LA
CENA
DEL SIGNORE
(Prof. Fausto Salvoni, Chiesa di Cristo di Padova)
INDICE
L'eucaristia nel corso dei secoli |
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Il Pane di Vita: preannuncio dell'eucarestia? |
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Questo è il mio corpo |
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La cena del Signore nel Nuovo Testamento |
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Miracoli eucaristici |
1) La questione della presenza di Cristo
a) La Cena del
Signore nei primi tre secoli
b) Dal VII al XIX
secolo
c) Nuovi
tentativi di spiegazione
2) Il
sacrificio eucaristico
a)
Messa e sacrificio della croce
b) Sacrificio e
sacerdozio
c)
Partecipazione al sacrificio da parte dei fedeli
3)
Insegnamento moderno del magistero ecclesiastico
a) Accento sul sacrificio eucaristico piuttosto che sul
realismo sostanziale della presenza di Gesù
b) Valore
simbolico del pane e del vino
c) Presenza di Cristo
4) La
pratica
a) La Messa
b) Norme per la
distribuzione della comunione
5) Conseguenze
pratiche
a)
Esteriorizzazione
b) Adorazione
dell'ostia
c) Sacralizzazione
della natura
d) Sacralizzazione
del tempio
e) Sacralizzazione
della casta sacerdotale
All'inizio del Cristianesimo continuò l'uso apostolico di celebrare la cena del Signore sotto l'aspetto gioioso di un pasto sacro ogni domenica – il dies domini – come appare per il 2° secolo dalla testimonianza del filosofo Giustino :
Nel giorno del sole (= domenica) coloro che abitano le città o le campagne si radunano in uno stesso luogo. Allora si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti... Poi quando il lettore ha finito, colui che presiede prende la parola per ammonire i presenti ed esortarli a seguire le belle lezioni udite. Quindi ci leviamo tutti in piedi, innalziamo preghiere e si portano il pane, il vino e l'acqua: colui che presiede innalza preghiere e azioni di grazie secondo le sue capacità e il popolo risponde: Amen (Apologia c. 66).
Il punto centrale di questa cena stava – come indica pure il nome – nel mangiare e nel bere. Ce lo documenta la prima preghiera liturgica a noi nota:
Quanto al rendimento di grazie, ringraziate così: anzitutto per il calice:
Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la santa vita di Davide, tuo servitore
che a noi rivelasti Gesù, tuo Servitore.
A Te gloria nei secoli!
Per il pane spezzato:
Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la vita e per la conoscenza,
che ci rivelasti per Gesù tuo Servitore.
A Te gloria neo secoli!
Come questo pane spezzato era prima sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno; Poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli!
Il popolo stesso portava all'altare
il pane comune di tutti i giorni, il vino per il calice e l'olio per
l'illuminazione; i più ricchi vi aggiungevano doni per i poveri. Queste offerte
costituivano il sacrificio che i cristiani, secondo la profezia di Malachia,
elevavano a Dio in ogni parte della terra.
I vescovi e gli scrittori che ne parlano non fanno altro che
ripetere le parole di Gesù, sia pure accentuando la realtà della sua carne in
senso antidoceta: « L'Eucaristia è farmaco
di immortalità » e « antidoto per non morire »: è « la carne
del nostro Signore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati e che il Padre per sua
benignità ha risuscitato
».
Dal 2° secolo i fedeli si portavano
a casa un po' di pane consacrato per conservarlo e mangiarlo in seguito. Spesso
se lo tenevano addosso in un sacchetto di tela, per usarlo, quale talismano, nei
viaggi e nei momenti di pericolo. In alcuni casi lo ponevano in bocca a un
cadavere quale viatico, come facevano i greci con l'obolo, per cui i vescovi
dovettero intervenire e biasimare alcune pratiche superstiziose e talora persino
sacrileghe.
Nei secoli 4° e 5° sorgono le prime
timide spiegazioni del mistero eucaristico.
1)
In Oriente . I padri greci parlano di una « trans-elementatio » (metastoicheìosis), per mezzo della quale gli elementi
(stoicheìa) del pane e del vino si convertono e si cambiano nel corpo e nel
sangue di Cristo. Cirillo di
Gerusalemme (m. 386), che esprime tale
concetto più chiaramente dei suoi predecessori, lo paragona al cambiamento
dell'acqua in vino, per cui il pane e il vino « sono » il corpo e il sangue
di Cristo:
Non li considerate come elementi ordinari... anche se i sensi ti suggeriscono tale pensiero; la fede ti dà la certezza assoluta. Non giudicare la realtà dal gusto; dalla fede trai invece la certezza che tu sei stato reso degno del corpo e del sangue di Cristo.
Teodoro di Mopsuestia (m. 428), insistendo sul medesimo concetto, scriveva:
Il Signore non disse: Questo è il simbolo del mio corpo e questo è il simbolo del mio sangue; ma: Questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata, ma a credere che essa, per il rendimento di grazie, si è tramutata in carne e sangue.
Tuttavia domina in Oriente una concezione dinamica delle cose, differente da quella ontologica medievale. Le realtà materiali per i greci « possono rivestirsi di tutte le proprietà secondo il volere del Creatore » (Origene, Contra Celsum 3, 41 GCS 1, p. 237) tramite la potenza dello Spirito Santo che le compenetra. Lo Spirito, ad esempio, come permea l'olio rendendolo qualcosa di sacro, di divino, così, dopo l'invocazione a lui rivolta, trasforma il pane nel corpo di Cristo:
Come il pane eucaristico dopo l'episclesi (o invocazione dello Spirito
Santo) non è più semplice pane, bensì il corpo di Cristo, così anche questo
santo profumo con l'episclesi non è più un semplice profumo comune, ma è il dono
di Cristo, essendo divenuto, per la presenza dello Spirito Santo, un dono
efficace della sua divinità
(Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 3, 3 SC 126, p. 124).
Noi supplichiamo Dio, amante dell'uomo, di
inviare lo Spirito Santo sui doni deposti, per fare del pane il corpo di Cristo
e del vino il sangue di Cristo; poiché tutto ciò che lo Spirito tocca, viene
santificato e trasformato (ivi,
Catech. Myst. SC 126, p. 154).
Come il cristiano è un uomo la cui
carne è stata afferrata dallo Spirito Santo, cioè da Dio, così anche il pane e
il vino sono in un certo qual modo compenetrati dallo Spirito Santo, che vi
attua una specie di incarnazione sacramentale e culturale del Logos. Si veda
come il concetto fondamentale degli orientali non sia affatto quello del
cambiamento di sostanza; la sostanza metafisica del cristiano o dell'olio
sacramentale rimane tale e quale, anche se è trasformata dallo Spirito Santo che
dimora in essa. Così avviene pure per il pane e il vino eucaristici, che vengono
tramutati in virtù della presenza divina che li compenetra. Non vi è una forma
sacramentale magica, bensì un'invocazione dello Spirito Santo che è mezzo di
santificazione. La chiesa torna a Dio e si apre allo Spirito Santo; Dio vi
risponde rendendo presente il Cristo. Lì, in questa comunione con il Cristo, si
realizzerà l'unità della chiesa, la cui autorità non può oltrepassare i limiti
della propria giurisdizione sacramentale. Quindi non vi può essere alcun papato,
perché il vescovo non ha autorità al di là della propria chiesa
locale.
Questo concetto eucaristico si rifà
alla metafisica platonica, secondo la quale tutti gli esseri sono una copia, più
o meno lontana, dell'idea originale che ripetono in modo imperfetto. Solo che i
cristiani hanno trasferito questo concetto metafisico dalle idee statiche a un
fatto storico: l'originale è la morte salvifica di Cristo che si presenta a noi
nella sua copia, quale il battesimo prima e la celebrazione eucaristica dopo.
L'originale in un certo senso è presente nella copia, ma la copia non è tutto
l'originale, proprio perché ne è una copia. E' visibile nella fede, ma tuttavia
ancora nascosto perché poggia sulla fede. Il Cristo è presente nell'eucaristia,
ma in modo nascosto e solo provvisorio. Tuttavia questa interpretazione
dell'eucaristia non esprime sufficientemente l'elemento personalistico; la fede,
che si richiede per accedere all'eucaristia, è solo un prerequisito, poi lo
Spirito Santo fa tutto per conto proprio, La fede apre la porta, poi agisce Dio.
Mentre nella Bibbia è l'uomo credente, che attua la Cena, che accoglie Gesù in
se stesso tramite il pane e il vino ricevuto con fede, presso i padri greci, al
contrario, il pane e il vino che prima erano possesso dell'uomo, diventano poi
possesso dello Spirito Santo: è infatti lo Spirito Santo che se ne appropria e
ne trasforma gli elementi. Il metabàllein esprime quindi un semplice cambiamento
di possesso.
2) In Occidente. I latini, invece, meno speculativi, almeno all'inizio, misero l'accento più sull'aspetto sacramentale del segno o della figura del pane e del vino, restando così più vicini al senso biblico delle parole, senza profonde indagini metafisiche. Per Tertulliano e Agostino il pane e il vino nell'Eucaristia sono la « figura », il « tipo », il « segno » del corpo e del sangue di Cristo. E' ancora l'antica concezione immagine-copia, che qui affiora. Ambrogio ammette la presenza stessa del Cristo:
Il
Signore Gesù stesso lo proclama: Questo è il mio corpo. Prima della benedizione
delle parole celesti lo si chiama con un altro nome, dopo la consacrazione, è
denominato corpo. Lui stesso dice che è il suo sangue. Prima della consacrazione
lo si chiama diversamente, dopo la consacrazione lo si chiama sangue (De Mysteriis 54)
Lo stesso Signore Gesù ci ha testificato che riceviamo il
suo corpo e il suo sangue. Forse che dobbiamo dubitare della verità e della
autorità della sua testimonianza?
(De Sacramentis IV, 23).
Ma forse tu dici: Questo è il
mio pane ordinario. Ma questo pane è pane prima delle parole sacramentali.
Quando avviene la consacrazione, il pane diventa la carne di Cristo ( de pane fit caro
Christi, De Sacramentis IV, 14).
Questo è dovuto alla parola creatrice di Dio:
Non
era il corpo di Cristo prima della consacrazione, ma dopo la consacrazione vi
dico che è ormai il corpo di Cristo. Egli disse e fu fatto, egli ha ordinato e
fu creato (De Sacramentis IV,
16).
Perché cerchi qui nel corpo
di Cristo l'ordine della natura quando lo stesso Signore Gesù è nato da una
vergine al di fuori dell'ordine della natura? (De Mysteriis 53).
E ancora:
Prima delle parole di Cristo il calice è pieno di vino e di acqua, ma quando hanno operato le parole di Cristo vi si forma il sangue che redime il popolo (De Sacramentis IV, 28).
Mentre accoglie il pensiero greco di originale-copia (immagine), Ambrogio lo sorpassa e apre un contrasto tra natura e benedizione; anziché poggiare come i greci sulla legge cosmica che tutto è immagine dell'idea divina, egli fa ricorso alla volontà creatrice di Dio e di Cristo.
Forse tu dici: io vedo però qualcosa d'altro (invece del corpo di
Cristo)! Come fai a ritenere che io ricevo il corpo di Cristo? E veramente
dobbiamo dimostrarlo. Quanti esempi (della Scrittura) dobbiamo presentare per
provare che qui non si tratta di ciò che la natura ha formato, e che la potenza
delle benedizione è più grande della forza naturale, perché con la benedizione
la natura stessa viene mutata (De
Mysteriis 9, 50 CSEL 73, 110).
Se la parola di Elia era tanto potente da far cadere il fuoco dal cielo,
non deve la parola di Gesù essere capace di cambiare la natura (specie) degli
elementi? Tu hai letto sulla creazione del mondo intero: Disse e fu fatto,
comandò e fu creato. Non può dunque la parola di Cristo, che poteva creare dal
nulla ciò che non esisteva, tramutare ciò che già esiste in ciò che ancora non
è? Il dare alle cose una nuova natura non è (per la parola di Cristo) da meno
del mutare la loro natura (ivi 9,
52 CSEL 73, 112).
Ad ogni modo, nonostante queste affermazioni così realiste, anche
Ambrogio ricorda ancora un testo del canone eucaristico leggermente differente
dal posteriore testo romano, che così suonava: « Accordaci che questa offerta spirituale sia approvata
e accettabile, perché essa è il simbolo (figura) del corpo e del sangue del
nostro Signore Gesù Cristo » (De Sacramentis 4,
5, 21 SC. Botte 1961, p. 115).
I latini, anziché dare valore
all'invocazione dello Spirito Santo, misero più in risalto l'aspetto
commemorativo dell'Eucaristia tramite la ripetizione delle parole di Gesù,
divenute poi la formula della consacrazione.
Al 4° secolo la celebrazione
eucaristica aveva assunto le linee essenziali della messa futura, con le
letture, il bacio fraterno, la recita del Padre nostro. Cirillo, vescovo di
Gerusalemme, così descriveva la comunione come si attuava verso il
352:
I
fedeli andavano all'altare porgendo la mano destra al di sopra della sinistra
«quasi fosse un trono», e il celebrante vi deponeva un pezzo di pane, sul quale
era stato pronunciato il ringraziamento. Il comunicando doveva stare attento a
non perderne nemmeno la più piccola parte: «Dimmi un po' se uno ti desse della
polvere d'oro, non la custodiresti con la massima cautela, stando attento di non
perderne nulla, per non subirne danno?» Del vino se ne beveva un sorso stando in
atto di adorazione.
Le donne anziché porgere la mano nuda, la ricoprivano con
un panno di lino (Cirillo di
Gerusalemme, Catech. Myst. 5, 21 s SC 126, pp.
170-172).
Per mostrare in modo visibile l'unità della « chiesa locale », in molte città si celebrava nelle feste una sola Eucaristia, compiuta dal vescovo circondato dai suoi presbiteri, anche se non tutti i fedeli potevano prendervi parte. Così, ad esempio, a Milano solo 5000 persone potevano trovare posto nella basilica di S. Ambrogio, mentre tutti gli altri fedeli, circa 30.000, restavano senza il sacrificio eucaristico.
Dal 7° secolo cessò l'offerta del
pane da parte dei fedeli perché i monaci si incaricavano di prepararlo; nacque
in tal modo l'ostia che con più facilità si poteva porgere ai comunicandi.. A
partire dal 9° secolo tale uso si diffuse per tutta l'Europa. Sorse allora la
consuetudine di ricevere il sacramento in ginocchio, non per venerazione
– gli antichi mostravano venerazione
stando in piedi o prostrati
– ma per rendere più agevole
al sacerdote di porre la particola sulla lingua del fedele. Si continuò a bere
il vino, nonostante che esso riuscisse sgradevole a qualche persona, che creasse
dei problemi igienici per la malattia di qualche cristiano e ce ne volesse una
gran quantità per la cresciuta moltitudine dei fedeli. Talora si cercò di
migliorarne l'igiene con l'uso di una cannuccia, che ognuno si prendeva o
portava con sé. In Oriente sorse la consuetudine
– tuttora in uso
– di intingere dei bocconcini
di pane nel vino, che poi di distribuivano con un cucchiaino ai singoli
comunicandi.
Il mondo germanico ebbe la tendenza ad accentuare l'oggetto reale;
basti ricordare la penitenza tariffata per espiare un colpa che poteva essere
surrogata con opere di altro genere e perfino da parte di persone diverse dal
colpevole. Questa tendenza «
cosificante», direbbe il Gerken
– si fece sentire anche nella
valutazione dell'eucaristia, ed esplose nella controversia del IX secolo ad
opera di due monaci del monastero di Corbie nella Francia Settentrionale,
provocata appunto dalla separazione tra il simbolo e la realtà, prima tra loro
ricollegati. Pascasio Radberto, abate di Corbie (m. 851 o 860) ne accentuò la
realtà fisica (fisico-ralistica o reale somatica), mentre il monaco Ratramno (m.
858) ne esaltò il valore simbolico (in figura).
Pascasio, al posto del rapporto
precedente sta il Cristo (originale) e il cibo eucaristico (immagine) celebrato
dalla comunità, vi sostituì il rapporto tra l'immagine data dalle apparenze
percepite dai sensi e l'originale che è la realtà non percepita dai sensi, bensì
dalla fede. L'invisibilmente presente è lo stesso
Cristo:
Così noi riceviamo nel pane ciò che pendette dalla croce e beviamo nel calice ciò che fluì dal fianco di Cristo (Lettera a Frudegardo PL 120, 1355 A).
Contro questa visione «
cafarnaitica»
– così chiamata dalla
reazione suscitata nei cafarnaiti alle parole di Gesù
– si eresse Ratramno che vide
« il corpo autentico del
Salvatore » nel corpo che « patì, fu sepolto e risorse », mentre quello eucaristico è solo « immagine». « E' dimostrato con evidenza che il pane, chiamato corpo
di Cristo e il calice chiamato sangue di Cristo, è immagine perché
mistero » (De Corpore et sanguine Domini
PL 121, 169 A). Mentre Pascasio tende ad identificare il corpo storico di Cristo
con quello eucaristico, Ratramno cerca di insistere sulle differenze: per costui
il corpo storico è realtà (veritas), il sacramento invece è immagine (figura) di
quella realtà.
Due secoli dopo (XI secolo) sorse la famosa controversia di
Berengario di Tours (m. 1088), arcidiacono della chiesa di Angers e scolastico
(ossia Maestro di scuola) del monastero dei canonici di S. Martino di Tours, il
quale sostenne che sull'altare, dopo la consacrazione, vi è nel pane e nel vino
solo un « segno » della presenza di Gesù Cristo, perché il pane e il vino
continuano ad essere « pane e
vino ». Il pane e il vino non sono il vero
corpo e il vero sangue, ma un'immagine (figura), una similitudine (similitudo).
Biasimato dal Concilio di Roma nell'aprile del 1050 sotto Leone IX, fu
ricondannato nel settembre dello stesso anno a Vercelli, dove Berengario non si
era presentato. Sotto Nicolò II fu costretto ad accettare una professione di
fede redatta dal Sinodo romano del 1059 a sfondo terribilmente sensualistico e
che, in seguito, fu biasimata dallo stesso Tommaso d'Aquino. Essa tra l'altro
asseriva:
Sono d'accordo con la chiesa di Roma e la sede apostolica... e professo con la bocca e con il cuore che il pane e il vino posti sull'altare, dopo la consacrazione sono il vero corpo e il vero sangue di Cristo; che sensibilmente e non solo sacramentalmente, vengono in realtà toccati dalle mani sacerdotali, spezzati e triturati dai denti dei fedeli.
Il problema si riaprì nel Sinodo romano del 1079 sotto Gregorio VII. Ecco come risulta dagli atti di quel Concilio:
Adunati nella chiesa del Salvatore, si trattò del Corpo e del Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, perché prima molti sentivano in un modo altri in un altro. La massima parte asseriva che il pane e il vino, tramite le parole della sacra orazione e consacrazione del sacerdote, per l'opera invisibile dello Spirito Santo, si converte sostanzialmente («substantialiter») nel corpo del Signore, che nacque dalla Vergine e fu appeso alla croce, e nel sangue che dalla lancia del soldato fu effuso dal suo costato, e questo difendeva in tutti i modi con le autorità degli ortodossi santi Padri, tanto greci che Latini. Alcuni, invece, colpiti da grande e lunga cecità, ingannando se stessi e gli altri con certi cavilli, si sforzavano di dimostrare trattarsi solo di una figura. Ma prima che si venisse al terzo giorno, la seconda parte cessò di adoperarsi contro la verità. Il fuoco dello Spirito Santo, annientando quel fuoco di paglia, e col suo fulgore oscurando la falsa luce, convertì in luce l'oscurità della notte. Alla fine Berengario, maestro di questo errore, dopo aver per lungo tempo insegnato l'empietà, confessò davanti al numeroso Concilio di aver errato, e per le sue suppliche meritò la clemenza Apostolica.
La formula uscita dal Concilio di Gregorio VII, e che fu imposta al giuramento di Berengario diceva:
Io Berengario, credo col cuore e affermo con la bocca che il pane e il vino posti sull'altare, per il mistero della sua orazione e per le parole del nostro Redentore, si convertono sostanzialmente («substantialiter») nella vera e propria vivificatrice Carne e nel Sangue di Gesù Cristo Nostro Signore, e dopo la consacrazione sono il vero Corpo di Cristo, che nacque dalla vergine, che fu appeso alla croce in offerta per la salvezza del mondo e siede alla destra del Padre, e il vero Sangue di Cristo sparso dal suo costato, non soltanto come segno e virtù del sacramento («non tantum per signum et virtute sacramenti»), ma anche nella propria natura e nella verità della sostanza («in proprietate naturae et veritate substantiae» Denz. Sch. 700).
Berengario
giurò. Il papa gli ordinò di non disputare più sul Sangue e sul Corpo del
Signore se non per richiamare alla fede allora professata e giurata quelli che
per il suo insegnamento l'avevano abbandonata a proibì a tutti i fedeli di S.
Pietro, di molestare Berengario «
Figlio
della chiesa Romana ». Forse per queste
sue ultime parole, nel 1080 Enrico IV, re di Germania e d'Italia, riuniti a
Brixen ventisette suoi vescovi dei quali diciotto dell'Italia settentrionale,
ingiunse loro di deporre Gregorio VII per eleggervi al suo posto l'antipapa
Guiberto, arcivescovo di Ravenna, e, tra le altre accuse, aggiunse questa:
«
antico discepolo dell'eretico
Berengario, pone in questione la fede cattolica e apostolica del corpo del
Signore ».
Principale
avversario di Berengario fu Lanfranco di Bec (1010-1089) che, assieme a
Guitmondo di Anversa (m. 1055), spianò la via alla transustanziazione dell'alto
Medioevo. Accolto il concetto di sostanza introdotto da Berengario, come la
somma delle proprietà percettibili dai sensi, egli distinse tra sostanza
(substantia) e forma visibile (species visibilis) e per quanto concerne il corpo
di Cristo tra essenza (essentia) e sue proprietà (proprietates). Di qui la sua
affermazione: « Noi crediamo... che le
sostanze terrene... si trasformano nell'essenza del corpo del
Signore » (De corpore et sanguine Domini
PL 130, 430).
Quindi solo
l'essenza e non le proprietà del corpo di Cristo sono presenti nel pane e nel
vino eucaristici, mentre « la forma
esteriore delle cose stesse » (ipsarum
rerum species) viene mantenuta nel pane e nel vino (ivi 150, 420 D). Di
conseguenza per Lanfranco l'eucaristia è sì un « segno », ma anche una
presenza di Gesù, per cui sbaglia Berengario nel ridurla a un puro
segno.
Tommaso
d'Aquino cercò di chiarire con più precisione il carattere sacrificale della
messa e il modo in cui il Cristo diviene presente nell'Eucaristia. Essendo
impossibile per il corpo glorioso di Cristo trasferirsi con moto locale dal
cielo alla terra ogni qual volta il sacerdote pronuncia le parole della
consacrazione, bisogna concludere che esso vi diviene presente mediante la
conversione della sostanza del pane nella sostanza del suo Corpo e della
sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue, senza che per questo il Cristo
aumenti o diminuisca di volume. Che si tratti di conversione della sola sostanza
risulta dal fatto che anche dopo tale mirabile conversione continuano a essere
presenti le apparenza
–
colore, durezza, sapore e forma – del pane e del vino (specie). Per sottolineare
tale fenomeno fu coniato in quel tempo il termine di «
transustanziazione
».
Tuttavia, per concomitanza, anche il
sangue di Cristo è presente nel pane e il corpo nel vino. Quindi colui che si
ciba solo dell'ostia riceve tutto il Cristo allo stesso modo che colui che beve
anche il vino. Poggiando su tali premesse il Concilio di Costanza, per ovviare
ad alcuni inconvenienti, soppresse definitivamente nel 1415 l'uso del vino e
introdusse l'obbligo del digiuno eucaristico dalla mezzanotte precedente la
comunione. Tale dottrina si mantenne quasi inalterata
– salvo alcune variazioni sul tempo
del digiuno – sino ai più recenti documenti ufficiale della chiesa
cattolica.
