Soffrire a causa della chiesa

Uno snodo del cattolicesimo contemporaneo

Alberto Melloni *
(In Concilium, rivista internazionale di teologia, 2003, © www.queriniana.it)


Il problema di come si sia giustificata In sofferenza patita all'interno della chiesa - pena, medicina, ingiustizia - è ancora quasi del tutto sconosciuto dal punto di visto storico: certo si ha contezzaa del destino di coloro che la chiesa ha condannato nel regime di cristianità e di coloro che ha colpito con le pene canoniche; ma come questo abbia prodotto una mentalità che riteneva giusto soffrire a motivo della chiesa, e come essa si sia dissolta è ancora qualcosa di poco indagato ed ancor meno riflettuto. Questo breve intervento non ha ambizione di completezza: si limita a indagare un segmento cronologico - quello del Novecento - che non è necessariamente il più significativo; prende come setaccio soprattutto un "mestiere" - quello dei teologi - che non è necessariamente quello che ha pagato il prezzo più alto; esamina il modo in cui la sofferenza patita nella chiesa (che può definirsi "martirio" in senso molto traslato) si sia profondamente modificato. Se si procederà dunque per rapidi flash, non è per insinuare che la semplice eloquenza dell'episodio contenga più verità della complessità del reale: è solo per individuare un tema che altrove ed altrimenti andrà esplorato.

1/ La chiesa delle condanne

«Viviamo tempi difficili: sono tempi in cui non basta solo "souffrir pour l'église", ma è necessario anche "souffrir par l'église"». Così il neo-arcivescovo di Milano, mons. Giovanni Battista Montini, commentava la situazione di Jacques Maritain e della chiesa cattolica alla metà degli anni Cinquanta. Considerazione non isolata in quel momento amaro, e che diagnosticava con rassegnazione l'esito della diffidenza verso la libertà della ricerca teologica assunta nel dopoguerra da Pio XII e implementata da alcuni dei funzionari e cardinali della Curia romana a lui più vicini. Grazie a loro alcune Congregazioni romane (il Sant'Ufficio, la Congregazione concistoriale, o quella per i seminari) erano infatti impegnate in una campagna permanente di "pulizia teologica" volta a colpire coloro che venivano ritenuti ostili alla fede, insieme a quei cattolici che desideravano essere pienamente e pensosamente aderenti alla disciplina, ma che invece l'autorità ecclesiastica giudicava insidio pericolose per la purezza della fede.
I porporati e gli ecclesiastici fautori di tanta severità impersonavano una linea - quella delle condanne - che aveva una sua tradizione nel lungo periodo della storia della chiesa. In fondo dalla scomunica primitiva agli anatematismi dei grandi concili, dalle prime collezioni canoniche alle sofisticate riflessioni delle decretali medievali c'è un filo rosso di condanne e punizioni concepite e normate per estirpare l'eresia e proteggere i costumi.
In certe circostanze si deve torturare l'eretico per ottenere la confessione e si può anche arrivare alla sua uccisione per il bene generale della christianitas: una diversa tradizione - quella che impone di amare l'errante senza accoglierne l'errore - rimane viva nella tradizione e nella predicazione, ma non diventa mai iussiva nella chiesa latina. Nella disciplina basso-medievale e moderna, si assiste perciò all'affermarsi nella chiesa romana delle istituzioni di inquisizione, nelle quali l'anonimato burocratico delle procedure sembra garantire qualcosa di più dello zelo dei singoli: nasce così un vero e proprio "Santo Ufficio", con una giurisdizione "universale" e una autorità "suprema", che, in connessione con lo sviluppo della penitenza privata, si incarica di disciplinare le coscienze e di punire i corpi di chi osi rifiutarsi di sentire cum ecclesia.
Dal punto di vista della dottrina che punisce chi incappa in questi organi e trova la morte al termine di un processo spesso formalmente scrupoloso, egli non è affatto un martire (a meno che non si assuma, come nel caso di Hus, il punto di vista della chiesa che s'è inteso punire in un suo fondatore o esponente): che il martire è tale in odium fidei. Il ribelle nella fede può dunque far diventare martiri le sue vittime, ma non può essere altro che un criminale, colpevole di lesa maestà ai danni di Dio. Chi viene danneggiato dall'eretico è Dio, il cui honor è risarcito dalla confessione e poi dall'uccisione del reo; anche l'anima del criminale è perduta per colpa dell'eresia: ma il procedimento, grazie alla confessione o alla tortura, ottiene ciò che è necessario a redimerla.
Così ragiona la teoria dell'inquisizione in età moderna. E, grazie a questi principi, l'autorità ecclesiastica agisce in una duplice veste: essa consegna il condannato al braccio secolare per l'esecuzione, giacché ai chierici, genus christianorum distinto dai laici, è vietato spargere sangue; ma così facendo la chiesa riguadagna in extremis la cura dell'anima del condannato. Infatti sia le vittime più "celebri" della repressione religiosa (da Girolamo Savonarola a Giordano Bruno), sia le schiere anonime di uccisi nella lotta antiereticale o antiprotestante, nella caccia alle streghe, vengono inquisite e giudicate da organi ecclesiastici, ma alla fine sono consegnate al potere politico per la punizione: sicché, dopo essersi assunte la responsabilità della condanna, le figure religiose - spesso nella veste del frate che accompagna il condannato al patibolo - riappaiono in una posizione neutra accanto alla vittima, alla quale recano i conforti spirituali che non cancellano il reato, ma perdonano il peccato". In qualche caso - basta pensare a Giovanna d'Arco - la chiesa può anche rientrare in un processo per rovesciare carte e giudizi, ma solo se questo non mette in discussione la condotta della autorità ecclesiastica coeva: e ad ogni modo, fino al post-Vaticano II, quando una condanna è individuale, capitale e canonica, non c'è possibilità di appello o resipiscenza.
Diverso è il caso di chi subisce condanne nelle grandi querelles fra scuole teologiche: la disputa sulla povertà, lo scontro sul diritto di predicare dei mendicanti, la lotta contro il giansenismo, il conflitto fra macolisti e immacolisti, la polemica sul quietismo, la battaglia pro o contro la Compagnia di Gesù, la divisione sull'infallibilità e il primato del papa, producono certo vittimizzazioni causate dalla stessa chiesa, ma su un piano che conosce rovesciamenti di posizione i cui esiti non sono comunque scontati, almeno fino a che la dogmatizzazione, come accadrà in varie circostanze fino al 1956, non interviene a chiudere le questioni e a pretendere sottomissioni assolute.

