LETTERA ENCICLICA
RERUM NOVARUM

«Sulla condizione degli operai»

(LEONE XIII)


VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

L’ardente brama di novità, che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine congenere dell’economia sociale. E di fatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni e operai; l’essersi in poche mani accumulata la ricchezza, e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima: questo insieme di cose e i peggiorati costumi han fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene in trepida aspettazione sospesi gli animi, ed affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei savi, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei Principi: in guisa che oggi non v’ha questione che maggiormente interessi il mondo. — Ciò pertanto che a bene della Chiesa ed a comune salvezza facemmo altre volte, Venerabili Fratelli, colle Nostre Lettere Encicliche sui poteri pubblici, la libertà umana, la costituzione cristiana degli Stati e altri siffatti argomenti, che Ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, il medesimo crediamo per gli stessi motivi di dover fare adesso sulla questione operaia. Toccammo già di questa materia, come Ce ne venne occasione, più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico Nostro ministero Ci muove a trattarla ora di proposito e pienamente, a fin di mettere in rilievo i principi, con cui, secondo giustizia ed equità, risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa egli è segnare nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro, i precisi confini. Pericolosa, perché uomini turbolenti ed astuti s’argomentano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a sommovimento dei popoli.

Comunque sia, egli è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, essere di estrema necessità venir senza indugio con opportuni provvedimenti in aiuto dei proletari, che per la maggior parte trovarsi indegnamente ridotti ad assai misere condizioni. Imperocché, soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in lor vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balìa della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice, che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, per fatto d’ingordi speculatori. Si aggiunge il monopolio della produzione e del commercio, tantochè un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile.

A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, anziché risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai: ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.

Ed in vero non è difficile a capire, che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Imperocché se egli impiega le sue forze, la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procacciare il necessario alla vita: e però col suo lavoro acquista vero e perfetto diritto non pur di esigere ma d’investire come vuole la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie venne a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li investì in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile, sia stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di reinvestire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di vantaggiare il patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.

Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, giacché diritto di natura è la proprietà privata. Poiché anche in questo passa gran divario tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa se stesso, ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra determinano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini a lui basta l’uso di que’ determinati mezzi, che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli nella sua pienezza la vita sensitiva, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale e lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, vuolsi concedere all’uomo sui beni della terra qualche cosa di più che il semplice uso, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile: né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma eziandio di quelle che l’uso non consuma.

Il che torna più evidente, ove si penetri più addentro nell’umana natura. — Imperocché per la sterminata ampiezza del suo riconoscimento che abbraccia, oltre il presente, l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo, sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a se stesso. Egli deve dunque poter eleggere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo pel momento che passa, ma pel tempo futuro. Ciò val quanto dire che oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo vede essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni avvenire. Imperocché i bisogni dell’uomo hanno, per dir così, una vicenda di perpetui ritorni, sì che, soddisfatti oggi, rinascono domani. Deve pertanto la natura aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso ond’egli abbisogna; beni che può somministrarci solamente la terra con la sua inesauribile fecondità.

Né v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato, perché l’uomo è anteriore allo Stato: sì che prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a se stesso.

L’aver poi Iddio dato la terra ad uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone punto al diritto della privata proprietà; Imperocché quel dono Ei fece a tutti, non già in quanto tutti ne dovessero avere un comune e promiscuo dominio; bensì in quanto non assegnò veruna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al giure speciale dei popoli. La terra peraltro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servigio e benefizio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da quella. Chi non ha beni propri, vi supplisce col lavoro; tantochè può affermarsi con verità, mezzo universale da provvedere alla vita essere il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si cava dai molteplici frutti della terra, e in essi vien commutata.

Ed è questa un’altra prova che conforme a natura è la proprietà privata. Imperocché il necessario al mantenimento e al perfezionamento dell’umana vita la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Or posto che a conseguire i beni della natura impieghi l’uomo l’industria della mente e le forze del corpo, con questo medesimo egli unisce a sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, ed in cui lasciò come impressa un’impronta della sua personalità: sicché giustamente ei può tenerla per sua, ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.

Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovare dei contraddittori in alcuni, che, rinfrescando viete utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo, ed i vari frutti dei campi; ma del suolo ove egli ha fabbricato, e del campo che ha coltivato, gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro, che in questa guisa vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Imperocché il campo, dissodato dalla mano e dall’arte del coltivatore, non è più quel di prima: da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono siffattamente corpo in quel terreno, che la maggior parte ne sono inseparabili. Or che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non lo ha lavorato, subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza punto curarsi dei pochi contraddittori, e con l’occhio alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni, e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente confacente alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili, che, quando son giuste, derivano dalla stessa legge naturale la propria autorità ed efficacia, confermano tal diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: "Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono" (Deut. V, 21).

Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nelle attinenze col consorzio domestico.

Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: egli può a suo grado o seguire il consiglio evangelico della verginità, o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al connubio, e niuna legge umana può abolirlo, niuna limitarne come che sia lo scopo, cui Iddio l’ha ordinato, quando disse: "Crescete e moltiplicatevi" (Gen. I, 28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola, ma vera, e anteriore a ogni civile società, e però con diritti ed obbligazioni indipendenti dallo Stato. Onde quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo, va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tal diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e comprensiva è nel consorzio domestico la sua personalità. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di se, e quasi un’espansione e continuazione della sua persona, egli è mosso a provvederli in modo, che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte a’ propri bisogni: cosa non possibile ad ottenersi, se non mediante l’acquisto di beni fruttiferi, ch’egli poi trasmetta loro in retaggio.

Come la civile compagnia, così la famiglia, secondo che avvertimmo, è la vera società, retta da potere proprio, qual è il paterno. Entro i limiti determinati del fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti uguali almeno a quelli della società civile. Dicemmo almeno uguali perché, essendo il domestico consorzio logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Ché se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civil convivenza sarebbe piuttosto da fuggire, che da desiderare.

È dunque grande e pernicioso errore volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trovi per avventura in sì gravi distratte, che da sì stessa non le sia affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri; giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi disordini nelle relazioni scambievoli tra i membri d’una famiglia, intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo; poiché questo non è un usurpare i diritti dei cittadini, ma un assicurarli e tutelarli secondo dirittura di giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato: andare più oltre, nol consente la natura. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, come quella che nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, un’espansione, per così dire, della sua personalità: e a parlar propriamente, non essi per se medesimi, bensì mediante la famiglia, ove son nati, entrano a far parte del civile consorzio. È appunto per questa ragione che "un che del padre sono naturalmente i figli... prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori" (S. Thom., II-II, Q. X, a. 12). Ond’è che i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la naturale giustizia, e disciolgono la compagine delle famiglie.

Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro apparisce quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, che duro e odioso servaggio dei cittadini. Si aprirebbe la via agli astii, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, tolto all’ingegno e all’industria individuale ogni stimolo, inaridirebbero: e la sognata uguaglianza non altro sarebbe di fatto che una condizione universale di abbiezione e di miseria.

Tutte codeste ragioni danno diritto a conchiudere, che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si ha da recar soccorso; offende i diritti naturali di ciascuno; altera gli uffizi dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque che nell’opera di migliorar le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.

Entriamo fiduciosi in questo argomento e di Nostro pieno diritto; giacché trattasi di questione, di cui non è possibile trovare uno scioglimento che valga, senza ricorrere alla Religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione, e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa, è affidata principalmente a Noi, Ci parrebbe di mancare al Nostro officio, tacendo.

Certamente la soluzione di sì arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche di altri: vogliam dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, ed eziandio degli stessi proletari, che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, ove si prescinda dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi torneranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certo a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gl’insegnamenti suoi, non pur d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: essa con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario: essa vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e cospirino insieme, a fin di provvedere il meglio che sia possibile agl’interessi degli operai: e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.

Stabiliscasi adunque in primo luogo questo principio, doversi sopportare la condizione propria dell’umanità: toglier dal mondo le disparità sociali, esser cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti; ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Imperocché grande varietà esiste per natura negli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia; non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sì dei particolari, sì del civile consorzio; perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale che muove gli uomini ad esercitar tali uffici è la disparità dello stato.

E quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello, che allora a ricreazione dell’animo avrebbe liberamente fatto la volontà, lo impose poi ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: "Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; tu mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita" (Gen. III, 17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a tollerarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Laonde patire e sopportare è il retaggio dell’uomo; e checché si faccia e si tenti, levar via affatto le sofferenze dal mondo, non vi è forza né arte che il possa. Coloro che dicono di poterlo, e promettono alle misere plebi una vita scevra di dolore e di pene, e tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via, che riesce a dolori più grandi dei presenti. Il meglio si è guardar le cose umane quali sono, e nel tempo medesimo cavare altronde, come dicemmo, ai mali il rimedio.

Nella presente questione lo sconcio maggiore è questo, supporre l’una classe sociale nemica naturalmente all’altra; quasicché i ricchi ed i proletari li abbia fatti natura a battagliare con duello implacabile fra loro. Cosa tanto contraria alla ragione e alla verità, che invece è verissimo che, siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria; così volle natura che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra; né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose; laddove un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora a pacificare il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il Cristianesimo ha dovizia di forza meravigliosa.