I fondatori del
protestantesimo (sec. 16°)
diedero interpretazioni diverse alla eucaristia: per
Lutero, il corpo glorioso
di Cristo si trova dovunque, anche in ogni pietra, nel fuoco e nell'acqua, come
dovunque esiste Dio, al quale esso è personalmente unito. Per chi partecipa alla
cena del Signore la presenza del Cristo nel pane e nel vino eucaristico diviene
percepibile mediante le parole dell'istituzione
(consustanziazione).
Per
Calvino nella celebrazione eucaristica lo Spirito Santo attira
a sé i partecipanti perché si incontrino con il Signore, così pure li attrae con
la predicazione, con la preghiera e con il battesimo. Non è nel pane o nel vino,
che si attua l'incontro
– come
affermava Lutero – bensì al di là dei due elementi materiali, vale a dire
« là» dove esiste
il Cristo glorioso, l'unica realtà essenziale, che si unisce con i
credenti.
Per
Zwingli ed
Ecolampadio l'eucaristia è
invece un puro simbolo e la presenza del Cristo si realizza nella nostra
mente.
Contro quei protestanti, che, per riaffermare l'aspetto biblico
della Cena del Signore insistevano più sul concetto di « segno » che su quello di
« sostanza » nella sessione 13° dell'ottobre 1551 il Concilio di Trento
definì « transustanziazione » la mirabile «
conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo...
e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue », quale si attua con le parole della consacrazione
pronunciate dal sacerdote. Con la presenza del Cristo sotto le apparenze
visibili del pane e del vino, si «
rinnova » e si « perpetua » il sacrificio
della morte di Cristo. Eccone il passo fondamentale:
Prima di tutto il sacro Concilio insegna che in questo augusto sacramento della Santissima eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto le specie (= apparenze) di queste cose sensibili, si contiene veramente e sostanzialmente il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo... Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell'Eucaristia si contenga veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con l'anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo e perciò tutto Gesù Cristo, ma dirà che in questo sacramento Gesù vi è soltanto in segno o in figura o in potenza, sia scomunicato.
Il vocabolo «
transustanziazione », che fu « usato dalla chiesa cattolica per molti secoli, è, per
il Concilio, assai conveniente e appropriato » (Sess. 13, Decreto sull'eucaristia c. 4, Denz. Sch. 1642).
L'anno 1792 Pio VI ne lamentò l'omissione da parte del sinodo di Pistoia, come
se non si fosse trattato di un termine coniato dalla chiesa per la salvaguardia
di un « articolo di fede » (Cost. Auctorem fidei n. 29 Denz Sch.
2629).
Dal secolo XIX la pietà cattolica,
lasciando nell'ombra il valore comunitario e simbolico dell'eucaristia, si
rivolse particolarmente ad adorare nell'ostia il Cristo mediante le processioni
e le benedizioni eucaristiche. La messa divenne il mezzo con il quale si rende
presente il Cristo nell'ostia; mentre il carattere conviviale scomparve, in
quanto basta una minima particella di ostia, per ricevere Gesù nella sua
completezza. Alcuni teologi più recenti, volendo rifarsi meglio al concetto
biblico di segno, ricordando che esso ha un legame inscindibile con la realtà
significata e nel caso presente, con il Cristo che muore sul Calvario, dissero
che egli divine in un certo qual modo presente nel segno. Sorsero così alcuni
nuovi tentativi per spiegare meglio la presenza eucaristica di Gesù e per
chiarire il concetto medievale di transustanziazione.
Mentre in Italia si svolgeva una discussione tra l'interpretazione
fisicistica (F. Selvaggi) e quella ontologica (C. Colombo) della conversione
eucaristica, la teologia d'oltralpe si impegnava in un altro problema: se
mantenere la parola transustanziazione troppo ontologica o cercare un altro
termine più antropologico. Si pensò quindi di sostituire il vocabolo
« transustanziazione » con altri termini più appropriati e accessibili come
« transfinalizzazione » e «transsignificazione », dai
quali apparirebbe meglio il fatto che la sostanza del pane e del vino si muta
non sul piano della sostanza ma su quello della relazione con il « credente ». Tale
idea, diffusa nel 1950 tramite un dattiloscritto francese attribuito a un
«noto teologo testè defunto», fu valorizzata per primo da I. De Baciocchi. Secondo
questi teologi il pane e il vino possono essere visti sotto diversi
aspetti.
Per il
chimico sono un puro aggregato di atomi, riuniti in modo
caratteristico.
Il
filosofo li vede nel loro aspetto ontologico particolare, e ne
ricerca l'elemento costitutivo o sostanziale, per cui essi sono pane e vino e
non sasso o acqua.
Per il
religioso sono segno della provvidenza divina che viene incontro
ai suoi figli dando loro il necessario nutrimento.
Per il
cristiano, che partecipa all'eucaristia, il pane e il vino
assumono un nuovo valore, in quanto significano il corpo e il sangue di Cristo,
per mezzo dei quali l'amore di Dio dona salvezza ai credenti.
Per
la fede dl cristiano tutto è mutato in quel momento. prima il pane e il vino
erano solo segno e prova della Divina Provvidenza, che procura ai suoi figli gli
elementi indispensabili alla loro vita naturale; ma in quell'attimo diventano il
simbolo efficace del sacrificio di Cristo, e conseguentemente della sua presenza
spirituale. per volere di Dio creatore, gli alimenti della cena acquistano un
nuovo valore: subiscono una trasformazione – la più profonda – che li tocca nel
grado più intimo dell'essere, che è il costitutivo della loro vera
realtà.
Ecco che cosa indica il nome di transustanziazione: non ne diminuiamo
la realtà, ma affermiamo che essa non si attua a livello delle apparenze o della
scienza o della filosofia. Per credere che questa trasformazione sia reale,
basta solo credere che la verità religiosa è l'ultima parola della
realtà (Citazione tratta con
piccole modifiche, a.c., p. 59, n.7. Da questo brano appare inesatta
l'asserzione di Schillebeeckz: «
Non mi consta che nella teologia cattolica anteriore al 1950 sia mai stata
avanzata una interpretazione simbolica dell'eucaristia. E' però probabile che la
critica di Roma poggi su di un malinteso » (la presenza eucaristica o. c., p. 117)).
B. Welte, in un simposio
sull'eucaristia tenuto a Passau (Germania) dal 7 al 10 ottobre 1959, recava
alcuni esempi significativi. Una cosa può cambiare la sua essenza secondo la
diversa relazione che ha con Dio o con l'uomo: una stessa sostanza chimica può
essere un alimento oppure un combustibile. Un tempio greco da un'opera artistica
com'era per il costruttore, divenne una casa sacra («casa di Dio») per i fedeli
che vi prestavano culto, e ora è un ricordo del passato per un turista. Un panno
colorato può essere una tela multicolore, ma può divenire una bandiera
nazionale, e quindi il simbolo di un popolo, assumendo così una realtà
oggettivamente diversa da quella che era prima. Allo stesso modo il pane e il
vino per volere di Dio diventano nella cena qualcosa di diverso dal comune pane
e vino in quanto sono simbolo del corpo e del sangue di Gesù; quindi per il
credente vengono transustanziati in un certo qual modo nel corpo e nel sangue di
Cristo morto e risorto.
Un carissimo amico mi è più intensamente presente e agisce in me
tramite una sua lettera più fortemente che non un estraneo che stia accanto a me
con il suo corpo. « Due uomini possono
trovarsi in stretto contatto fisico su di un tram sovraffollato ed essere
infinitamente lontani l'uno dall'altro »
(Ratzinger). Il regalo dei genitori in un giorno decisivo della vita conserva un
peso e un significato che trascende il suo valore materiale; l'amore e
l'amicizia sono capaci di elevare tali realtà al rango di segni realizzativi. Il
fatto che Cristo dona se stesso nell'eucaristia, fa sì che il pane e il vino non
sono più solo un nutrimento corporeo e un segno di comunione tra uomini; ma
segni realizzativi della sua presenza in noi, della sua donazione per noi, del
suo sacrificio che ci redime. « Proprio
questa ampiezza di donazione, al di là di ogni spazio, è l'essenza del Risorto
passato attraverso la morte »
(Ratzinger).
Sia pure con sfumature diverse, pare che tale idea sia stata
accolta da Ch. Davis, P. Schoonenberg, L. Smits, E. Schillebeeckz, A. Gerken e
dallo stesso Catechismo Olandese dove si legge, tra l'altro, che « il pane è stato sottratto alla sua normale
destinazione ed è divenuto il pane che il Padre ci ha offerto in dono: Gesù
stesso ». La presenza di Cristo sussiste
« fin tanto che sussiste qualcosa che il
buon senso può chiamare ancora pane. Insomma: il termine pane va inteso non come
concetto fisico, ma come concetto antropologico ».Perciò quando si mangia e scompare il pane, oppure quando il
frammento è troppo minuscolo da non essere più considerato pane, allora non vi è
neppure la presenza di Gesù. « Quando
riceviamo il corpo di Cristo, la sua presenza diviene più intensa in noi, per
mezzo dello Spirito
».
Prima del medio Evo non si è riflettuto in maniera speciale
su ciò. Andava da sé che la realtà della presenza di Gesù consistesse in questo
segno.
ll Medio Evo approfondiva maggiormente. La coscienza religiosa trovò
allora questa espressione del mistero: gli «accidenti», cioè le specie, colore,
gusto, ecc. del pane, restano; la «sostanza», cioè il fondo proprio, l'essenza
del pane non resta, ma diventa Cristo stesso. Se si continua tale
approfondimento secondo il nostro pensiero contemporaneo, ci si esprimerebbe
così: il fondo proprio, l'essenza delle cose materiali e ciò che essi sono – ciascuna alla sua maniera – per l'uomo –. Ora nella
messa l'essenza del pane diventa radicalmente un'altra: il corpo di Gesù come
nutrimento per la vita eterna. Corpo significa in ebraico la persona presa come
un tutto. Il pane è diventato tutta la persona di Gesù...
(Catechismo
Olandese, pp. 403-404).
Secondo un recente studio di Ratzinger la transustanziazione non sarebbe un cambiamento nell'ordine delle realtà fisico-chimiche, bensì dell'autonomia, essenziale ad ogni essere. Quando il pane e il vino sono consacrati, essi perdono la propria autonomia per divenire puri e semplici segni della presenza di Cristo fra noi, sussistono solo « per lui e in lui ». Nella loro stessa essenza e nel loro essere sono ora segni, così come prima nella loro essenza erano « cose». E in tal modo sono veramente transunstanziati e raggiunti nella loro più segreta profondità e incomunicabile proprietà, nel loro essere, nel loro vero senso: in sé.
Assieme al problema della presenza
di Gesù nel pane e nel vino eucaristico, si andò sviluppando anche lo studio
dell'eucaristia nel suo aspetto sacrificale.
Ignazio di Antiochia nelle sue sette
lettere non chiama mai sacrificio (thusìa) l'eucaristia.. I primi che ne parlano
presentano come tale non la consacrazione del pane e del vino, bensì le
preghiere dei cristiani che accompagnano la celebrazione eucaristica in armonia
con i passi biblici. Giustino scrive:
(Dio) gradisce le preghiere degli individui della nazione (ebraica) dispersi (tra i popoli) e chiama sacrifici le loro preghiere. ora le preghiere e le azioni di ringraziamento compiute da uomini degni sono i soli sacrifici perfetti e graditi a Dio...; infatti solo questi i cristiani hanno avuto l'ordine di compiere, anche nella cerimonia del loro cibo solido e liquido, durante la quale commemorano la passione subita dal Figlio di Dio (Giustino, Dial. contro Trifone 117).
Egli vi unisce l'offerta del pane e del vino, sui quali a partire dal 2° secolo si sposta l'accento nel ricordare le offerte dei fedeli; questi elementi terrestri, che i cristiani portano a Dio, sono il sacrificio universale predetto da Malachia (1, 11).
Circa il sacrificio offerto a Dio da noi gentili in tutti i luoghi, cioè il pane e il calice dell'Eucaristia, ci fu allora una profezia nella quale Dio afferma che noi onoreremo il suo nome, quello che voi (ebrei) bestemmiate (Giustino, Dialogo 41, cita Ml 1, 11).
Nel nostro sacrificio presentiamo a Dio ciò che già gli appartiene – sostiene Ireneo – vale a dire il pane e il vino:
Nel dare le sue istruzioni ai discepoli perché offrissero a Dio le primizie della sua stessa creazione – non perché egli ne avesse bisogno ma perché essi recassero frutti di gratitudine – Gesù prese tra le cose create un po' di pane e un po' di vino, rese grazie e disse: Questo è il mio corpo. Anche per lo stesso calice che è parte della sua creazione e che appartiene a lui, egli confessò che era il suo sangue e in tal modo insegnò come doveva essere l'offerta della nuova alleanza. La Chiesa ha ricevuto il comando dagli apostoli e la offre in tutto il mondo a Dio che fornisce gli alimenti, come primizia dei suoi doni (Ireneo, Adv. Haer. 4, 17, 5).
Così, anche secondo Ireneo, si compie la profezia di Malachia circa il futuro sacrificio puro, offerto da Dio in ogni luogo. Che le parole di Giustino di riferiscano alla semplice offerta del pane e del vino, è reso chiaro in tutto il capitolo seguente (c. 18) di solito trascurato dai teologi:
«Noi siamo obbligati a offrire a Dio le primizie della sua creazione, come comandò Mosè dicendo di non apparire dinanzi a Dio con mani vuote ». La differenza tra le antiche offerte e le nuove sta nel fatto che noi, cristiani, siamo liberi e non schiavi come gli ebrei. « Solo la chiesa offre al creatore questa offerta pura, presentandogli, con ringraziamenti, cose prese dal creato ». «Noi ora gli presentiamo delle offerte, non perché egli ne abbia bisogno, ma per ringraziarlo dei suoi doni, e in tal modo santifichiamo quello che egli ha creato ». Inizialmente, come appare al tempo di Ippolito (3° secolo), l'eucaristia fu appunto chiamata anche «offerta», proprio per il risalto che si dava alla presentazione dei doni: pane, vino, olio, aiuto per i poveri. Appunto tale offerta costituiva allora il vero e proprio sacrificio dei fedeli, e non un solo rito preparatorio al sacrificio eucaristico. L'eucaristia, al dire di Agostino, non era la rinnovazione di un sacrificio della croce, ma solo « la memoria del sacrificio della croce che si attua dopo l'ascensione di Gesù (al cielo) » (Agostino, Contra Faustum 20, 21).
Con lo sviluppo liturgico della messa, la presidenza fu riservata a qualche persona (vescovi-sacerdoti) per cui si andò formando l'idea che il sacerdote avesse un potere superiore a quello dei semplici laici. Prima ognuno compiva la sua offerta sacerdotale, in seguito i fedeli la presentavano al sacerdote scelto dalla comunità. Il primo passo si compì in Africa con Cipriano che così scrive:
Dal momento che Gesù Cristo, Signore e Dio nostro sommo sacerdote di Dio e primo offerente di se stesso al Padre in sacrificio, comandò di fare questo in sua memoria, davvero il sacerdote che imita quello che Gesù ha fatto, compie esattamente l'ufficio di Cristo e nella chiesa di Dio offre un vero e completo sacrificio qualora si accinga ad offrirlo nello stesso modo con cui ha visto il Cristo offrirlo (Cipriano, Ep 63 (62) PL 4, 385).
L'offerta dei doni (pane e vino), pur essendo ancora un atto del sacerdozio universale dei credenti, è ora data nelle mani dei sacerdoti ufficiali perché essi stessi la presentino a Dio.
Il sacerdote – scrive Agostino – prende da voi ciò che egli sta per offrire per conto vostro, quando volete riconciliarvi con Dio per i vostri peccati (Agostino, Enarrationes in Ps 129, 7).
Tuttavia anche la processione dei
fedeli conserva tuttora il suo valore perché ad essa
– nota Ambrogio
– non possono partecipare i
neo-battezzati prima degli otto giorni dal loro battesimo e nemmeno gli
scomunicati, come prescrive il Sinodo di Elvira (c. 50) (Ambrogio, In Ps 118,
prol. 2; Sinodo di Elvira (a. 305) can. 60). Ancora al 6° se4colo il concilio di
Maçon (a. 585) prescriveva a tutti i cristiani, uomini e donne, di portare
all'altare ogni domenica del pane e del vino (can. 4).
Con l'idea della transustanziazione
l'offerta compiuta dai fedeli, sia pure tramite il sacerdote, passò in seconda
linea e si ritenne un sacrificio quello che il sacerdote compie rendendo
presente Gesù, senza alcun riguardo al sacrificio dei fedeli. Ormai è il
celebrante che rinnova nella messa il sacrificio di Cristo, per cui l'accento
passò dall'offertorio
–
ritenuto ormai una sua semplice preparazione
– alla consacrazione, che,
come vero sacrificio, rinnova in modo incruento quello della
croce.
Tommaso D'Aquino ha mostrato che
anche i cristiani hanno nell'eucaristia, un sacrificio da offrire, perché è
legge di natura che ogni religione abbia il suo sacrificio (Summa Teol. 2.2 ae
q. a. 1). Esso non consiste nella comunione bensì nella consacrazione; la
partecipazione al sacrificio è tuttavia necessaria per cui i sacerdoti si
comunicano sia per se stessi, sia in rappresentanza dei fedeli (ivi 3, 80, 12).
L'eucaristia è offerta dallo stesso Cristo per bocca del sacerdote e possiede la
stessa efficacia del sacrificio della croce, che essa rappresenta e commemora
(3, 83, 1).
I protestanti, poggiando
sull'affermazione biblica che unico e irripetibile è il sacrificio della croce,
negarono che la messa fosse un vero sacrificio. La prima testimonianza ufficiale
del termine transustanziazione si ebbe solo nel 1215 con il concilio Lateranense
IV.
Nella chiesa il sacrificio è dato dallo stesso sacerdote Cristo Gesù, il cui corpo e sangue si contengono nel sacramento dell'altare sotto le specie del pane e del vino dal momento in cui, per divino potere, il corpo si transostanzia nel pane e il sangue nel vino (c. 1 De fide catholica contra Albigenses et Catharos, Denz. Sch. 802).
Per tale motivo il Concilio di Trento scomunicò chiunque negasse il sacrificio della messa.
Se qualcuno dirà che nella Messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, oppure che questo consiste solo nel fatto che Cristo viene dato in cibo, sia scomunicato (Concilio di Trento, Sess. 22 (a. 1562) Denz. Sch. 1751).
In epoca moderna i teologi hanno tentato di chiarire meglio l'essenza del sacrificio eucaristico, seguendo due correnti: l'offerta a Dio e l'immolazione.
1) Offerta . Secondo il Lepin, Suarez, Scheeben è solo l'offerta e non l'immolazione che appartiene all'essenza del sacrificio. L'olocausto è ucciso solo per essere bruciato e così produrre qualcosa di profumato e gradito da offrire a Dio. Dopo il sacrificio di Noè: « Il Signore odorò la fragranza soave e disse: Non... colpirò ogni essere vivente (mediante il diluvio) » (Ge 8, 21). La Messa è quindi un sacrificio perché è una nuova offerta della croce, compiuta da Gesù tramite il sacerdote.
2) L'immolazione sarebbe invece essenziale al sacrificio, per cui senza l'effusione di sangue, non vi sarebbe remissione di peccato. Quindi anche la messa deve consistere in una immolazione, che però è intesa in modo diverso.
a. Essa consiste nel fatto che Gesù glorioso (che già una volta si incarnò) ora di annichila e assume la forma di cibo e di bevanda. Così in passato sostennero il De Kugo e Vasquez.
b. Per altri (Billot, O. Casel, A. Piolanti, O. Betz) l'immolazione avverrebbe solo simbolicamente, perché dopo la consacrazione il corpo e il sangue (anche se nella realtà non sono disuniti tra loro) sono tuttavia rappresentati come se fossero separati sotto le specie del pane (corpo) e del vino (sangue). « La Messa è una celebrazione rituale e la ripresentazione dell'azione divina (...) nella quale il fatto salutare del passato diventa presento nel rito (...) per cui la comunità che vi partecipa ottiene in tal modo la salvezza » (Casel).
3) Per il De La Talle la Messa sarebbe un nuovo sacrificio solo per il fatto che la chiesa aggiunge la propria offerta sacrificale alla immolazione compiuta da Gesù sulla croce e che viene ricordata dai simboli eucaristici. Ma in tal caso non sarebbe più il sacrificio della croce (che è unico ed irripetibile), bensì un nuovo sacrificio diverso dal precedente.
Anche i fedeli hanno parte nell'azione liturgica della santa Messa, come asseriva già nel medio Evo Innocenzo III (m. 1216).
Non soltanto offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli; perché ciò che (nell'Eucaristia) si compie per il ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli (Innocenzo III, De sacro altaris mysterio 3, 6).
Scriveva Pio XII:
E' necessario che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al sacrificio eucaristico non con una assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore, da porsi in intimo contatto con il sommo sacerdote (Gesù) (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947)).
Come partecipano i fedeli a questo sacrificio? Ce lo spiega la Mediator Dei di Pio XII.
A questa oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo: perché essi offrono il sacrificio non soltanto per mano del sacerdote, ma in un certo modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione la stessa offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947) Denz. Sch. 3851).
Sin dai primi tempi della chiesa i
cristiani contribuivano attivamente alle spese per la cena del Signore e per la
stessa comunità presentando i propri doni nel cosiddetto offertorio: pane, vino,
cibo per i poveri, olio per le lampade della illuminazione. Più tardi questo
comportamento comunitario fu sostituito da un modo di agire più
individualistico: la Messa fu valutata per i suoi effetti che produce per se
stessa e si è pensato di indirizzare tali benefici spirituali verso se stessi o
verso i defunti. perché tale applicazione si effettuasse, i cristiani hanno
pensato di offrire del denaro al sacerdote perché offrisse una o più messe per
una determinata intenzione. Il sacerdote si tiene tale denaro per il proprio
sostentamento o per altri bisogni. Solo nel caso che egli celebri di domenica
più messe, ha il diritto di tenersi l'offerta di una sola Messa, mentre
l'eventuale contributo per l'altra o le altre viene devoluto al vescovo oppure
utilizzato in opere di carità secondo le disposizioni episcopali. Nel Medioevo
si infiltrarono al riguardo anche delle superstizioni, come nel caso delle
cosiddette messe gregoriane.
Paolo VI con il motu proprio
Firma in traditione
–
spinto forse dalla crescente diminuzione di tali offerte
– ne sottolineò il vantaggio
spirituale:
Costoro, spinti dal loro senso religioso ed ecclesiale, si uniscono alla celebrazione della Pasqua del Signore con un loro personale concorso... si associano in un modo più intimo al Cristo sofferente e ne percepiscono frutti più abbondanti.
In qualche luogo l'offerta di messe costituisce l'unico
mezzo con cui i sacerdoti e i loro collaboratori possono venire sostentati. La
chiesa quindi «non solo approva ma
incoraggia il contributo dei fedeli tramite l'offerta di sante messe » (Firma in traditione del 13 giugno 1974; Oss. Rom.
28-6-74, p. 1).
Penso che i cristiani dovrebbero
evidentemente aiutare le loro guide spirituali come suggerisce l'apostolo Paolo
(1 Co 9, 4-11; 1 Ti 5, 17 s) e come lui pure venne aiutato in particolari
momenti di necessità (Fl 4, 10-20), ma ciò entro i limiti suggeriti dalla parola
di Dio. Tale aiuto deve essere effettuato per amore e non per interesse
personale (come nel caso delle messe applicate a se stessi o a propri defunti),
senza incorrere nella superstizione (messe gregoriane) e senza attribuire
un'efficacia inesistente a un sacrificio non biblico. L'efficacia viene ai
cristiani dal sacrificio della croce, di cui ogni credente si appropria tramite
la fede obbediente.
