Signore – mangiando del pane e bevendo del vino – senza dipendere dal giudizio di altre persone: «esamini se stesso». Il cristiano che accede alla cena deve saper distinguere non solo in teoria, ma anche nella pratica la differenza tra pasti compiuti per sfamarsi e questa cena comunitaria, per cui «se non discerne il corpo », chi vi accede si attira la condanna divina. Il fatto che qui, pur parlando del pane e del vino, si dica solo che egli deve « discernere» il «corpo» (senza «il sangue») ci induce a ritenere che tale «corpo» riguardi la chiesa che è il corpo del Signore, e non quello di Cristo. Tanto più che la specificazione «(corpo) del Signore » che si trova in alcuni manoscritti, manca nei principali. Di fatto la colpa di quei di Corinto consisteva nel mancare di amore gli uni per gli altri, perché alcuni, senza attendere i fratelli, si ubriacavano mentre altri pativano la fame. Quindi l'apostolo conclude:

Perciò fratelli miei, quando vi riunite per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. Se qualcuno ha fame, mangi a casa sua, affinché non abbiate a riunirvi a vostra condanna.

La colpa stava proprio in questo riunirsi dimenticando le esigenze dell'amore fraterno. A motivo di tale colpa i Corinzi erano condannati, ossia puniti dal Signore. Di che punizione si tratta?

1. Spirituale. Qualche autore, anziché intendere alla lettera le parole «molti sono deboli, infermi e ne muoiono in gran numero», pensano ad una punizione spirituale. La colpa contro l'eucaristia recava debolezza nello spirito e morte nell'anima.
Tuttavia il termine «dormire» si riferisce usualmente al riposo notturno oppure al riposo della morte fisica, per cui sembra logico riferire anche qui le parole di Gesù alla morte fisica e alla malattie corporee. Inoltre nel caso delle malattie spirituali non si capirebbe il ragionamento di Paolo: anzitutto chi può capire se uno è spiritualmente ammalato, infermo o morto, quando lui stesso ci proibisce di giudicare gli altri (1 Co 4, 5). Quello che è spirituale è invisibile mentre qui Paolo parla di una realtà a tutti visibile. Inoltre il suo suggerimento che «quando Dio ci condanna lo fa per correggerci, per evitarci la punizione assieme a quelli del mondo» (v. 32), non quadra con l'interpretazione spirituale. Sarebbe un ben strano ragionamento il dire che Dio punisce con malattie spirituali, anzi con la stessa morte dell'anima per condurre le persone a salvezza! Questo si capisce per la malattie fisica, la quale, facendoci riflettere ci induce, almeno nell'intento divino, a modificare la nostra condotta spirituale.

