Il fondamento di Pietro nell'incertezza attuale.
Riflessione pastorale

RENE' LAURANTIN (*)
(In Concilium, I/1973, rivista internazionale di teologia, © www.queriniana.it)


Chiarire il ruolo del successore di Pietro nell'ordine della certezza e della verità, è certamente un problema pastorale di grande attualità, nel momento in cui la massa del popolo cristiano patisce una certa insicurezza che moltiplica le avventure derivanti dallo scoraggiamento: contestazioni, abbandoni o irrigidimenti integristi. È importante, dunque, precisare il senso e la portata di questa garanzia che Cristo ha dato agli apostoli e, particolarmente, a Pietro. Ma è necessario, prima di tutto, superare certe ambiguità.

1/ STORIA DIALETTICA DELL'INFALLIBILITÀ

Quando si affronta questo problema, ci si presenta subito davanti una grossa parola: infallibilità. Questo termine scelto da Pio IX, con quel vigore di contestazione che gli era proprio nei confronti del suo secolo, per formulare la definizione del 1870, ebbe una straordinaria risonanza, e resta un bersaglio sia all'interno che all'esterno della chiesa romana. Fatto significativo: il libro in cui Hans Kung invita a sostituire con la nozione di indefettibilità quella di infallibilità prende il titolo proprio da quest'ultimo termine. Indefettibile non risveglia nessuna eco, ma infallibile, dopo un secolo dalla definizione del Vaticano I, nonostante l'estrema modestia della santa Sede per le celebrazioni del centenario, parla ancora, fa ancora choc. A livello di letteratura teologica, l'infallibilità è come quelle vecchie opere che fanno sempre il tutto esaurito nei teatri, ogni volta che vengono riprese. La ragione è che questa parola tocca temi e miti sempre vivi nel cuore dell'uomo: la verità, l'errore, la certezza, oggi la "garanzia contro gli imprevisti", quotidiana preoccupazione dei tecnici, benché tale 'garanzia' ponga diversi problemi. Dio è infallibile. Può l'uomo esserlo per partecipazione o perché ne è legato? può sfidare la storia che ha colpito di morte o di relatività tante certezze ridotte oggi allo stato di curiosità etnologiche o culturali? Infallibilità: questo termine duro si addice alla forza propria del dogma, poiché il dogma non ha solamente la funzione di definire e di precisare, ma anche quella d'interpellare, di tradurre il vigore affermativo proprio della testimonianza di Dio e l'impatto della sua follia trascendente con la sapienza degli uomini. Questo termine, dunque, non pecca per mancanza di forza espressiva, al contrario! Esso ha inaugurato una dialettica fin troppo feconda di stimolanti discussioni, di sorprese e di ribaltamenti imprevisti di posizioni.
Il fatto più paradossale è che la diffusione di questo termine s'è rivolta contro il progetto ambizioso di chi la patrocinava. La definizione infallibile dell'infallibilità ha ridotto sia il contenuto del concetto, sia le possibilità d'esercizio di questo carisma.
1. Sotto un certo punto di vista, questo potere è temibile. Appena dopo la definizione del 1870, Wilfrid Monod affermava: "E un obice così grosso che nessuno oserà sparare". Infatti, da allora, una sola definizione pontificia fu promulgata, quella dell'Assunzione nel 1950.
Pio XII non lo fece che dopo avere rinunciato a definire la mediazione universale di Maria, costantemente contrastata dalle obiezioni del Santo Ufficio. Ha dato all'Assunzione un contenuto minimo: Maria è stata assunta, corpo e anima, con Cristo risorto. Nulla di più: né la morte né l'immortalità, né il quando né il come, né la 'salita' al cielo, e nemmeno che si tratta formalmente d'un 'privilegio unico': quanto, invece, Pio IX aveva precisato per l'Immacolata Concezione nel 1854. In seguito, il Vaticano II ha deliberatamente rinunciato a dare qualche definizione, e Paolo VI ha cancellato di suo proprio pugno la clausola infallibili auctoritate che i redattori dell'Humanae vitae gli avevano proposto. L'infallibilità è come la tiara che pesa sulla testa di chi la porta.
2. Le discussioni conciliari per la definizione dell'infallibilità hanno ridotto la portata di questo termine ambizioso. Per promulgarlo nei limiti conformi alla rivelazione e farlo votare come tale in un'assemblea la cui legge era l'unanimità morale, bisognò restringerne la portata, tanto che viene in mente il proverbio inglese: è necessario, a volte, radersi la testa per non perdere i capelli. Poiché l'infallibilità non può sopportare nessuna smentita sotto pena di autodistruzione, si poteva definire infallibilmente l'infallibilità solamente se la si limitava e la si poneva su un terreno strettamente giuridico.
Al Vaticano I, i cavalli di battaglia dei leader della maggioranza erano soprattutto tre aggettivi. Per essi si trattava di definire una infallibilità assoluta, separala, personale, a tal punto che alcuni padri del concilio dicevano: "Ci fu un Concilio dei tre capitoli; il Vaticano I sarà il Concilio dei tre aggettivi".
La definizione finale ha nettamente escluso i due primi epiteti e ridotto l'ambiguità del terzo.


