Il diritto delle donne
alla piena cittadinanza
e al potere di decisione nella chiesa

Margarita Pintos De Cea-Naharro (*)
(In Concilium, rivista internazionale di teologia, 5/2002, © www.queriniana.it)

Introduzione

Il diritto di cittadinanza da parte delle donne nella chiesa non ha seguito lo stesso processo che ha avuto nelle sfere sociale e politica. Il cristianesimo ha riconosciuto la piena cittadinanza delle donne fin dall'inizio del movimento di Gesù, il quale si poneva in dichiarato conflitto e aperta opposizione nei confronti dell'ideologia androcentrica del contesto religioso giudaico e delle strutture patriarcali dell'impero romano. Tutto questo comportò una rivoluzione che ebbe la sua incidenza sui diversi ambiti della società. Le donne esercitarono questa cittadinanza nelle prime comunità cristiane, ma se ne videro spossessate man mano che la chiesa cessava di essere comunità domestica, si trasformava in "religione politica" e si strutturava in forma gerarchico-patriarcale a immagine e somiglianza dell'ordine imperiale. Nonostante ciò, né il potere politico né la struttura patriarcale ecclesiastica riuscirono a strappare loro completamente la cittadinanza, perché sempre ci sono stati movimenti di donne che la esercitarono all'interno delle proprie comunità, a volte in maniera invisibile per gli occhi della società del momento, sempre comunque con spirito rivendicativo.
Nell'ambito politico, le donne conquistano la cittadinanza molto tardi, e non senza resistenze da parte del potere patriarcale. Bisognerebbe ricordare a questo proposito la domanda di James Mill in piena modernità: «Perché le donne devono votare, se già votano i loro mariti?».
La universalità dei diritti umani, proclamati nelle costituzioni moderne e nelle dichiarazioni universali, è stata dall'inizio un universalismo astratto, e il suo carattere inclusivo era più apparenza che realtà, perché lasciava fuori, oltre ad altri gruppi, le donne. La formulazione di tali diritti in genere maschile è già di per sé escludente: «Tutti gli uomini sono, per natura, liberi e uguali».

I/ La cittadinanza delle donne nel movimento di Gesù

Le donne si trovano pienamente incorporate nel movimento di Gesù e fanno parte del discepolato di uguali, nel quale occupano un posto centrale, e non puramente periferico. Come riconosce Schüssler Fiorenza, la loro presenza e il loro protagonismo in quel movimento sono della massima importanza per la prassi della solidarietà dal basso, che è l'orizzonte del progetto di liberazione di Gesù di Nazaret. Il discepolato egualitario diventa ideologia critica della cultura androcentrica e movimento di protesta contro le strutture patriarcali della famiglia e del contesto politico e religioso. Ma la cittadinanza non si limita al gruppo dei discepoli e delle discepole originari dell'ambiente giudaico, si allarga bensì a tutte le donne, senza distinzione di cultura, religione o provenienza geografica, come dimostrano il racconto della donna siro-fenicia (Me 7,24-30; Mt 15,21-28) e la scena della samaritana, narrata nel vangelo di Giovanni (Gv 4).
Nel primo racconto, si tratta di una donna straniera che interpella il nazionalismo particolaristico di Gesù, e lo invita a vincere le proprie resistenze culturali che includevano unicamente le donne dell'ambiente giudaico. È la donna senza nome, identificata per mezzo della sua nazionalità, quella che argomenta a favore della universalità della cittadinanza e volutamente fa cambiare opinione a Gesù.
Il secondo racconto ha lo scopo di superare il conflitto religioso con i samaritani e i tabù sull'intrattenersi in pubblico con le donne. La donna samaritana, anch'essa senza nome e identificata per mezzo della sua nazionalità, viene incorporata insieme con il suo popolo nel movimento messianico. La testimonianza della donna su Gesù di fronte ai suoi compaesani li induce a credere in lui: «Molti samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna» (Gv 4,39). Espressione simile a quella utilizzata da Gesù in Gv 17,20: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me». Giovanni pone sul medesimo piano la testimonianza dei discepoli e quella della donna samaritana, e riconosce la decisiva influenza di ambedue nella espansione del gruppo di seguaci.