E primieramente tutto l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri; incominciando da quelli che impone giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera, che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che d’inutili pentimenti e di perdite rovinose.

Dei capitalisti poi e dei padroni sono questi i doveri: non tenere gli operai in luogo di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’umana persona, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della Fede non è il lavoro che degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di campare con l’opera propria onestamente la vita; quello che veramente è indegno dell’uomo si è abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgano i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato doversi nei proletari aver riguardo alla Religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio agio e tempo che basti a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amor del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti coll’età e col sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che né le divine, né le umane leggi permettono opprimere per utile proprio i bisognosi e gl’infelici, e trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa sì enorme, che grida vendetta al cospetto di Dio. "Ecco la mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferite le orecchie del Signore degli eserciti" (Jac. V, 4). Da ultimo è dovere dei ricchi di non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza, né con frodi, né con usure manifeste o palliate: il qual dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio, e più sacrosanta la sua piccola sostanza.

L’osservanza di questi precetti non basterebbe essa sola a mitigare l’asprezza e cessar le cagioni del dissidio? Ma la Chiesa guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più alto: a riavvicinare il più possibile le due classi, e a farle amiche. — Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere se l’animo non si erge ad un’altra vita, ossia all’eterna: senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente dileguasi anzi l’intera creazione diventa un mistero inesplicabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, è nel Cristianesimo un dogma, su cui come su principale fondamento riposa tutto l’edifizio della Religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Imperocché Iddio non ci ha creati per questi fragili e caduchi beni, ma pei celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in copia ricchezze e altri beni terreni, o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è quello che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redento con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha però convertite in eccitamenti a virtù ed in materia di merito; tantochè nessun figlio di Adamo può giungere al Cielo, se non segue le orme sanguinose di lui. "Se persisteremo, regneremo insieme" (II Tim. II, 12). Con pigliare volontariamente sopra di sé travagli e dolori, Egli ne ha in meravigliosa maniera mitigato l’acerbità e non pur con l’esempio, ma con la sua grazia e con la speranza del proposto guiderdone ci ha reso più facile il patire: "Imperocché quella, che è di presente momentanea e leggera tribolazione nostra, un eterno sopra ogni misura smisurato peso di gloria opera in noi" (II Cor. IV, 17).

I fortunati del secolo sono dunque ammoniti, che le ricchezze non li francano dal dolore, e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (Matth. XIX, 23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (Luc. IV, 24-25); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice.

In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente ed importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre fa che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica ed informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò, che nella ricchezza si vuol distinguere il possesso legittimo dall’uso legittimo. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni; e l’esercitare questo diritto, è, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. "È lecito, dice San Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni" (II-II, Q. LXVI, a. 2). Ma se inoltre si dimandi, quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del Santo Dottore non esita a rispondere, che "per questo rispetto, l’uomo non deve avere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi nell’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare il proprio facilmente" (II-II, Q. LXV, a. 2). Niuno al certo è tenuto sovvenir gli altri di quello che è necessario a sé ed ai suoi; anzi neppur di quello che è necessario alla convenienza, e al decoro del proprio stato; "perché niuno deve vivere in modo non conveniente" (II-II, Q. XXXII, a. 6). Ma soddisfatto alla necessità e alla convenienza, soccorrere col superfluo ai bisognosi è dovere: "Quello che sopravvanza, date in elemosina" (Luc. XI, 41). Eccetto il caso di estrema necessità, non sono questi, è vero, obblighi di giustizia, ma di carità cristiana, il cui adempimento non si può certamente esigere per vie giuridiche: ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del donar generoso, ed insegna "esser cosa più beata il dare che il ricevere" (Act. XX, 35); e terrà per fatta o negata a Sé la carità fatta o negata ai bisognosi: "Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a Me lo faceste" (Matth. XXV, 40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali, sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: "Chi ha dunque ingegno badi di non tacere: chi abbondanza di roba, si guardi dall’esser nell’esercizio della misericordia troppo duro di mano: chi un’arte da vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità" (San Gregorio Magno, in Evang. Hom., IX, n. 7).

Ai poveri poi la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che faccia vergogna né la povertà, né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con l’esempio Suo; mentre a salute degli uomini, "essendo ricco si fece povero" (II Cor. VIII, 9), ed essendo Figlio di Dio, e Dio Egli stesso, volle comparire ed esser creduto figlio di un legnaiuolo; anzi non ricusò di passare lavorando la massima parte della vita: "Or non è questi il fabbro, figlio di Maria?" (Marc. VI, 3). Mirando la divinità di questo esempio, si comprende facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine.