1/ L'infal1ibi1ità non è assoluta


L'infallibilità pontificia è relativizzala sotto molti aspetti dalla definizione del Vaticano I e dalle spiegazioni autorizzate del relatore ufficiale, mons. V. Gasser, che precisava il senso dei termini sottoposti al voto.
Questa infallibilità non è né 'politica' né 'scientifica' ma solo dottrinale. Secondo gli stessi termini della definizione, essa è limitata a degli atti:
- quando il papa 'parla ex cathedra', cioè quando esercita, in nome della sua suprema autorità apostolica, "la sua funzione di pastore e di dottore di tutti i cristiani", non in quanto persona privata o vescovo della diocesi di Roma;
- quando 'definisce' formalmente "che una dottrina deve essere accolta dalla Chiesa universale" (Costituzione Pastor aeternus, c. 4, definizione, DS 3074);
- e solamente quando questa dottrina riguarda "la fede e i costumi" (ibid.), ad esclusione di questioni profane e anche di opinioni particolari.
Le spiegazioni date al Concilio impongono, inoltre, le seguenti restrizioni:
- l'infallibilità non è onniscienza o chiaroveggenza miracolosa,
- non deriva dall'ispirazione, come la Scrittura, ma da un'assistenza di Dio che preserva dall'errore certi atti solenni. Le definizioni infallibili sono la parola del papa, e non la parola di Dio,
- l'assistenza ha "un carattere completamente negativo" poiché preserva il papa "dall'insegnare in modo definitivamente obbligatorio qualche cosa che sia contraria alla verità divina",
- l'infallibilità pontificia non è magica, "il papa è tenuto ad usare i mezzi appropriati per cercare debitamente la verità e per esprimerla convenientemente", dichiarava mons. Gasser, il relatore della Costituzione conciliare (Mansi 52, 1213; c!. DS 3069),
- l'infallibilità pontificia non è arbitraria, è completamente sottoposta alla rivelazione di cui il papa è solamente l'interprete. Deve conformarvisi e non può proporre né ammettere una nuova rivelazione pubblica (Pastor aeternus, cap. 4, DS 3070).
Inoltre, il progresso delle scienze umane ha dimostrato, da un secolo a questa parte, tutte le relatività del linguaggio e della cultura.


2/ L'infallibilità non è separata


Benché l'assistenza di Dio venga senza mediazioni e non possa essere giuridicamente controllata da altre istanze umane, l'infallibilità pontificia non può essere isolata dal resto della chiesa ne posta al di fuori: "Noi non separiamo il pontefice romano dal suo stretto legame con la Chiesa", affermava mons. Gasser (Mansi, 52, 1213b).
Secondo la definizione, il papa è infallibile solamente nell'esercizio della sua "funzione pastorale e dottorale", dunque nella chiesa e per la chiesa.
L'infallibilità del papa non solo non è separata ma non è nemmeno esclusiva. Mons. Gasser ha respinto l'emendamento del vescovo d'Urgel secondo il quale non ci sarebbe nella chiesa altra infallibilità all'infuori di quella che è comunicata dal papa alla chiesa (Mansi 52, 1222 c).
D'altra parte, la formula di definizione è molto chiara su questo punto: l'infallibilità del pontefice romano è l'esercizio da parte del papa di questa infallibilità che il divino Redentore ha voluto dare alla sua Chiesa perché essa definisse la dottrina sulla fede e i costumi (DS 3064).
Quello che il concilio Vaticano I ha definito è la possibilità per il papa d'esercitare, senza controllo giuridico, questa infallibilità fondamentale che tutti riconoscono senza discussione all'insieme dei vescovi e all'insieme della chiesa. Egli ne è l'organo supremo, e l'organo non può essere separato dall'organismo.