2/ Continuità e novità del Novecento

Una parte di queste esperienze e mentalità di condanna prosegue fin dentro il XX secolo: ma vi sono anche elementi di novità. Finito il regime di cristianità e il potere temporale, anche l'immagine del nemico della chiesa trascolora: egli non è più l'araldo di un'altra verità, resistente alla resipiscenza, ma è un traditore, palese o nascosto; egli, consapevolmente o inconsapevolmente, gioca a favore del grande avversario globale che è la modernità.
Così i tanti fermenti della società e della cultura all'alba del nuovo secolo, spesso accolti dai letterati, dai filosofi, dai teologi cattolici come l'occasione di una "nuova apologia", diventano agli occhi di Pio X un unico grande nemico, denunciato con l'enciclica Pascendi dell'8 settembre 1907 e perseguitato fino allo scoppio della Grande Guerra, ed oltre.
Con la caccia ai colpevoli di modernismo - la «sintesi di tutte le eresie» secondo Pio X - il sistema delle condanne fa un salto di qualità: individuati i "colpevoli" sulla base di delazioni e calunnie mediate da canali privati, la chiesa condanna e scomunica sia coloro che erano convinti in coscienza delle proprie posizioni sia coloro ai quali la testardaggine degli accusatori non lascia scampo. Tuttavia sono centinaia i teologi e i chierici che professano inascoltati la loro innocenza e che alla fine decidono di piegarsi alla condanna (Laudabiliter se subjecit, s'annota sui fascicoli) non per sfuggire ad una pena corporale, ma per obbedienza soprannaturale verso una ingiustizia dell'autorità. Si introduce così una sorta di pena surrettizia, che il condannato si infligge da solo; pena che in qualche caso punisce anche i vescovi, sia come oggetto di sospetto, sia come soggetti a comunicare ai propri chierici provvedimenti romani comminati anche contro il proprio volere e la propria coscienza, e per di più mantenendo il segreto (reticito nomine) sul vero mandante dell'atto, di cui dovevano "portare" il peso morale. Nonostante sia stato così largo il numero di coloro che si sono rassegnati all'ingiustizia per "amore della chiesa", il danno morale e spirituale -oltre che teologico - è stato incalcolabile.
L'Europa, privata di una vigilanza teologica all'altezza dei tempi, entrerà nel buio della guerra e del totalitarismo; e le vittime di questa campagna, che si prolunga per la prima metà del secolo attraverso sodalizi segreti e attraverso l'insegnamento ecclesiastico, non riceveranno alcuna riparazione, fino all'inizio del Vaticano II, quando la storiografia tornerà a visitare il fenomeno del modernismo e la sua repressione.
Ché quello antimodernista rimarrà come un paradigma nella nuova stagione di condanne che si può dire venga aperta con l'emblematica messa all'indice nel 1942 di una prolusione del p. Marie-Dominique Chenu sul metodo teologico pronunciata dal dotto domenicano all'inizio dei corsi di Le Saulchoir sei anni prima. A differenza della repressione dell'Action Française, nella quale entrano corposi elementi politici, o della condanna dell'ecumenismo del 1928, nella quale alcuni pionieri riescono a far valere le loro ragioni, la decisione di punire il maestro domenicano e la sua visione del rapporto storia-teologia segna il prevalere a Roma di una rinnovata cultura del sospetto verso la ricerca teologica - un sospetto che cerca di muoversi con maggiore formalità rispetto agli anni di Pio X, ma che pure non disdegna le vie brevi della prepotenza.