Diciamo di più: per gl’infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione: imperocché Gesù Cristo chiama beati i poveri: "Beati i poveri di spirito" (Matth. V, 3); invita amorosamente a venir da Lui per conforto quanti sono stretti dal peso degli affanni: "Venite a me voi tutti, che siete stanchi e travagliati, ed io vi ristorerò" (Matth. XI, 28); i deboli e i perseguitati abbraccia con affetto di carità specialissima. Hanno queste verità grande efficacia ad abbassare l’orgoglio dei fortunati, e togliere all’avvilimento i miseri: ad ispirare indulgenza negli uni, modestia negli altri. Così le distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né più riesce difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, si riducano ad amichevole accordo.

Ma esse obbedendo alla legge evangelica non saran paghe di una semplice amicizia, vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e gli Angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo, e chiamati alla dignità della figliuolanza divina, per guisa che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito tra molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano, e che senza suo demerito, niuno verrà diseredato del retaggio dei beni Celesti: perché "se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo" (Rom. VIII, 17).

Ecco l’ideale dei diritti e doveri, contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e tornerebbe la pace?

Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Imperocché ella è tutta in educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della dottrina sua scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso studiasi di penetrare negli animi e spiegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in questa parte, che è capitalissima, come quella da cui in fatto dipende tutto il vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Imperocché gli istrumenti, che adopera a muovere gli animi, le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; sì che soli essi possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano animosamente tutti gli ostacoli, che attraversano il cammino della virtù.

Basta su ciò accennar di passaggio gli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del Cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso dell’uman genere, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi, né sperabile maggiore per l’avvenire. Finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi: i quali scaturiti da Lui, a Lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’Incarnazione del Verbo e dell’umana Redenzione, la vita di Gesù Cristo, Dio ed Uomo, si trasfuse nella civile società, e con la Fede, i precetti, le leggi di Lui l’informò. Laonde, se ai mali del mondo vi ha rimedio, questo rimedio non può esser altro, che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È solenne principio che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere. La perfezione di ogni società è riposta nel tendere ed arrivare al suo scopo: talché il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia quel medesimo che generò l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo, è corruzione: tornare ad esso è salute. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

Né si creda che le cure della Chiesa sieno così interamente e unicamente rivolte alla salute delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita mortale e terrena.

I proletari segnatamente ella vuole e procura che emergano dall’infelice loro stato, e migliorino condizione. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente col chiamare e informare gli uomini a virtù. I costumi cristiani, quando sieno e si mantengano davvero tali, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena; perché chiamano le benedizioni di Dio, principio e fonte d’ogni bene: infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri, veri flagelli, che rendono misero l’uomo nell’abbondanza stessa di ogni cosa ("il piacere è la radice d’ogni male" - I Tim. VI, 10): contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni. Ma vi ha di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire a loro sollievo; e per questo rispetto ella segnalossi tanto, da riscuotere l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primitivi cristiani la carità fraterna era così potente, che i più facoltosi spogliavansi spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tantochè "non vi era tra loro bisognoso alcuno" (Act. IV, 34). Ai diaconi, Ordine istituito espressamente per questo, fu commesso dagli Apostoli l’officio di esercitare la quotidiana beneficenza: e Paolo Apostolo, gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava d’intraprender faticosi viaggi, a fin di recar di sua mano ai Cristiani poveri l’elemosine da lui raccolte. E "depositi della pietà" chiama Tertulliano le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli in ciascuna adunanza; perché "designate a soccorrere e dar sepoltura agl’indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, e i vecchi e i naufraghi" (Apol. II, XXXIX). E di qui a poco a poco formossi il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi con nuovi e determinati soccorsi venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Imperocché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando per tutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò Sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i Gentili, dan biasimo alla Chiesa perfino di sì egregia carità: e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non vi è umana industria, che alla carità cristiana, che tutta consacrasi al bene altrui, possa supplire. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal Cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.

A risolvere per altro la questione operaia, non è dubbio che si richiedono altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati, debbono concorrervi ciascuno per la parte sua: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale, che governa il mondo; poiché scorgesi d’ordinario che il buon effetto è il prodotto dell’armoniosa cooperazione di tutte le cause, da cui esso dipende.

Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato, non come è costituito o come funziona in questa o quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, qual si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia colle dottrine cattoliche, come Noi medesimi esponemmo nell’Enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle politiche istituzioni, ordinando e amministrando lo Stato in guisa che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo di fatti è l’ufficio della civile prudenza, e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della Religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione delle pubbliche gravezze, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quelle dei proletari: e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è officio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minor bisogno vi sarà di tentare altre vie a salute degli operai.