2. Si tratta di malattie e di morte fisica. E' Il senso logico che si deduce dal contesto e dalle stesse parole: « il debole» (asthenés) è colui che è fisicamente ammalato e «l'infermo» (àrrostos) è colui che ha una malattia più grave del precedente. Mentre molti (pollòi) cristiani di Corinto sono tali, un discreto numero (ikanoi) muore. I morti non sono così numerosi come i precedenti, ma sono pur sempre in numero discreto, da non potersi trascurare. In che modo Dio produce questa malattia a morte?
a) Direttamente affermano alcuni – adducendo l'intervento di Dio che ai primi tempi della chiesa, per ammaestrare i credenti, produceva malattie e morte in modo da condurre i colpevoli alla conversione. Avremmo qui un intervento particolare di Dio, riservato ai primi tempi del cristianesimo. Saremmo in una situazione simile a quella di Anania e Saffira puniti di morte da parte di Pietro (At 5) o a quella dell'incestuoso di Corinto «dato da Paolo in balia di Satana », perché fosse colpito da malattie in modo da salvargli l'anima (1 Co 5).
b) Non è però necessario ricorrere a tale diretto intervento divino. Spesso la Bibbia attribuisce direttamente a Dio, anche quello che proviene, sì da lui, ma solo tramite cause seconde. La malattia è attribuita a Dio, anche se viene da cause naturali; spesso nel concetto biblico la malattia è frutto del peccato al pari della morte. E' Dio infatti che «fa morire e vivere», è «dalla sua mano che noi riceviamo il bene e il male» (1 Sm 2, 6 s). Con la giustizia portata dal re messianico «nessuno dirà in Gerusalemme: Io sono malato! » (Is 33, 24). Ciò appunto si attuerà nella Gerusalemme celeste: «La morte non vi sarà più, né più vi sarà cordoglio, lamento o pena, perché tutte queste caratteristiche del tempo precedente sono passate » (Ap 21, 4).
In tale caso sarebbe stato proprio il comportamento anticomunitario dei Corinzi, che per la loro ingordigia e mancanza di amore fraterno, avrebbe fatto sgorgare alcune malattie e provocato qualche morto; fatti che Paolo, secondo il metodo biblico, riferisce direttamente a Dio, anche se provocati da cause seconde. Si noti come Paolo biasimi il gozzovigliare di tali cene, l'ubriachezza di alcuni, per cui è facile capire come, anche naturalmente parlando, tale comportamento potesse recare malattie di vario genere e procurare anche una morte anticipata. Se i cristiani avessero invece cercato una maggiore fraternità, pronti anche a mangiare di meno per renderne partecipi i bisognosi, allora sarebbero evidentemente diminuiti i casi di malattie e di morte. Ecco l'insegnamento perenne di questo brano assai discusso. Ad ogni modo vorrei concludere che qui non si parla di punizione perché si offende il Cristo presente nel pane e nel vino, ma di punizione perché si offende, nel prossimo, il Cristo presente nella comunità che ne è il corpo.
Ottato di Milevi (m. 390 circa) riferisce il caso di quegli eretici donatisti che:

fecero dare l'Eucaristia ai cani. Ma ciò non avvenne senza punizione divina. Infatti quei cani spinti dal furore, dilaniarono con dente vindice gli stessi loro padroni rei del corpo santo, come se fossero dei ladroni del tutto sconosciuti o dei nemici (Ottato di Milevi, De Schismate donatistarum 2, 19 PL 11, 972).

Tuttavia egli continua a parlare di punizione anche per coloro che avevano gettato dalla finestra l'ampolla del crisma o commesso altri sacrilegi, dai quali risulta che l'offesa riguardava tutte le cose sacre e non specificamente il fatto che nell'ostia è presente Gesù. Si comprende poi naturalmente il furore degli animali, se si pensa che l'eucaristia comprendeva allora pure il vino, il quale doveva per forza eccitare le bestie. Vi sarebbe stata la stessa colpa anche se il pane fosse stato ritenuto puro simbolo del corpo di Gesù.
Gregorio di Nazianzo (m. ca 390) per il desiderio di passare subito ad altre cose, non volle descrivere le punizioni « che avvennero contro i sacri altari» (tàs ieràs trapézas), parole che forse si riferiscono all'eucaristia. Ma la sua espressione è così generica che non si può dedurre nulla di preciso.
Agostino (m. 430) narra di una bimba:

che, scappati i genitori per paura e abbandonata dalla nutrice, dopo aver subito molti sacrilegi demoniaci da parte della stessa nutrice, fu portata in chiesa dove le si portò l'Eucaristia (che allora si dava anche ai bambini); ma essa la sputò e la respinse con movimenti straordinari. Ora a me sembra che ciò si sia avverato per opera divina per insegnare agli adulti che non ci si può accostare all'Eucaristia senza essere pentiti (Agostino, Ep. 98, 4 PL 33,361).

Ma anche qui non vi è nulla di miracoloso; quante volte i bambini sputano quello che non è loro gradito!
Più recentemente, si parla di paralisi o di morti improvvise che sarebbero occorse a Lovanio-Bruxelles (1369), a Volterra (1471), a Boston (1834). Tali fenomeni, se storicamente fossero certi, rientrerebbero nei fenomeni patologici creati dalla paura inconscia provocata dal subcosciente, la quale scatena un collasso cardiaco o la paralisi di qualche membro del corpo. Non mancavano fenomeni del genere, specie in passato, in che schiaffeggiava un sacerdote, in quanto ciò era ritenuto un grave sacrilegio comportante la punizione divina. La paralisi è un modo inconscio con cui l'individuo punisce se stesso di un fatto peccaminoso. Non prova affatto l'esistenza di Gesù nell'eucaristia, ma documenta solo la reazione patologica dell'organismo alla convinzione di aver commesso un atto grave contro Gesù ritenuto presente nell'ostia consacrata. Fenomeni simili si avverano anche in paure improvvise o in fatti scioccanti che nel caso di un pericolo grave provocano paralisi o il collasso cardiaco della persona coinvolta.