La dottrina eucaristica del Vaticano II e, specialmente di Paolo VI, pur riallacciandosi sostanzialmente alla dottrina tradizionale, ha messo in particolare rilievo i seguenti punti:
Nella Cost. Sacrosantum Concilium leggiamo: « Il nostro Salvatore nell'ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della croce... Sacramento nel quale si riceve il Cristo » (n. 47).
«La Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo, i quali sono così in un certo modo presenti» (Cost. Lit. 47); è «il sacrificio per eccellenza » (Presbyt. ordinis 5), nel quale i sacerdoti « ripresentano... l'unico sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ha offerto se stesso al Padre» (Cost. Chiesa n. 28) e «perpetua nei secoli... il sacrificio della croce» (Cost. Lit. n. 47).
Paolo VI, nell'Omelia per la festa del Corpus Domini (29 maggio 1975), ha detto: «Gesù compie gesti insoliti... distribuendo ad un dato momento pane e vino così radicalmente investi da nuove, qualificanti ed essenziali definizioni del suo proprio corpo e del suo proprio sangue da trasformare il pasto in sacrificio» (Oss. Rom. 30-5-75 p. 1).
Sulla scia dell'insegnamento biblico Paolo VI ha accentuato il valore simbolico dei segni visibili, che riguarda tanto la comunione con il Cristo quanto la comunione dei fedeli tra loro.
1) Comunione con il Cristo
Il pane e il vino, queste specie tanto comuni hanno valore di simbolo, di segno: segno di che? ... segno che Cristo vuol essere nostro cibo, nostro alimento, principio interiore di vita per ciascuno di noi... L'incarnazione si estende nel tempo affinché ogni cristiano divenga davvero come il tralcio alimentato dal ceppo dell'unica vie (Gv 15, 1), il prolungamento di Cristo» (Paolo VI, Allocuzione del 5-6-69, Oss. Rom. 6/7-6-69, p. 1).
2) Simbolo dell'unità ecclesiastica. Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito questo concetto:
Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e si compie l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (Cost. Chiesa (21-11-64) n. 3).
«L'eucaristia è
segno perfetto di unità », è « causa meravigliosa dell'unificazione dei
credenti con Gesù Cristo e fra di loro » « benché alimenti grandemente la vita intima, essa
eccelle anche per l'efficacia sociale »,
ed è « sorgente della vera
amicizia ». L'eucaristia « è istituita perché diventiamo fratelli; è celebrata
dal sacerdote ministro della comunità cristiana, perché da estranei, dispersi e
indifferenti gli uni dagli altri, noi diventiamo uniti, uguali ed amici; è a noi
data perché da massa apatica, egoista, gente fra sé divisa ed avversaria, noi
diventiamo un popolo, un vero popolo, credente e amoroso, di un cuore solo e di
un'anima sola ». « La grazia specifica di questo sacramento è precisamente l'unità
del corpo mistico... l'eucaristia è figura e causa di questa unità », Essa «significa e produce una comunione di fede che può avere un enorme
e incomparabile beneficio riflesso sulla società temporale degli uomini... è il
sacramento capace di renderli fratelli
».
«Gesù ha dato se
stesso come alimento interiore di vita personale e come principio di unità
sociale, vivente ed organica, così da compaginarci tutti, nella pienezza della
nostra singola personalità, in un solo corpo, il suo corpo mistico, che è la
comunione dei santi, la chiesa cattolica»
Appunto perché l'eucaristia è simbolo di unità ecclesiale non è possibile
l'intercomunione con i fratelli separati, a meno che non si tratti di ortodossi,
assai più vicini al cattolicesimo di tutti gli altri credenti separati. Di qui
la preghiera eucaristica: « Guarda con
amore e riconosci nell'offerta della tua chiesa, la vittima immolata per la
nostra redenzione, a noi che ci nutriamo del suo corpo e del suo sangue dona la
pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo, un solo corpo e un
solo spirito ».
Non si tratta evidentemente di novità, perché era
vissuta tale idea dai primordi del cristianesimo: già la Didachè, verso la fine
del 1° secolo, affermava: « Come questo
pane era sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si
raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno» (9, 4). Tale concetto dominava in Africa dove
Cipriano, vescovo martire del 3° secolo, scriveva: « Quando il Signore chiama il suo corpo pane, risultante
dall'unione di molti grani, vuole indicare il nostro popolo adunato ». E altrove «
nel sacramento stesso si mostra il nostro popolo riunito ».
Sulla scia di tali idee unitarie,
Agostino sottolineava che l'unità della chiesa è creata
nell'eucaristia:
Uno solo pane formato da molti grani, un solo corpo composto da molti membri, così la chiesa di Cristo, è composta da molti fedeli, che sono uniti nella carità.
Dello stesso è l'espressione: « O sacramentum pietatis! O signum unitatis! O vinculum caritatis! ».
Anche Tommaso, riallacciandosi al vescovo di Ippona, scriveva:
L'Eucaristia realizza l'unità della chiesa perché consiste in una comunione mediante la quale gli uomini sono uniti a Cristo, in quanto partecipano al suo corpo e alla sua divinità, e di conseguenza vengono puri uniti tra di loro. L'unione comprende due unità: la prima riguardante l'incorporazione che ci unisce a Cristo e la seconda consiste nell'unità che noi stessi riceviamo dal Cristo capo.
Ma nel corso dei secoli tale idea rimase soffocata dai
problemi riguardanti la presenza reale di Cristo, per cui ha fatto bene il
magistero della chiesa cattolica e riesumarla nei tempi moderni. Il concetto
dell'eucaristia come segno di unità ha fatto sorgere il problema se alla
comunione eucaristica dei non cattolici possano partecipare i cattolici, per i
quali « l'unica chiesa di
Cristo,
costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste solo nella
chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione
con lui ». Secondo costoro, dal momento
che l'eucaristia è il sacramento dell'unità della chiesa, ne deriva che quanti
non sono cattolici non possono accedere all'eucaristia cattolica. Il problema è
stato più volte esaminato dal Concilio Vaticano II sia dal Segretariato per
l'unione dei cristiani.
Nel decreto conciliare sull'ecumenismo Unitatis redintegratio su dichaiara che «comunicazione nelle cose sacre non si deve usare
indiscriminatamente come mezzo per ristabilire l'unità dei cristiani » (n. 8). In altre parole non si può permettere la
comunione eucaristica ai fratelli separati con lo scopo specifico di facilitare
il loro ingresso nella chiesa cattolica. Il Segretariato per l'unione dei
cristiani si è espresso prima nel suo
Direttorio ecumenico (1967
nn. 44 e 55) e poi nell'Istruzione del 1972 sui
«casi di ammissione di altri cristiani
alla comunità eucaristica della chiesa cattolica».
Nel sacrificio della Messa,
celebrando il mistero di Cristo, la chiesa celebra il proprio mistero e
manifesta concretamente la sua unità (n. 2b). la relazione tra la celebrazione
locale dell'eucaristia e l'intera comunione ecclesiale viene indicata anche nel
ricordo speciale del papa, del vescovo locale e degli altri vescovi (n. 2c).
Quindi per sua natura la celebrazione eucaristica esige una piena professione di
fede e una completa comunione ecclesiale (n. 4a).
Ora tale principio sarebbe alterato qualora un fratello
separato, pur professando una fede diversa dalla cattolica, chiedesse di
ricevere questo sacramento per manifestare la sua unione fraterna con i
cattolici, senza però entrare a far parte della loro chiesa. Ma se invece, non
potendo ricorrere « al ministro della
propria fede ecclesiale per un periodo prolungato di tempo », sentisse il bisogno « di questo nutrimento spirituale », il vescovo locale deve giudicare se quel fratello separato,
vivente nella diaspora a riguardo della sua chiesa, possa essere ammesso alla
comunione eucaristica (n. 6). Questo riguarda particolarmente gli ortodossi
perché costoro, pur essendo separati da Roma, di fatto riconoscono la
successione apostolica, il sacerdozio e l'eucaristia, e quindi sono uniti alla
chiesa cattolica da uno stretto legame. I cattolici, nelle stesse condizioni,
possono pur essi partecipare alla comunione ortodossa..
Infine una nota del 17 ottobre 1973 dello stesso
Sgretariato osserva che: «il desiderio
della partecipazione comune all'eucaristia esprime in fondo il desiderio stesso
della perfetta unità ecclesiale di tutti i cristiani come Cristo l'ha
voluta» (n. 10). Quindi essa concludeva
con:
«la speranza che il movimento ecumenico ci conduca a una comune professione di fede tra i cristiani e ci permetta così di poter celebrare nell'unità ecclesiale l'Eucaristia, adempiendo le parole (dell'apostolo): Perché v'è un solo pane, noi pure siamo un corpo solo » (n. 10).
Siamo anche qui ben lontani dalla valutazione di Paolo che suggeriva la credente di «esaminare personalmente se stesso» prima di accedere alla cena del Signore, senza bisogno di legislazioni ecclesiastiche che gli permettano o gli proibiscano di fare la comunione.
Molti teologi moderni hanno notato l'assenza della parola « transustanziazione» tanto nei documenti conciliari (Vaticano II) quanto in molti discorsi di Paolo VI; hanno pure rilevato che la dichiarazione ecumenica di Windsor (commissione internazionale anglicana e cattolico-romana) del 7 settembre 1971, ha evitato, sia pure per evidenti ragioni di carità fraterna verso i « fratelli separati » non cattolici, di nominare la « transustanziazione ». Ma da questo fatto sarebbe arbitrario ed erroneo dedurre che il magistero cattolico odierno abbia accolto il pensiero di quei teologi – particolarmente olandesi – che cercano di minimizzare la trasformazione ontologica del pane e del vino a vantaggio della sua simbologia. Troppi documenti vi sono contrari:: bisogna credere – dice Paolo VI – che dopo la consacrazione, il pane e il vino « sono un'altra cosa del tutto diversa » e ciò non solo in base al giudizio della fede ecclesiastica ma per la realtà oggettiva, in quanto convertitasi la sostanza del pane e de vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla più rimane del pane e del vino se non le sole specie, sotto le quali tutto intero il Cristo è presente nella sua fisica realtà, anche corporalmente...
Nell'Omelia del Corpus Domini 1970, Paolo VI ha ripetuto:
La presenza di Cristo è vera e reale, ma sacramentale... Si tratta di una presenza rivestita di segni speciali, che non lasciano vedere la sua divina e umana figura, ma solo ci assicurano che Egli, Gesù del vangelo ed ora Gesù vivente nella gloria del cielo, è qui, è nell'Eucaristia. Dunque si tratta di un miracolo? Sì, di un miracolo che Egli, Gesù Cristo diede il potere di compiere, di ripetere, di moltiplicare di perpetuare ai suoi apostoli, facendoli Sacerdoti, e dando a loro questo potere di rendere presente tutto il suo Essere, divino e umano, in questo sacramento... che sotto le apparenze del pane e del vino contiene il corpo, il sangue, l'anima e la divinità di Gesù Cristo.
Anche in un'altra circostanza Paolo VI volle richiamare alla mente questa misteriosa trasmutazione «del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù, che sbalordisce la mente umana e la rende attonita:
L'agàpe a questo punto si fa mistero. La presenza del Signore si fa viva e reale. Le apparenze sensibili restano quelle che erano, pane e vino; ma la loro sostanza, la loro realtà è intimamente cambiata; quelle restano solo per significare ciò che le ha definite la parola onnipotente, perché divina: corpo e sangue. Noi rimaniamo attoniti. Anche perché questo prodigio è proprio ciò che il Signore ci ha detto di ricordare; anzi di rinnovare.
I documenti più importanti si trovano nell'enciclica Mysterium fidei (1965) e nella Professione di fede del popolo di Dio (30 giugno 1968). Nella prima, dopo aver respinto alcuni termini moderni come « transignificazione » e «transfinalizzazione » che non accennano alla reale conversione ontologica di tutta la sostanza del pane e del vino nelle sostanze del corpo e del sangue di Cristo, Paolo VI soggiunge:
« La norma di parlare che la chiesa nel suo lungo secolare lavoro non senza l'aiuto dello Spirito santo, ha stabilito, confermandola con l'autorità dei concili, norma che spesso è divenuta la tessera e il vessillo dell'ortodossia, dev'essere religiosamente osservata: né alcuno, secondo il suo arbitrio o col pretesto di nuova scienza, presuma di cambiarla ».
Gli enunciati del
Tridentino non esprimono concetti legati a una
certa forma di cultura, a una determinata fase di progresso scientifico, all'una
o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che la mente umana percepisce
della realtà... e perciò tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti
i tempi e di tutti i luoghi.
E' quindi «necessario serbare un esatto modo di parlare, affinché con l'uso
di parole incontrollate non ci vengano in mente false opinioni circa la fede nei
più alti misteri».
Quindi con grande chiarezza, Paolo
VI sconfessa alcuni modi recenti di intendere questa presenza
reale:
Malamente dunque qualcuno spiegherebbe questa forma di presenza
immaginando il corpo di Cristo glorioso di natura pneumatica onnipresente,
oppure riducendola ai limiti di un simbolismo, come se questo augustissimo
sacramento in neint'altro consistesse che in un segno efficace della spirituale
presenza di Cristo e della sua intima congiunzione con i fedeli membri del corpo
mistico.
La sostanza del pane e del vino non è più quella che era prima, ma
un'altra cosa tutta diversa; e ciò non soltanto in base al giudizio della fede
della chiesa, ma per la realtà oggettiva, poiché convertita la sostanza o natura
del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla rimane più del pane
e del vino che le sole specie, sotto le quali Cristo tutto i9ntero è presente
nella sua fisica realtà... Perciò (è questa realtà) che è contenuta, offerta e
mangiata.
Anche nel
Credo
del popolo di Dio (1968) Paolo VI
dichiara: «Questa conversione in modo
conveniente si chiama transustanziazione da parte della Santa chiesa ». Quindi nessun cedimento nei riguardi della
tradizione di fronte ai movimenti moderni, anche se talune idee sono state
reinserite nel pensiero tradizionale. A ragione J. Guitton nella sua prefazione
a un recente libro di un domenicano francese, così
concludeva:
«
Rileggendo Pascal, ho trovato alcune
formule mirabili per esprimere questo mistero, che egli aveva posto al centro
della sua vita e della sua morte: Noi crediamo che la sostanza del pane essendo
cangiata e trasformata in quella del corpo del Nostro Signore Gesù Cristo, egli
è realmente presente. Ecco una delle verità. Un'altra è che questo sacramento è
altresì la figura della croce e della gloria, ed è il memoriale di entrambe.
Questa è la fede cattolica comprendente queste due verità, che sembrano
opposte.»
4) La pratica
Le idee precedenti sono state inserite praticamente nella nuova liturgia della Messa e nelle norme riguardanti la distribuzione della comunione recentemente emanate dal Vaticano.
Il 25 marzo 1970 Paolo VI ha pubblicato il nuovo
Messale Romano che si apre con le costituzioni apostoliche Missale Romanum del 3
aprile 1969 e Mysterii Paschalis del 14 febbraio 1967 per la promulgazione del
nuovo calendario romano. In questo nuovo rito il sacerdote bacia dapprima la
mensa ridotta a un semplice tavolo comune con poche candele accese e con un
calice di materiale non prezioso. Saluta poi il popolo con le parole:
«Fratelli, riconosciamo i nostri peccati
per essere degni di celebrare i sacri misteri ». Seguono tre letture bibliche tratte rispettivamente
dall'Antico Testamento, dalle lettere apostoliche e dai vangeli in modo di
presentare in tre anni tutte le più importanti parti della Bibbia. Dopo l'omelia
si svolge una preghiera universale, il cui tema può anche essere proposto dai
fedeli.
Recitato il credo, si fa l'offerta del pane e del vino,
possibilmente anche di altri doni, per la chiesa e per i poveri, mentre si
recita la seguente preghiera: « Benedetto
sei tu, Signore, Dio dell'universo; dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane
(vino) frutto della terra e del nostro lavoro, e lo presentiamo a te perché
divenga per noi cibo di vita eterna
».
Segue l'usuale consacrazione del pane e del vino, poi
la rottura del pane, che dovrà apparire visibilmente, per cui il « pane eucaristico, sebbene azzimo, deve essere fatto in
modo tale che il sacerdote nella messa celebrata con il popolo, possa spezzare
l'ostia in varie parti e distribuirla almeno ad alcuni fedeli ». La «rottura
del pane», secondo l'istruzione,
«è la definizione più apostolica
dell'eucaristia », perché nell'unico pane
distribuito tra i fedeli si raffigura l'unità e la carità che tutti
riunisce.
Prima di distribuire il pane (e talora anche il vino)
ai fedeli, che lo ricevono in piedi con le proprie mani, il sacerdote invita
l'assemblea a scambiarsi il «segno di
pace»: abbraccio, bacino o inchino,
stretta di mano ecc. Esso deve mostrare l'amore e il mutuo perdono che lega
tutti i partecipanti alla celebrazione della Messa. I laici possono anche
autocomunicarsi, prendendo personalmente l'ostia dalla pisside, purché si
elimini ogni pericolo di irriverenza e non se ne lasci cadere in terra alcun
frammento. In alcuni casi, come in occasione delle nozze, i fedeli possono anche
bere un sorso di vino dal calice.
Il rito termina con un cantico di ringraziamento,
un'ultima preghiera sacerdotale, la benedizione finale e la frase di commiato;
« La Messa è finita, andate in
pace ». Se si vuole, il culto può
prolungarsi ancora con una breve discussione su qualche brano biblico o sopra un
argomento di attualità.
Il papa, presentando la nuova Messa ai fedeli,
suggeriva il dovere di «fare della Messa
più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa
palestra di sociologia cristiana
».
L'obbligo di santificare la domenica
con la Messa (sotto pena di peccato mortale) è imposto a tutti i cattolici, che
non ne siano fisicamente o moralmente impediti. La celebrazione domenicale
cattolica è quindi più vicina alla pratica neotestamentaria che non l'uso di
alcuni gruppi protestanti, che limitano la celebrazione della cena del Signore a
qualche festività annuale. Al contrario l'obbligatorietà sotto minaccia di colpa
grave non corrisponde alla responsabilità che dovrebbero avere tutti i
cristiani: al culto essi devono andare spontaneamente, per fede, per bisogno
interiore e non per una imposizione dall'esterno. Per meglio dare ai fedeli la
possibilità di santificare la festa si è ora concessa, a discrezione del vescovo
diocesano, la facoltà di anticipare la celebrazione della Messa domenicale al
sabato sera. Tale facilitazione può accordarsi (almeno in parte) con l'uso dei
primi giudeo-cristiani che celebravano la cena del Signore al principio della
domenica, la quale per loro iniziava con il tramonto del
sabato.
Possono distribuire la comunione non
solo i ministri ordinari (sacerdoti, diaconi, accoliti) ma in casi particolari
– concorso di popolo, carenza di
personale
– anche altre
persone a ciò deputate dal vescovo. Si noti la solita gerarchizzazione degli
atti di culto per i quali si allarga sempre più la cerchia degli addetti dietro
permesso vescovile, mentre sino al secolo VIII tutti i cristiani potevano
tranquillamente e senza alcun permesso da parte della gerarchia prendere e
portare altrove il pane e il vino eucaristico. Solo in seguito ciò fu riservato
al clero propriamente detto, esentandone del tutto i laici. Con la
Istruzione Fidei Custos
emessa il 30 aprile del '66 dalla S. Congregazione dei sacramenti si attribuiva
ai vescovi e agli abati dei monasteri il diritto di designare i ministri
straordinari secondo la successione seguente: « suddiacono (ora non più
esistente), chierico minore, tonsurato,
religioso laico, religiosa, catechista, semplice fedele, uomo o
donna». Con la recente istituzione del '73
(Immensae caritatis) solo i vescovi (e non più gli abati) possono scegliere i
ministri straordinari, seguendo la precedenza che essi ritengono più opportuna,
preferendo per la sua capacità magari un religioso a un seminarista, una donna a
un uomo e via dicendo.. So confermò invece la proibizione dell'autocomunicazione
sia che essa si attui accostandosi direttamente al vaso contenente il pane o il
vino, sia facendo circolare il vaso con gli elementi consacrati; è pure proibito
conservare l'eucaristia in casa propria. Si ammette invece la possibilità in
casi particolari –
celebrazione comunitaria, ma non per devozione
– di una duplice comunione in
un sol giorno, però solo durante la celebrazione della Messa, rimanendo stabile
la norma generale semel tantum in die (una volta soltanto al
giorno).
Che direbbe l'apostolo Paolo
–
il cantore della libertà in Cristo
– di fronte a
questo abbondante legalismo proprio del potere gerarchico (il vescovo nel caso
presente a scapito della semplicità e della spontaneità dei primi cristiani, per
i quali la cena eucaristica, come indica lo stesso nome, era una vera cena,
nella quale prendevano del pane e del vino senza timore di violare particolari
tabù liturgici? Solo l'amore vi doveva regnare, privo di qualsiasi legalismo
creato arbitrariamente da uomini e imposto in nome di
Dio.
Per i primi credenti occorreva prepararsi alla comunione con viva fede e con amore, vedendo, al di là del pane e del vino che si prendeva, il corpo straziato di Gesù e il sangue da Lui versato dall'alto della croce. Ora invece ci si deve preparare anche con una particolare disposizione del corpo, data dal digiuno, mentre al tempo di Paolo la comunione eucaristica si svolgeva al termine di un vero banchetto d'amore e quindi senza alcun digiuno (agàpe cf 1 Co 11, 2). Nel corso dei secoli si volle invece che il corpo di Cristo, entrando nello stomaco, non vi trovasse altri cibi fermentati, di qui il digiuno richiesto fino a qualche anno fa dalla mezzanotte precedente al momento della comunione. In alcune città (Brescia ad esempio), dove vigeva l'uso di celebrare la Messa natalizia alla sera della vigilia, due sacerdoti dovevano stare digiuni per timore che uno dei due avesse a violare il digiuno bevendo inconsciamente un sorso d'acqua o una medicina. Dopo il Vaticano II la legge del digiuno si è andata sempre più affievolendo: due ore per il cibo e poco meno per le bevande. Di recente si è ridotto tale periodo a un quarto d'ora per gli ammalati e gli anziani (senectus ipsa morbus) congiuntamente ai familiari e agli addetti alla loro assistenza.
L'istruzione (Memoriale Domini 28-5-69) ha poi cercato in modo curioso di spiritualizzare il digiuno eucaristico:
Per riconosce la dignità del sacramento e suscitare il gaudio per la venuta del Signore, è opportunamente determinato un tempo di silenzio e di riflessione prima di ricevere la S. Comunione. Per gli ammalati invece sarà sufficiente segno della loro pietà e del loro rispetto, se un qualche breve tempo essi rivolgano l'animo a così profondo mistero.
Parole ottime ma mi vien da chiedere
in che rapporto esse stiano con il digiuno corporale!
L'istruzione raccomanda pure che si abbia rispetto
verso la sacra ostia anche quando la si riceve sulla mano (in Italia ciò non è
ancora stato autorizzato dalla conferenza episcopale!). Da molti secoli la
comunione si distribuisce infatti deponendola sulla lingua, mentre nei primi
secoli la si prendeva tranquillamente con le proprie mani (con o senza
fazzoletto). La recezione sulla lingua fu occasionata da un senso di
«rispetto » verso «il SS.