2/ La cittadinanza nella lettera ai Calati

L'esperienza della piena cittadinanza, che le donne conseguono nel movimento di Gesù, ebbe la sua continuità nel cristianesimo primitivo. Il che risalta con chiarezza dal testo paradigmatico di Gal 3,27-28: «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Il testo, una formula battesimale prepaolina, mette in chiaro, in primo luogo, che i cristiani e le cristiane provenienti dal mondo pagano incirconciso fanno parte del popolo di Dio, rompendo le frontiere delle nazionalità. L'appartenenza alla religione giudaica non deve essere motivo di orgoglio o di privilegio nel momento che si entra a far parte della comunità cristiana, così come non è causa di discriminazione il non professare le credenze d'Israele.
Un ulteriore contributo rivoluzionario di questa dichiarazione è l'eliminazione delle differenze tra schiavi e liberi. Nella comunità cristiana nessuna persona è padrona di un'altra, è bensì la fraternità-sororità, che fonda le relazioni tra i suoi membri. Nel servizio al vangelo non si da distinzione tra servo e signore, anche se questo non vuoi dire che Paolo difenda la soppressione del regime di schiavitù: comunque, patrocina la eliminazione delle differenze di condizione sociale all'interno della ekklesìa.
Il testo parla, in terzo luogo, della scomparsa delle differenze tra "maschio" e "femmina", criticando gli stereotipi sociali relativi ai generi, che sono privi di qualsiasi base scientifica e sono una costruzione del patriarcato per mantenere sottomesse le donne. L'incorporazione alla comunità cristiana avviene attraverso il battesimo, rito di iniziazione non sessuato, che include tutte le persone che vogliono entrare nel progetto di vita di Gesù, alle quali viene data uguaglianza di diritti e di doveri.
L'esegesi tradizionale di Gal 3,28c tende ad escludere qualsiasi riferimento sociale ed ecclesiale, e riferisce il testo unicamente alla sfera religiosa. L'uguaglianza qui predicata sarebbe l'uguaglianza spirituale (tutte le anime sono uguali) ed escatologica (nel cielo non ci saranno differenze basate sul genere). L'esegesi attuale è meno riduttiva e sottolinea il significato ecclesiale e sociopolitico della dichiarazione, mettendo in relazione Gal 3,28 con Gn 1,27: «Dio creò l'essere umano a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò».
In conclusione, secondo Gal 3,26-28, non esistono più differenze per motivi religiosi, culturali o di genere. I pagani, gli schiavi e le donne godono di libertà e di uguaglianza. La lotta per la libertà, il lavoro per la giustizia, la solidarietà con i poveri e gli oppressi, l'eliminazione delle discriminazioni basate sulla religione, e la liberazione dalle strutture patriarcali sono opzioni e impegni inseparabili che devono essere assunti in maniera unitaria.

3/ La cittadinanza delle donne nelle prime comunità cristiane

Le donne esercitano la loro cittadinanza nelle comunità paoline, attraverso l'esercizio di funzioni direttive, profetiche e docenti, nonché con la partecipazione attiva nelle assemblee cristiane. A volte si tratta di funzioni derivate dalla condizione sociale di alcune di esse, come la direzione di comunità domestiche (Lidia, a Filippi; Priscilla, con il marito Aquila; Ninfa a Laodicea; Cioè, probabilmente, a Corinto). In generale, però, la loro partecipazione attiva alla vita della comunità cristiana e il loro intervento nel prendere decisioni è diretta conseguenza della uguaglianza conseguita attraverso il battesimo.
Va messa in rilievo l'esistenza di apostole, come Giunia (Rm 16,7), la quale probabilmente conduceva una vita itinerante come gli altri apostoli. C'erano donne fortemente impegnate nell'attività missionaria (Maria, Rm 16,6; Trifena e Trifosa o Perside, Rm 16,12; Prisca, Rm 16,3; Evodia e Sintiche, Fil 4,2-3), che furono a capo di non poche comunità domestiche ed assunsero in prima linea compiti di annuncio del vangelo. Non mancarono diaconesse, come Febe, che lo fu presso la comunità cristiana di Cenere. Paolo la raccomanda alla chiesa di Roma e chiede ai cristiani di quella città di riceverla «come si conviene ai credenti» e di collaborare con essa, perché «ha protetto molti, e anche me stesso» (Rm 16,2).
La prima lettera a Timoteo cita donne anziane/presbytéras (I Tm 5,2). Il testo ammette diverse interpretazioni. Ci sono quelli che da esso deducono che la direzione della comunità era costituita da presbiteri/presbitere e da diaconi/diaconesse. Altri interpreti ritengono, tuttavia, che alla luce della ekklesìa della prima lettera a Timoteo, si debba escludere l'esercizio delle funzioni direttive da parte delle donne all'interno della comunità.
Le donne partecipavano come "profetesse" e "oranti" nelle assemblee della comunità (1 Cor 11,5). Forse partecipavano alla recita dei Salmi, all'insegnamento (didaché), ai discorsi in lingua e alla loro traduzione.
Nella chiesa domestica delle origini del cristianesimo, le donne godevano della cittadinanza, intervenivano quando si dovevano prendere delle decisioni e esercitavano l'autorità. Alla legittimazione dell'autorità delle donne poté contribuire, secondo Karen Jo Torjesen, lo stereotipo sociale della donna come signora della casa. Le funzioni e i compiti dell'autorità domestica che non erano condizionati dalla separazione dei generi vennero spontaneamente trasferiti nell'ambito della comunità cristiana domestica. L'autorità delle donne in questo ambito era vista come qualcosa del tutto naturale. Il riconoscimento della capacità e dell'esperienza delle donne come amministratrici della casa induceva a considerarle sufficientemente preparate per l'esercizio delle funzioni direttive, docenti e amministrative nella chiesa.
In sintesi, nel cristianesimo primitivo le donne, escluse dalla società patriarcale, acquisirono uno statuto di uguaglianza che permise loro di porsi a capo di gruppi e movimenti liberatori e profetici. Il carisma non discriminava per motivi di genere, bensì uguagliava gli uomini e le donne quanto a diritti e doveri.