Ma va inoltre considerata una cosa che tocca più da vicino la questione: essere cioè lo Stato un’armoniosa unità, che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né più né meno dei ricchi sono di naturale diritto cittadini, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trasandare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai: non facendolo, si offende la giustizia che vuole reso a ciascuno il suo. Onde saviamente avverte San Tommaso: "Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte" (II-II, Q. LXI, a. 1 ad 2). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia distributiva.

Sebbene tutti i cittadini, senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune, che poi naturalmente rifluisce a benefizio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale, né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizioni, senza la quale non può darsi e nemmeno concepirsi umano consorzio. Vi saran sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governino la nazione in pace, e la difendano in guerra; ed è facile a intendersi che, essendo questi causa più prossima ed efficace del ben comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi offici cooperare al comun bene degli artigiani: e tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente coi loro servigi. Certo il bene sociale, dovendo esser nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente collocato nella virtù. Nondimeno in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente copia di beni corporali, "l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù" (S. Thom., De regimine Principum, I, c. XV). Ora a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma diciamo a tal segno, che può affermarsi con verità, il lavoro degli operai esser quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo sì che egli partecipi in alcuna misura di quella ricchezza, che esso medesimo produce: cosicché abbia vitto e vestito, e campi meno disagiatamente la vita. Si favorisca dunque al possibile tutto ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che, non che nuocere ad alcuno, questa provvidenza gioverà a tutti; essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro, da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.

Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo Stato: giusto è invece che si lasci all’una e all’altro tanta indipendenza di operare, quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti.

Tuttavia debbono i governanti tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, siffattamente, che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità: le parti poi, perché filosofia e Vangelo si accordano ad insegnare che non a benefizio dei governanti è da natura istituito il governo. E poiché il potere politico viene da Dio, ed è una tal qual partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi ad esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature, che a tutto l’universo. Ove dunque o alla società, o a qualche sua parte, sia stato recato, ovvero sovrasti danno, che non possa in altro modo ripararsi o impedirsi, l’intervento dello Stato è necessario.

Ora interessa il privato come il pubblico bene, che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la Religione; che fioriscano i pubblici e privati costumi; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a vantaggiare e difendere, bisognando, la patria.

Laonde se per ammutinamenti o per scioperi degli operai si temano disordini pubblici; se tra i proletari sieno sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia, se la Religione non sia rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corra nelle officine pericolo; se dai padroni venga oppressa con patti contrari alla personalità e dignità umana la classe lavoratrice; se con lavoro soverchio o non conveniente al sesso e all’età si rechi nocumento alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. I quali confini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato: che vai quanto dire, non dover le leggi andar al di là di ciò che richieda o il riparo dei mali o la rimozione del pericolo.

I diritti vanno debitamente protetti in chiunque ne abbia, e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne le violazioni. Se non che nel tutelare le ragioni dei privati vuolsi avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa: le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. E però agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua.

Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo, dovere i governi per via di savie leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le plebi sieno tenute a dovere; perché se ad esse giustizia consente di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di presunta eguaglianza s’invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare condizione onestamente senza far torto a persona; tuttavia ve ne ha non pochi, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, che cercano ad ogni costo eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato, e posto freno ai sommovitori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione, i legittimi padroni da quello dello spogliamento.

Il troppo lungo e gravoso lavoro, e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo sconcio grave e frequente occorre che ripari lo Stato; perché tali scioperi non recano danno ai padroni solamente e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi, e per le violenze e i tumulti, a cui di ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio poi, in questa parte, più efficace e salutare si è prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedirne lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere tra operai e padroni il conflitto.

Molte cose parimenti deve proteggere nell’operaio lo Stato: ed in prima i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui siamo creati: ma via e mezzo a perfezionare con la cognizione del vero e con la pratica del bene la vita dello spirito. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la simiglianza divina, ed in cui risiede quel principato, in virtù del quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le inferiori creature, e di far servire alla utilità sua le terre tutte ed i mari. "Riempite la terra e rendetela a voi soggetta, e signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che sopra la terra si muovono" (Gen. I, 28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né vi ha tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi differenza alcuna; perché lo stesso è "il Signore di tutti" (Rom. X, 12). A niuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi nemmeno di sua libera elezione, potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo sua natura ed accettare la schiavitù dello spirito; perché non trattasi di diritti, dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili.

Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto il qual nome non s’intende già uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione, quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di scialacquo; ma un riposo consacrato dalla Religione. Unito alla Religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà Divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: "Ricordati di santificare il giorno di sabato" (Exod. XX, 8); e che insegnò Egli stesso col fatto Suo, quando nel settimo dì, creato l’uomo, dalle opere della creazione si riposò: "Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte" (Gen. II, 2).