Sacramento» e da un senso di umiltà; non
vi fu estranea la premura di evitare i pericoli della profanazione con la
dispersione di alcuni frammenti dell'ostia consacrata. Chissà che ne direbbe un
cristiano di oggi se potesse trasportarsi alla celebrazione eucaristica di
Corinto dove queste preoccupazioni mancavano del tutto e dove l'apostolo Paolo
esigeva solo che al di là del pane si vedesse il Cristo morente e risorto e che
vivesse l'amore fraterno senza prescrizioni sterili, che poi si vanno
tranquillamente mutando nel corso degli anni secondo il volere del legislatore!
Non capisco come mai toccando l'ostia con la lingua anziché con la mano si abbia
a rispettare meglio il mistero eucaristico, quasi che la mano abbia meno dignità
della lingua! In ciò appare straordinariamente preponderante il peso
dell'abitudine: secondo un'inchiesta promossa dal Vaticano la stragrande
maggioranza dell'episcopato mondiale si è mostrata contraria a permettere che
l'ostia sia presa con la mano anziché con la lingua e questo per la riverenza
dovuta ad essa a anche per meglio salvaguardare l'ortodossia circa la dottrina
eucaristica.. Ad ogni modo se si prende l'ostia con la mano, va presa solo dopo
che il comunicante ha risposto Amen al distribuente e va posta in bocca prima di
tornare al proprio posto (si ricordi che la pisside con le ostie non può
circolare tra i comunicandi!). Si veda come la legge liturgica complichi il
gesto stupendo stabilito da Cristo a «ricordo» della sua passione, morte e
resurrezione.
La presenza di Cristo non si limita alla celebrazione della messa, ma perdura anche dopo nelle ostie consacrate fino a quando non perdono l'apparenza del pane.
Il Signore – dice Paolo VI – rimane nella specie sacramentale e questa permanenza non solo giustifica ma esige il culto suo proprio.: l'adorazione specialmente, la santa Comunione fuori dalla messa... la processione solenne.
Di qui la festa del Corpus Domini dedicata a
Gesù
eucaristico, celebrata con la caratteristica processione dove è possibile, la
quale sorta nel 13° secolo per impulso della «beata» Giuliana di Monte Cornillon, fu estesa a tutta la chiesa con la bolla
Transiturus di Urbano IV (m.
1264).
Paolo VI nel suo
Credo del popolo di Dio,
presentò «il santo sacramento del
Tabernacolo» come « il cuore vivente della nostra chiesa » che di continuo intercede per noi. Di qui il suggerimento di
conservarlo in un apposito altare laterale dove i fedeli lo possano debitamente
visitare.
Sarà bene inoltre rivendicare, contro certe negazioni qua e là circolanti, la permanenza della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche oltre la celebrazione della Messa, durante la quale esse furono consacrate. Cristo rimane; ed allora si giustifica anzi si esige un culto specialissimo all'Eucaristia... Così il culto del Tabernacolo, l'adorazione privata e pubblica del SS. Sacramento, la processione... In occasione del Corpus Domini, i congressi eucaristici hanno la loro ragione di essere secondo la fede, la liturgia, la teologia, la pietà.
La Istruzione sul culto del mistero eucaristico della Sacra Congregazione dei riti (25 maggio 1767) ha messo in risalto l'utilità dei pii esercizi eucaristici sopra ricordati. Al n. 49 così esso afferma:
La conservazione delle sacre specie per gli uomini infermi fece sorgere la lodevole abitudine di adorare quel cibo celeste, che è riposto nel tempio. E in vero questo culto di adorazione poggia su di una valida e solida base, soprattutto perché la fede nella presenza reale del Signore conduce naturalmente alla manifestazione esterna e pubblica di quella fede medesima.
E' un fatto indiscutibile che spesso
l'uomo utilizza in senso deleterio gli elementi naturali che lo circondano e che
perciò bramano la propria liberazione (Rm 8, 22).
Ora nei sacramenti alcuni elementi
naturali servono di veicolo per conferire doni spirituali: olio nella cresima,
acqua nel battesimo. Nella eucaristia il pane e il vino diventano addirittura il
mezzo mediante il quale Gesù stesso divine presente in mezzo a noi. In tal modo
il creato dà gloria a Dio e diviene strumento di salvezza, preannunciando la
situazione escatologica finale, quando servirà solo per il bene. Quindi il
Vaticano II disse che nell'eucaristia «gli elementi naturali, coltivati
dall'uomo, sono trasformati nel corpo e nel sangue glorioso di Gesù Cristo.
I pagani avevano dei templi consacrati ad alcune
divinità, le quali distribuivano i loro favori ai devoti che vi si recavano in
pellegrinaggio. Anche gli ebrei ritenevano che Dio dimorasse particolarmente nel
tempio di Gerusalemme, considerato per questo l'ombelico della terra e lo
ritenevano un potente talismano contro ogni malanno per cui al preannuncio di
Geremia, che profetizzava la distruzione della città, opponevano la loro fiducia
nel santuario divino: « Tempio di Jahvè!
Tempio di Jahvè! Non periremo mai » (Gr
7, 4). La tradizione rabbinica pose a Gerusalemme i più importanti atti
salvifici di Dio: sepoltura di Adamo, immolazione di Isacco, deposizione
dell'arca al tempo di Davide, costruzione del tempio ad opera di Salomone. Anche
la tradizione giudeo-cristiana, riprendendo tale concetto, suppose che Adamo
fosse stato seppellito proprio sotto il Calvario, per cui il sangue del nuovo
Adamo colando dalla croce sul teschio del primo uomo ne avrebbe purificato la
colpa. Tale leggenda sopravviveva ancora nel Medio Evo con l'albero della vita
(Gesù Cristo), che affonda le sue radici nel sepolcro
adamitico.
Con la conversione al cristianesimo
delle masse pagane (secolo IV d.C.) i cristiani cercarono di dedicare ai loro
martiri molti santuari pagani (Pantheon, ecc). Con la convinzione che Gesù,
uomo-Dio, fosse presente nell'eucaristia, venne rafforzata l'idea del tempio,
ritenuto in tal modo la sede della divinità, racchiusa nel Tabernacolo e dinanzi
al quale di continuo deve ardere una lampada a segno della presenza
divina.
Nelle chiese e negli oratori, Cristo
è davvero l'Emmanuele, cioè Dio con noi, perché giorno e notte egli è in mezzo a
noi, abita con noi pieno di Grazia e di verità (Gv 1,
14).
Di qui la sacralità della casa di
Dio, che deve essere consacrata e benedetta, il desiderio che sia bella e adatta
al Cristo che vi abita. La chiesa ha perciò sempre voluto che le cose
appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e
bellezza. Anche l'arte moderna deve sapersi esprimere con la dovuta riverenza e
il divino onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri
riti.
Dal momento che solo i sacerdoti hanno il potere di
consacrare l'eucaristia e di rendere presente il Cristo nel pane e nel vino,
ecco che il sacerdote viene elevato a una dignità del tutto particolare. E' lui
che, come alter Christus in terra parla a nome di Gesù, quando dice nella
consacrazione eucaristica «Questo è il mio
corpo. Questo è il mio sangue». Con quel
«mio» non parla del proprio corpo o del proprio sangue, bensì del
corpo e del sangue di Gesù, del quale si fa portavoce. Il sacerdozio di Cristo
si esercita particolarmente attraverso l'atto dei suoi ministri sacerdoti e il
suo sacrificio unico e la sua unica mediazione si continuano nei gesti liturgici
dei suoi sacerdoti. Quindi nell'ultima cena, invitando i suoi apostoli a
ricordarlo nel dire: «Fate questo in
memoria di me»,
Gesù li costituiva suoi
sacerdoti.
Quel comando di Gesù «Fate questo» è
una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione di un potere, ch'Egli solo
possedeva; è l'istituzione di un sacramento, il conferimento cioè di un
sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell'organo costituente
e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare
il prodigio dell'ultima cena (Paolo VI, Oss. Rom. 9-4-66, p.
1).
Nell'Istituzione
del 1972, da parte del
Segretariato per l'unione dei cristiani, Paolo VI sostiene che il potere ministeriale fu
conferito da Cristo «ai suoi apostoli e ai
loro successori, vale a dire ai vescovi con i presbiteri, perché attuino
sacramentalmente il suo atto sacerdotale, con cui egli è offerto una volta per
sempre al Padre... e si è dato ai suoi fedeli perché siano uno con
lui». Di conseguenza vedere un sacerdote è
vedere Cristo, offendere il sacerdote è offendere Gesù (sacrilegio) ed amare il
sacerdote è amare Gesù.
Di fronte a questo continuo sviluppa
della originaria cena eucatistica, ci viene da chiedere quanto sia uno sviluppo
armonico del pensiero biblico e quanto sia invece una deviazione da esso. Si
deve perciò tornare anche qui alle sorgenti bibliche per vedere che cosa era in
realtà la cena del Signore e che cosa essa deve significare per i credenti di
ogni tempo e di ogni luogo.
CAPITOLO SECONDO
IL PANE DI VITA: PREANNUNCIO
DELL'EUCARISTIA?
1) L'uso dei primi
cristiani
2) Il discorso di
Gesù a Cafarnao
3) Sviluppo
unitario del discorso
4) Tutto il discorso
concerne la fede
5) La chiave
interpretativa del discorso
6) Chiarimento
dato da Gesù ai discepoli
7) Simbolismo
del tempo
8) Storia
dell'interpretazione
Il pane è
pane. Ma è un ebreo che parla. La sua natura empirica non interessa lo
spirito dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in sé stesso.
per un ebreo... il pane è ciò che esso divine in rapporto al suo
riferimento ultimo (F.J.
Leenhardt) |
Secondo gli Atti degli apostoli, sin dai primi tempi, i cristiani
erano assidui «nel rompere il pane », espressione che
probabilmente fu la prima usata dalla Bibbia per designare quello che più tardi
Paolo chiamerà « cena del Signore» e i cattolici
« eucaristia » (1 Co 11, 20). Siccome in essa si parla solo
del pane, H. Lietzmann vi ha voluto vedere un semplice pasto comunitario
fraterno, che secondo l'uso giudaico aveva inizio spezzando un po' di pane; in
tal modo si ripeteva quello che Gesù aveva compiuto in Galilea dove saziò le
folle e mangiò con il gruppo dei suoi discepoli. Il pasto gioioso ricordava la
presenza invisibile del Risorto in mezzo ai suoi. Fu solo Paolo, che in seguito
a una speciale rivelazione, gli diede il senso commemorativo della morte di
Gesù, mangiando quindi con tristezza. Mentre per i primi giudeo-cristiani la
cena era un pranzo gioioso (agàpe fraterna); per i primi gentili convertiti
sarebbe stata invece una pasto di mestizia. Ma questa ipotesi è superflua; Paolo
non modifica nulla, ma si rifà alla tradizione (1 Co 11, 23); sarebbe poi
incredibile che l'apostolo dei gentili sia riuscito a far accettare da tutta la
chiesa un'innovazione, qualora vi fosse stata. Che l'espressione « spezzare il pane » non parli di vino, lo si
deve al fatto che prima di incominciare la cena si spezzava il pane (di qui il
nome); la cena poi non fu mai segnata dalla tristezza perché non ricordava la
morte di Gesù, bensì la morte del « Signore », vale a dire del
Gesù
risorto e quindi trionfatore della morte (Lc 24, 30-35.36-48; Gv 21, 9
ss).
In At 2, 42 lo
« spezzare il
pane » indica
probabilmente la cena del Signore sia per la presenza dell'articolo che lo
identifica con un « pane speciale », quello cioè che è simbolo di Cristo, sia per il contesto
culturale. Il successivo v. 46 indicherebbe al contrario un « pasto comune », sia per l'assenza
dell'articolo dinanzi a « pane » (E' spezzare del pane), sia per il contesto che parla di pasti
fraterni di casa in casa, probabilmente allude alla cena del Signore anche il
pasto attuato in giorno di domenica da Paolo a Troade, prima del suo imbarco per
Gerusalemme. pare che, almeno all'inizio, specialmente presso i
giudeo-cristiani, la cena si attuasse la notte tra il sabato e la domenica,
nelle ore in cui il Cristo era risorto, cioè dopo la fine del sabato giudaico,
giorno sacro e di riposo, per i giudei che terminava appunto al calar del
sole.
Che valore aveva la
cena del Signore nel pensiero dei primi cristiani? Si pensa di trovarne il
significato in due insegnamenti presentati rispettivamente da Giovanni nel suo
vangelo (c. 6) e da Paolo nell'epistola ai Corinzi (1 Co 10, 16-21; 11, 17-34),
che bisogna quindi esaminare alla luce della mentalità
ebraico-biblica.
Dopo aver moltiplicato nei pressi di Cesarea, ad oriente del lago di Tiberiade, cinque pani di orzo e due pesci per sfamare 5000 uomini più donne e bambini, la folla entusiasta volle creare re Gesù, ma egli in tutta fretta allontanò gli apostoli prima che fossero contagiati da tale entusiasmo, licenziò la folla, e poi, nottetempo, camminando sull'acqua del lago, raggiunse gli apostoli in barca e con loro scese a Cafarnao (Gv 6, 1-10). Il giorno dopo al popolo, che lo ritrova, Gesù raccomandò di andare alla ricerca non di un cibo materiale come il pane prima moltiplicato, bensì di uno « eterno » (v. 27) quale si può trovare solo nella fede in colui che parlava a loro. Lui infatti è la vera « manna », ossia un « pane (sceso) dal cielo » (Sl 78, 24); quella manna che gli ebrei si attendevano per il futuro regno instaurato sulla terra dal Messia:
Accadrà verso lo stesso tempo che il tesoro della manna scenderà di nuovo dall'alto, e gli ebrei ne mangeranno in quegli anni, perché essi sono giunti alla consumazione del tempo (Apocalisse siriaca di Baruch 29, 8).
In un frammento degli Oracoli Sibillini citato da Teofilo nell' Ad Autolycum e che è probabilmente precristiano, torna il medesimo concetto:
Ma quelli che onorano il vero ed eterno Dio ereditano la vita; sono questi coloro che abitano, nel tempo dell'eone futuro, il lussureggiante giardino del paradiso (e) banchettano con il dolce pane proveniente dal cielo stellato.
Di fronte alla
richiesta dei Giudei rivolta a Gesù perché rinnovasse il miracolo della
«
manna »
– ricollegato da loro con il tempo
messianico – e provasse in tal modo di essere il messia, Gesù nega che la manna
del tempo mosaico sia stata un vero pane del cielo, perché non aveva saputo
impedire la morte delle persone. Invece Gesù è il vero cibo che discende dal
cielo e dona la vita al mondo.
Il discorso di Gesù tenuto a Cafarnao, è appunto uno sviluppo di questo tema.
In verità, in verità vi dico:
Se non mangiate la mia
carne,
e non bevete il mio sangue
non avete vita in voi (v.
53).
Dunque secondo questo preannuncio
dell'eucaristia, chi mangia il pane mangia il corpo di Cristo e beve il suo
sangue, per cui il corpo e il sangue devono tenere il posto del pane e del
vino.
Che tali parole siano da intendersi
in senso letterale e non simbolico
– insistono alcuni teologi – si deve
dedurre dal fatto che Gesù preferì perdere i propri discepoli, anziché spiegare
loro che la sua espressione doveva intendersi in senso
figurato.
Quando (i giudei) gli obiettano: come può quest'uomo dar da mangiare la propria carne?, Gesù non spiega la sua dottrina in senso figurato, anzi ripete il proprio insegnamento urtante in modo ancora più enfatico. Egli lo espone in forma di comando: Se mangiate la mia carne... e aggiunge: La mia carne è veramente cibo... Gesù insegna che il mangiare e il bere è garanzia di vita eterna; vincolo che unisce l'uomo intimamente a se stesso... E quando molti suoi discepoli continuano a rifiutare tale idea, Cristo non ritrattò le proprie parole, né disse che parlava in modo figurato. Al contrario li rimproverò per la loro mancanza di fede ed esigette da essi che accettassero le sue parole (B.L. Conway, The question Box, p. 249 s).
Proprio per questa tematica diversa: eucaristia (e non più fede come prima), R. Bultmann ritiene che le parole del v. 53, non siano di Gesù ma della Chiesa che le ha attribuite al suo fondatore, e il Boismard le ritiene un brano di un altro discorso di Gesù (ora perso) che Giovanni, per non ometterlo, ha trasferito e introdotto nel discorso di Cafarnao con il quale non si amalgama perché questo parlava della fede e non della eucaristia. Sono tutte ipotesi superflue in quanto anche il v. 53, come vedremo, può inserirsi assai bene anzi è richiesto dal discorso, che è un tutto unitario riguardante la fede in Gesù, quale inviato di Dio.
L'unità del discorso appare dal fatto che Gesù procede per gradi, sviluppando progressivamente i concetti da lui prima solo accennati. Il v. 35 ne costituisce la chiave esplicativa:
Io sono il pane di vita (a).
Chi viene a me non avrà
più fame
(b),
e
chi crede in me non avrà più sete
(c).
Ora tutto il discorso svolge le tre idee presenti in queste poche parole, che vengono riprese e sviluppate più ampiamente:
― Gesù è vero pane di vita, perché è sceso dal cielo, ma è tale solo per chi crede in lui dietro istruzione divina (vv. 37-47 = 35 a).
― Occorre mangiare questo pane vivente, ben superiore alla manna per non morire (vv. 48-51 = 35 b).
― Occorre mangiare la sua carne e bere il suo sangue per possedere la vita (vv. 52-58 = 35 c).
Secondo l'uso del linguaggio orale il discorso contiene alcune parole chiave, che ricorrono in tutto il discorso (pane, carne, vita, credere, ecc.) che ne facilitano il ricordo mnemonico. Tutto il discorso si suddivide in due parti correlative (35-47; 48-58) con inizio identico: «Io sono il pane di vita» (vv. 35-48) e una finale simile: « chi crede in me ha una vitalità eterna» (v. 48) e « Chi continua a masticare questo pane vivrà in eterno» (v. 58). Ecco le due parti tradotte letteralmente, che hanno tutte al centro un fatto storico riferentesi alle mormorazioni dei giudei:
Parte I (6, 35-47)
Strofa | 1) |
35 |
Io sono il pane
della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete |
36 |
Ma vi dico: pur avendomi visto, non avete creduto | ||
Strofa |
2) | 37 |
Quelli che il padre
mi dà, verranno a me |
38 |
perché
sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato. | ||
Strofa | 3) | 39 | Questa
è la volontà di Colui che mi ha mandato: che tutti quelli che mi ha dato non ne perda alcuno ma lo risusciti nell'ultimo giorno. |
Strofa | 4) | 40 |
Questa
infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. ... (cenno storico sulla mormorazione dei giudei) |
Strofa | 5) | 43 | Finitela di mormorare tra boi! |
44 |
Nessuno può venire a me se il Padre, che mi ha mandato, non lo attira, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. | ||
Strofa | 6) | 45 |
Sta
scritto nei profeti: E saranno tutti ammaestrati da Dio (Is 54, 13). Chiunque ascolta e impara dal Padre viene a me. |
Strofa | 7) | 46 | Non
che alcuno abbia visto il padre; solo colui che è da Dio ha visto il Padre. |
47 | In
verità, in verità vi dico: Chi crede in me ha vitalità eterna! |
Parte II (48-58)
Strofa | 1) | 48 | Io sono il pane della vita |
49 | I vostri Padri mangiarono la manna del deserto e morirono. | ||
50 | Questo è il pane
che scende dal cielo. affinché chi ne mangia non muoia. | ||
Strofa | 2) | 51 | Io sono il pane
vivente sceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno. E il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne. (Relazione storica sopra la mormorazione dei giudei) |
Strofa | 3) | 53 | In verità, in
verità vi dico: Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue non avete la vita in voi. |
Strofa | 4) | 54 | Chiunque continua
a mangiare la mia carne e continua a bere il mio sangue già possiede la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. |
Strofa | 5) | 55 | Perché la mia
carne è veramente un cibo e il mio sangue è veramente una bevanda. |
56 | Chi di continuo
mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. | ||
Strofa | 6) | 57 | Come il Padre,
che vive in me, ha mandato me e io vivo per il padre, così chi continua a mangiare me, vivrà anche lui di me. |
Strofa | 7) | 58 | Questo è il pane
sceso dal cielo, non come quello mangiato dai vostri Padri che pur morirono. Chi continua a mangiare di questo pane vivrà in eterno. |
a) Parte prima: si va a Gesù credendo in Lui (vv. 35-47)
Alla domanda «Dacci di questo
pane». Gesù presenta se stesso come il pane del quale uno si nutre «andando a lui e credendogli » (v. 35). L'endiadi usata
esprime un'azione unica: si va a Gesù quando gli si crede e gli si crede quando
si va a Lui. Il Cristo poi non lascerà perire alcuna persona affidatagli dal
Padre; Dio vuole infatti che « chiunque continua a
contemplare il Figlio e continua a credere in lui abbia una vitalità
eterna » e sia da Gesù risuscitato « nell'ultimo
giorno» (v. 40).
A tale pretesa i giudei gli oppongono la sua umile vita
terrena trascorsa a Nazaret che contraddice la sua presunta missione divina..
Giovanni usa qui il verbo «mormorare », termine
tecnico per esprimere l'opposizione con cui gli ebrei nel deserto contestarono
sia Mosè, sia Dio (Nm 11, 1; 14, 27).
Gesù risponde loro che sono ormai giunti i giorni predetti
dai profeti (Is 54, 13) nei quali Dio stesso avrebbe istruito gli uomini
(didaktòi theoû) attirandoli dall'interno (v. 45). Solo costoro possono capire
questa discesa di Gesù dal cielo, come precedentemente aveva detto che solo
quelli nei quali dimora la parola divina sono in grado di capire le pretese di
Gesù (Gv 5, 38). Appunto perché sceso dal cielo, Gesù possiede la visione di Dio
a la può comunicare agli altri, per cui chi « vede »
il Cristo possiede la vita eterna (6, 40). Di qui la conclusione: « Chi crede ha una vitalità eterna », una forza cioè che
conduce alla vita eterna (v. 47). Questa prima parte, che non presenta alcuna
allusione all'eucaristia, insegna l'obbligo per tutti gli uomini di ascoltare la
parola di Dio che conduce a Cristo e lo fa accogliere quale inviato
divino.
b) parte seconda: Gesù salva morendo (vv. 48-58)
Identificandosi di nuovo con il pane di vita, Gesù mostra la differenza tra la manna, che non ha impedito la morte di chi ne mangiava, e la sua propria persona, la quale invece eliminerà tale morte. Egli infatti non è un pane comune, ma un pane « già vivo»; un pane costituito dalla sua stessa persona umana («carne») – destinata ad essere offerta a Dio in dono sacrificale per la salvezza del mondo.
Il pane che io darò
è il mio essere mortale
offerto per la
vita del mondo (Gv 6, 51)
Il verbo
«dare per» indica la morte violenta accolta per un
nobile ideale: si usa non solo per Gesù (1 Ti 2, 6; Tt 2, 14), ma anche per i
martiri: Eleazaro « diede se stesso per salvare il
popolo» (1 Mac 6, 44). Anche in un passo del Midrash sull'Esodo si legge:
« I padri e i profeti diedero la loro vita per
Israele». La particella «per» (gr. upèr)
esprime il fine per il quale al vita di Gesù « viene offerta
in sacrificio»: essa fu data per le sue pecore (Gv 10, 11-15), per il
popolo (11, 50), per la nazione (11, 52), per i discepoli (Gv 17, 19). Siccome
dare la vita per un altro è la suprema prova d'amore (15, 13), anche il
cristiano dovrebbe dare la sua vita per Gesù (Mt 10, 39). Il «dare la vita » divenne anzi un termine tecnico per
designare il sacrificio di Gesù sulla croce (Mt 20, 28; Ga 1,
4).