2) Fenomeni sulle sacre specie

Vari fenomeni miracolosi sono riferiti non alle persone che si accostano alla comunione, bensì all'ostia o al vino consacrati. I fenomeni possono raggrupparsi in diverse categorie.

a) Luminosità delle ostie e piccole raffigurazioni di Gesù in esse
L'ostia consacrata sarebbe divenuta luminosa, tra altri casi, a Torino (1453), di cui parlerò più estesamente in seguito, a Paterno presso Napoli (1772). Vi si sarebbe vista l'immagine di un piccolo Gesù a Braine (1153), a Ulmes nella diocesi di Angers (1668).
Anzitutto questi fatti sono in gran parte scarsamente attendibili per assenza di critica storica. Anche se fossero storici rientrerebbero nel fenomeno assai facile dell'allucinazione o dell'illusione ottica, quale non di rado si verifica presso la gente del popolo sempre a caccia di fenomeni straordinari. Basti ricordare nella recente storia italiana la illusione di molta gente che vedeva muoversi alcune statue di Maria e il fenomeno di Fatima circa il sole che sembrava gettarsi sulla terra in miriadi di colori. Basti ricordare, come nel Medio Evo, non poche persone si illudevano di vedere Satana, di avere rapporti carnali con esso (demoni incubi e succubi), di partecipare a cene truculente nella famose riunioni dei sabba. Che si trattasse di pura illusione risulta dal fatto che quelle stesse persone, dopo aver mangiato tutto quel cibo, si sentivano più affamate di prima. Di fronte a fenomeni così strani, perché non si potrebbe intendere come illusioni anche i fenomeni luminosi o le immagini di Gesù riguardanti le ostie consacrate?

b) Levitazione di ostie

E' assai noto il caso della beata Imelda Lambertini, che entrata a 10 anni nel monastero domenicano di S. Maria Maddalena di Valpietra, fuori delle mura bolognesi, vi morì giovanissima, il 12 maggio 1333 probabilmente dodicenne, perché se ne ignora la data precisa della nascita. Siccome alla religiosa ancora troppo giovanissima veniva insistentemente negata l'eucaristia, il Signore provvide a comunicarla miracolosamente con un'ostia che. levitandosi, volò per l'aria e si posò sopra la sua lingua. Raccoltasi in preghiera la beata, fu poi trovata esamine. Tuttavia la notizia sopra riferita proviene da una «tenue tradizione» (A Redigonda, Lambertini Imelda, in Ecc. Catt. 7, 837) che non è criticamente documentata.
Anche Caterina da Siena (m. 1380) sarebbe stata comunicata prodigiosamente e più volte dall'ostia, che sollevandosi, le si poneva in bocca. Questi ed altri episodi miracolosi furono sottoposti a critica assai severa dal cattolico R. Fautier, che giunse a conclusioni del tutto negative.
Curioso l'episodio di Torino. Il 6 giugno 1943 due soldati rubarono un ostensorio da una chiesa poco lontana dalla città, e vendettero la refurtiva ad alcuni mercanti che la portarono a Torino. Ma nell'ostensorio stava racchiusa l'ostia consacrata, per cui quando costoro giunsero davanti alla chiesa di S. Silvestro, il mulo portante gli oggetti rubati, si impuntò e non volle andare oltre. Il sacco con la refurtiva si aprì e me uscì l'ostensorio che stette librato in alto, mentre l'ostia diveniva luminosa. Vi arrivò il vescovo in processione, che, innalzato verso l'ostia consacrata un calice, pregò perché vi scendesse. L'ostia si posò allora sul calice e fu portata trionfalmente nella cattedrale torinese.
Anzitutto la storicità di questo e simili episodi è assai discussa; nel caso che fossero veri rientrerebbero nei fenomeni di levitazione o telecinesi ben noti alla metapsichica e dei quali si cerca ora di dare una sua interpretazione naturalistica senza interventi supernaturali. Anche se si volesse ammettere una causa al di là delle normali leggi di natura, non è ancora detto che vi sia intervento divino: varie cause possono venir addotte, oltre Dio, come spiriti demoniaci o burloni. Da essi non si può poi arguire la presenza di Gesù nell'ostia consacrata. Dinanzi a tutti questi problemi non è saggio addurre nemmeno al popolo dei fenomeni non ben documentati o non probativi.

