Non è bene che l'uomo sia solo

(Vilma Occhipinti Gozzini)


Vorrei partire da una constatazione: la crisi del sacerdozio ministeriale mostra oggi tutte le contraddizioni che ha accumulato dal terzo secolo in poi, da quando cioè, rivestendosi di categorie "religiose", si è via via allontanato dal modello evangelico. Assistiamo infatti alla crisi d'un sacerdozio ordinato di tipo sacrale per il quale il sacerdote è soprattutto l'uomo del culto.
Ma venendo meno il valore semantico delle vecchie categorie sacrali il prete rischia di perdersi in dissolvenza. Né, credo, ci si possa illudere sul risveglio frenetico di esperienze religiose oggi in atto. Assistiamo, è vero, a un grande "consumo" del sacro, in manifestazioni che vanno dalle "immersioni" di questo pontificato alle espressioni orientaleggianti: ma quale peso hanno nel vissuto di ognuno? Ogni analisi del fenomeno religioso, presente soprattutto tra i giovani deve tener conto; a mio avviso, di due constatazioni:
1) non esistono altre forme di aggregazione, venuti meno gli oratori e i partiti;
2) l'uso del sacro serve spesso a giustificare e a ratificare la fuga da un impegno faticoso che chiede progettualità creativa e volontà di attuazione, in una società dove tutto può essere prodotto, comprato, consumato. In questo contesto poco importa quale valore hanno le categorie sacrali che si "consumano". Pochi sono coloro che si pongono la domanda sulla salvezza che esse annunciano. I più si limitano a consumare il sacro.
La crisi del ministero pastorale cristiano è anteriore alla diffusione del fenomeno religioso. Rivestito di una sacralità religiosa che non gli era propria, ha subito la lenta perdita di valore del sacro. Senza il fascino sacrale l'immagine del prete si presenta oggi nudo, come l'imperatore della favola.
La domanda urgente che si pone è allora: quale ministero per la chiesa di Cristo? Come servire la comunità ecclesiale senza sottostare al più sottile dei poteri, quello del pinnacolo del tempio, che gestisce le paure di chi sta sul sagrato e aspetta, affascinato e terrorizzato?
Scrive il teologo Severino Dianich: «Il bisogno rinnovatosi fino all'esasperazione dopo il Vaticano II, di reinterpretare il sacerdozio, dimostra già da se che il senso del sacerdozio nell'insieme della chiesa è così particolare e nuovo da non risultare affatto ovvia come lo potrebbe essere in altri contesti religiosi» (AA.VV., Popolo di Dio e sacerdozio, Padova 1981, 10).
Il ministero come Cristo lo ha voluto è nuovo e particolare. Noi sappiamo che nel N.T. mai appare il termine hiereus-sacerdote per qualificare i ministri, che sono chiamati diaconi, presbiteri, vescovi. Soltanto nella lettera agli Ebrei, Cristo viene proclamato grande sacerdote e in 1 Pt, regno di sacerdoti sono i credenti.
Cristo, sul modello del re "straniero" Melchisedek, il mitico re di Salem, il cui nome significa re di giustizia, è un inconsueto, inedito sacerdote. Egli non appartiene alla casta sacerdotale: non è della tribù di Levi ma di quella di Giudá. «Nessuno dei discepoli storici era sacerdote e già il solo fatto che Gesù non abbia cercato di aggregare membri di stirpe sacerdotale mostra come fosse estranea a lui la preoccupazione di influire in qualche modo sul sacerdozio o di considerare rilevante per la sua missione la funzione sacerdotale» (M. Pesce, in AA.VV., Popolo di Dio e sacerdozio, Padova 1981, 233).
Nell'azione e predicazione di Cristo manca qualsiasi atteggiamento sacerdotale. Non pensò all'offerta della sua vita come "sacrificio" cruento sul modello antico, ma come vita offerta e per le vie della Palestina quotidianamente spesa per l'altro. Sacrificio inedito, non rituale ma esistenziale (Cfr. J.M.R. Tillard, la "qualité sacerdotale" du ministère chrétien, N.R. Th. 95 (1973), 481-514). 