Ma come si
può mangiare questa « carne » (= persona) mortale di
Gesù offerta in sacrificio, come di solito si faceva nei pasti sacrificali dei
giudei? Gli uditori, scossi da tali parole, «litigavano », vale a dire, discutevano tra loro con
accanimento, in quanto ciò per alcuni era ripugnante, per altri privo di senso,
per altri ancora da intendersi in senso simbolico (v. 52). Ma Gesù insiste sul
suo concetto con espressioni ancora più dure, sulle quali tornerò in seguito.
Siccome « la carne» precedentemente indicata
significava la sua « persona umana », mortale e
siccome questa, secondo gli ebrei, risultava di « carne e
sangue », Gesù, per meglio sottolineare quanto già aveva asserito,
secondo la legge del parallelismo biblico assai amato dagli orientali, ne scinde
in due gli elementi e ripete enfaticamente che occorre «
mangiare la sua carne » e« bere il suo
sangue». Infatti la sua carne e il suo sangue sono «
davvero » (alethés) cibo e bevanda (v. 55) qualcosa di concretamente
mangiabile e bevibile, non di puramente immaginario e
fittizio.
Questa
seconda parte chiarisce meglio la prima e spiega che Gesù è vero cibo e non
soltanto per la sua parola che deve essere accolta con fede, ma particolarmente
per la sua morte sacrificale in favore dell'umanità, i cui benefici sono
accessibile soltanto a coloro che mangiano la sua carne e bevono il suo sangue,
vale a dire riconoscono in questo essere che muore l'inviato di Dio e il
Salvatore atteso (cf v. 35).
Come si
vede il discorso è pienamente armonico e può essere spiegato tutto con la fede – come vedremo
meglio in seguito – senza alcun richiamo all'eucaristia di cui Gesù non aveva
ancora parlato.
Una conferma
dell'interpretazione precedente si ha nel fatto che gli effetti del mangiare e
del bere sono gli stessi di quelli attribuiti alla fede.
4) Tutto il discorso concerne la fede
a) Fede |
b) Mangiare/bere |
40 Chiunque crede in
lui avrà vita eterna |
53 Se non mangiate la carne e non bevete questo sangue non avrete la cita in voi |
47 Chiunque crede in
me possiede una vitalità eterna |
54 Chiunque continua a
mangiare la carnee a bere il mio sangue possiede una vitalità eterna |
48/51 Io sono il pane
che dà vita ... se uno mangia questo pane, vivrà in eterno |
58 Chiunque continua a
mangiare questo pane vivrà in eterno |
Mi sembra quindi naturale e logico riferire tutto il discorso, compresi i versetti nei quali si parla di « mangiare la mia carne e bere il mio sangue» alla fede in Gesù anziché all'eucaristia. Ecco le ragioni principali che mi consigliano ad agire così:
a) I verbi usati da Gesù sono al presente
Gesù, parlando agli abitanti di Cafarnao, non disse: «Se non mangerete... se non berrete » (futuro), bensì «Se non mangiate... se non bevete» (presente) ossia da questo preciso istante in avanti, voi non «potete aver vita in voi se non mangiate... se non bevete». Dunque proprio nel momento in cui egli parlava, i suoi uditori potevano mangiare la sua carne e bere il suo sangue, il che evidentemente non poteva riferirsi alla cena del Signore non ancora esistente, ma solo al nutrimento spirituale che si ha con la fede in Gesù accolto come l'atteso Messia, nonostante le sue apparenze mortali e la sua morte preannunziata. E' quanto già nel 15° secolo suggeriva il grande letterato Enea Silivio Piccolomini – divenuto poi papa Pio II (m. 1474) – al cardinale De Carvial che l'aveva interrogato su questo punto:
Vuoi tu sapere con certezza se l'evangelista
intenda parlare del nutrimento spirituale, quale si ha per fede?
Considera
come il Signore dica: Chiunque mangia e chiunque beve. Sono verbi al tempo
presente e non al futuro. Perciò proprio mentre Cristo parlava vi erano delle
persone che in quel momento avrebbero potuto mangiare e bere. Eppure allora il
Signore non aveva ancora sofferto e il sacramento (dell'Eucaristia) non era
ancora stato istituito.
Ci si
potrebbe tuttavia chiedere se Giovanni abbia qui conservato le parole stesse di
Gesù o ne abbia modificato l'espressione in modo da illuminare meglio i lettori
per spiegare loro l'eucaristia della quale già conoscevano l'esistenza. In tale
caso la coloritura sacramentale del passo rispecchierebbe la situazione
ecclesiastica propria della fine del primo secolo. Con le parole « carne e sangue » egli li avrebbe indotti a pensare
all'eucaristia alla quale ogni domenica essi prendevano
parte.
Ma era
proprio questo l'intento di Giovanni? Lo pensano moltissimi esegeti moderni,
anche non cattolici. Tuttavia se Giovanni avesse modificato le parole di Gesù
per presentare l'eucaristia come era attuata al suo tempo, non capisco perché
non abbia alluso anche al vino pur esso parte integrante della cena del Signore?
perché parla solo di pane? Vale quindi la pena di andare contro corrente (senza
rinvenire troppi sensi misteriosi nella Bibbia) e presentare con maggiore
semplicità il significato che i lettori del Vangelo potevano trovare al loro
tempo.
b) «La carne e il sangue» sono i costitutivi della persona umana
Il «mangiare la carne» e il « bere il
sangue» non designano due atti distinti, ma un atto unico perché
l'espressione « carne e sangue » è solo un'endiadi
per indicare i due elementi costitutivo della persona umana terrena. tale frase
presente l'uomo mortale in opposizione al Dio immortale, l'uomo ignorante di
fronte al Dio sapiente. D'uso normale presso i rabbini, divenne comune nel
Talmùd. Il rabbino Jochanan ben Zaccai in punto di morte piange perché sa di
dover comparire dinanzi al re dei re e non dinanzi a un re «
di carne e sangue» vale a dire « umano »
(Berakot 28 b.). Se un re di « carne e sangue» si
onora in un territorio, il re del mondo, cioè Dio, è onorato da tutte le
creature.
L'endiadi
«carne e sangue» per designare l'uomo mortale fu
coniata all'epoca intertestamentaria, perché si trova nel Siracide
(Ecclesiastico).
Come le foglie germoglianti su un albero
frondoso,
alcune cadono mentre altre spuntano;
così tra le generazioni di
carne e sangue,
alcune muoiono mentre altre nascono (Sir 14, 18).
Che cosa vi è
di più luminoso del sole?
pure anch'esso si eclissa.
Così chi è di carne e
sangue
pensa al male (Sir 17, 31).
Gesù usò tali parole rivolgendosi a Pietro quando disse che la sua professione di fede non era frutto di insegnamento umano, bensì di rivelazione divina:
Né la carne né il sangue te lo hanno rivelato,
ma
il Padre mio che sta nei cieli
(Mt 16, 17).
In tre
passi l'apostolo Paolo utilizza questa espressione, una volta per dire che la
lotta del cristiano non è contro « la carne e il
sangue», vale a dire contro gli uomini, bensì contro i demoni (Ef 6, 12).
L'ex-persecutore Saulo, dopo la sua conversione a Cristo, non andò a chiedere
consiglio a « carne e sangue» cioè a uomini, ma si
ritirò a meditare tutto solo nell'Arabia (Ga 1, 16 s). L'uomo terreno (« carne e sangue») non può raggiungere con le sue forze il
regno di Dio, ma vi riesce solo l'uomo trasformato e glorificato dallo Spirito
Santo (1 Co 15, 50).
Perciò
l'espressione «carne e sangue » nel discorso di
Cafarnao è semplicemente sinonimo di persona, come appare chiaramente dal fatto
che essa è continuata in seguito dalle frasi seguenti: « Chi
mi mangia » e «chi mangia di questo pane »
(vv. 57-58). Si identificano quindi con il pronome personale di prima persona
(mi) o con « il pane » che era simbolo della persona
di Gesù.
Lo
riconosce apertamente anche il gesuita Xavier Léon Dufour, studioso dalle idee
aperte:
I verbi mangiare e bere sono tra loro paralleli come lo sono le espressioni «venire a me – credere in me...»; l'aggiunta dei complementi carme, sangue, rafforza il parallelismo delle espressioni... I due atti: mangiare la carne e bere il sangue, sono così poco considerati come due riti distinti da essere ricapitolati nei versetti seguenti con: chiunque mi mangia vivrà per me (6, 57) e: Chiunque mangia di questo pane vivrà eternamente (6, 58). Carne e sangue sono dunque equivalenti a «me» e a «pane». Mediante questo sdoppiamento letterario Gesù di designa anzitutto come un essere concreto, debole e mortale destinato al sacrificio... Con tali parole Gesù invitava i contemporanei a trovare la vita mediante la fede nella sua persona e nel suo sacrificio redentore.
c) Giovanni parla di «carne e sangue» anziché di «corpo e sangue» come si usa invece nell'Eucaristia
A un
occidentale la differenza può apparire minima, ma tale non lo era per un semita.
«Carne» (sarx) indica l'essere concreto, debole, passibile di morte, che non
poteva di conseguenza essere adoperata per l'eucaristia la quale ricorda invece
non solo la morte di Gesù, ma anche la sua resurrezione. Mentre il termine corpo
(sôma) può essere usato anche per un risorto glorificato, la parola «carne», che
indica sempre un essere debole e passibile di morte, non può riferirsi a un
corpo glorioso, destinato a vita eterna: « La carne e il
sangue non possono infatti ottenere la vita eterna » (1 Co 15, 50),
perché ciò che è corruttibile non può raggiungere l'incorruttibilità (ivi v.
57). Ora l'eucaristia annuncia la morte del Signore risorto e glorioso che si
attende dal cielo: per cui deve usare in tal caso la parola sôma, applicabile
anche ad un corpo glorioso, non la parola «carne» riservata solo ad un corpo
mortale, del quale mette in enfasi la morte sacrificale.
Il
tentativo di trovare che nell'Asia Minore esistesse una corrente che nella
liturgia eucaristica usasse il termine «carne» (sârx) anziché «corpo» (sôma) non
mi pare che finora sia riuscito. Di solito lo si vuole provare con il fatto che
Ignazio, quando parla dell'eucaristia, la chiama «carne» di Cristo; egli infatti
afferma contro gli gnostici: «Costoro non venerano
l'eucaristia perché non riconoscono l'eucaristia come la carne di Gesù Cristo ». Anche Giustino lo conferma quando scrive: «
Ci hanno insegnato che questi alimenti sono la carne e il sangue dello stesso
Gesù, fattosi carne». Tuttavia tale ragionamento non implica
necessariamente l'uso della parola «carne» nella loro liturgia eucaristica,
perché il vocabolo «carne» fu da loro preferito per motivi apologetici, in
quanto con esso volevano opporsi agli gnostici negatori della realtà carnale e
terrestre del corpo di Gesù. Del resto quando lo stesso Giustino riporta le
parole nell'istituzione, adopera anche lui il vocabolo «corpo» (sôma) e non
carne (sârx), come tutta la tradizione orientale.
Dobbiamo
quindi concludere che le parole « carne e sangue»,
usate da Gesù, più che alludere all'eucaristia, richiamano la morte sacrificale
dell'inviato di Dio. Occorre quindi nutrirsi di questa carne mortale, bere il
suo sangue versato per noi. Ma in che modo?
Ce lo
spiega Gesù stesso con la sua chiave interpretativa di tutto il
discorso.
Ci viene data dalle parole iniziali e da alcuni elementi che vi si trovano.
1) Parole iniziali. Gesù incomincia il suo discorso dicendo:
Chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me
non avrà più sete (v.
35).
Ecco come
si mangia e si beve Gesù: andando a lui tramite la fede, secondo un'endiadi cara
ai semiti. Quando una persona lo accoglie come «
figlio» di Dio e come « l'inviato » per
eccellenza del Padre, allora va a lui e beve di lui, vale a dire riceve da lui
una forza, una vitalità imperitura.
Quindi le
parole iniziali illuminano tutto quanto il discorso e ne chiariscono il
significato fondamentale.
2) Nelle sue parole: « Se non mangiate... se non bevete» Giovanni usa qui un presente di durata che significa una continuazione dell'atto e si dovrebbe perciò tradurre con «Se non continuate a mangiare... se non continuate a bere» (v. 53). Non basta un atto compiuto una volta sola, occorre ripetere di continuo tale atto; quando una persona cessa di mangiare quella carne e cessa di bere quel sangue, muore la vita in noi. Ora ciò evidentemente non può riferirsi all'eucaristia, che non si può continuare a mangiare, bensì alla fede che deve durare per l'intera nostra vita. Nell'attimo stesso in cui cessa la fede in Cristo, ha pure fine la vita divina in noi.
3)
Dicendo: «Se non mangiate... se non bevete » Gesù
parla di necessità assoluta. Se si applicassero queste parole all'eucaristia, si
dovrebbe concludere che non basta la fede
– testimoniata dal battesimo
– per essere rivestiti di
Cristo e per avere la vita, ma vi occorre pure la comunione
eucaristica.
Data poi
l'identificazione della carne con il pane e del sangue con il vino, ne segue che
sarebbe assolutamente necessario per la salvezza non solo mangiare del pane, ma
anche bere del vino. Per cui tutti i cattolici che muoiono senza continuare a
«bere il vino » eucaristico
– che per molti secoli fu
loro proibito
– non
potrebbero salvarsi. Queste conclusioni assurde ci fanno capire che la premessa
è sbagliata e che Gesù non intendeva parlare dell'eucaristia bensì della fede
nella persona
– carne e
sangue – di
Gesù.
Al vedere che anche molti dei suoi discepoli « mormoravano», perché ritenevano inconcepibile tale discorso, Gesù osservò che «la carne » ossia la persona destinata a perire non giova a nulla, mentre quello che vale è «lo spirito », ossia l'alito vivificante.
Lo spirito è quel che dà vita:
a carne non giova
nulla:
le parole che vi ho detto sono spirito e vita (v. 63).
Espressioni alquanto enigmatiche,
intese dagli esegeti in modo ben diverso.. P. Batiffol, Wisemann e B.L. Conway,
tra altri, le hanno applicate all'uomo, che, se è solo carne, non può capire le
parole di Gesù mentre se è guidato dallo Spirito Santo e dalla fede riesce a
percepirne l'insegnamento eucaristico. Tuttavia la «carne » e lo «spirito» non si
riferiscono agli uditori, ma allo stesso Gesù, come appare evidente dal
contesto. Questa interpretazione antropologica lacera il contesto
dell'esposizione giovannea.
Per tale
motivo gli esegeti vanno alla ricerca di altre interpretazioni. Per L. Tondelli
la carne è l'umanità peritura di Gesù, mentre lo spirito sarebbe l'amore con cui
Gesù offre la sua morte al Padre. Tuttavia mai altrove nella Bibbia la parola
« spirito» assume un tale
significato.
Di solito
gli antichi, come Cirillo di Alessandria, Agostino e i moderni, quali Bulen,
Billot, Lagrange, Van Noort, pensano che la carne si debba identificare con
l'umanità di Gesù e lo Spirito con la sua natura divina, che si manifesta
mediante le opere miracolose. Tuttavia se ben si guarda al contesto, Gesù
distingue tra la persona umana destinata a perire (carne) e le parole da lui
presentate in questo stesso discorso, che lo presentano figlio di Dio sceso dal
cielo, le quali quando sono accolte con fede, diventano appunto «spirito e vita »: « Le parole che vi ho
detto sono spirito e vita» (v. 63).
Nel suo
discorso Gesù non intendeva presentare la necessità di mangiare materialmente la
sua carne, perché in tal modo si sarebbe dovuto ucciderne la persona e mangiare
la carne priva di vita e quindi riducibile a polvere (Ge 2, 7; Gb 10, 9; Ec 12,
7). Egli intendeva insegnare la necessità di mangiare le sue parole, che sono
«spirito vivificante ». Per questo occorre
riconoscere che le sue parole non vengono dall'uomo perituro, bensì da Dio che è
Spirito, e la cui parola è creatrice. Nell'uomo terreno, che stava dinanzi a
loro, gli uditori dovevano vedere l'inviato di Dio, il Figlio di Dio. Di fronte
all'incredulità dei giudei, a lui contemporanei, Gesù fa appello alla futura
ascensione: «Che direte quando mi vedrete salire al cielo
donde sono venuto?». Si tratta dunque di credere che egli non è un
semplice uomo come gli altri, bensì l'inviato di Dio. La sua ascensione avrebbe
documentato lo sbaglio di chi non voleva credergli. Egli tuttavia conosce che
anche fede è un dono divino, al quale l'uomo può resistere. Perciò molti suoi
discepoli, allontanatasi (dal Cristo), « non continuarono
più ad andare (imperfetto) con lui» (v.
66).
Quando
Gesù chiede ai suoi discepoli se anche loro avessero intenzione di abbandonarlo
come gli altri, Pietro, mostrando d'aver ben capito il senso del discorso, disse
a nome di tutti: «Signore a chi ce ne andremo? Tu hai parole
di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto, anzi continuiamo a credere e a
conoscere (tale è il senso del tempo perfetto in greco) che tu sei il Santo di Dio » (v. 68). Pur pensando che era
nato da Maria, moglie di un falegname di Nazaret, pur conoscendo che doveva
morire come un uomo qualsiasi, l'apostolo Pietro riconobbe in Lui l'inviato di
Dio tanto atteso, uomo come gli altri uomini, ma unico nella storia umana per la
missione ricevuta da Dio e per la Parola che si era incarnata in
lui.
Questo è il profondo e imperituro valore spirituale del messaggio di Giovanni.
La cena del Signore ha valore, ma solo in quanto serve per accrescere la fede in
Gesù Cristo, che tramite la propria morte ci darà una vitalità
imperitura.
Va poi
preso in considerazione un altro concatenamento di idee diffuso nella
letteratura rabbinica, dove il pane (manna) è il simbolo della Torah, cioè la
controfigura della legge. Tale simbologia può essere fatta risalire almeno a
Eliezer ben Ircano e a Joshua ben Anania, che vissero poco tempo dopo la
composizione del quarto vangelo.
Quando
commenta il fatto che la manna deve essere ripartita equamente (Es 16, 16 ss),
Filone osserva: «Il Logos divino distribuisce equamente a
tutti quelli che lo vogliono il celeste nutrimento dell'anima (tèn
ouranion trofèn tês psuchés), cioè la sapienza». La
Torah infatti dà vita, contiene, contiene «parole di
vita» (Es b 29, 9), è «Legge di vita» (Sir 17,
11; 45, 5; 4 Ed 14, 30). Tali pensieri non sono altro che una amplificazione di
quanto scriveva il Deuteronomio: « Dio ti ha nutrito con la
manna... per farti capire che l'uomo non vive di pane soltanto, ma che l'uomo
vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8, 3). Anche il
libro deuterocanonico della Sapienza (ispirato per i cattolici) commenta la
bontà della manna scrivendo che essa fu data «perché i tuoi
figli, o Signore, comprendessero che non sono i diversi frutti del suolo a
nutrire l'uomo, ma che è la tua parola a tenere in vita i credenti» (Sap
16, 23 s).
Al posto
della legge, simboleggiata dal pane sceso dal cielo, Gesù pone ora se stesso e
la sua parola che, superiore alla stessa manna, è vero «pane
di vita»: « Io sono il pane di vita sceso dal
cielo» (Gv 6, 35-48). I lettori del vangelo e gli uditori di Gesù,
dovevano ben capire che con tali parole Gesù alludeva alla sua persona e alle
sue parole, non al futuro rito eucaristico allora inesistente e del quale egli
non aveva ancora parlato.
Anche
l'espressione « istruiti da Dio » (Gv 6, 45 s da Is
54, 13) designava coloro che Dio istruiva tramite la Legge, nel caso presente
tramite Gesù che è immagine di Dio (Gv 5, 37-47). Di fronte a Gesù il popolo di
Israele è diviso in due gruppi: quelli che, accettando solo il dono Manna-Legga,
negano il Cristo ritenendolo inutile e quelli che, al contrario, accogliendo il
significato spirituale dell'insegnamento di Gesù, lo riconoscono il figlio di
Dio e la nuova Manna scesa dal cielo. Attratti da Dio vanno a Gesù e gli sono
affidati perché ne ricevano la vita.
Possiamo a
conclusione ripetere la frase di Xavier Léon Dufour: « Noi
abbiamo potuto senza difficoltà leggere questi versetti senza fare allusione
all'eucaristia. La manducazione richiesta da Gesù può significare solo
un'adesione stretta alla sua persona come salvatore del mondo. Ecco l'appello
che doveva capire chiunque udiva Gesù »
Anche se gran parte degli scrittori ecclesiastici riferiscono all'eucaristia il sermone che Gesù pronunciò a Cafarnao, non mancano tuttavia delle persone di grande valore che lo ricollegano alla fede in Gesù quale Figlio di Dio. Tertulliano (m. 122.123) così scrisse:
Quando dice: Le mie parole sono spirito e vita, Gesù la chiama sua carne perché, dal momento che la parola si è fatta carne, essa doveva essere ricercata per ottenere la vita ed essere divorata ascoltandola, ruminandola mediante l'intelligenza e digerendola per mezzo della fede (Tertulliano, De carnis resurrectione 37 PL 2, 894 (AD 208-211).
Clemente d'Alessandria (m. 211-15), così scrive:
Quando Gesù disse: Mangia la mia carne e bevi il mio sangue, evidentemente usava un linguaggio simbolico per indicare che egli era atto ad essere bevuto tramite la fede (Clemente Aless. , Ped. 1, 6, 46/47 PG 8, 296 (poco dopo il 195).
Origene, uno scrittore della stessa scuola (m. 254-55), ripeteva:
Noi abbiamo l'obbligo di bere il sangue di Cristo, il che facciamo quando diamo ascolto ai suoi discorsi (Origene, in Num Homeliae 16, 9 PG 12, 701, dopo il 244), perché mediante la carne e il sangue delle sue parole, che sono una vera carne e una vera bevanda, egli abbevera e rinfresca tutta la razza umana (Origene, in Lev. Hom. 7, 5 PG 12, 487, dopo il 244).
Anche Girolamo (m. 420) scriveva:
Io suppongo che il vangelo è il corpo di Gesù e la Bibbia la sua dottrina. Di conseguenza quando Gesù dice: Chiunque non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, anche se poteva riferirsi al mistero (eucaristico), con più ragione si riferiva alla dottrina divina dal momento che il corpo di Cristo e il suo sangue sono il tema della S. Scritture... Se ascoltiamo la parola di Dio, si riversano nelle nostre orecchie la carne ed il sangue di Cristo, ma quando noi pensiamo a qualcosa d'altro, incorriamo in un grande pericolo (Girolamo, In pslamos commentarioli 147, 3 PL 26, 1334 ,a. 392.401).
Agostino (m. 430), vescovo d'Ippona, insegnava che:
Noi mangiamo questa carne e beviamo questa bevanda quando viviamo in Cristo e Cristo vive in noi (Agostino, In Joannis evangelium tractatus 26). E giustamente concludeva con la frase lapidaria: Credi ed hai mangiato (Agostino, Tract. in Joh. 25 n. 12; cf 26 n. 13).
Nicolò Cusano (m. 1464), Giansenio di Gand (m. 1576), il Gaetano (m. 1534) intesero il discorso di Gesù nel senso di mangiare il Cristo spiritualmente per fede, come pensarono pure i Calvinisti e Grozio. Al Concilio di Trento molti vescovi dissero che questo pensiero era non solo l'interpretazione di Agostino, ma anche di Tommaso d'Aquino, per cui il 16 luglio 1562 i vescovi quivi raccolti non vollero imporre l'interpretazione eucaristica di Gv 6: Dodici teologi si astennero dal votare, 19 lo intesero in senso eucaristico, 9 sostennero l'interpretazione spirituale della fede e 21 riferirono il discorso tanto alla fede quanto all'eucaristia. Quest'ultima ipotesi era già stata difesa da Tommaso d'Aquino: «Si deve dire che queste parole di Gesù («se non mangiate la mia carne») vanno riferite alla manducazione spirituale di Gesù (per fede) e non solo al cibo eucaristico». Quest'ultima interpretazione poggiava sul fondamento assai fragile dei molti sensi letterali della S. Scrittura e che a buon diritto è oggi respinta dagli studiosi.