Tanti ne faranno le spese negli anni successivi: i gesuiti di Lione, che iniziano la collana di patrologia Sources chrétiennes, i filosofi alieni dalla ripetizione stantia del neotomismo in pillole da parte delle scuole, gli esponenti di quella che verrà chiamata la nouvelle théologie, gli innovatori della pastorale e della missione dei preti fra gli operai, i tanti cattolici sospettati per la scomunica dei comunisti del 1949 che (senza arrecare alcun danno ai partiti della Terza internazionale) approfondì il solco fra la chiesa e la classe operaia in Occidente. Colpiti dapprima con provvedimenti particolari mediati dagli ordini religiosi di appartenenza, sui teologi di questa generazione penderà una intera enciclica - la Humani generis del 12 agosto 1950 - con la quale Pio XII sconfessa lo sforzo da essi compiuto per produrre una intelligenza della fede adeguata alle sfide della modernità e del dopoguerra.
Gli studi che oggi raccontano le tappe di questa nuova stagione di persecuzioni, culminata con la beatificazione di papa Sarto, disegnano un grande e desolante affresco collettivo, fatto di credenti che sentono il dovere di servire la chiesa con il loro rigore intellettuale e di severi censori che sentono il dovere di fermarli con ogni mezzo.
Di uno dei maggiori teologi di questa generazione - il padre e futuro cardinale Yves-Marie Congar - abbiamo oggi a disposizione un diario, che racconta gli anni di persecuzione subiti con disperazione e indomita dignità allo scopo di far avanzare la causa dell'ecumenismo nella chiesa.
Il diario non spiega il motivo per cui Congar «è rimasto» (che quella di andarsene è una libertà che prima del Vaticano II non è permessa): esso racconta con rara intensità drammatica l'arroganza di un potere ecclesiastico che non sa darsi alcun limite, e lo sconcerto di un credente spinto fin sull'orlo del suicidio da accuse che non devono mai dar conto della propria consistenza, costretto al silenzio che lo denuda di quella capacità di apostolato - è questo il termine che Congar a quel tempo prediligeva - che faceva tutt'uno con la sua vocazione e la sua identità.
Anche un ecclesiastico di rango come il sostituto della Segreteria di Stato, mons. Montini, resta vittima di questa stagione. Quando il futuro Paolo VI parla della necessità di soffrire non solo per la chiesa ma anche a causa della chiesa, allude anche a se stesso: egli infatti non aveva subito provvedimenti punitivi, ma con un classico promoveatur ut amoveatur era stato cacciato da Roma nel 1953 grazie ad una congiura di porporati che, premendo sul papa, ottengono la sua designazione ad arcivescovo di Milano e poi la mancata creazione cardinalizia che lo avrebbe reso un candidato naturale alla successione di Pacelli.
Su Montini - che pure aveva vaticinato che «non basta più la prudenza, ma bisogna che la prudenza si faccia astuzia» - non pesavano accuse di carattere dottrinale: ma nella indecifrata congiura che lo allontana dal Vaticano pesa la sua curiosità intellettuale, la sua sensibilità alle istanze problematiche della cultura teologica -cose, queste, che comunque apparivano come un inaccettabile antagonismo verso un sistema di repressione che doveva colpire senza riguardo per le persone e senza riflettere sui perché.