3/ L'infallibilità è funzionale


Questa infallibilità è personale?
Tale espressione equivoca è stata criticata al concilio Vaticano I. Il papa beneficia dell'assistenza infallibile non a titolo personale, ma funzionale. Personalmente si può sbagliare come qualsiasi altra persona.
Se il terzo epiteto non può essere escluso come i precedenti, è perché il termine 'infallibile' qualifica non tanto una proposizione quanto il giudizio emesso e, in questo senso, lo spirito che lo proferisce. L'esercizio della funzione d'infallibilità si riferisce, dunque, a una persona e appartiene a questa persona nella misura in cui essa esercita questa funzione. Se non bisogna separare il papa dalla chiesa, non bisogna nemmeno separare da lui la funzione d'infallibilità ch'egli esercita. Sarebbe altrimenti un altro artificio.
Tuttavia questo epiteto suscitò abbastanza riserve cosicché il Concilio rinunciò a servirsene. Più ancora, un intervento del card. Guidi fece cambiare il primitivo titolo della Costituzione dogmatica (capitolo 4) (la: De romani pontificis infallibilitate (Mansi 52,6) in: De romani pontificis infallibili magisterio (DS 3065, e la spiegazione di Gasser in Mansi 52, 1218 D. 1219 A).
L'ideologia degli 'infallibilisti' è stata, dunque, svuotata nella definizione stessa dell'infallibilità. Non ne resta più nulla, se non il ex sese, la cui portata puramente giuridica e stata ricondotta nei suoi stretti limiti dal Vaticano II (G. DEJAJFVE., Ex sese, in Salesianum 24, 1962, 283-295).
Per uscire da questo ginepraio, è necessario precisare la forza e la portata di questa ideologia.

 
II/ LA RIVELAZIONE E L'IDEOLOGIAPROSPETTIVA STORICA


Il problema 'rivelazione e ideologia' non deve essere considerato in maniera semplicistica, come se si trattasse di spogliare l'ideologia per ritrovare la rivelazione.
Da una parte, l'ideologia ha una funzione storica necessaria per dare corpo alla missione voluta da Cristo. 'Ideologia' e 'mito' non possono essere puramente e semplicemente svuotati. Si tratta piuttosto d'individuare i limiti e la portata di questi umili mezzi di ogni conoscenza umana.
Dall'altra parte, sarebbe un'illusione opporre la durezza delle ideologie alla dolcezza suggestiva della rivelazione. Le parole con le quali Cristo promette garanzia alla sua chiesa e a Pietro sono parole dure e provocanti: "Chi ascolta voi ascolta me" (Lc 10,16, ecc.). "Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa" (Mt. 16,18), ecc.
Quello che importa nel nostro caso è l'ideologia ispiratrice dei conflitti dialettici e passionali che bisogna superare.


a/ Il medioevo


Ai tempi di Gregorio VII emerse come ideologia d'un potere. In un tempo in cui l'intrusione dei poteri secolari corrompeva tutta la chiesa, asservendola al potere di questo mondo, il papato prese coscienza della sua responsabilità, contrapponendosi, solitario, alle potenze di questo mondo, in nome di Dio. S'irrigidì, si fortificò e s'armò di potere come il conflitto richiedeva, ponendosi al di sopra dello stesso imperatore. Ne sono significativa testimonianza i dictatus papae, 27 principi brevi e lapidari, formulati da Gregorio VII nel 1075, di cui elenchiamo i più significativi:
1. La Chiesa romana è stata fondata solamente dal Signore.
2. Solo il Pontefice romano merita d'essere detto universale.
3. Solo egli può deporre o assolvere i vescovi.
4. Il suo legato, in un Concilio, comanda su tutti i vescovi, anche se è di rango inferiore, e pronuncia, solo lui, la sentenza di deposizione...
7. Solamente il Papa può stabilire nuove leggi.
8. Egli solo può usare le insegne imperiali.
9. Il papa è il solo uomo di cui tutti i principi baciano i piedi.
11. Il suo nome è unico al mondo.
12. A lui è permesso deporre gli imperatori.
18. La sua sentenza non può essere riformata da nessuno ed egli solo può riformare quella di tutti.
19. Non deve essere giudicato da nessuno.
22. La Chiesa romana non ha mai sbagliato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai sbagliare.
23. Il Pontefice romano, se è stato ordinato canonicamente, diventa senza ombra di dubbio santo per i meriti di san Pietro.