Dalle scarne considerazioni precedenti risulta come già in antico ciascuno studioso potesse intendere il discorso cafarnaico anche in senso metaforico (fede) senza sentirsi per nulla vincolato alla sua interpretazione eucaristica. Il contesto ci fa capire, come abbiamo visto, che Gesù alludeva alla fede e non alla eucaristia.
CAPITOLO TERZO
QUESTO E' IL MIO CORPO
1) Presenza reale di Cristo
2) Contesto
simbolico
3)
Interpretazione degli apostoli e di Gesù stesso
4) Tutta l'azione è
un simbolo
5) L'ebraico non
ha il verbo «simboleggiare»
6) Un obiezione:
Offesa al pane, offesa a Gesù?
7) La
questione sacrificale
In tono prima enfatico ed ora più moderato, i teologi cattolici insistono sulle parole dell'istituzione per sostenere che il pane e il vino si trasformano sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Bastino le seguenti due citazioni:
La frase: Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue, che sono espressioni di identità, indicano con esattezza e sufficienza la presenza viva del corpo e del sangue di Gesù. Las presenza reale vi è asserita vi verborum (ossia in forza delle stesse parole) dell'istituzione, essendo la conversione implicita nella presenza. Logicamente se vogliamo che la forma di identità insita nella frase: Questo è il mio corpo, sia retta, bisogna concludere che il pane non è più il pane bensì il reale corpo di Cristo (P. Batiffol, L'Eucharistie. La presence réelle et la transubstantiation, Paris 1913, p. 102 nota 1. Il Batiffol fu un pioniere della storia dei dogmi).
Forse che il Cristo – continua il Conway – lui che è Dio infinito, amante delle anime, può essersi permesso di usare una figura retorica capace di ingannare milioni di suoi seguaci di ogni tempo, e di condurli proprio a quell'idolatria che egli era venuto ad abolire? (B.L. Conway, The Question Box, p. 252).
Tuttavia
la «idolatria» non viene da Gesù, bensì da chi si
accosta al testo biblico con la mentalità occidentale dimenticando che le parole
del vangelo sono scritte secondo il modo espressivo degli orientali. L'unica via
per non incorrere in errori interpretativi sta nel dimenticare la mentalità
filosofica medievale per tuffarci in quella semitica, presente nei vangeli.
L'espressione « questo è» può intendersi in due modi
diversi: in senso letterale o in senso simbolico. Se indicando un ragazzo dico:
«Questo è mio figlio», chiunque capisce che quella persona è realmente la
creatura da me generata o partorita, ma se, presentando la fotografia di un
ragazzo, ripeto le medesime parole, ognuno comprende che parlo un senso
metaforico: «Questa foto raffigura mio figlio». Quindi il contesto serve per
conoscere quale senso si debba dare a una espressione. Quando Gesù diceva:
«Questo è il mio corpo, questo calice è il mio
sangue» che significato intendeva darvi? Letterale o simbolico? Ecco
l'indagine indispensabile ad ogni studioso per cogliere il vero significato di
queste parole, anteriormente a tutti i problemi teologici moderni. La risposta
non dovrebbe riuscire difficile a chiunque si accosti senza preconcetti al
pensiero biblico, dal quale in varie maniere risulta che Gesù intendeva parlare
in senso metaforico. Ciò appare già dalla mentalità diversa con cui un
occidentale e un orientale si accostano alla realtà: il primo, al vedere un
essere concreto si chiede: «Che cosa è questo?», e ne ricerca l'intima natura
costitutiva (sostanza). L'orientale invece dinanzi alla stessa realtà, si
domanda: «Che cosa è mai questo per me?» ricercandone non la natura bensì i suoi
rapporti con la persona che indaga (relazione). Vedendo il pane l'occidentale
dice: «Questo è pane»; l'orientale invece afferma: «Questo è pane per me, ossia
del cibo per me». Di conseguenza, all'udire le parole di Gesù: « Questo è il mio corpo», un semita non era indotto a
pensare che la sostanza del pane si fosse trasformata nella sostanza del corpo
di Cristo, ma che tale pane era, per il credente, il «corpo» di Cristo, vale a
dire la persona di Cristo, presentata nel suo aspetto esteriore percepibile di
corpo. Sentendo dire: « Questo è il mio sangue », un
semita non era portato a pensare che la sostanza del vino, contenuto nel calice,
si era trasformata nella sostanza del sangue di Cristo, ma che la persona
vivente del Cristo (il sangue è la vita) era destinata ad essere sacrificata per
la salvezza umana, come viene chiarito dal participio aggiunto: « che sta per essere versato per
voi».
Ma
l'occidentale, dimenticando questo aspetto, ha operato un illecito passaggio dal
campo relazionale alla sfera della natura e dell'essenza, deducendo dalle parole
di Gesù che la sostanza del pane si cambia nella sostanza del Cristo. Ha ben
affermato l'illegittimità di questo processo il calvinista F.J. Leenhardt, che
così scrive:
Logicamente il pane è pane. Ma è un
ebreo che parla. Il pane è riferito ad un fine che lo trascende. La sua natura
empirica, che solo interessava lo spirito greco, non interessa lo spirito
dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in se stesso. Per un ebreo,
questa realtà bruta e immobile del pane è riferita ad uno scopo. Il pane è ciò
che esso diviene in connessione a questo riferimento ultimo (F.J. Leenhardt,
Ceci est mon corps, Neuchâtel - Paris 1955. p. 28).
Anche il contesto nel quale le parole di Gesù furono pronunciate ci spinge a dare loro un senso simbolico e non sostanziale.
Nei sinottici la «cena del Signore » è chiaramente inclusa nella cena Pasquale ebraica tutta impregnata di simbolismo: si ricordino le erbe amare, il pane azzimo, la coppa della benedizione, l'agnello pasquale, che richiamavano alla mente la grandiosa liberazione di Israele dalla triste schiavitù egizia ad opera della potente mano di Dio. Ai figli che chiederanno: « Che è per voi questo?», ossia che cosa raffigura questa azione (cena pasquale), risponderete: « Questo è (ossia raffigura) Jahvè che passò oltre la casa dei figli di Israele, quando colpì gli egiziani e salvò le nostre vite» (Es 12, 24 ss). La cena Pasquale raffigurava quindi l'angelo sterminatore che, quale messaggero di Jahvè, oltrepassò le case degli ebrei segnate col sangue dell'agnello senza colpirvi nessuno di morte, per entrare solo nelle case egizie e uccidervi i primogeniti. In tale atmosfera doveva riuscire spontaneo anche per gli apostoli intendere in senso simbolico la nuova cena stabilita da Gesù che sarebbe succeduta all'antico banchetto pasquale. Mentre la cena Pasquale ricorda simbolicamente la liberazione dalla schiavitù egizia, la cena cristiana simboleggia la salvezza realizzata da Cristo con la sua morte in croce tramite la liberazione dalla schiavitù del peccato. Va poi ricordato che, quando parlava loro, Gesù era tuttora presente di persona, per cui è impossibile supporre che gli apostoli annettessero a quell'atto la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di colui che stava loro dinanzi.
1. Che gli
apostoli, anche dopo la discesa dello Spirito Santo, abbiano inteso le parole di
Gesù in senso metaforico appare chiaro dalla modifica, possibile solo nel caso
di un simbolo. Paolo e Luca, infatti, alle parole «Questo
calice è il mio sangue » (Mt, Lc) sostituiscono «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue versato per
voi» (Lc 22, 20; 1 Co 11, 25). E' evidente che il «calice », vale a dire il vino contenuto nel calice, non può
sostanzialmente trasformarsi in un patto, che è qualcosa di astratto ma può
essere solo simbolo o figura di questa nuova alleanza, così come esso è pure
figura o simbolo del sangue di Gesù. Il senso simbolico che si adatta ad
entrambe le formule, deve essere proprio quello inteso da Gesù e non il senso
letterale ontologico (relativo alla sostanza) che, al contrario, si adatta solo
alla formula usata da Matteo e da marco, ma non a quella di Luca e di
Paolo.
2. Alla
medesima conclusione ci conduce l'apostolo Paolo, quando non dice che mangiando
il pane e bevendo il vino si compie la «conversione»
di tali sostanze nel corpo e nel sangue di Cristo, ma afferma invece che «si
predica» quello che Cristo ha compiuto per noi sul Calvario: «Ogni volta infatti che voi mangerete di questo pane (si noti la
conservazione del nome pane) e berrete di questo calice proclamerete la morte la
morte del Signore fino a che il Cristo venga» (1 Co 11,
26).
Lo stesso
apostolo fa pure un interessante parallelo tra l'eucaristia e i pasti
sacrificali laici o pagani:
«Guardate l'Israele secondo la carne: Quelli che mangiano i sacrifici non sono essi in comunione (koinonòi) con l'altare (= Dio)?... Io dico che le carni che i non ebrei sacrificano, le sacrificano ai démoni e non a Dio, ora io non voglio che siate in comunione (koinonoùs) con i démoni. Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei démoni; voi non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 18.20s).
Si hanno
qui i seguenti parallelismi:
a) i
giudei mediante le offerte sacrificali entrano in comunione con Dio
(altare);
b) i
pagani con i loro pasti (mangiare della carne, bere del vino) stabiliscono una
comunione con i démoni;
c) i
cristiani mangiando il pane e bevendo il vino entrano in comunione (koinonìa)
con Gesù Cristo: « Avete koinonìa con il corpo e il sangue
di Cristo» (1 Co 10, 16). Ma tale comunione con il Cristo non esige il
cambiamento della sostanza del pane e del vino nel corpo e del sangue di Gesù,
altrimenti in forza del parallelismo dovremmo concludere che anche le bevande
dei pagani si sarebbero dovute cambiare sostanzialmente nei démoni, e il cibo
degli ebrei in Dio, il che è assurdo.. Come gli ebrei attuavano una comunione
con Dio (= altare) e i pagani una comunione con i loro dei, senza alcuna
transustanziazione del cibo, così, in virtù del parallelismo, si deve concludere
che anche la comunione con il Cristo si può attuare senza esigere la conversione
sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del
Signore.
Per mezzo
di tale cena si avvera quindi una maggiore comunione (koinonìa) con il corpo e
il sangue di Cristo: «Il calice delle benedizione che noi
benediciamo, non è esso la comunione (koinonìa) con
il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è la comunione
(koinonìa) con il corpo di Cristo?» (1 Co 10,
16).
L'espressione «il calice della benedizione che noi benediciamo» è tratta
dagli usi giudaici ed era familiare ad ogni ebreo. I giudei «benedicevano », ossia lodavano Dio all'inizio e alla fine
dei pasti, così avevano un calice della benedizione con il quale chiudevano i
pasti. Anche la comunità cristiana ritenne questo modo di parlare, come risulta
d Paolo e dalla Didachè (9, 10). Il « che noi
benediciamo» viene usato per distinguere tale benedizione da quella
simile dei giudei. Che si tratti di questo uso e non della «
consacrazione » risulta chiaro anche dal fatto che Paolo non dice nulla
per il pane, che avrebbe dovuto essere consacrato
anch'esso.
Paolo, tra
il puro ricordo intellettuale e la transustanziazione medievale, segue una via
di mezzo: la cena è sì un ricordo (anàmnesis), ma un ricordo che stabilisce una
maggiore comunione tra chi partecipa alla cena e il Cristo stesso, senza che vi
sia trasformazione sostanziale dei simboli nel corpo e nel sangue di
Gesù.
3. Del
resto lo stesso Cristo ce ne diede la spiegazione (ritengo genuino il comando,
perché i discepoli non avrebbero potuto ripetere i gesti di Gesù fin
dall'inizio, se lui stesso non ve li avesse invitati) quando disse agli
apostoli: «Fate questo in memoria (anàmnesis) di me» sia per il pane (Lc 22, 14; 1 Co 11, 25) sia per il
vino (1 Co 11, 25).
Il greco
anàmnesis «ricordo ». «memoriale» indica usualmente un momento eretto per
ricordare un defunto oppure una vittoria; poteva anche essere una festività. Dal
testamento di Epicuro leggiamo: « E così avvenga per la
festa che avrà luogo il 20 di ogni mese tra tutti quelli che hanno seguito con
me lo studio della filosofia, in memoria nostra (eis tèn emôn mnèmen)
e di quella di Metrodoro» (Diogene Laerzio, Epicurea
10, 18, p. 165). Lo riconosce chiaramente anche E. B. Allo nel suo magistrale
commento alla prima lettera di Paolo ai Corinzi, anche se poi senza alcuna
ragione filologica, spinto a quanto pare dal dogma cattolico, aggiunge che qui,
in bocca a Paolo, tale parola significa « il rinnovamento
del sacrificio della croce».
Il
significato della cena del Signore non sta soltanto nei simboli del pane e del
vino, ma in tutta l'azione che si compie su di loro: «Quello che io realizzo sul pane spezzato e distribuito è il corpo di
Gesù che
sta per essere ferito e sacrificato per voi sulla croce »... «Quello che io attuo sul vino versandolo e distribuendolo da bere è
il mio sangue che sta per essere versato in sacrificio a vostro favore»
(Mt, Mc), oppure rappresenta «il nuovo patto che sta per
essere sancito con il sangue da me versato» (Lc - Paolo). Per tale motivo
il comando di Gesù non dice di recitare le parole della consacrazione, bensì di
ripetere la medesima azione allora compiuta: « Fate questo
in memoria di me» ( 1 Co 11, 24; Lc 22, 19).
Di
conseguenza benché la parola «pane» (o àrtos) sia
maschile in greco, il pronome che vi si riferisce (oùtos) non sta al maschile
bensì al neutro (toùto), perché non si ricollega direttamente al pane, ma a
tutta l'azione precedentemente compiuta che esige il neutro. Perciò, se riguarda
tutta l'azione svolta e non solo il pane o solo il vino, non può indicare che
questi due elementi si trasformino sostanzialmente nel corpo e nel sangue di
Cristo, come in passato si soleva dedurre dall'analisi del pronome « questo». Per questo motivo l'atto liturgico dei primi
credenti si chiamava «cena del Signore» oppure «rottura del pane», per meglio sottolineare l'azione
simbolica, anziché essere detta, come avvenne in seguito, consacrazione del pane
e del vino. Il mutamento del nome è indice del cambiamento di
concezione.
Innegabile
è il rapporto tra l'azione di Gesù e quella simbolica compiuta da Ezechiele. Il
profeta con un coltello affilato si rade barba e capelli, ne butta un terzo nel
fuoco, un terzo lo taglia con la spada e un terzo lo disperde al vento,
conservandone soltanto un piccolo numero che lega al lembo del proprio mantello.
Poi continua: « Questo (è) Gerusalemme», vale a dire
« la mia azione simboleggia ciò che sta per avvenire agli
abitanti della Città santa» (Ez 5, 1-5). La frase finale, identica per
costruzione a quella di Gesù, ci mostra come essa possa e debba avere un
significato simbolico, senza esigere un sostanziale cambiamento dei due elementi
del pane e del vino.
Se Gesù avesse voluto dire che l'azione simbolica compiuta sul pane e sul vino è soltanto un simbolo della sua morte in croce, ci si può chiedere come mai non abbia usato un verbo più chiaro e più esplicito, quale «simboleggia, significa » che avrebbe eliminato ogni ombra di dubbio, anziché adoperare l'enigmatico verbo «essere»? Per la semplicissima ragione che il verbo «simboleggiare » «significare», inesistente in ebraico o in aramaico, era espresso in queste due lingue semitiche accostando semplicemente il soggetto al predicato: «questo – mio corpo» o, nel greco biblico, con il verbo « essere»: «questo è il mio corpo». Tutte le volte che in una versione della Bibbia appare il verbo «significa», l'originale ebraico non ha alcun verbo e il greco presenta il verbo «essere».
a) A + B equivale ad «A rappresenta B»
E' la
forma comune nell'Antico Testamento dove il verbo «essere» usualmente si
sottintende in ebraico, per cui il simbolo è accostato direttamente alla realtà
significata. « I tre tralci tre giorni», ossia
«rappresentano tre giorni dopo dei quali il coppiere sarà riammesso al servizio
del Faraone (Ge 40, 12); «I tre cesti tre giorni»,
ossia equivalgono a tre giorni dopo dei quali il panettiere del re verrà ucciso
(Ge 40, 16). «Le sette vacche grasse sette anni e le sette
spighe altrettanti sette anni», ossia «
raffigurano» sette anni di abbondante raccolto (Ge 41, 26; cf pure il v.
27). Alla domanda del figlio « Che cosa queste istruzioni,
queste leggi e queste prescrizioni? (equivale a «che
cosa sono, oppure significano queste istruzioni...? »), risponderai che, quando i nostri padri furono liberati
dall'Egitto, Dio diede loro questi comandi » (Dt 6, 20). «Che queste pietre? », (ossia « che cosa
sono (= significano) queste pietre?») Vi diranno i vostri figli e voi risponderete loro che le acque del
Giordano si sono divise per lasciare passare gli Israeliti » (Gs 4,
6).
Anche la
lingua aramaica non usava la copula: «L'albero dal fogliame
bello tu, o re», dice Daniele, nella sua spiegazione
del sogno di Nabucodonosor, intendendo dire «rappresentano te» (Dn 4, 22). Anche
nelle parole dell'istituzione, parlando del calice, Luca segue tale uso perché
scrive: « Questo calice la nuova alleanza», vale a dire «rappresenta» il nuovo patto stabilito tramite il sangue di Cristo (Lc 22,
20). Questa frase ci mostra come Gesù nell'originale aramaico (qui letteralmente
tradotto in greco) non espresse la copula, ma accostò semplicemente il simbolo
alla realtà significata.
b) «A é B» equivale ad «A rappresenta B»
E' la forma dominante nel Nuovo Testamento perché la lingua greca
esprime il verbo «essere », sottaciuto invece nell'ebraico. « Che è questa parabola? », vale a dire «Che cosa
significa la parabola del seminatore? »
(Lc 8, 4). Poi Luca continua: « Il seme è
la parola di Dio »; « quei semi che sono nella roccia sono coloro che hanno
udito ma restano soffocati dalle cure e dalla ricchezza»: « quel seme che è caduto
in buona terra sono coloro che ritengono la parola in un cuore
onesto » (Lc 8, 11.13.14.15). In queste
frasi le varie parti del seme, cadute in terreno diverso, «raffigurano» le
persone che rispondono diversamente alla parola divina sparsa nei loro
cuori.
Paolo usa spesso tale forma: « Agar e Sara sono (=
rappresentano) le due alleanze ». «Agar è (rappresenta) il
monte Sinai » (Ga 4, 24; cf 1 Co 11, 26).
« La roccia che seguiva gli ebrei nel
deserto era (= rappresentava) il Cristo » (1
Co 10, 3 s). Anche nell'Apocalisse si legge: « Le sette stelle sono (=
rappresentano) gli angeli delle sette
chiese e le sette lampade sono (=
rappresentano) le sette chiese » (Ap 1, 20).
E' quindi naturale che Gesù, pur volendo indicare, come abbiamo
visto precedentemente che l'azione sul pane e sul vino era solo simbolo del
sacrificio di Gesù sulla croce, abbia usato il verbo essere, anziché quello
inesistente di « simboleggiare ». Si può quindi concludere questo studio con le
parole del benedettino J. Dupont:
Dicendo: questo è il mio corpo; Gesù non afferma necessariamente che la sostanza del pane è cambiata nella sostanza del suo corpo; nel modo di pensare di un semita e della Bibbia stessa il senso più naturale sarebbe: Questo significa il mio corpo, rappresenta il mio corpo. Si ricordi Ezechiele (5, 1-5) che dice dei suoi capelli: Questo è Gerusalemme, ossia questo è il simbolo di Gerusalemme; simbolo nell'ordine dell'azione; ciò che è avvenuto ai miei capelli deve riprodursi anche per Gerusalemme. Abbandoniamo quindi senza esitare un argomento troppo semplicista, che non prova proprio nulla (J. Dupont, Ceci est mon corps, ceci est mon sang, in Nouv. Rev. Theol. 90 (1968) 1025-1044, p. 1037).
Se ben si riflette al fatto che il pane e il vino sono l'immagine del Cristo risorto, si vede come sia inconsistente l'obiezione di C. Wisemann:
Un uomo non può essere colpevole di lesa maestà a meno che la maestà regale non esista nell'oggetto contro il quale si commette il crimine di lesa maestà. Così uno non può offendere il corpo e il sangue di Cristo nella beata Eucaristia, se queste cose non vi sono presenti (C. Wisemann, Lectures in the Real Presence of Jesus Christ in the Blessed Eucharist, London 1836, p. 319).
Si ricordi tuttavia che si offende il capo di uno stato o il papa,
quando si brucia una loro statua o un loro ritratto; che si offende una nazione
quando se ne strappa la bandiera per il semplice motivo che tali oggetti, pur
non essendo sostanzialmente quelle persone e quello stato, di fatto li
raffigurano. Per un cattolico un'offesa compiuta verso un'immagine del Cristo o
di Maria viene considerata un sacrilegio contro il Cristo stesso e Maria, anche
se di fatto Gesù e Maria non vi sono sostanzialmente presenti. Il culto rivolto
a una reliquia, che storicamente fosse falsa, non è una male secondo la dottrina
cattolica, perché il culto va alla persona ricordata da quella reliquia senza
arrestarsi alla reliquia in se stessa. Anche se questi esempi non sono conformi
al pensiero biblico, di fatto confermano il principio che non deve essere
sostanzialmente presente una persona per offenderla; la si può offendere anche
maltrattando ciò che la rappresenta (fotografia, ambasciatore, ecc.). Dunque lo
stesso vale per la cena del Signore che deve essere compiuta con serietà:
« Perciò chiunque mangerà il pane e berrà
il vino del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del
Signore» (1 Co 11,
17).
Mi si permetta di concludere questo
studio con una citazione tratta da un recente libro del noto studioso
protestante Eduard Lohse:
L'idea di una mutazione degli elementi, di una transubstanziazione è del resto così poco presente nel Nuovo testamento come poco lo è un particolare interesse per gli elementi stessi della cena come tali: pane/vino-corpo/sangue. Proprio la correlazione corpo/alleanza che troviamo in Paolo e Luca mostra che tutto sta nell'azione, nel compimento del rito. E' nel celebrare questa azione che la comunità sa di essere unita al suo Signore (E. Lohose, La storia della passione e morte di Gesù Cristo, Studi Biblici 31, Brescia, Paideia 1975, p. 65).
Di solito si prova l'esistenza del sacrificio eucaristico (S. Messa) mediante la profezia di Malachia e tramite alcune riflessioni su determinati passi neotestamentari, che dobbiamo quindi esaminare sia pure brevemente.
a) Malachia
Per condannare la grettezza dei
sacerdoti ebraici che gli offrivano animali tarati e quindi impuri, Dio così
dice:
Dal sorgere del sole al suo calare grande è il mio nome tra le nazioni e in ogni luogo mi si offre incenso e un'offerta pura (minchah) perché grande è il mio nome tra le nazioni, dice il Signore degli eserciti (Ml 1, 11).
Il Concilio di Trento nella sua sessione XXII ha così commentato
il passo: «(la messa) è appunto quel puro
sacrificio predetto per bocca di Malachia e che sarebbe offerto in ogni
luogo» (Denz. Sch.
1742).