Quanto alla tutela dei beni corporali ed esteriori, prima di tutto è dovere di sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come di cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro, da farne per troppa fatica istupidire la mente, e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività nell’uomo è limitata, l’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che a quando a quando venga sospesa per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più che le forze non comportino. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Il lavoro, per esempio, dei cavatori di pietra, di ferro, di rame e di altre materie nascoste sotterra, essendo più grave e più nocivo alla salute, va compensato con una durata più corta. Si deve avere ancora riguardo alle stagioni: perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o insopportabile affatto, o tale che con difficoltà si sopporta.

Infine un lavoro proporzionato ad uomo adulto e robusto non è ragionevole che si imponga a donne o a fanciulli. Anzi, quanto ai fanciulli, si ha da stare ben cauti di non ammetterli all’officina, prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa; ed allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così certe specie di lavoro non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso ed hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale stabiliscasi questa regola, che la somma del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla somma delle forze consumate nel lavoro: perché le forze consumate con l’uso debbono col riposo ristorarsi. In ogni convenzione, che facciasi tra padroni e operai, vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e l’altro riposo: un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o promettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio o a sé stesso.

Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la parte sua, né sembra sia debitore di altro. Soltanto allora, che o non paghi l’intera mercede il padrone, o non presti tutta l’opera pattuita l’operaio, si commette ingiustizia, e solo a tutela di questi diritti, non per altre cagioni, è lecito l’intervento dello Stato.

A questo ragionamento non può un equo estimatore delle cose consentire né facilmente, né in tutto; perché esso non guarda la cosa da ogni lato; qualche considerazione vi manca di gran momento. Il lavoro è la attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla sua conservazione: "Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte" (Gen. III, 19). Ha dunque il lavoro nell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché inerente alla persona, e del tutto propria di chi la esercita ed a cui pro fu data, è la forza attiva; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro abbisogna all’uomo pel mantenimento della vita; mantenimento che è imprescindibile dovere imposto dalla natura. Or, se guardisi al solo rispetto di personalità, non è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto; imperocché, siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario, o rinunziarlo affatto.

Ben altro si deve dire, ove con la personalità si consideri la necessità: due cose logicamente distinte, realmente inseparabili. Infatti il conservarsi in vita è dovere, a cui niuno può mancare senza colpa. Di qui nasce per necessaria conseguenza il diritto di procacciarsi i mezzi di sostentamento; che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro.

Sia pur dunque che l’operaio e il padrone formino di comune consenso il patto, e nominatamente il quanto della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non sia inferiore al sostentamento dell’operaio frugale, s’intende, e ben costumato. Se questi, costretto dalla necessità, o per timore di peggio, accetta patti più duri, i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volere o non volere debbono essere accettati, questo è subire una violenza contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono la giornata di lavoro, le cautele da prendere per garantire nelle officine la vita dell’operaio affinché l’Autorità non s’ingerisca indebitamente, massime in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservarne la decisione ai collegi, di cui parleremo più innanzi, o tenere altra via, che salvi, secondo giustizia, le ragioni degli operai, restringendosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richieda, tutela ed appoggio.

Quando l’operaio riceva un salario sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia, in una tal quale agiatezza, s’egli è savio, penserà agevolmente al risparmio, e secondando l’impulso della stessa natura farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Imperocché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Debbono per tanto le leggi favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Di qui risulterebbero grandi vantaggi: e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente, perché straricca; la quale, avendo in sua mano ogni sorta di produzioni e di traffici, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato influenza grande. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esulcerato e pronto sempre a tumulti. Or se in questa moltitudine s’incoraggi l’industria colla speranza di poter acquistare stabili proprietà, l’una classe verrà avvicinandosi a poco a poco all’altra, tolta l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza.

Oltre a ciò, dalla terra si trarrà copia di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in terreno proprio, faticano con più alacrità e ardore: anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui aspettano per sé e per la famiglia, non pur gli alimenti, ma una tal quale agiatezza. Ed è facile a capirsi, come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione.

Ne seguirà un terzo vantaggio, l’attaccamento al luogo nativo che non si cambierebbe la patria con paese straniero, se quella desse di che vivere passabilmente ai suoi figli. Si avverta per altro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga stremata da imposte eccessive. Il diritto della proprietà derivando non da legge umana, ma dalla naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso ed armonizzarlo col bene comune, ed è ingiustizia ed inumanità esigere dai privati, sotto nome d’imposte, più del dovere.