La morte di Cristo non è quindi un mezzo puntuale di salvezza, non è un sacrificio pagano come se il Padre chiedesse il risarcimento attraverso la morte del Figlio. Questa rimane l'esecuzione di una condanna e non compete a Dio ma al Sinedrio che l'ha emessa e ai romani che l'hanno eseguita. Il Dio dei viventi non salva attraverso la morte. Questa è entrata nel mondo a causa - il dia greco dei testi paolini - del peccato del primo Adamo e rimarrà fino a che l'uomo continuerà a peccare. Il Dio dei viventi salva attraverso la resurrezione, questa, sì, volontà del padre che viene a riprendersi ciò che è suo, il Figlio e in lui ogni uomo.
Allora il "fate questo in memoria di me" non chiede solo la ripetizione rituale di un culto, ma chiama a spendere per l'altro la propria vita, come "sacrificio vivente" sul modello di Cristo grande sacerdote; chiama ad offrire se stessi - vittima e sacerdote insieme - spendendosi ogni giorno per le innumerevoli strade che scendono da Gerusalemme a Gerico. 
"Chi crede in me fa le stesse opere mie. Anzi ne farà di più grandi" (Gv. 14,12).
Un'annotazione marginale: sacrificio come azione non rituale ma quotidiana, non festivo ma feriale, consumato sulla propria pelle e non su quella della vittima è categoria del lessico, soprattutto ma non esclusivamente, femminile. 
Le donne, se fossero ascoltate, avrebbero forse molto da dire ai sacerdoti per i quali il sacrificio, rituale e festivo, di uno paga per tutti e per questo è comodo e deresponsabilizzante.
I credenti, regno di sacerdoti, sono chiamati a offrire non riti convenzionali con la mediazione del prete, ma la propria esistenza. Per questo sono organismo sacerdotale. Non si tratta infatti del sacerdozio di ognuno, individuale, ma comune, applicabile a un popolo, a una comunità. (Cfr. J.H. Helliot, The Elect and the Holy, Leiden 1966).
All'interno di questo popolo alcuni sono chiamati al servizio, al ministerium secondo la logica di Lc. 22,27: 
"Ma tra voi non sia così, colui che comanda sia come colui che serve... perché io sono in mezzo a voi come uno che serve".
Servizio come culto: per offrire le opere di salvezza di ognuno al Padre attraverso il Figlio perché diventino buone per l'intera creazione; per rimettere i peccati, in virtù dell'autorità che è soltanto di Cristo, e permettere di continuare ad andare: 
"Va, e d'ora in poi non peccare più" (Gv. 8,11). Servizio, ministerium, come annuncio e insegnamento (e magistero come servizio!). Servizio come cura pastorale.
Il sacerdozio, che è comune, unisce popolo e ministri - dai diaconi, ai presbiteri, ai vescovi, al papa - il servizio li distingue. Essi sono "uniti ma non confusi, distinti ma non separati".
Quando, dopo il terzo secolo, la categoria sacerdozio sarà applicata ai soli ministri, rivestendosi di vestiti non propri, ma mutuati dal culto ebraico e da quello pagano, un muro si alzerà tra il popolo e l'altare. I credenti saranno ridotti a fruitori passivi di una salvezza piovuta dall'alto per la mediazione dei sacerdoti e non costruita faticosamente ogni giorno. 
Ai fedeli non resterà che dire: Amen.
Via via che si afferma l'istituzionalizzazione sacra e la separazione clero e laici si consumerà, escono di scena le donne. Mai saranno qualificate come laiche (cfr. A. Faivre, Une femme peut-elle devenir laique?, R. Sc.Rel. 584 (1984) 242-250). 
Esse rimangono ai margini della struttura ecclesiastica.
Il ministero del diaconato sarà ridotto a uno dei gradi di passaggio verso il sacerdozio ordinato.
Allontanata la donna, mandato in dissolvenza il servizio, il sacerdote diviene l'uomo del culto. Per questo deve essere "separato". Come tutti coloro che stanno sui pinnacoli, deve essere solo. 