3/  Il passaggio conciliare

La stagione delle condanne trova nel concilio Vaticano II un momento di ripensamento doloroso e profondo, 1) iniziato con la decisione di Giovanni XXIII di non utilizzare condanne nei pronunciamenti conciliari, 2) esplicitato nella allocuzione d'apertura del Vaticano II, 3) autenticato dal travaglio dei vescovi nel corso dei dibattiti, e poi prolungatosi nel postconcilio, su su fino alla "revisione" del processo a Galileo Galilei, alla Tertio millennio avveniente di Giovanni Paolo II (1994) e ai mea culpa della prima domenica di quaresima del Giubileo del 2000. Sono pezzi di una storia più ampia, in parte già ricostruita altrove, di cui però vorrei richiamare qualche elemento.
1) È noto che fin dalla sua preparazione il Vaticano II vive di una polarità: da un lato papa Giovanni indica con grande chiarezza che il concilio non dovrà comminare nuove condanne, perché vuole essere atto di discernimento della congiuntura storica, piuttosto che mera sanzione degli errori"; dall'altro la Curia romana, alla quale viene affidata l'intera preparazione dell'assise ecumenica, è composta da personaggi che hanno vissuto, per cultura ed esperienza, dentro le condanne come forma della governance. In mezzo ci sono i pochi teologi che, perseguitati negli anni precedenti, si sono trovati coinvolti quasi come ostaggi nella fase preparatoria, in attesa che l'evento conciliare come tale mescoli le carte, e desiderosi di capire se davvero il Vaticano II avrebbe segnato un rinnovamento non superficiale del modo di pensare.
2) Nel momento in cui il concilio sta per avviarsi, nell'estate del 1962, s'inizia a cogliere che sarà così: nel momento in cui circolano i primi schemi, inizia anche un nuovo rapporto fra vescovi e teologi, che rilegittima quasi tutta una generazione fin lì sospettata. I vescovi hanno bisogno degli studi teologici per entrare nei grandi nodi dottrinali, istituzionali e spirituali che l'occasione conciliare richiede; e i teologi hanno bisogno che l'episcopato, nella sua suprema rappresentazione conciliare e innanzi alle altre chiese presenti con i loro osservatori, riconosca come utile e necessaria alla chiesa la libertà della ricerca e ne garantisca il suo fisiologico innesto nel corpo ecclesiale. Il discorso con cui Giovanni XXIII apre il concilio l'il ottobre 1962 fa stato anche di questa esigenza: quando prende le distanze dai «profeti di sventura», il papa afferma che il loro errore e la ragione della loro cupezza sta nel credere che il mondo esista «da mezzo secolo», cioè proprio dalla crisi modernista in poi; e nell'affermare che il concilio non deve fare o ripetere dogmi, ma permettere «un balzo innanzi» alla comprensione del mistero di Cristo, esclude che la condanna possa essere uno strumento riproponibile.
3) Uscire dalla logica delle condanne non significa chiedere un risarcimento ad una categoria professionale che era stata certo ingiustamente svantaggiata, ma porre una questione squisitamente istituzionale. Lo si vedrà nei dibattiti conciliari: e di questo spessore dà testimonianza emblematica un famoso intervento pronunciato dal cardinaI Frings l'8 novembre 1963. Durante la discussione del rapporto fra Curia e vescovi, l'arcivescovo di Colonia chiede che si fissi una distinzione tra via amministrativa e via giudiziaria per tutti i dicasteri romani, incluso il Sant'Ufficio, «la cui procedura, da molti punti di vista, non si addice più alla nostra epoca, nuoce alla chiesa ed è oggetto di scandalo per molti». Per quanto potesse alludere ad eventi recenti, la sua richiesta che «nessuno sia condannato prima di essere stato ascoltato e di aver avuto la possibilità di correggersi» ha una portata generale: Frings non chiede un codice di procedura, ma una riforma della concezione dell'autorità. Lo capisce il cardinal Ottaviani che, anziché rivendicare il modesto ma reale merito d'aver ridotto gli elementi di capriccio rispetto ai tempi di Pio X, s'indigna contro chi «per ignoranza, per non dir peggio» ha criticato «la Suprema Congregazione del Sant'Uffizio, il cui presidente è il Sommo Pontefice». Lo capiscono pure i vescovi che applaudono Frings, rivelando quanto fosse sentito sotto ogni latitudine - ben al di là dunque del caso personale -il problema denunciato dal cardinale tedesco e poi da altri.
La questione dell'architettura istituzionale del governo centrale rimarrà, però, sospesa: il Vaticano II non potrà occuparsene, giacché Paolo VI vuole onorare l'impegno preso con la Curia affinché la riforma di quel congegno non passasse dall'aula sinodale - e così sarà. Tuttavia il clima del concilio e del postconcilio avvalorano la percezione che la stagione delle condanne era ormai finita. Pensare di far cardinale Congar (se ne parla nel 1965...) e l'abolizione dell'Index librorum prohibitorum erano come il segnale che la chiesa di Roma davvero voltava pagina rispetto a quel clima malato denunciato dal cardinal Montini dieci anni prima. In fondo, perfino le maldicenze dei tradizionalisti che accusavano papa Giovanni XXIII di essere un modernista riconoscevano che con il Vaticano II il «balzo innanzi» era stato compiuto e il cattolicesimo voleva guardare alla dialettica interna alla chiesa come a un dinamismo da accogliere senza ingenuità e senza intempestive drammatizzazioni.