4/ Diaconesse, presbitere ed episcope nella storia del cristianesimo

Quando la comunità cristiana diventa chiesa politica integrata nell'impero, inizia una campagna per rimuovere le donne dai loro posti direttivi e per privarle della loro cittadinanza ecclesiale, portando come motivo che esse venivano meno alle virtù proprie di ogni donna, quali il silenzio, la castità e l'obbedienza, e pertanto non avevano pudore. Fu imposto loro il silenzio, furono escluse dai posti di responsabilità e venne loro negato il lògos per poter elaborare il proprio pensiero e formulare le proprie esperienze in chiave teologica. La maggior parte delle donne vengono ridotte ad uno stato di sottomissione, adducendo il motivo che «l'uomo fu creato per primo». La loro funzione fondamentale è l'esercizio del "servizio subordinato". Passano dall'essere mediatrici della divinità e portatrici di grazia, a serve degli unici intermediari tra Dio e la comunità, che erano i maschi.
Nonostante tutto, fino al XIII secolo le donne continuarono ad esercitare il ministero sacerdotale, compreso quello episcopale al servizio della comunità, e intervennero attivamente nel prendere le decisioni della comunità.
È vero che abbiamo poche testimonianze scritte sul protagonismo delle donne. Ciò è dovuto alla scarsezza di testi scritti da esse e al carattere marcatamente androcentrico delle fonti cristiane e pagane. «Se le donne avessero scritto i libri, sono sicura che lo avrebbero fatto in maniera diversa. Perché esse sanno che sono accusate falsamente». È quanto diceva Cristina de Pizan nella sua Epìstola al Dios Amor [Epistola al Dio Amore], scritta nel 1399. È necessario ricorrere a testimonianze archeologiche, epigrafiche ed epistolari, ecc.
Sotto l'arco trionfale di una basilica romana c'è un mosaico con quattro figure femminili. Due di esse sono le sante Prudenza e Prassede, alle quali è dedicato il tempio, un'altra è Maria. Sulla testa della quarta donna, coperta con un velo, si legge un'iscrizione che dice: «Teodora, Episcopo». In una tomba scoperta a Tropea (Calabria meridionale, Italia) nel 1876, appare un'iscrizione della metà del V secolo che si riferisce a «Leta Presbytéra» in questi termini: «Consacrata al
la sua buona fama Leta Presbytéra visse quarant'anni, otto mesi e nove giorni, e il suo sposo le eresse questo sepolcro. La precedette in pace la vigilia delle idi di marzo».
Altre iscrizioni dei secoli VI e VII attestano anch'esse l'esistenza di donne sacerdotesse a Salona (Dalmazia) (presbytéra, sacerdota), ad Ippona (Africa) (presbytérissa), nei pressi di Poitiers (Francia) (presbytéria), in Tracia (presbytéra in greco). La storiografia cattolica tende ad eliminare tutte le iscrizioni che fanno riferimento al sacerdozio femminile e preferisce riferire il termine presbytéra alla moglie del presbitero.
In un trattato sulla virtù della verginità attribuito a sant'Atanasio (IV secolo) si afferma che le donne consacrate potevano celebrare insieme la frazione del pane senza la presenza di un sacerdote maschio: «Le sante vergini possono benedire tre volte il pane con il segno della croce, pronunciare il rendimento di grazie e pregare, poiché nel regno dei cieli non c'è né uomo né donna» (PG 28, col. 263).
In una sua lettera ai vescovi dell'Italia meridionale, il papa Gelasio I (492-496) dice loro: «Siamo venuti a sapere, con nostro grande dolore, che le cose divine sono giunte ad uno stato tanto basso, che si incoraggiano le donne ad ufficiare sui sacri altari e a partecipare a tutte le attività del sesso maschile al quale esse non appartengono». Da questo testo si ricava chiaramente che le donne esercitavano le funzioni sacerdotali. Onorio III, papa dal 1216 al 1227, che succedette a Innocenzo III, si rivolge ai vescovi di Burgos e di Valenza perché proibiscano alle badesse di parlare dal pulpito, poiché questo ministero è riservato agli uomini. E il motivo della proibizione è questo: «Perché le loro labbra portano le stigmate di Eva, le cui parole hanno contrassegnato il destino dell'uomo».
Un sacerdote chiamato Ambrogio chiede ad Atone, vescovo di Vercelli, che visse tra i secoli IX e X ed era gran conoscitore delle antiche disposizioni conciliari, che significato bisognava dare ai termini presbytéra e diaconessa dei canoni antichi.
Il vescovo gli risponde che anche le donne ricevevano il ministero ad adjumentum virorum, come dimostra la lettera di Paolo ai Romani: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della chiesa di Cenere» (Rm 16,2). Fu il concilio di Laodicea, celebrato durante la seconda metà del IV secolo, continua Atone, a proibire l'ordinazione presbiterale delle donne. Per quanto si riferisce al termine presbytéra, riconosce che nella chiesa antica poteva designare anche la moglie del presbitero, egli preferisce tuttavia il significato di sacerdotessa ordinata che esercita funzioni direttive, docenti e cultuali.
Queste testimonianze e molte altre ancora che potrebbero essere portate vengono rifiutate dalla teologia ufficiale e dall'alto magistero ecclesiastico, con la scusa che mancano di rigore scientifico, mentre la ragione vera del rifiuto sono le impostazioni patriarcali nelle quali si trovano collocati. Il riconoscimento della autenticità di queste testimonianze li porterebbe a rivedere le loro impostazioni patriarcali e ad abbandonare le loro posizioni misogine. E a questo, non sono disposti.

