I cristiani e la guerra

Fulvio Ferrario
(tratto da "Riforma", 14 febbraio 2003)


La storia cristiana conosce due atteggiamenti nei confronti della guerra.
Il primo è il pacifismo radicale, che volentieri si richiama a Gesù e alla sua nonviolenza: il cristiano non porta la spada, non presta servizio militare, è soldato di Cristo e quindi non può esserlo di Cesare.
Le comunità cristiane dei primi secoli hanno vissuto con intensità la tensione tra la cittadinanza del Regno e quella terrena, tensione che spesso si è configurata come un'alternativa.
Quando il cristianesimo è diventato la religione egemone le cose sono cambiate.
Non è necessario né intelligente demonizzare il cosiddetto «cristianesimo costantiniano», contrapponendolo banalmente a quello «profetico» dei secoli precedenti.
C'è stata fede e obbedienza anche nella chiesa costantiniana. In essa, però, la testimonianza doveva coniugarsi con la responsabilità di organizzare la società, dunque anche di gestire i conflitti.
In questo contesto si sviluppa la dottrina della «guerra giusta»: la guerra è un male comunque ma esistono, nel mondo dominato dal peccato, casi nei quali la tragedia va affrontata per difendere valori di inestimabile importanza. La dottrina della guerra giusta impone alla coscienza cristiana un discernimento inevitabilmente politico, che vincola però anche la fede nella responsabilità: quando Karl Barth afferma che chi combatte contro Hitler combatte anche per la chiesa di Gesù, l'affermazione teologica presuppone un'analisi anche politica dell'hitlerismo.
Pacifismo radicale e dottrina della guerra giusta si confrontano tuttora vivacemente nelle chiese, di solito con insufficiente comprensione reciproca. Il dibattito sulla «questione Iraq» dovrebbe tuttavia unire le ragioni degli uni e degli altri, per motivi che sono in prima battuta politici, ma che assumono poi rilevanza etica e alla fine anche di fede. Ne enumero alcuni.
L'idea di una guerra preventiva, le cui conseguenze, per l'Iraq e per il mondo, sono considerate imponderabili proprio da molti militari, è ripugnante. Il nemico da battere, cioè il terrorismo, risulterebbe, a giudizio dei più, rafforzato da un intervento militare. Le ragioni vere della guerra risiedono nell'esigenza Usa di ridefinire gli equilibri geopolitici del Medio Oriente attraverso una spregiudicata politica imperiale: e chi crede di cavarsela accusando questa analisi di «antiamericani-smo» è in malafede.
L'Onu risulta umiliata: proprio la «seconda risoluzione» invocata per «legittimare» l'intervento costituirebbe ormai una ratifica servile di decisioni già prese in altra sede. La sudditanza di alcuni paesi europei, tra i quali il nostro, nei confronti dell'interventismo americano ha vanificato una possibile occasione per l'Europa di svolgere un ruolo equilibratore.
Tutto ciò rende improponibile un paragone con il primo intervento nel Golfo, per tacere di quello nei Balcani: entrambi discutibili finché si vuole, ma di natura assai diversa.
Saddam Hussein è un criminale, questo lo sappiamo tutti, come lo sa chi a suo tempo lo ha sostenuto in funzione anti Iran. Il mondo bombardato che vuole Bush, però, è più simile a quello di Saddam di quanto non lo sia l'attuale.
Per questo, chi combatterà questa guerra combatterà anche, magari, non contro la chiesa, ma certo contro la causa di Gesù Cristo.


Ikthys