Questo sacrificio è detto minchàh,
vocabolo che primariamente, anche se non esclusivamente, consisteva nell'offerta
incruenta di fiore di farina (Lv 2, 1-5). L'incenso è solo un dato figurato per
indicare le preghiere dei Santi. Alcuni teologi protestanti identificano invece
la profezia con i sacrifici del popolo cristiano consistenti in preghiere e
sacrifici spirituali inerenti ad una vita veramente cristiana (cf Rm 12, 1 ss;
Eb 13, 15).
Va tuttavia ricordato che il
sacrificio di cui parla Malachia non si riferisce a una realtà futura da
riservarsi all'epoca messianica, per la quale il profeta usa sempre il tempo
futuro (Ml 3, 1-5. 16-21), ma di un fatto già realizzatosi durante la sua vita,
come è suggerito dal participio presente.
Inoltre il sacrificio minchah non è
riservato all'offerta del fiore di farina, ma è riservato pure per l'agnello
offerto da Abele (Ge 4, 4 cf 1 Sm 2, 15). Inoltre se si intende il sacrificio
(minchah) come qualcosa di reale, non si capisce perché l'incenso debba essere
al contrario preso in senso simbolico e non reale. Se il sacrificio di cui parla
Malachia si riferisce al 5° secolo a.C., a che cosa
allude?
1. Alcuni hanno pensato ai sacrifici
pagani che le genti, pur ignorandolo, avrebbero rivolto al Dio degli ebrei
indicato con nomi diversi. per questo il Pope così
cantava:
Padre di tutti! In ogni età,
in ogni dimora
adorato
dal santo, dal selvaggio e dal saggio;
Jehova, Giove, o
Signore!
Così anche il Lods così scrive:
In una diatriba indignata contro i sacerdoti negligenti, Malachia ha l'ardire di dichiarare che Jahvè è onorato dal culto a lui offerto dall'universo intero molto meglio che da quello celebrato nel tempio di Gerusalemme (Lods, Les Prophètes d'Israel, Paris 1935, pp. 313ss).
Le parole di Malachia
significherebbero dunque che Dio non ha bisogno dei doni giudaici perché tutti i
pagani, anche se offrono in apparenza sacrifici ad altri dei, siano essi Ormuz,
Zeus, Osiride, di fatto sacrificano al vero Dio. Malachia sarebbe dunque il più
tollerante dei sincretisti religiosi.
Tuttavia, di fronte alle critiche
bibliche contro l'idolatria (Sl 115, 3-8; Ez 14, 1-8; Rm 1, 18-23) è difficile
pensare che Dio abbia ispirato a Malachia una simile frase di intonazione tanto
larga. Essa equivarrebbe a dire che Jahvè preferisce il culto rivolto a Giove,
perché è Jahvè che i pagani adorano sotto il nome di
Zeus.
2. Malachia intende parlare dei
sacrifici che gli ebrei della dispersione offrono, perché costoro sono i veri
giudei che tengono alto il suo nome tra tutti i popoli e si mostrano ben più
religiosi dei palestinesi. Gli ebrei infatti non erano tutti rimpatriati al
tempo di Esdra e Neemia (V secolo), come ci assicura Giuseppe
Flavio:
La maggioranza del popolo rimase in quella regione. Quindi
solo due tribù in Asia e in Europa sono sottomesse ai romani; le altre dieci
tribù stanno al di là dell'Eufrate e la loro gente è
innumerevole.
Per la loro pietà, si ricordi che il famoso rabbino Hillel
venne da Babilonia, come fecero più tardi anche R. Hiyya e i suoi figli. In
Babilonia sorse il Talmud babilonese; a Babilonia si recò Pietro per visitare i
giudeo-cristiani (1 Pt 5, 13). Quivi gli ebrei «adoravano il
nome di Dio» (Baruch 2, 30-32); i suoi abitanti erano simboleggiati da un
cesto di fichi buoni, mentre quello con i fichi marci raffigurava Gerusalemme
(Gr 24, 1-10).
Gli ebrei della diaspora mandavano doni a Gerusalemme, i
quali erano protetti contro eventuali furti da migliaia di robusti giudei che li
accompagnavano. Essi mandavano pure le loro offerte sacrificali al tempio di
Gerusalemme, dove si recavano in pellegrinaggio (At 2, 9).
Sembra tuttavia che Malachia parli di sacrifici compiuti in
tutte le parti del mondo e dalle nazioni (goyim) e non di quelli inviati dagli
ebrei a Gerusalemme. Il profeta afferma infatti che il suo nome è grande «tra le nazioni» e non «tra gli ebrei
dispersi nelle nazioni». E' quindi necessario tentare un'altra
soluzione.
3. Le nazioni sono quelle sottoposte al regno persiano, il
cui fondatore Ciro era considerato «re delle
nazioni». Il montone che cozza contro tutti gli altri imperi «a occidente, a settentrione e a mezzogiorno» è simbolo
dell'impero persiano (Dn 8, 4). Ciro, scelto dal Signore, che lo chiama «suo
eletto» (Is 45, 1 s) è il «pastore di Dio» (Is 44,
28). Egli «mosso dalla giustizia di Dio» rimanderà i
giudei deportati e ricostruirà la città sacra (Is 45, 13), dopo aver rovesciato
gli idoli di Babilonia (Is 46, 1). I persiani adoravano il Dio Ahura-Mazda,
assai vicino allo Jahvè ebraico, il Dio della luce e dei cieli, con il quale in
un certo senso poteva essere identificato. Nessuna pietra porta incisi i suoi
lineamenti; nemmeno il segno spesso inciso sulle rocce è il suo nome:
Ahura-Mazda è soltanto una parola, che nasconde e circoscrive il suo vero nome,
che non può essere scritto, né pronunciato dai fedeli e che soltanto poche
labbra conoscono segretamente. Egli abita nella luce infinita e creata, il sole
è l'occhio di Ahura-Mazda, il cielo il suo mantello, di cui nessuno riesce a
vedere le ultime frange, le stelle sono le sue spie. Il fuoco sacro ne è il suo
simbolo. Dio domina l'universo: «L'Eterno, il Dio dei cieli,
mi ha dato tutti i regni della terra e mi ha comandato di edificargli una casa
in Gerusalemme» (Ed 1, 2). Il persiano Dario scrive: «a tutti i poli, a tutte le nazioni e lingue che abitano sulla
terra... Io decreto che in tutto il dominio del mio regno si tema e si tremi
davanti al Dio di Daniele» (Dn 6, 26 ss). Il culto persiano, privo di
immagini, accompagnato dall'offerta dell'incenso, caratterizzato dall'unicità
del loro Dio, li ha indubbiamente elevati nella considerazione degli ebrei, che
proprio sotto i persiani poterono tornare in Patria. Era quindi possibile che
Malachia parlasse del nome di Jahvè stimato tra tutte le nazioni per ordine del
re persiano e al quale si offrivano sacrifici a lui più graditi di quelli
ebraici. Ad ogni modo, qualunque interpretazione si segua, è difficile vedere in
questo passo un qualsiasi nesso profetico con il sacrificio
eucaristico.
b) Le parole della consacrazione
Nell'ultimo atto in cui stabilì l'eucaristia, Gesù pronunciò
le parole: «Questo è il mio sangue che si versa (in
questo momento ekchunnòmenon) per la salvezza dei
peccati» (Mt 26, 28). «Questo è il mio corpo che si
dà per voi (didòmenon)» (Lc 22, 19). Il participio presente fa capire che
in quell'attimo si attuava un vero sacrificio eucaristico, dal momento che
quello sulla croce si doveva realizzare più tardi.
La migliore risposta viene data dal noto gesuita M. Zerwick,
che così scrive:
Al posto del participio futuro si usa il presente (come in ebraico ed aramaico)... Questo deve essere tenuto in mente quando si vogliono interpretare le parole dell'istituzione eucaristica (Lc 22, 19 s; toûto estin tò sôma ti uper umôn didomenon («dato per voi»), che va inteso in senso atemporale... toûto to potérion to uper umôn ekchunnomenon («versato per voi», similmente). Un argomento teologico del carattere sacrificale dell'ultima cena non può essere basato sul fatto che i participi sono al presente, mentre se si riferiscono al sacrificio dovrebbero essere al futuro (M. Zerwick, Biblical Greek, Roma, Biblico 1963, pp. 95-96 (n. 283); Grecitas biblica, Roma 1949, p. 65).
Anche il Dupont osserva:
Non si può concludere da questi presenti che i discepoli hanno sotto gli occhi il corpo del Signore già attualmente sacrificato, il suo sangue già attualmente versato. Il participio futuro non è quasi più adoperato dagli autori del Nuovo Testamento, il presente lo sostituisce particolarmente nel caso di un futuro prossimo o di un futuro certo. O erchòmenos non è colui che viene attualmente, ma colui che deve venire; oi sozòmenoi non sono le persone attualmente salvate, ma che sono destinate alla salvezza. La Volgata ne traduce bene il senso quando usa il futuro: sanguis qui pro multis effundetur. Si tratta del corpo che sta per essere ucciso, del sangue che è sul punto di essere versato (J. Dupont, Ceci est mon corps, a.c., in Nouv. Rev. Theol. 1958, pp. 1037).
A questi esempi se ne possono aggiungere altri. Nella preghiera sacerdotale Gesù dice: «Io prego non solo per questi ma anche per quelli che avrebbero creduto (part. presente) a loro», vale a dire per quelli che in seguito avrebbero creduto in Gesù per mezzo degli apostoli (Gv 17, 20). Gesù «il nascente» (to gennomenon) è colui che sta per nascere (Lc 1, 35), egli è «segno che si contraddice» (antilegòmenon participio presente), ossia colui che sarà contraddetto in futuri (Lc 2, 34. Si può quindi concludere che l'argomento filologico non serve a nulla.
c) Il confronto di Paolo con i sacrifici giudaici e pagani
Un altro testo per la teologia cattolica sembra suggerire che anche la cena del Signore sia un sacrificio: «Non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 20s). Tuttavia i pasti sacrificali presso i giudei e i gentili non erano propriamente un sacrificio, ma un modo di prendere parte ai benefici del sacrificio prima compiuto. Erano un convito sacro, con una successione di riti, le carni della vittima già prima sacrificata. Anche la cena del Signore non è quindi un nuovo sacrificio, ma un modo di partecipare ai benefici dell'unico sacrificio compiuto da Gesù sul Calvario.
Per convincersi della validità di questo ragionamento suggerisco di leggere un articolo del cattolico T. Barosse, che così è da lui sintetizzato:
Il parallelo stabilito da
Paolo tra l'Eucaristia e le thysiai (cene sacrificali) giudaiche sembra basato
sugli effetti simili del mangiare l'Eucaristia e le thysiai, piuttosto che sul
desiderio di affermare il carattere sacrificale del rito cristiano (T.
Barosse, The Eucharist. Sacrifice and Meal? An Examination of the New Testament
Data, in Yearbook of Liturgical Studies 1966 p. 74).
Non vi è quindi nella Bibbia alcun testo che documenti
l'esistenza del sacrificio eucaristico, il quale anzi è in contrasto con
l'affermazione biblica che unico è il sacrificio cristiano, quello della
croce.
CAPITOLO QUARTO
LA CENA DEL SIGNORE NEL NUOVO TESTAMENTO
Indice
1) Per Gesù l'ultima cena era un segno prefigurativo
2) Per i cristiani la cena è un segno che parla di Gesù
3) La cena
del Signore è una comunione
4) La cena
è una predicazione ai non credenti
5) La cena
preludio del convitto finale
6)
Conseguenze teologiche della cena cristiana
Risvegliati!
Risvegliati! Guarda! vedi!
su tutte le vette, e su tutte le pianure,
su tutte le chiuse valli, su tutti gli aperti golfi,
su tutti gli arcipelaghi, su tutti gli oceani,
hanno apparecchiato la tavola umana!
E, sulla tavola fatta del legno di tutti i boschi,
ecco hanno messo un'universale tovaglia
tessuta con tutte le luci del cielo.
E, il coperto è messo, e le coppe benedette,
e intorno la creazione.
Ed ecco, fra gli animali
la cui vita sovrabbonda,
davanti a tutti gli umani, il lupo e l'agnello
fanno la pace del mondo! ...
Alzati! Alzati! Il tuo posto in mezzo a loro è vuoto,
e i loro visi sono felici,
intorno alla tavola immensa!
Guarda: hanno spezzato il pane!
Guarda: hanno alzato il calice del vino!
Ascolta: hanno pregato nel silenzio:
la santa cena umana incomincia!
(Edmond Fleg, poeta ebreo, m. 1963)
Per ben capire i vari significati simbolici ed evocativi, racchiusi nella cena del Signore, occorre richiamare il valore insito nel segno biblico.
1 |
Ci ha riuniti in
un solo cuore
– Cristo – Amore Siamo dunque in lui esultati – siam festanti. Iddio vivo sol temiamo – ed amiamo, ed amiamoci di vero – cuor sincero. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
2 |
Chi l'amore in sé non sente
– non ha niente, Lui di tenebre, Lui d'ombra – di morte ingombra. Noi l'un l'altro che ci amiamo – camminiamo nella luce, ché del sole – siamo prole Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
3 |
Dio ci grida nella mente
– chiaramente «Nel mio nome ove adunate – siano pur due sole o tre persone – in unione, sono presente io stesso – nel consesso». Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
4 |
Quando dunque siam ciascun
– nel raduno non facciamo che sian le menti – dissidenti. Mettiamo via maligni attriti – via le liti! Fra noi Cristo è allor presente – veramente. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
5 |
Come amor lega ai presenti
– pur gli assenti, la discordia anche gli astanti – tiene distanti. Che il sentire di ciascuno – sia solo uno, che non stiamo insieme assisi – ma divisi. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
6 |
E' l'amore un bene intenso
– dono immenso, su cui l'ordine si regge, – d'ogni legge, a cui vecchia o nuova norma – si conforma, che nel ciel l'alma mena – d'esso piena. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
7 |
Dunque a Dio con tutto il cuore
– diamo amore, e nessun amore preposto sia – al suo posto; per il prossimo in Dio poi – qual per noi, sia l'amor. Sia in Cristo amato – chi ci ha odiato. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
8 |
Questo duplice precetto
– dell'affetto chi umilmente sa cercare – e osservare, davvero in Cristo egli resta – se poi questa tetra notte in fuga ha visto – sta in lui Cristo. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
9 |
Sol la via ch'è stretta e ardita
– va in salita, ma se scende a largo il passo – porta in basso; sol fraterno amor dà vita – infinita, mentre dà lotta fraterna – pena eterna. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
10 |
Or da tutti insieme i cuori
– Dio s'implori, perché pace al dì presente, – dia clemente; voglia a fede e speme unire – retto agire, perché al regno ci si interni – dei superni. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
11 |
All'eterno Re sian canti
– osannanti, per la vita ai reggitori – pur s'implori, per goder con loro molt'anni – senza affanni, che per loro amor siam stati – consociati. Solo dove è il vero amore – c'è il Signore! |
CAPITOLO QUINTO
MIRACOLI EUCARISTICI
1) Fenomeni nelle
persone
2) Fenomeni sulle
sacre specie
3)
Conclusione
Usualmente i miracoli eucaristici non sono portati dai teologi a sostegno della transustanziazione, anche se non di rado li utilizzano per sorreggere la fede della gente semplice.
Il miracolo eucaristico, particolarmente volto a confermare la fede nel mistero della reale presenza, è pertanto fuori discussione quanto alla sua possibilità e alla sua efficacia probativa, ma è soggetto a tutte le cauzioni, che una sana critica storica impone (A. Piolanti, Miracoli Eucaristici, in Enc. Catt. 8 1067-1068).
Per la teologia cattolica la transustanziazione, o mutamento della sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, è certamente un fenomeno miracoloso, che però non è percepibile dai nostri sensi. Tuttavia alcuni fatti sensibili e straordinari, come il cambiamento dell'ostia in carne e del vino in sangue, la levitazione e la conservazione di alcune ostie, sono dei fatti controllabili. La devozione cattolica è costellata da molti di questi fenomeni, che qui posso quasi solo elencare essendo impossibile darne una critica particolareggiata.
a) Aiuto divino nei miracoli
Si narra che alcune persone vennero
miracolosamente guarite per la loro devozione eucaristica, mentre altre, che
agirono sacrilegamente verso le ostie consacrate, ne subirono una punizione
gravissima. Segno che la presenza di Cristo agisce nell'ostia consacrata. Il Piolanti rimanda ad alcuni casi riferiti dai padri della chiesa, che io ho
voluto esaminare di persona senza però trovarvi quanto il teologo afferma
(Gregorio Magno, Dialoghi 3, 36 PL 77, 304).
L'episodio narrato da Gregorio
Magno più che di un miracolo eucaristico, parla di una particolare provvidenza
divina, non necessariamente miracolosa. Secondo lui Massiminiano, vescovo di
Siracusa, sorpreso in alto mare da una furiosa tempesta che ne squassava la
nave,
dopo aver preso il corpo e il sangue del nostro Salvatore e Dio Gesù Cristo, egli e i suoi compagni gli affidarono le loro anime. Ma Dio onnipotente che aveva prima atterrito le loro menti, salvò miracolosamente le loro vite.
Infatti la nave, priva di alcuna
possibilità di manovra, arrivò fortunosamente al porto di
Crotone.
Migliore è l'episodio riferito da
Gregorio Nisseno relativo alla sorella Gorgonia e di cui il Piolanti non parla:
essa potè guarire da una malattia quando, andata all'altare, prese in mano,
mischiandoli con le lacrime, « gli antitipi del prezioso
corpo e del prezioso sangue». Quel Gesù che aveva già guarito la donna
sofferente di sangue, perché aveva toccato la frangia del mantello di Gesù, fece
lo stesso in questo caso. Tale guarigione si allinea a quelle che si avverano
tuttora nei santuari mariani di Loreto, Fatima e particolarmente di Lourdes. In
essi, quando il sacerdote durante la processione eucaristica, si ferma a
benedire con l'ostia consacrata i singoli ammalati, talora provoca, anche se
raramente, delle guarigioni istantanee dovute a una forza improvvisa che pervade
gli infermi. Questi episodi rientrano nel quadro dei miracoli creati dalla
suggestione favorita dalle invocazioni ritmicamente scandite da un sacerdote o
da un barelliere, che con insistenza grida: «Signore, fa che
io ci veda... Signore! che io cammini! che ci veda... che cammini... che ci
veda... Signore! che ci senta...» e vi dicendo. Nella coreografia del
momento esse acquistano talvolta una suggestività enorme, atta a scatenare le
capacità di recupero di una persona, facilmente suggestionabile per la debolezza
del proprio fisico.
Per le azioni punitive si può
risalire alla stessa lettera ai Corinzi dove leggiamo:
Quindi ognuno esamini se stesso e così magi del pane e beva del vino, perché colui che mangia e beve, mangia e beve la propria condanna se non discerne il corpo. Per questo molti di voi sono deboli e infermi e muoiono in buon numero. Se invece esaminassimo noi stessi, non saremmo condannati (1 Co 11, 28-36).
Va notato che secondo Paolo l'esame della propria persona deve essere fatta direttamente da chi accede alla cena del Signore – mangiando del pane e bevendo del vino – senza dipendere dal giudizio di altre persone: «esamini se stesso». Il cristiano che accede alla cena deve saper distinguere non solo in teoria, ma anche nella pratica la differenza tra pasti compiuti per sfamarsi e questa cena comunitaria, per cui «se non discerne il corpo », chi vi accede si attira la condanna divina. Il fatto che qui, pur parlando del pane e del vino, si dica solo che egli deve « discernere» il «corpo» (senza «il sangue») ci induce a ritenere che tale «corpo» riguardi la chiesa che è il corpo del Signore, e non quello di Cristo. Tanto più che la specificazione «(corpo) del Signore » che si trova in alcuni manoscritti, manca nei principali. Di fatto la colpa di quei di Corinto consisteva nel mancare di amore gli uni per gli altri, perché alcuni, senza attendere i fratelli, si ubriacavano mentre altri pativano la fame. Quindi l'apostolo conclude:
Perciò fratelli miei, quando vi riunite per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. Se qualcuno ha fame, mangi a casa sua, affinché non abbiate a riunirvi a vostra condanna.
La colpa stava proprio in questo riunirsi dimenticando le esigenze dell'amore fraterno. A motivo di tale colpa i Corinzi erano condannati, ossia puniti dal Signore. Di che punizione si tratta?
1. Spirituale. Qualche autore, anziché intendere alla lettera
le parole «molti sono deboli, infermi e ne muoiono in gran
numero», pensano ad una punizione spirituale. La colpa contro
l'eucaristia recava debolezza nello spirito e morte
nell'anima.
Tuttavia il termine «dormire» si riferisce usualmente al riposo notturno oppure
al riposo della morte fisica, per cui sembra logico riferire anche qui le parole
di Gesù alla morte fisica e alla malattie corporee. Inoltre nel caso delle
malattie spirituali non si capirebbe il ragionamento di Paolo: anzitutto chi può
capire se uno è spiritualmente ammalato, infermo o morto, quando lui stesso ci
proibisce di giudicare gli altri (1 Co 4, 5). Quello che è spirituale è
invisibile mentre qui Paolo parla di una realtà a tutti visibile. Inoltre il suo
suggerimento che «quando Dio ci condanna lo fa per
correggerci, per evitarci la punizione assieme a quelli del mondo» (v.
32), non quadra con l'interpretazione spirituale. Sarebbe un ben strano
ragionamento il dire che Dio punisce con malattie spirituali, anzi con la stessa
morte dell'anima per condurre le persone a salvezza! Questo si capisce per la
malattie fisica, la quale, facendoci riflettere ci induce, almeno nell'intento
divino, a modificare la nostra condotta spirituale.
2. Si tratta di
malattie e di morte fisica. E' Il senso logico che si deduce dal contesto
e dalle stesse parole: « il debole» (asthenés) è
colui che è fisicamente ammalato e «l'infermo»
(àrrostos) è colui che ha una malattia più grave del precedente. Mentre molti
(pollòi) cristiani di Corinto sono tali, un discreto numero (ikanoi) muore. I
morti non sono così numerosi come i precedenti, ma sono pur sempre in numero
discreto, da non potersi trascurare. In che modo Dio produce questa malattia a
morte?
a) Direttamente
– affermano alcuni
– adducendo l'intervento di Dio che
ai primi tempi della chiesa, per ammaestrare i credenti, produceva malattie e
morte in modo da condurre i colpevoli alla conversione. Avremmo qui un
intervento particolare di Dio, riservato ai primi tempi del cristianesimo.
Saremmo in una situazione simile a quella di Anania e Saffira puniti di morte da
parte di Pietro (At 5) o a quella dell'incestuoso di Corinto «dato da Paolo in balia di Satana », perché fosse colpito da
malattie in modo da salvargli l'anima (1 Co 5).
b) Non è però necessario ricorrere a
tale diretto intervento divino. Spesso la Bibbia attribuisce direttamente a Dio,
anche quello che proviene, sì da lui, ma solo tramite cause seconde. La malattia
è attribuita a Dio, anche se viene da cause naturali; spesso nel concetto
biblico la malattia è frutto del peccato al pari della morte. E' Dio infatti che
«fa morire e vivere», è «dalla
sua mano che noi riceviamo il bene e il male» (1 Sm 2, 6 s). Con la
giustizia portata dal re messianico «nessuno dirà in
Gerusalemme: Io sono malato! » (Is 33, 24). Ciò appunto si attuerà nella
Gerusalemme celeste: «La morte non vi sarà più, né più vi
sarà cordoglio, lamento o pena, perché tutte queste caratteristiche del tempo
precedente sono passate » (Ap 21, 4).