5/ Dall''«incoerenza vaticana» alla piena cittadinanza

Oggi noi donne cristiane siamo private della cittadinanza ecclesiale, mentre nella società abbiamo raggiunto notevoli risultati nell'esercizio dei diritti civili, politici e sociali. Il secolo XXI, scrive la filosofa spagnola Victoria Camps, «sarà il secolo delle donne. Ormai nessuno ferma il movimento che ha costituito la rivoluzione del secolo appena finito. Per adesso, la uguaglianza conseguita è abbastanza soddisfacente, ma non del tutto. Ci sono ancora ostacoli per una uguaglianza accettabile».
Anche la chiesa cattolica oggi difende, magari con molte sfumature e non poche riserve, la cittadinanza delle donne, allo stesso modo che difende i diritti umani nella società. Tuttavia, fa tutto il possibile per impedire che la pratichiamo all'interno della comunità cristiana. Ci troviamo di fronte a quella che Bernard Quelquejeu chiama la "incoerenza vaticana".
Che motivi può avere la chiesa per continuare a negare alle donne la piena cittadinanza e l'accesso al potere in fatto di decisioni da prendere? Solo l'ostinazione del patriarcato ecclesiastico, che continua pervicacemente a negare ciò che il Nuovo Testamento e la storia del cristianesimo legittimano.
Le basi esegetiche, teologiche e storiche per il recupero di questa cittadinanza, sono già state poste. La storia dell'emancipazione della donna gioca anch'essa a nostro favore. Nella società esistono condizioni di plausibilità che possono facilitare il cammino. Come appoggio, contiamo sulla teoria femminista che fornisce un metodo di analisi critico delle strutture patriarcali nella società e nelle religioni, e sui movimenti di liberazione della donna.
Per conseguire la nostra piena cittadinanza nella chiesa e nelle società che ce la negano, propongo alcune chiavi indicative, rimanendo consapevole del fatto che il luogo da cui scrivo le condiziona.
In primo luogo, la nostra auto-affermazione e riconoscimento come soggetti morali. La funzione delle donne ha una rilevanza particolare nel discorso morale all'interno della teoria femminista. Propone alternative per frenare l'impero dei valori economici e consumistici, perché il femminismo è prioritariamente un'etica. Noi donne stiamo svolgendo una funzione fondamentale in questa trasformazione, anche nella comunità cristiana, nella quale, in quanto soggetti morali, ci facciamo guidare dall'etica evangelica della fraternità-sororità e non dalla morale del potere patriarcale. L'intervento nella presa di decisioni sulle questioni etiche, che riguardano direttamente le nostre vite e la vita degli altri settori emarginati, diventa per noi un imperativo prioritario. È giunto il momento di passare dall'essere persone che semplicemente ricevono e con sottomissione eseguono ordini provenienti dal patriarcato, a persone che intervengono nella elaborazione della nuova dottrina morale di liberazione.
In secondo luogo, la presa di coscienza di essere soggetti teologici che non si limitano a fare teologia meccanicamente continuando il metodo deduttivo tradizionale che parte da verità per sfociare in dogmi; noi invece ripensiamo la fede a partire dalla nostra soggettività e la riformuliamo attraverso chiavi ermeneutiche e linguistiche in prospettiva di genere, fino ad elaborare un vero e proprio magistero delle donne che incorpori i nostri insegnamenti ed esperienze come parte fondamentale del deposito della fede.