Finalmente allo scioglimento della questione operaia possono contribuir molto i capitalisti e gli operai medesimi, con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi, e ad avvicinare ed unire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private, destinate a provvedere all’operaio, alla vedova, ai figli orfani nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù, e per gli adulti. Tengono però il primo luogo e quasi tutte le altre contengono le corporazioni di arti e mestieri. Manifestissimi furono presso i nostri maggiori i vantaggi di tali corporazioni; e non solo a pro degli artieri, ma, come attestano monumenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. Bensì, i progressi della cultura, le nuove costumanze e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni presenti. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni siffatte, sia di soli operai, sia miste di operai e padroni: ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene Noi ne abbiam parlato più volte, Ci piace di ritornarvi sopra, mostrandone l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento, e la loro azione.

Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire l’opera altrui alla sua. La Scrittura dice: "È meglio essere due insieme che uno: perché fa loro vantaggio la propria unione. Se l’uno cade è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi". (Eccl. IV, 9-12). E altrove: "Il fratello aiutato dal fratello, è simile a città fortificata" (Prov. XVIII, 19). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissimo divario per la differenza dei loro lini prossimi. Il fine della civile società è universale, come quello che riguarda il bene comune, a cui tutti i singoli i cittadini hanno nella debita proporzione diritto. Perciò è chiamata "pubblica, mettendosi per essa gli uomini in mutue comunicazioni a On di formare uno Stato" (San Thom., Contra impugn. Dei cultum et Relig., cap. II). Al contrario le altre società, che sorgono in seno a quella, si dicono e sono private, perché tran per iscopo l’utile privato e dei soli soci. "Società privata è quella che si forma per condurre affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di traffico" (Id.). Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro lo Stato, e ne sieno come tante parti, tuttavia in generale e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Imperocché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura; e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe a se stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo.

Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggano un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del civile consorzio, legittimamente si oppone ad esse lo Stato, o vietando che si formino, o sciogliendole formate: è necessario però procedere in questo con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano, se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (S. Thom. Summ. Theol., I-II, Quæst. XIII, a. 3).

E qui Ci corre il pensiero ai sodalizi e collegi e Ordini religiosi di tante maniere, a cui diede vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli: e con quanto vantaggio del genere umano lo dice, fino a memoria nostra, la storia. Tali società, considerate anche col solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la Religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi su quelle competenza alcuna, né trarne a sé l’amministrazione; ha invece il dovere di rispettarle, conservarle, e, dove occorra, difenderle. Ma quanto diversamente si è fatto, massime ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità; avendole e sottoposte alle leggi civili, e private di giuridica personalità, e spogliate dei loro beni. Nei quali beni aveva il diritto suo la Chiesa, il suo ognuno dei soci, ed il loro similmente quei che li avevano destinati per un dato fine, e quelli a cui vantaggio e sollievo erano stati destinati. Laonde non possiamo astenerci dal deplorare spogliamenti sì ingiusti e dannosi; tanto più che vediamo interdirsi società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; ed in realtà viene tale diritto largamente concesso ad uomini apertamente congiurati a danno della Religione e dello Stato.

Certe società diversissime, massime di operai, vanno oggi moltiplicandosi più che mai. Di molte tra queste non è qui luogo d’indagar l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico: i quali col monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi seco, a pagar caro il rifiuto.

In tale stato di cose, gli operai cristiani non hanno che due partiti: o iscriversi a società pericolose alla Religione, o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi francamente da sì ingiusta e intollerabile oppressione. Or come esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non voglia mettere a repentaglio il sommo bene dell’uomo?

Degnissimi d’encomio sono molti tra i Cattolici, che conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo a fine di migliorare onestamente la condizione degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri la memoria del dovere, e l’osservanza di precetti evangelici: precetti che ritraendo l’animo da ogni sorta di eccessi, lo riducono a moderazione, e tra la più grande diversità di persone e di cose mantengono nel civile consorzio l’armonia. A tal fine vediamo spesso adunarsi dei congressi, ove uomini egregi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori. Altri si ingegnano di stringere acconciamente in società le varie classi operaie; le aiutano di consiglio e di mezzi; procurano loro onesto e lucroso lavoro. Coraggio e patrocinio aggiungono i Vescovi; e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e l’altro Clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente Cattolici doviziosi, che fatta quasi causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese, per fondare e largamente diffondere associazioni, che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire onorato e tranquillo riposo.

I vantaggi, che tanti e sì volonterosi sforzi han recato al pubblico bene, son così noti che non occorre parlarne. Di qui pigliamo augurio a sperar bene dell’avvenire; purché tali società fioriscano sempre più, e siano saviamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini, non s’intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina: perché il movimento vitale nasce da intrinseco principio, e gli impulsi esterni lo soffocano.

Questa savia organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì ugual diritto di scegliere pei loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise; dovendosi piuttosto determinare dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e dall’uso, dalla qualità, dalla produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante doversi le associazioni degli operai ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più acconci e spediti al conseguimento del fine, il quale consiste in questo: che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale.