In tale caso sarebbe stato proprio
il comportamento anticomunitario dei Corinzi, che per la loro ingordigia e
mancanza di amore fraterno, avrebbe fatto sgorgare alcune malattie e provocato
qualche morto; fatti che Paolo, secondo il metodo biblico, riferisce
direttamente a Dio, anche se provocati da cause seconde. Si noti come Paolo
biasimi il gozzovigliare di tali cene, l'ubriachezza di alcuni, per cui è facile
capire come, anche naturalmente parlando, tale comportamento potesse recare
malattie di vario genere e procurare anche una morte anticipata. Se i cristiani
avessero invece cercato una maggiore fraternità, pronti anche a mangiare di meno
per renderne partecipi i bisognosi, allora sarebbero evidentemente diminuiti i
casi di malattie e di morte. Ecco l'insegnamento perenne di questo brano assai
discusso. Ad ogni modo vorrei concludere che qui non si parla di punizione
perché si offende il Cristo presente nel pane e nel vino, ma di punizione perché
si offende, nel prossimo, il Cristo presente nella comunità che ne è il
corpo.
Ottato di
Milevi (m. 390 circa) riferisce il caso di quegli eretici donatisti
che:
fecero dare l'Eucaristia ai cani. Ma ciò non avvenne senza punizione divina. Infatti quei cani spinti dal furore, dilaniarono con dente vindice gli stessi loro padroni rei del corpo santo, come se fossero dei ladroni del tutto sconosciuti o dei nemici (Ottato di Milevi, De Schismate donatistarum 2, 19 PL 11, 972).
Tuttavia egli continua a parlare di
punizione anche per coloro che avevano gettato dalla finestra l'ampolla del
crisma o commesso altri sacrilegi, dai quali risulta che l'offesa riguardava
tutte le cose sacre e non specificamente il fatto che nell'ostia è presente
Gesù. Si comprende poi naturalmente il furore degli animali, se si pensa che
l'eucaristia comprendeva allora pure il vino, il quale doveva per forza eccitare
le bestie. Vi sarebbe stata la stessa colpa anche se il pane fosse stato
ritenuto puro simbolo del corpo di Gesù.
Gregorio di
Nazianzo (m. ca 390) per il desiderio di passare subito ad altre cose,
non volle descrivere le punizioni « che avvennero contro i
sacri altari» (tàs ieràs trapézas), parole che forse si riferiscono
all'eucaristia. Ma la sua espressione è così generica che non si può dedurre
nulla di preciso.
Agostino
(m. 430) narra di una bimba:
che, scappati i genitori per paura e abbandonata dalla nutrice, dopo aver subito molti sacrilegi demoniaci da parte della stessa nutrice, fu portata in chiesa dove le si portò l'Eucaristia (che allora si dava anche ai bambini); ma essa la sputò e la respinse con movimenti straordinari. Ora a me sembra che ciò si sia avverato per opera divina per insegnare agli adulti che non ci si può accostare all'Eucaristia senza essere pentiti (Agostino, Ep. 98, 4 PL 33,361).
Ma anche qui non vi è nulla di
miracoloso; quante volte i bambini sputano quello che non è loro
gradito!
Più recentemente, si parla di
paralisi o di morti improvvise che sarebbero occorse a Lovanio-Bruxelles (1369),
a Volterra (1471), a Boston (1834). Tali fenomeni, se storicamente fossero
certi, rientrerebbero nei fenomeni patologici creati dalla paura inconscia
provocata dal subcosciente, la quale scatena un collasso cardiaco o la paralisi
di qualche membro del corpo. Non mancavano fenomeni del genere, specie in
passato, in che schiaffeggiava un sacerdote, in quanto ciò era ritenuto un grave
sacrilegio comportante la punizione divina. La paralisi è un modo inconscio con
cui l'individuo punisce se stesso di un fatto peccaminoso. Non prova affatto
l'esistenza di Gesù nell'eucaristia, ma documenta solo la reazione patologica
dell'organismo alla convinzione di aver commesso un atto grave contro Gesù
ritenuto presente nell'ostia consacrata. Fenomeni simili si avverano anche in
paure improvvise o in fatti scioccanti che nel caso di un pericolo grave
provocano paralisi o il collasso cardiaco della persona
coinvolta.
Vari fenomeni miracolosi sono riferiti non alle persone che si accostano alla comunione, bensì all'ostia o al vino consacrati. I fenomeni possono raggrupparsi in diverse categorie.
a) Luminosità delle ostie e piccole
raffigurazioni di Gesù in esse
L'ostia consacrata sarebbe divenuta
luminosa, tra altri casi, a Torino (1453), di cui parlerò più estesamente in
seguito, a Paterno presso Napoli (1772). Vi si sarebbe vista l'immagine di un
piccolo Gesù a Braine (1153), a Ulmes nella diocesi di Angers
(1668).
Anzitutto questi fatti sono in gran
parte scarsamente attendibili per assenza di critica storica. Anche se fossero
storici rientrerebbero nel fenomeno assai facile dell'allucinazione o
dell'illusione ottica, quale non di rado si verifica presso la gente del popolo
sempre a caccia di fenomeni straordinari. Basti ricordare nella recente storia
italiana la illusione di molta gente che vedeva muoversi alcune statue di Maria
e il fenomeno di Fatima circa il sole che sembrava gettarsi sulla terra in
miriadi di colori. Basti ricordare, come nel Medio Evo, non poche persone si
illudevano di vedere Satana, di avere rapporti carnali con esso (demoni incubi e
succubi), di partecipare a cene truculente nella famose riunioni dei sabba. Che
si trattasse di pura illusione risulta dal fatto che quelle stesse persone, dopo
aver mangiato tutto quel cibo, si sentivano più affamate di prima. Di fronte a
fenomeni così strani, perché non si potrebbe intendere come illusioni anche i
fenomeni luminosi o le immagini di Gesù riguardanti le ostie
consacrate?
b) Levitazione di ostie
E' assai noto il caso della beata
Imelda Lambertini, che entrata a 10 anni nel monastero domenicano di S. Maria
Maddalena di Valpietra, fuori delle mura bolognesi, vi morì giovanissima, il 12
maggio 1333 probabilmente dodicenne, perché se ne ignora la data precisa della
nascita. Siccome alla religiosa ancora troppo giovanissima veniva
insistentemente negata l'eucaristia, il Signore provvide a comunicarla
miracolosamente con un'ostia che. levitandosi, volò per l'aria e si posò sopra
la sua lingua. Raccoltasi in preghiera la beata, fu poi trovata esamine.
Tuttavia la notizia sopra riferita proviene da una «tenue
tradizione» (A Redigonda, Lambertini Imelda, in Ecc. Catt. 7, 837) che
non è criticamente documentata.
Anche Caterina da Siena (m. 1380)
sarebbe stata comunicata prodigiosamente e più volte dall'ostia, che
sollevandosi, le si poneva in bocca. Questi ed altri episodi miracolosi furono
sottoposti a critica assai severa dal cattolico R. Fautier, che giunse a
conclusioni del tutto negative.
Curioso l'episodio di Torino. Il 6
giugno 1943 due soldati rubarono un ostensorio da una chiesa poco lontana dalla
città, e vendettero la refurtiva ad alcuni mercanti che la portarono a Torino.
Ma nell'ostensorio stava racchiusa l'ostia consacrata, per cui quando costoro
giunsero davanti alla chiesa di S. Silvestro, il mulo portante gli oggetti
rubati, si impuntò e non volle andare oltre. Il sacco con la refurtiva si aprì e
me uscì l'ostensorio che stette librato in alto, mentre l'ostia diveniva
luminosa. Vi arrivò il vescovo in processione, che, innalzato verso l'ostia
consacrata un calice, pregò perché vi scendesse. L'ostia si posò allora sul
calice e fu portata trionfalmente nella cattedrale
torinese.
Anzitutto la storicità di questo e
simili episodi è assai discussa; nel caso che fossero veri rientrerebbero nei
fenomeni di levitazione o telecinesi ben noti alla metapsichica e dei quali si
cerca ora di dare una sua interpretazione naturalistica senza interventi
supernaturali. Anche se si volesse ammettere una causa al di là delle normali
leggi di natura, non è ancora detto che vi sia intervento divino: varie cause
possono venir addotte, oltre Dio, come spiriti demoniaci o burloni. Da essi non
si può poi arguire la presenza di Gesù nell'ostia consacrata. Dinanzi a tutti
questi problemi non è saggio addurre nemmeno al popolo dei fenomeni non ben
documentati o non probativi.
c) Conservazione di ostie
Si tratta di ostie che normalmente
sarebbero dovute andar distrutte. Ricordo i due casi più noti di Siena e di
Faverney.
1. Siena.
Si tratta di 223 particole consacrate il 14 agosto 1730, trafugate la notte
successiva da Siena, furono manomesse, asportate e ritrovate dopo tre giorni di
affannose ricerche in una cassetta di elemosine nella vicina chiesa di S. Maria
in Provenzano, tra ragnatele, polvere e qualche moneta. Riportate solennemente
nella basilica di S. Francesco a Siena, si riscontrò che il loro numero
corrispondeva perfettamente a quello delle ostie trafugate. Avvolte in un
corporale, furono allora depositate nel ciborio in attesa della loro
decomposizione, che non si è ancora avverata.. Dopo circa 50 anni furono deposte
in un vaso sacro, nel quale ogni anno sono portate in processione, esposte al
pubblico senza che si sia notato un sensibile alteramento della loro
composizione.. Esaminate scientificamente il 10 giugno 1914, da una commissione
di scienziati, si constatò che esse risultano di vero pane azzimo e si trovano
in uno stato di buona conservazione, mentre di solito le ostie non si mantengono
intatte più di quattro o cinque anni. La predetta commissione ha rilevato che le
ostie, confezionate in estate e quindi più facilmente alterabili, furono rubate,
nascoste in una cassetta di elemosine, ripulite dalla polvere e dalle ragnatele,
contate una ad una, lasciate per 50 anni in un corporale, spostate più volte da
un vaso all'altro. Nel 1951, rubate una seconda volta, giacquero incustodite per
molte ore in un angolo del ciborio alquanto umido, e da allora sono in perenne
contatto con il pulviscolo, il caldo e il freddo dell'atmosfera attraverso il
vaso non ermeticamente chiuso.
Eppure sono passate indenni
attraverso tutte queste peripezie senza subirne alcun danno apprezzabile. per
cui il Prof. Grimaldi concluse: « Digitus Dei est hinc.
Questa conservazione è un miracolo».
2.
Faverney. La notte dal 26 al 27 giugno 1618, in questa cittadina francese
non molto lontana dal confine svizzero, si incendiò l'altare e l'ostensorio con
l'ostia consacrata, che vi stava depositata, stette sollevato in mezzo al fumo,
attaccato ad una grata per la piccola croce che lo ornava in alto, mentre tutto
il resto restava sospeso senza alcun appoggio. Vi stette così per 33 ore, poi al
momento dell'elevazione durante una Messa scese su di un altare improvvisato e
riprese la sua posizione normale. Il protestante Federico Veuillard, che
assistette al prodigio, ne fu talmente colpito, che si convertì al cattolicesimo
e credette alla presenza reale di Gesù nell'eucaristia. E' miracoloso il fatto
che l'ostia si sia conservata illesa in mezzo alle
fiamme.
Anzitutto la conservazione di cibo o
altro si è avverata in modo straordinario anche in altri casi: dalle tombe
faraoniche sono stati tratti semi di grano risalenti a parecchi millenni di anni
fa, capaci tuttora di germinare. Quanti fenomeni anormali esistono senza che si
debba gridare subito all'intervento divino. Anche imponendo le mani su un pezzo
di carne (personalmente ne ho fatta esperienza!), si può conservarla a lungo
esposta al sole senza che si corrompa a causa dei microbi, mentre altri pezzi
non trattati così, vanno subito in putrefazione. Bisogna quindi essere cauti nel
gridare al prodigio. Anche per l'ostia di Faverney trovata avvolta dal fumo,
bisognerebbe conoscere bene come si siano svolti i fatti, che cosa gettò
l'ostensorio in alto prima di essere colpito dalle fiamme, che cosa vi è di
veramente storico e quale abbellimento vi fu dato in
seguito.
d) Ostie e calici
sanguinanti
Si ricordano moltissimi casi che
mostrano nell'ostia o nel calice il sangue di Gesù tra cui quelli di Offida. di
Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Firenze (1230), di El Cebrero (metà del 13°
secolo), di Bolsena (1263) e di Berlino (1510). Le ostie di Avignone nel 1554,
forate da colpi di pugnale, lasciarono cadere del sangue; quelle di Gand nel
1554, rubate da alcuni ladri e quella di Napoli nel 1581 profanata da chi
l'aveva ricevuta nella comunione, persero sangue in
abbondanza.
1. Il miracolo
di Lanciano, l'antica Anxanum dei Frentani custodisce il primo miracolo
eucaristico. Il «prodigio» avvenne nel secolo VIII d. C. nella chiesetta di S.
Legonziano. Un monaco basiliano, mentre celebrava l'Eucaristia, fu assalito da
forti dubbi sulla presenza reale del Signore. A consacrazione avvenuta, il
miracolo! L'ostia diventò Carne viva ed il vino si mutò in Sangue vivo,
raggrumandosi in cinque globuli, irregolari sia per forma che per grandezza.
Tuttora, la Carne conserva forma e grandezza dell'ostia grande in uso nella
liturgia cattolica latina. E' leggermente bruna. Il Sangue è coagulato, di
colore terreo, tendente la giallo ocra. Dal 1713, la Carne è conservata in un
artistico ostensorio d'argento, cesellato con gusto. Il Sangue è contenuto da
una ricca e antica ampolla di cristallo.
Che sia veramente carne e vero
sangue risulta dalla ricognizione scientifica, compiuta nel novembre del 1970,
dal prof. Odoardo Linoli, libero docente di anatomia e istologia patologica, in
chimica e microscopia clinica, primario degli ospedali riuniti di
Arezzo.
Ecco il risultato delle indagini
presentato al santuario del miracolo il 4 marzo 1971.
«La Carne è vera
carne. Il Sangue è vero sangue. La Carne è costituita da tessuto muscolare del
cuore (miocardio). La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne
e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno (AB). Nel Sangue sono state
ritrovate le proteine normalmente frazionate con i rapporti percentuali quali si
hanno nel quadro siero-proteico del sangue fresco normale. Nel Sangue sono stati
anche ritrovati i minerali: cloro, fosforo, magnesio, potassio, sodio e calcio.
La conservazione della Carne e del Sangue, lasciati allo stato naturale per
dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici atmosferici e biologici,
rimane un fenomeno straordinario»
Che si tratti di carne e sangue di
un uomo è quindi accettabile. Ma si tratta poi del sangue e della carne di Gesù?
La documentazione storica è poi sicura? Il Lessico
Ecclesiastico edito dall'Utet alla parola Lanciano non esita a parlare di
« leggenda».
2. El
Cebrero. La storia è narrata dal cronista generale dell'Ordine
benedettino P. Yepes ed è ricordata in due bolle pontificie del 15° secolo. Alle
porte orientali della Galizia si erge il picco El Cebrero (m. 1300) sul cammino
francese verso S. Giacomo di Compostela, dove nel 9° secolo il cavaliere
francese Giraldo, conte di Aurillac, aveva fondato un'abbazia benedettina con un
ospedale e un ospizio per i pellegrini. Verso 1l 13° secolo in una fredda
giornata, mentre tutto era letteralmente sommerso da un nevischio turbinoso, il
cappellano stava celebrando la Messa, quando appena dopo la consacrazione, vi
arrivò un contadino. Il celebrante non si sarebbe mai atteso la presenza di una
persona con un tempo così orribile e pensò tra sé: «Ecco che arriva questo
pazzo, con una simile tempesta, a vedere un po' di pane e un po' di vino». Ma
d'improvviso davanti ai suoi occhi, sbalorditi, l'ostia divenne carne e il vino
sangue. I contadini narrarono che la Madonna di El Cebrero adorasse il miracolo
inchinandosi. per oltre duecento anni l'ostia e il sangue del miracolo furono
conservati nei vasi sacri. Attualmente si trovano in un reliquiario, regalato
verso la fine del 15° secolo dai sovrani Isabelle e
Fernando.
3. Gli annali di
Camaldoli narrano che il P. Lazzaro di Venezia, priore del monastero di
Bagno, nel 1412, dopo la consacrazione dell'ostia fu assalito da dubbi circa la
presenza di Gesù nell'eucaristia. Il vino prese allora l'aspetto del sangue
vermiglio, ribollì, traboccò dal calice sul corporale, che tutt0ra si conserva
in quel luogo nella chiesa di S. Maria.
4. Nel 1429 a Alkmaar in Olanda, durante la S. Messa un sacerdote fece cadere alcune
gocce di vino sopra la pianeta, che lasciarono sulla stoffa delle macchie rosse
quasi fossero sangue. Fu tagliata allora quella parte della pianeta per
bruciarla con il fuoco (come purificazione), ma si dice che la stoffa, rimasta
sospesa al di sopra delle fiamme, non bruciasse ed è venerata come preziosa
reliquia (dal 1897).
5.
Bolsena. Il miracolo avvenne nel 1263, al tempo in cui la dottrina di
Berengario, arcidiacono di Angers (Francia), contrario alla presenza reale del
corpo di Cristo nell'eucaristia, minava l'insegnamento cattolico. Pietro da
Praga, un sacerdote di origine boema, assalito da dubbi, decise di recarsi a
Roma per implorare sulla tomba di Pietro la risposta al suo angoscioso problema.
Durante il viaggio sostò a Bolsena, diocesi di Orvieto, dove si mise a celebrare
la Messa nella chiesa di S. Cristina. Dopo la consacrazione il prete versò
sbadatamente un goccia di vino sul corporale e cercò di sfregarla via, ma la
goccia si diffuse per tutto il corporale trasformandosi in macchie sanguigne
tondeggianti in forma di ostia. In seguito si è detto che gocce di sangue
fossero uscite dall'ostia al momento della sua rottura o in quello
dell'elevazione; anzi si è perfino aggiunto che l'ostia si fosse trasformata in
carne e che macchie di sangue siano scese anche sopra le pietre dell'altare.
Allora il sacerdote, tremante e atterrito, coprì il calice con la patena, vi
pose sopra il corporale, portò tutto in sacrestia e fuggì
via.
Ecco come tale miracolo viene
descritto in una lastra di marmo del 1673, secondo il documento ufficiale, che
traduco dal latino.
Al tempo in cui Urbano IV
(1261-1264) con tutta la sua corte soggiornava in orvieto, vi fu un certo prete
teutonico, ottimo in ogni virtù sacerdotale, ma dubbioso sul mistero della
transustanziazione. Costui peregrinando alle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo
ed ai luoghi insigni della Chiesa, giunto in Bolsena, diocesi di orvieto, sostò
in questa presente chiesa di S. Cristina ed in questo luogo detto, in lingua
volgare, delle pedate per le impronte dei piedi della martire Cristina impresse
su una grande pietra basaltica, ed in questo luogo prese a celebrare la S.
messa. Ma al momento della consacrazione, mentre teneva l'ostia sopra il calice,
pronunciate le parole rituali, cosa ammirevole e stupenda, tanto per gli antichi
quanto per i moderni tempi, l'Ostia apparve visibilmente arrossata da sangue
stillante, tranne nei due punti a contatto con le dita del celebrante. Al
sacerdote mancò la forza di continuare il rito, e pieno di confusione e sgomento
avvolse le specie eucaristiche nel corporale e nei lini sacrificali, e
vacillante li portò in sacristia, riponendole nel
sacrario.
Ripresosi dallo sbigottimento e
sgomento per la propria scarsa fede, si recò nella vicina Orvieto, dove
soggiornava il papa Urbano IV al quale confessò il suo dubbio, chiedendo perdono
ed assoluzione, ottenendoli.
Il Sommo Pontefice, profondamente
commosso, ordinò che il venerabile corpo di Cristo fosse traslato nella chiesa
orvietana dedicata a Maria Vergine, e comandò al vescovo di orvieto di recarsi
immantinente a Bolsena nella chiesa di S. Cristina. Qui giunto, con grande
devozione prese e trasportò poi, accompagnato da clero e popolo di Bolsena, le
Sacre Reliquie fino al ponte sul Riccaro, dove il Romano Pontefice, con i
Cardinali, chierici e religiosi e con grande moltitudine, con profonda devozione
ed effusione di lacrime, inginocchiatosi, assunto con le proprie mani il
venerabile Sacramento, lo portò alla cattedrale orvietana e lo ripose, con ogni
possibile onore, nel sacrario della stessa chiesa.
Urbano IV, fervoroso devoto
dell'eucaristia, informato del prodigioso evento, dalla sua residenza di orvieto
volle che gli si portasse il corporale, e con grande pompa di cardinali,
ministri e maggiorenti della città, di gran folla di popolo osannante con rami
di olivo, depose il sacro lino nel tempio di orvieto. Più tardi gli si edificò
il famoso duomo «vero giglio d'oro di tutte le
cattedrali» dove si conserva tuttora in una cappella il prezioso
reliquiario, opera di Ugolino di Vieri, sommo orafo senese (1338) con il
corporale del miracolo.
Fino al 1951 si pensava che tale
miracolo avesse indotto Urbano IV a stendere la sua bolla Transiturus per istituire in tutta la chiesa la festa del
Corpus Domini; ma dopo gli studi di A. Lazzarini appare che la bolla era già
stata scritta prima che si avvenisse al miracolo di Bolsena. Viceversa l' 8
settembre 1264 un corriere straordinario partì a spron battuto da orvieto per
Liegi con un contr'ordine del papa: anziché iniziare la celebrazione della festa
l'anno seguente (1265) doveva venire celebrata il giovedì successivo alla
recezione del messaggio. Perché tale contr'ordine? Si è pensato al miracolo di
Bolsena, che avrebbe indotto il papa ad anticipare tale festa. E' possibile,
anche se non certo, perché in una lettera papale del 9 settembre 1264,
indirizzata alla beata Eva di Liegi, il papa dice di aver solennizzato lui
stesso ad orvieto una grandiosa festa del «Corpus
Domini », senza attendere il tempo da lui fissato nella bolla, ma non
allude affatto, come sarebbe stato naturale, al miracolo di Bolsena che
l'avrebbe indotto a tale passo.
Ad ogni modo, nonostante
l'abbondanza di documenti il miracolo è tuttora soggetto a critica. Ma pur
accettandolo come dato storico, va ricordato che la visione di Pietro da Praga
può essere stata occasionata da macchie di fungo (bacillus prodigiosus o monas
prodigiosa) che d'improvviso copre di muffa, rossa come il sangue, i farinacei
come è l'ostia e l'amido del corporale. L'umidità e la penombra della cappella
possono aver favorito la realizzazione del fenomeno senza ricorrere all'apporto
inconscio di sangue come suggerisce il Pioli.
Non mi dilungo a parlare della
figura di Cristo, di carne o di un fanciullo apparsa nella s. ostia, in quanto
il fenomeno è troppo soggettivo e storicamente poco controllabile. Anche Tommaso
d'Aquino ammette la possibilità che il Cristo possa apparire e agire
nell'eucaristia, ma discute il modo con cui ciò possa
accadere.
I cosiddetti miracoli eucaristici sono storicamente discutibili, in quanto risalgono in gran parte al Medio Evo e la loro documentazione storica lascia molto a desiderare. Qualora alcuni di questi fatti fossero riconosciuti come storici non necessariamente documentano l'intervento di Dio. Anche a prescindere da un intervento demoniaco ad opera dell'antiCristo, già all'opera dal tempo di Paolo (2 Te 2, 9), si possono spiegare come fenomeni naturali insoliti, oppure frutto di allucinazione, suggestione, forze occulte. Ad ogni modo, fossero pure fenomeni divini, non servono affatto a difendere la presenza sostanziale di Gesù nell'eucaristia, in quanto anche l'omaggio o l'offesa ai simboli diviene un omaggio o un offesa al Gesù che vi è simboleggiato.
[Ringraziamo la Chiesa di Cristo di Padova per aver autorizzato la pubblicazione dello studio monografico del Prof. Fausto Salvoni]
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