c) Conservazione di ostie

Si tratta di ostie che normalmente sarebbero dovute andar distrutte. Ricordo i due casi più noti di Siena e di Faverney.
1. Siena. Si tratta di 223 particole consacrate il 14 agosto 1730, trafugate la notte successiva da Siena, furono manomesse, asportate e ritrovate dopo tre giorni di affannose ricerche in una cassetta di elemosine nella vicina chiesa di S. Maria in Provenzano, tra ragnatele, polvere e qualche moneta. Riportate solennemente nella basilica di S. Francesco a Siena, si riscontrò che il loro numero corrispondeva perfettamente a quello delle ostie trafugate. Avvolte in un corporale, furono allora depositate nel ciborio in attesa della loro decomposizione, che non si è ancora avverata.. Dopo circa 50 anni furono deposte in un vaso sacro, nel quale ogni anno sono portate in processione, esposte al pubblico senza che si sia notato un sensibile alteramento della loro composizione.. Esaminate scientificamente il 10 giugno 1914, da una commissione di scienziati, si constatò che esse risultano di vero pane azzimo e si trovano in uno stato di buona conservazione, mentre di solito le ostie non si mantengono intatte più di quattro o cinque anni. La predetta commissione ha rilevato che le ostie, confezionate in estate e quindi più facilmente alterabili, furono rubate, nascoste in una cassetta di elemosine, ripulite dalla polvere e dalle ragnatele, contate una ad una, lasciate per 50 anni in un corporale, spostate più volte da un vaso all'altro. Nel 1951, rubate una seconda volta, giacquero incustodite per molte ore in un angolo del ciborio alquanto umido, e da allora sono in perenne contatto con il pulviscolo, il caldo e il freddo dell'atmosfera attraverso il vaso non ermeticamente chiuso.
Eppure sono passate indenni attraverso tutte queste peripezie senza subirne alcun danno apprezzabile. per cui il Prof. Grimaldi concluse: « Digitus Dei est hinc. Questa conservazione è un miracolo».
2. Faverney. La notte dal 26 al 27 giugno 1618, in questa cittadina francese non molto lontana dal confine svizzero, si incendiò l'altare e l'ostensorio con l'ostia consacrata, che vi stava depositata, stette sollevato in mezzo al fumo, attaccato ad una grata per la piccola croce che lo ornava in alto, mentre tutto il resto restava sospeso senza alcun appoggio. Vi stette così per 33 ore, poi al momento dell'elevazione durante una Messa scese su di un altare improvvisato e riprese la sua posizione normale. Il protestante Federico Veuillard, che assistette al prodigio, ne fu talmente colpito, che si convertì al cattolicesimo e credette alla presenza reale di Gesù nell'eucaristia. E' miracoloso il fatto che l'ostia si sia conservata illesa in mezzo alle fiamme.
Anzitutto la conservazione di cibo o altro si è avverata in modo straordinario anche in altri casi: dalle tombe faraoniche sono stati tratti semi di grano risalenti a parecchi millenni di anni fa, capaci tuttora di germinare. Quanti fenomeni anormali esistono senza che si debba gridare subito all'intervento divino. Anche imponendo le mani su un pezzo di carne (personalmente ne ho fatta esperienza!), si può conservarla a lungo esposta al sole senza che si corrompa a causa dei microbi, mentre altri pezzi non trattati così, vanno subito in putrefazione. Bisogna quindi essere cauti nel gridare al prodigio. Anche per l'ostia di Faverney trovata avvolta dal fumo, bisognerebbe conoscere bene come si siano svolti i fatti, che cosa gettò l'ostensorio in alto prima di essere colpito dalle fiamme, che cosa vi è di veramente storico e quale abbellimento vi fu dato in seguito.
d) Ostie e calici sanguinanti