È evidente poi che conviene avere in mira, come scopo precipuo, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento vuolsi indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni tralignerebbero in altra natura, e non si vantaggerebbero molto da quelle, in cui della Religione non suoi tenersi conto alcuno. Del resto che gioverebbe all’operaio l’aver trovato nelle società di che viver bene, quando l’anima per mancanza d’alimento proprio corresse pericolo di perire? "Che giova all’uomo l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua?" (Matth. XVI, 26). Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, è il carattere che distingue il cristiano dal pagano: "I pagani cercano tutti queste cose... voi cercate prima di telato il regno di Dio e della sua giustizia, e gli altri beni vi saran dati per giunta" (Matth. VI, 32-33). Pigliando adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici.

Venga l’operaio animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e segnatamente all’osservanza dei giorni festivi. Impari a riverire ed amare la Chiesa, madre comune di tutti; come altresì ad obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i Sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.

Posto nella Religione il fondamento degli statuti sociali, è aperta la strada a regolare le mutue attinenze dei soci, per la tranquillità della loro convivenza e pel loro benessere economico. Gli uffizi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi alla unità. È sommamente importante che codesti uffizi vengano ben distribuiti e chiaramente determinati, acciocché niuno dei soci rimanga leso. Gli averi comuni della società sieno amministrati con integrità, sì che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e doveri dei padroni, armonizzino coi diritti e doveri degli operai. Quando poi o gli uni o gli altri si credano lesi, è desiderabile che trovino nel sodalizio uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, debbano sottomettersi. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai lavoro, e che v’abbiano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle subitanee e fortuite crisi dell’industria, ma altresì nei casi d’infermità, di vecchiaia, d’infortuni.

Quando tali statuti siano volontariamente abbracciati, sarà sufficientemente provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche eserciteranno non piccola influenza sul prospero andamento della stessa società civile. Dal passato possiamo non senza ragione prevedere l’avvenire. Imperocché le umane generazioni si succedono; ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza superna, la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione dell’umana famiglia.

Negli esordi della Chiesa recavasi a disonore dei cristiani il vivere che facevano la maggior parte di elemosine o di lavoro. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti in esempio, e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di costumi dileguossi ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero il luogo alla cristiana verità.

Si agita oggidì la questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la scioglieranno bene, se uniti in associazioni, e saggiamente diretti, si metteranno per quella medesima strada, che con tanto pro’ di loro stessi e della società tennero i loro antenati. Imperocché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai, quando li scorgano laboriosi, moderati, mettere l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi ad ogni altra cosa.

Seguirà di lì un altro vantaggio, porgere cioè speranza e facilita di ravvedimento a quegli operai, ai quali o manca la fede o la vita secondo la fede. Il più delle volte capiscono bene costoro di essere stati ingannati da false speranze, da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni sono trattati in modo molto inumano e quasi non valutati più di quello che producono lavorando; che nelle società in cui trovansi irretiti, invece di carità e di affetto fraterno, regnano intestine discordie, compagne indivisibili della povertà orgogliosa ed incredula. Affranti del corpo e dell’animo, quanti di essi vorrebbero scuotere il giogo di sì abbietta servitù; ma o per rispetto umano o per timore della miseria non osano. Ora a tutti costoro non è a dire che salutar giovamento potrebbero recare le associazioni cattoliche, se agevolando ad essi il cammino li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.

Ecco, Venerabili Fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Che ciascuno faccia la parte che gli conviene; e non s’indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più malagevole la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e savii provvedimenti; i capitalisti e i padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; facciano, nei limiti del giusto, quanto possono i proletari, che vi sono direttamente interessati; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla Religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi accorgimenti reputati più efficaci saranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancar mai e in modo nessuno l’opera sua, là quale tornerà tanto più efficace, quanto sarà più libera; e di questo devono massimamente persuadersi coloro che hanno per debito di provvedere al bene dei popoli.

Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i Ministri del Santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, Venerabili Fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; facciano ogni lor possa a salvezza dei popoli, e sopra tutto alimentino in sé e accendano negli altri, ne’ grandi e ne’ piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. Poiché la desiderata salvezza dov’essere principalmente frutto di una grande effusione di carità; intendiamo di quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo, e che pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Della qual virtù tratteggiò San Paolo i divini lineamenti con quelle parole: "La carità è longanime, è benigna; non cerca il fatto suo: tutto soffre, tutto sostiene" (I Cor. XIII, 4-7).

Auspice dei Celesti favori, e pegno della Nostra benevolenza, a ciascun di voi, Venerabili Fratelli, al vostro Clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, addì 15 Maggio 1891, anno XIV del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII.


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