In terzo luogo, agire come soggetti ecclesiali. Il patriarcato si è appropriato della ecclesialità e l'ha negata ai laici e, in modo tutto speciale, alle donne, allegando ragioni bibliche, teologiche e storiche che, come ho cercato di dimostrare, non hanno alcun fondamento. L'appropriazione della ecclesialità comporta l'esercizio di tutte le libertà e diritti, i quali sono indivisi e irrinunciabili: diritto di riunione, di associazione, di espressione, di coscienza, di ricerca, di critica, di pensiero... e soprattutto il diritto di dissentire! Tutto questo esige di partecipare al governo della comunità cristiana, eletto ed esercitato democraticamente, senza alcuna limitazione. Per questo è necessario avviare un processo di democratizzazione della chiesa, che esige un mutamento nella organizzazione, ma anche nella forma di vita.
La considerazione di tutti i cristiani e le cristiane come soggetti ecclesiali rende invalida l'opposizione tra chierici e laici, chiesa docente e chiesa discente, gerarchia e popolo.
La cittadinanza delle donne deve arrivare all'ambito sacramentale, nel quale subiamo una esclusione totale a causa della concezione androcentrica che lo caratterizza. Perché questo si realizzi, noi donne dobbiamo smettere di essere unicamente ricettrici della grazia e uditrici mute della parola, e trasformarci in mediatrici di salvezza e interpreti della parola.
Insieme con la piena cittadinanza delle donne, bisogna affermare la piena cittadinanza di tutti gli esclusi per motivi di etnia, razza, classe sociale, provenienza geografica o opzione sessuale. La cittadinanza deve svilupparsi come una rete, come un circuito inclusivo. Per questo è necessaria l'unione e la solidarietà degli esclusi contro le cause che provocano la esclusione.
La triade di Gal 3,28 deve essere ulteriormente ampliata: «Né omosessuale né eterosessuale, né ricco né povero, né bianco né nero, né dotto né ignorante...». Rispettando le differenze - è chiaro - per non sfociare in una chiesa e in una società "cloniche".

(Traduzione dallo spagnolo di Pietro Crespi)

* Margarita Pintos De Cea-Naharro

È nata a Madrid (Spagna) nel 1947. Teologa femminista, è professoressa di spagnolo, storia e teologia ecumenica alla Scuola tedesca di Madrid. Presso l'Università Carlo III di Madrid tiene corsi sulla donna nelle religioni monoteistiche, la violenza sulle donne, e le questioni di genere.
È direttrice del seminario di teologia femminista, i cui ultimi lavori sono centrati sul recupero delle nostre antenate che configurano la nostra genealogia come cristiane femministe. È membro della Associazione di teologi e teologhe "Giovanni XXIII". Collabora presso l'Istituto di ricerche femministe della università Complutense di Madrid, con corsi sul genere e la religione. Lavora con gruppi di donne, collettivi di vita religiosa, gruppi di spiritualità.
Tra le sue pubblicazioni: La mujer en la Iglesia, Ediciones San Pablo 1990; Mujeres y hombres en la construcción del pensamiento Occidental. È autrice di articoli in opere collettive: teologia femminista, etica femminista, storia del femminismo, ecofemminismo e spiritualità, storia delle donne nella prospettiva del genere, Maria in chiave femminista.
(Indirizzo: Ginzo de Limia, 55 - 28034 Madrid, Spagna. E-mail:
margaritapintos@terra.es).


             Ikthys