Si ricordano moltissimi casi che mostrano nell'ostia o nel calice il sangue di Gesù tra cui quelli di Offida. di Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Firenze (1230), di El Cebrero (metà del 13° secolo), di Bolsena (1263) e di Berlino (1510). Le ostie di Avignone nel 1554, forate da colpi di pugnale, lasciarono cadere del sangue; quelle di Gand nel 1554, rubate da alcuni ladri e quella di Napoli nel 1581 profanata da chi l'aveva ricevuta nella comunione, persero sangue in abbondanza.
1. Il miracolo di Lanciano, l'antica Anxanum dei Frentani custodisce il primo miracolo eucaristico. Il «prodigio» avvenne nel secolo VIII d. C. nella chiesetta di S. Legonziano. Un monaco basiliano, mentre celebrava l'Eucaristia, fu assalito da forti dubbi sulla presenza reale del Signore. A consacrazione avvenuta, il miracolo! L'ostia diventò Carne viva ed il vino si mutò in Sangue vivo, raggrumandosi in cinque globuli, irregolari sia per forma che per grandezza. Tuttora, la Carne conserva forma e grandezza dell'ostia grande in uso nella liturgia cattolica latina. E' leggermente bruna. Il Sangue è coagulato, di colore terreo, tendente la giallo ocra. Dal 1713, la Carne è conservata in un artistico ostensorio d'argento, cesellato con gusto. Il Sangue è contenuto da una ricca e antica ampolla di cristallo.
Che sia veramente carne e vero sangue risulta dalla ricognizione scientifica, compiuta nel novembre del 1970, dal prof. Odoardo Linoli, libero docente di anatomia e istologia patologica, in chimica e microscopia clinica, primario degli ospedali riuniti di Arezzo.
Ecco il risultato delle indagini presentato al santuario del miracolo il 4 marzo 1971.
«La Carne è vera carne. Il Sangue è vero sangue. La Carne è costituita da tessuto muscolare del cuore (miocardio). La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno (AB). Nel Sangue sono state ritrovate le proteine normalmente frazionate con i rapporti percentuali quali si hanno nel quadro siero-proteico del sangue fresco normale. Nel Sangue sono stati anche ritrovati i minerali: cloro, fosforo, magnesio, potassio, sodio e calcio. La conservazione della Carne e del Sangue, lasciati allo stato naturale per dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici atmosferici e biologici, rimane un fenomeno straordinario»
Che si tratti di carne e sangue di un uomo è quindi accettabile. Ma si tratta poi del sangue e della carne di Gesù? La documentazione storica è poi sicura? Il Lessico Ecclesiastico edito dall'Utet alla parola Lanciano non esita a parlare di « leggenda».
2. El Cebrero. La storia è narrata dal cronista generale dell'Ordine benedettino P. Yepes ed è ricordata in due bolle pontificie del 15° secolo. Alle porte orientali della Galizia si erge il picco El Cebrero (m. 1300) sul cammino francese verso S. Giacomo di Compostela, dove nel 9° secolo il cavaliere francese Giraldo, conte di Aurillac, aveva fondato un'abbazia benedettina con un ospedale e un ospizio per i pellegrini. Verso 1l 13° secolo in una fredda giornata, mentre tutto era letteralmente sommerso da un nevischio turbinoso, il cappellano stava celebrando la Messa, quando appena dopo la consacrazione, vi arrivò un contadino. Il celebrante non si sarebbe mai atteso la presenza di una persona con un tempo così orribile e pensò tra sé: «Ecco che arriva questo pazzo, con una simile tempesta, a vedere un po' di pane e un po' di vino». Ma d'improvviso davanti ai suoi occhi, sbalorditi, l'ostia divenne carne e il vino sangue. I contadini narrarono che la Madonna di El Cebrero adorasse il miracolo inchinandosi. per oltre duecento anni l'ostia e il sangue del miracolo furono conservati nei vasi sacri. Attualmente si trovano in un reliquiario, regalato verso la fine del 15° secolo dai sovrani Isabelle e Fernando.