Si verrà affermando così l'idea del celibato. Nei manuali studiamo che le ragioni economiche spinsero la chiesa a imporre la legge del celibato. Indubbiamente il movente diretto e storico è questo. Ma quanto ha in fluito sulla decisione l'affermarsi di un'idea di sacerdozio sacralizzato e "separato", per il quale ogni contatto con chi è altro è inquinante?
Una serena, corretta visione del matrimonio ci porterà infatti a concludere che il sacerdote "separato" non ha niente in comune con l'esperienza quotidiana e faticosa del convivere con chi ci è altro e ci è reciproco, con il partner necessario. 
Se si vuole mantenere il potere del pinnacolo del tempio non si può che proibire l'esperienza matrimoniale che come momento del bisogno dell'altro mette in crisi l'auto sufficienza di cui è rivestito l'uomo del sacro.
Ma perché il prete accetti, occorre anche che il matrimonio sia o demonizzato e accettato tutt'al più come remedium concupiscentiae per tutti coloro che non arrivano alla perfezione, o sublimato. Infatti, fallito il tentativo di cacciarlo all'inferno, si assiste oggi alla pretesa di scaraventarlo in paradiso sotto il segno dell'oblatività: il matrimonio è il dono di se all'altro. L'uomo e la donna rimangono cosi segnati dalla colpa, non più peccatori perché usano il matrimonio, ma sempre al di sotto del modello sublimato.
Ma torniamo in terra: l'inferno esiste solo per chi ne ha paura e il paradiso è affare del buon Dio.
Il matrimonio è il luogo e il tempo in cui si è chiamati a vivere la differenziazione originaria: «Dio creò l'uomo... maschio e femmina li creò». Egli è uomo perché in relazione con chi gli è altro e necessario. Il partner altro e necessario non è soltanto colui che permette la riproduzione della specie.
Il II capitolo del Genesi si pone come un mdrash per spiegare questa relazione che qualifica l'uomo. "Non è bene che l'uomo sia solo. Faremo un aiuto che sia assortito (cosi la Bible de Jerusalem)" Gen. 2, 18.20, ma il testo ebraico - kenegdo - è alla lettera: come contro lui, e non indica contrapposizione, ma alterità.
I due non sono assortiti come lo sono le coppie degli animali. 
Per trovare un aiuto che sia sotto il segno dell'alterità, che sia uguale ma anche diverso, Dio non può che prenderlo dalla stessa vita, carne, costola dell'Adam.
I due non sono assortiti ma nemmeno complementari come gli angoli che studiamo a scuola: io non-sono ciò che manca a lui e lui non lo è per me. Siamo due interi chiamati ad incontrarci.
Ma soprattutto i due non sono simili come da Girolamo in poi continuiamo a tradurre il kenegdo ebraico. 
Le donne sono grate a Girolamo che nel qualificarle simili all'uomo dette prova di femminismo, gesto eroico per il suo tempo. Ma oggi, dopo le lotte del femminismo, in contrapposizione prima, lasciandoci assimilare, e cioè facendoci simili all'uomo, poi, vogliamo riscoprire tutta la forza e la bellezza, scomoda e inquietante dell'alterità, del kenegdo sotto il cui segno Dio ci ha progettato e attuato.
Non trovo parole migliori per qualificare l'alterità e esprimere l'in contro uomo-donna, di quelle del filosofo Lévinas: «La congiuntura tra me e l'Altro è l'accoglimento, di fronte, faccia a faccia dell'Altro da parte mia, che non è modificazione dell'a fianco di. Anche quando avessi legato l'Altro a me attraverso la congiuzione e, l'Altro continua a starmi di fronte, a rivelarsi e rivelarmi nel suo volto. Immancabilmente l'Altro mi sta di fronte ostile e amico, mio maestro e mio allievo» (E. Levinas, Totalità e infinito, Milano 1977, 79). 
Per quanto io lo ami, non lo posso assimilare, non lo posso possedere, devo accettare di non comprenderlo mai del tutto, devo accoglierlo per quello che è, perché di lui ho bisogno e lui ha bisogno di me.
Egli è, rimane, deve rimanere lo Straniero. E come ci riconosciamo, noi, gli sposati, in queste parole.