4/ Dopo il Vaticano II

La riforma della Curia romana del 1967, disegnata da Paolo VI nella sua veste di "principe riformatore" del cattolicesimo, tiene conto in larga misura di questo clima. Pur continuando a ritenere il congegno politico-istituzionale pensato a fine Cinquecento uno strumento indispensabile al nuovo papato post-bellico e post-conciliare, Paolo VI ridistribuisce competenze, fissa priorità del decision making, riordina i mansionari, rivede e ritocca le decisioni di riforma introdotte sessant'anni prima da Pio X. Al vertice dell'esecutivo vaticano sale il segretario di Stato, mentre l'antico Sant'Ufficio perde il suo nome sinistro e quell'aggettivo eloquente (la Suprema) che era diventato il modo breve per indicare i locali i cui atti e le cui norme restavano segrete.
L'andamento del postconcilio negli anni Settanta sgretola, però, una parte dei propositi riformatori di cui la costituzione apostolica Regimini ecclesiae (1967) voleva farsi interprete: nonostante la nomina del cardinal Seper alla testa della nuova Congregazione per la dottrina della fede volesse spezzare il clima e lo stile della gestione ottavianea, la stessa idea di Paolo VI di poter/dover gestire il postconcilio da Roma, facendo carico personalmente al pontefice delle tensioni e delle soluzioni, esacerba i conflitti già aspri fra l'autorità ecclesiastica e i teologi, sia sui punti rimasti aperti al Vaticano II (dalle strutture collegiali alla contraccezione ormonale), sia su quelli che la ricezione conciliare impone all'attenzione delle chiese (dalla povertà alla comunione).
Al di là dei nomi, degli aggettivi e perfino delle intenzioni, ciò che accade è che il centro romano ritorna al centro del conflitto. I teologi si ritrovano innanzi un organo che rappresenta come tale una concezione della verità come formula e che su questa base legge frammenti di testo con l'occhio velato dal desiderio di far sentire la propria voce.
Anche i vescovi conoscono lo spaesamento causato dalla sottrazione della fiducia di Roma: alcuni vengono deposti in circostanze che, per quanto complesse, hanno il sapore della vessazione; la rimozione del cardinal Lercaro dalla sede di Bologna, la sostituzione di mons. Baldassarri a Ravenna, la vicenda di Pellegrino a Torino - per parlare dell'Italia - e poi il processo al vescovo di Cuernavaca doni Sergio Méndez Arceo sono solo alcuni dei casi più eclatanti di come quel «soffrire per la chiesa» non sia finito con la stagione delle condanne; altri vescovi, nei Paesi dell'Europa orientale, per quanto fuorviati dalla disinformatia dei regimi comunisti, sentono come uno scavalcamento punitivo il dialogo aperto dalla Ostpolitik vaticana; i vescovi di alcune Conferenze episcopali - dall'Olanda al Brasile, dal Perù agli Stati Uniti - patiscono di nomine che puntano a spaccare le maggioranze e a riequilibrare i pesi politici negli organi collegiali. Ciò per dire come le incomprensioni postconciliari abbiano un raggio non meno ampio di quelle precedenti.
Sui teologi, contro i teologi, nascono però dei veri e propri "casi": tre elementi - il clima della controinformazione che attira la fascia giovanile dell'opinione pubblica, la legittimazione della "dissidenza" in sede politica che viene valorizzata in quel momento sul piano politico, il peso della nuova generazione di chierici formatasi durante il Vaticano lI - contribuiscono a rovesciare il metodo della spiritualizzazione della sofferenza per la chiesa, spezzano la cortina di segreto che aveva connotato in precedenza tali processi e portano sui media le tesi dell'accusa e quelle della difesa. Prima contro Edward Schillebeeckx, poi contro Hans Küng iniziano alcuni dei procedimenti che avranno un maggior peso nel delineare la "politica dottrinale" della nuova Congregazione per la dottrina della fede: più