3. Gli annali di Camaldoli narrano che il P. Lazzaro di Venezia, priore del monastero di Bagno, nel 1412, dopo la consacrazione dell'ostia fu assalito da dubbi circa la presenza di Gesù nell'eucaristia. Il vino prese allora l'aspetto del sangue vermiglio, ribollì, traboccò dal calice sul corporale, che tutt0ra si conserva in quel luogo nella chiesa di S. Maria.
4. Nel 1429 a Alkmaar in Olanda, durante la S. Messa un sacerdote fece cadere alcune gocce di vino sopra la pianeta, che lasciarono sulla stoffa delle macchie rosse quasi fossero sangue. Fu tagliata allora quella parte della pianeta per bruciarla con il fuoco (come purificazione), ma si dice che la stoffa, rimasta sospesa al di sopra delle fiamme, non bruciasse ed è venerata come preziosa reliquia (dal 1897).
5. Bolsena. Il miracolo avvenne nel 1263, al tempo in cui la dottrina di Berengario, arcidiacono di Angers (Francia), contrario alla presenza reale del corpo di Cristo nell'eucaristia, minava l'insegnamento cattolico. Pietro da Praga, un sacerdote di origine boema, assalito da dubbi, decise di recarsi a Roma per implorare sulla tomba di Pietro la risposta al suo angoscioso problema. Durante il viaggio sostò a Bolsena, diocesi di Orvieto, dove si mise a celebrare la Messa nella chiesa di S. Cristina. Dopo la consacrazione il prete versò sbadatamente un goccia di vino sul corporale e cercò di sfregarla via, ma la goccia si diffuse per tutto il corporale trasformandosi in macchie sanguigne tondeggianti in forma di ostia. In seguito si è detto che gocce di sangue fossero uscite dall'ostia al momento della sua rottura o in quello dell'elevazione; anzi si è perfino aggiunto che l'ostia si fosse trasformata in carne e che macchie di sangue siano scese anche sopra le pietre dell'altare. Allora il sacerdote, tremante e atterrito, coprì il calice con la patena, vi pose sopra il corporale, portò tutto in sacrestia e fuggì via.
Ecco come tale miracolo viene descritto in una lastra di marmo del 1673, secondo il documento ufficiale, che traduco dal latino.
Al tempo in cui Urbano IV (1261-1264) con tutta la sua corte soggiornava in orvieto, vi fu un certo prete teutonico, ottimo in ogni virtù sacerdotale, ma dubbioso sul mistero della transustanziazione. Costui peregrinando alle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo ed ai luoghi insigni della Chiesa, giunto in Bolsena, diocesi di orvieto, sostò in questa presente chiesa di S. Cristina ed in questo luogo detto, in lingua volgare, delle pedate per le impronte dei piedi della martire Cristina impresse su una grande pietra basaltica, ed in questo luogo prese a celebrare la S. messa. Ma al momento della consacrazione, mentre teneva l'ostia sopra il calice, pronunciate le parole rituali, cosa ammirevole e stupenda, tanto per gli antichi quanto per i moderni tempi, l'Ostia apparve visibilmente arrossata da sangue stillante, tranne nei due punti a contatto con le dita del celebrante. Al sacerdote mancò la forza di continuare il rito, e pieno di confusione e sgomento avvolse le specie eucaristiche nel corporale e nei lini sacrificali, e vacillante li portò in sacristia, riponendole nel sacrario.
Ripresosi dallo sbigottimento e sgomento per la propria scarsa fede, si recò nella vicina Orvieto, dove soggiornava il papa Urbano IV al quale confessò il suo dubbio, chiedendo perdono ed assoluzione, ottenendoli.
Il Sommo Pontefice, profondamente commosso, ordinò che il venerabile corpo di Cristo fosse traslato nella chiesa orvietana dedicata a Maria Vergine, e comandò al vescovo di orvieto di recarsi immantinente a Bolsena nella chiesa di S. Cristina. Qui giunto, con grande devozione prese e trasportò poi, accompagnato da clero e popolo di Bolsena, le Sacre Reliquie fino al ponte sul Riccaro, dove il Romano Pontefice, con i Cardinali, chierici e religiosi e con grande moltitudine, con profonda devozione ed effusione di lacrime, inginocchiatosi, assunto con le proprie mani il venerabile Sacramento, lo portò alla cattedrale orvietana e lo ripose, con ogni possibile onore, nel sacrario della stessa chiesa.