Faccia a faccia con l'altro - la donna, ma anche qualsiasi altro - non ci si può che percepire impotenti, disarmati, smarriti, sbigottiti, meravigliati, precari. E provarne paura. L'incapacità ad amare è soprattutto rifiuto di accettarsi disarmati e nudi, cioè senza autorità.
L'incontro-confronto con l'altro inizia sotto questo segno. Conosce poi la conflittualità che porta in se il rischio continuo di degenerare in conflitto. Attraverso di essa si arriva all'unità nella diversità, rimanendo cioè altri, "stranieri".
Si capisce allora come nella Bibbia, l'incontro uomo-donna di venti modello di ogni relazione umana. Ma si capisce anche come la vita dell'uomo del sacro sia estranea a tutto quello che abbiamo detto. 
Nella separatezza dei seminari e delle curie, non abituato a vivere la differenziazione originaria è reso incapace a incontrarsi con chiunque è altro. Solo, separato, votato alla sterilità, il prete è costretto a teorizzare il suo stato come stato perfetto perché dedizione totale.
Viene da sorridere oggi a rileggere certe pagine del Thils del 1946: «Il celibato è libertà di spirito, di cuore, di corpo... Il prete deve essere interamente consacrato al culto divino. Lo stesso diritto naturale sembra richiedere che si "riservi", si "separi" tutto ciò che è necessario al culto. La Chiesa preferisce che i suoi preti non siano divisi fra due amori» (G. Thils, Nature et spiritualité du clergé diocésain. Bruges 1946, 98-101).
Poco è cambiato se nel 1970 J. Coppens scrive: "il sacerdozio è concepito come donazione totale alla Chiesa... Il prete, pastore di un gregge senza preferenza di persone, è condotto a accettare un genere di vita che gli permette di realizzare una disponibilità totale" [N.R.Th. 102 (1970) 359].
Totale, totalità sembra essere la categoria più usata dai trattati di teologia, dai manuali e dizionari per qualificare il celibato. Sempre meno questo viene riferito al passo degli eunuchi. 
Una corretta esegesi che tenga conto anche della struttura del linguaggio propria del parlare rabbinico, ha dimostrato che qui Gesù stava parlando della difficoltà a vivere il matrimonio.
Totale, totalità - fino al totalitarismo? - è la categoria del solo, di colui che si crede autosufficiente. Esprime la sicurezza dentro i con fini del tutto già conosciuto e definito, è "il tuo paese, la tua parentela e la casa di tuo padre" e non "il paese che io ti indicherò" (Gen. 12,1). 
È la tentazione, veramente del diavolo, di bastare a se stessi e, come gestori della verità, farsi norma e dottrina per l'altro. 
E, per questo, qualificarsi come stato perfetto.
Anche un biblista della serietà di R. Fabris scrive nel 1983: nel suo Gesù di Nazareth, dando come dato certo che Gesù fosse non sposato: «Il celibato di Gesù è un segno del tempo nuovo inaugurato da un'irruzione del regno di Dio nella storia» (R. Fabris, Gesù di Nazareth, Assisi 1983, 97).
No, fratello, non perché celibe ma perché disponibile a fare la volontà del Padre, a compiere le "grandi cose" annunciate dalla madre che Gesù si fa segno del regno che deve venire.
Come si vede allora il problema e molto più vasto e più complesso e investe l'immagine stessa del sacerdote. 
Per risolverlo egli deve cominciare a scendere sul sagrato e venirmi a cercare
Perché donna, perché altra e necessaria egli ha bisogno di me. 
Sul sagrato potremo incontrarci, confrontarci, guardarci negli occhi e parlare. 
Sarà certamente, per grazia di Dio e per virtù degli uomini, un incontro conflittuale ma, faccia a faccia, davanti al mio volto, imparerà a incontrarsi e confrontarsi poi con qualsiasi altro avrà l'avventura di incontrare. 
Ma anche, come ish davanti a ishàh percepisce le sue ossa, la sua carne, il suo esserci con una storia da costruire, il prete capirà, davanti a me, perché suo altro, il suo essere, farsi prete nella e per la comunità di sacerdoti che è la chiesa.
E forse mi canterà: «Questa finalmente è...


Ikthys