che su contributi specialistici, il conflitto si accende attorno ad opere destinate al largo pubblico o su temi largamente controversi nella prassi dei cristiani e delle cristiane comuni. Accanto a questi "casi", montano procedimenti più locali, legati a rivalità interne alle facoltà cat-toliche, nelle quali l'autorità di Roma si lascia coinvolgere. In un caso e nell'altro i provvedimenti di Roma, lungi dall'impedite la diffusione di idee o interrompere la discussione su singoli issues, puniscono singoli studiosi invisi ai colleghi o ai confratelli, ma anche i vescovi che solo rarissimamente possono essere considerati gli iniziatori di tali controversie.
La pubblicità, nelle forme tipiche della stampa di fine Novecento, crea però dinamiche nuove: le vittime della repressione si trovano sotto i fari della notorietà ed assunte, volenti o nolenti, al ruolo di bandiere mediatiche, anziché poter sviluppare il proprio percorso intellettuale e teologico; gli organi romani si trovano a rispondere di atti concepiti da qualche addetto di seconda fila ed esposti al pubblico ludibrio, quando devono esplicitare criteri e metodi che risultano invisi alla gran parte della pubblica opinione; e il papato si trova infine indotto ad usare il cardinalato ultraottua-genario come riparazione offerta in limine vitae ad alcune vittime illustri del sistema delle condanne.
Questo groviglio di carattere istituzionale, dottrinale, procedurale, mediatico viene affidato da Giovanni Paolo II nel 1981 a un teologo professionista e già perito del cardinal Frings al Vaticano II come Joseph Ratzinger, nominato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dopo una breve esperienza in diocesi, anche per bilanciare la sensazione che l'esame delle dottrine fosse condotto da personaggi poco qualificati sul piano scientifico. Come già per la riforma del 1967 i propositi sono stati scavalcati dalla realtà: la Congregazione - pur volendo applicare una procedura più trasparente - non ha cessato di prendere provvedimenti censori a carico delle teologie ritenute erronee. Ma la coscienza dei teologi era ormai mutata. Come s'è visto nell'aspra lotta contro la teologia della liberazione che utilizzava l'analisi marxista del capitalismo e contro esponenti di diversi settori disciplinari (Curran, o Drewermann, addirittura Tillard), la Congregazione punisce tramite il processo, perché alla fine sia coloro che accettano le ritrattazioni sia coloro che le rifiutano non riconoscono a quell'organo il diritto di mettere in discussione la propria coscienza.
Nell'ultimo decennio, dunque, aumentano i segnali di cambio di rotta: accanto ai procedimenti a carico di individui, talora anticipati o sostituiti da attacchi diretti del cardinale prefetto in conferenze che pronuncia come teologo "privato", la Congregazione in proprio o attraverso il magistero papale ha lavorato in tre direzioni: da un lato ha costruito immagini della dottrina (Donum veritatis, 1990), criteri teologici (Veritatis splendor, 1993) e procedure canoniche (Ad tuendam fidem, 1998) che possano valere erga omnes; dall'altro ha prodotto una serie di istruzioni su questioni di bruciante attualità, cercando di scavalcare dibattiti ecumenici (Ordinatio sacerdotalis,1994), teologici (Dominus lesus, 2000) o liturgici tutt'altro che maturi; infine ha messo sotto esame singoli autori di cui, pur lodando le intenzioni, ha stigmatizzato "ambiguità" che, proprio perché tali, non sono facili da riconoscere oggettivamente e restano irrimediabili per chi - come si vede nei recenti casi di Dupuis, Messner e Vidal - volesse uscire dall'ombra del sospetto. L'accumularsi di istruzioni, note, encicliche, motu proprio, condanne rende però sempre più ampia l'area delle possibili "ambiguità" e aumenta il rischio di vittimizzazioni di difficile gestione.