Urbano IV, fervoroso devoto dell'eucaristia, informato del prodigioso evento, dalla sua residenza di orvieto volle che gli si portasse il corporale, e con grande pompa di cardinali, ministri e maggiorenti della città, di gran folla di popolo osannante con rami di olivo, depose il sacro lino nel tempio di orvieto. Più tardi gli si edificò il famoso duomo «vero giglio d'oro di tutte le cattedrali» dove si conserva tuttora in una cappella il prezioso reliquiario, opera di Ugolino di Vieri, sommo orafo senese (1338) con il corporale del miracolo.
Fino al 1951 si pensava che tale miracolo avesse indotto Urbano IV a stendere la sua bolla Transiturus per istituire in tutta la chiesa la festa del Corpus Domini; ma dopo gli studi di A. Lazzarini appare che la bolla era già stata scritta prima che si avvenisse al miracolo di Bolsena. Viceversa l' 8 settembre 1264 un corriere straordinario partì a spron battuto da orvieto per Liegi con un contr'ordine del papa: anziché iniziare la celebrazione della festa l'anno seguente (1265) doveva venire celebrata il giovedì successivo alla recezione del messaggio. Perché tale contr'ordine? Si è pensato al miracolo di Bolsena, che avrebbe indotto il papa ad anticipare tale festa. E' possibile, anche se non certo, perché in una lettera papale del 9 settembre 1264, indirizzata alla beata Eva di Liegi, il papa dice di aver solennizzato lui stesso ad orvieto una grandiosa festa del «Corpus Domini », senza attendere il tempo da lui fissato nella bolla, ma non allude affatto, come sarebbe stato naturale, al miracolo di Bolsena che l'avrebbe indotto a tale passo.
Ad ogni modo, nonostante l'abbondanza di documenti il miracolo è tuttora soggetto a critica. Ma pur accettandolo come dato storico, va ricordato che la visione di Pietro da Praga può essere stata occasionata da macchie di fungo (bacillus prodigiosus o monas prodigiosa) che d'improvviso copre di muffa, rossa come il sangue, i farinacei come è l'ostia e l'amido del corporale. L'umidità e la penombra della cappella possono aver favorito la realizzazione del fenomeno senza ricorrere all'apporto inconscio di sangue come suggerisce il Pioli.
Non mi dilungo a parlare della figura di Cristo, di carne o di un fanciullo apparsa nella s. ostia, in quanto il fenomeno è troppo soggettivo e storicamente poco controllabile. Anche Tommaso d'Aquino ammette la possibilità che il Cristo possa apparire e agire nell'eucaristia, ma discute il modo con cui ciò possa accadere.

3) Conclusione

I cosiddetti miracoli eucaristici sono storicamente discutibili, in quanto risalgono in gran parte al Medio Evo e la loro documentazione storica lascia molto a desiderare. Qualora alcuni di questi fatti fossero riconosciuti come storici non necessariamente documentano l'intervento di Dio. Anche a prescindere da un intervento demoniaco ad opera dell'antiCristo, già all'opera dal tempo di Paolo (2 Te 2, 9), si possono spiegare come fenomeni naturali insoliti, oppure frutto di allucinazione, suggestione, forze occulte. Ad ogni modo, fossero pure fenomeni divini, non servono affatto a difendere la presenza sostanziale di Gesù nell'eucaristia, in quanto anche l'omaggio o l'offesa ai simboli diviene un omaggio o un offesa al Gesù che vi è simboleggiato.


[Ringraziamo la Chiesa di Cristo di Padova per aver autorizzato la pubblicazione dello studio monografico del Prof. Fausto Salvoni]


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