5/ Sofferenza infeconda?

È dunque finita la sofferenza che il cardinal Montini quasi mezzo secolo fa denunciava come inevitabile e angosciosa condizione di taluni fra i cattolici? Essa è riassorbita dai fastidi che i teologi ritenuti "ambigui" devono subire, spesso con atti che non soddisfano i princìpi fondamentali del diritto canonico? L'amarezza spirituale di chi - da Oscar Romero a Ignacio Ellacurìa - ha colto nella sua stessa morte l'effetto di un ingiusto abbandono e isolamento non sarà più assaporata da nessuno? L'immagine del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che, nella quaresima del grande Giubileo, sale all'ambone di S. Pietro per chiedere perdono a Dio delle malefatte commesse dalla chiesa in nome della fede garantisce che l'inutile dolore causato da una idea della verità priva di misericordia non sarà più tollerata?
Forse no: non tanto perché qualcuno (come le donne che si sono fatte "ordinare" nel 2002) andrà a cercare il baratto fra condanna e visibilità; e nemmeno perché il modum denuntiationis attualmente in essere permetterà all'invidia di creare nuovi casi laddove la chiesa non ha proprio nulla da temere e dove i vescovi possono tranquillamente provvedere da sé.
Tutto ciò potrebbe alla fine essere ricondotto ad un margine di errore fisiologico in una grande istituzione o ad una stagione che ancora deve finire di metabolizzare il Vaticano lI.
Una certa sofferenza inutile, inaccettabile, continuerà per quei credenti comuni che delle continue prese di posizione del magistero - anche quelle generalissime sull'ordinazione, sui catechismi, sull'incontro fra cristianesimo e religioni, sulle relazioni fra chiese sorelle, sulle separazioni coniugali, sul ruolo dei laici, sull'omelia, sulla confessione non hanno quasi alcuna contezza, ma che poi vivono sentendo che ciò che di più profondamente umano li connota (il desiderio di vita, il bisogno di perdono, la ricerca della comunione, i legami personali) non trova un suo "posto" nella chiesa. È una sofferenza che dopo il Vaticano II non viene più accettata come il "quasi-martirio" di una spiritualità dolorista-istituzionale: e dunque può scandalizzare, certo; oppure può essere vissuta con paziente disincanto dentro la fede in una chiesa che anche così impara a confessarsi sproporzionata all'evangelo, si sente sempre punta dalla ingiustizia prodotta al suo interno come da una spina nella carne che può servire a non montare in superbia.

* Alberto Melloni

Nato nel 1959, si è laureato in storia religiosa presso l'Università di Bologna e ha frequentato la Cornell University di Ithaca/N.Y. (USA) e l'Università cottolica di Friburgo (Svizzera). Insegna sloria contemporanea all'Università di Modena e Reggio Emilia ed è membro della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. E' pure membro dell'Académie Internationale des Sciences religieuses, dello Society for Medieval Canon law e della Association for Computers and Humanities. Appartiene al Comitato internazìonale di direzione della rivista Concilium e alla redazione di Cristianesimo nella storia.

lndirizzo: Via Crispi 6, 42100 Reggio Emilia. E-mail: alberto.melloni@tin.it


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