Questa opzione ideologica e politica aveva il suo posto in una civiltà in cui ogni potere era sacro, in cui tutto era gerarchico, in cui non esisteva assolutamente altra alternativa, per il successore di Pietro, che quella d'essere dominato o di dominare, qualunque possa essere l'inconveniente di far passare il ministero di Pietro come potere di questo mondo.
Ciò che qui ci interessa non è l'eredità dell'impero che, in questo modo, il papa (summus pontifex) s'accollava, ma la portata gerarchica e teocratica dell'ideologia che si sviluppò.
Il padre Strotmann, per indicarne il processo, parla di 'cefalizzazione' formula che s'ispira a Innocenzo III, giocando così sull'analogia fra il termine ebraico kefas, pietra, e quello greco kefalé, testa. "Benché in una lingua kefas si traduca pietra e nell'altra ciò significhi testa... La testa possiede dei sensi, mentre gli altri membri non ricevono che una parte di questa pienezza ecc.".
Si prese come punto di partenza questa metafora della testa che la Scrittura applica solo a Cristo e mai agli altri ministeri, per attribuire a Pietro e ai suoi successori tutte le proprietà della testa in un corpo. In questo modo si è fatto del sommo pontefice il principio della chiesa, nel senso organico del futuro trattato De Christo capite. Per i papi, Roma è caput, nel senso d'una sorgente da cui tutto scaturisce. Caput acquista significato di fonte.
Si incentrano e si concentrano nel papa, vertice della gerarchia, tutti i valori:
da una parte i poteri e le funzioni del Concilio e del popolo, che furono progressivamente considerati come il fatto esclusivo del papa;
- dall'altra, il potere e l'infallibilità di Dio.
Il papa fu identificato col Cristo. Lo si designò sempre meno come successore di Pietro e sempre di più come successore e vicario di Cristo che Erveo di Nedellec (+1323) considera come il primo papa (Y. Congar, Ministerès, Cerf 1971, 113). Egli diventa 'il dolce Cristo in terra' secondo l'espressione di santa Caterina da Siena.
Fu identificato con Dio stesso, almeno a parole. Victor Hugo traduce qualche cosa di questo processo di sacralizzazione e di divinizzazione quando parla di "queste due metà di Dio, il papa e l'imperatore". Ma, secondo i testi del medio evo, il papa è "il Dio dell'imperatore" (Deus imperatoris, ibid., 278 e 287).
Questa concentrazione nella persona di Pietro di tutta la pienezza di Dio e della chiesa, come potere e autorità, era analoga a quella che fu operata nella persona di Maria sul piano mistico.


b/ Dopo il Vaticano I


Per dare un insegnamento senza sembrare, Massimo IV citò, al concilio Vaticano II, il 5 dicembre 1962, il testo seguente: "Il papa è Dio sulla terra... Gesù ha messo il papa al di sopra dei profeti, del precursore... degli angeli... Gesù ha posto il papa sullo stesso piano di Dio" (L'ÉgIise melkite au Concile, Beyrouth 1967, 75-76).
Massimo IV aveva avuto la preoccupazione di non dire donde era stata tratta la citazione, in modo che, nella curia stessa, ci si chiese in quale paccottiglia il patriarca avesse potuto trovare un simile testo. La paternità risaliva nientemeno che a un santo canonizzato, Giovanni Bosco (Meditazioni, vol. I, 2° ed., 89-90). E questo testo non era stato un ostacolo al processo di canonizzazione.
Ma queste esagerazioni sono da inquadrarsi in un'altra tappa, quella in cui l'ideologia di potere sviluppata dai canonisti del XIV secolo divenne popolare. Come si arrivò a ciò?
La concentrazione unilaterale dei valori e dei poteri nella persona del papa, ostacolata dal grande scisma e dalla vita equivoca di certi papi del Rinascimento, ricominciò senza opposizioni quando il papato superò le sue crisi interne riprendendo costumi e integrità esemplari, e quando si scrollò di dosso il fardello temporale che comprometteva la sua influenza spirituale. Ormai il principale ostacolo alle esagerazioni e alle ideologie artificiose era la stessa definizione del Vaticano I.
Ma l'ideologia colpita a morte trovò un modo di sopravvivere. I promotori dell'infallibilità, galvanizzati dal loro apparente trionfo, fecero ricorso a un metodo corrente: essi partirono dal concetto di infallibilità preso in sé, per tirarne tutte le conseguenze possibili, come il medioevo aveva fatto con l'immagine della testa, ritenuta acquisita e tradizionale. Si operò una 'infallibilizzazione' come era stata fatta la 'cefalizzazione'.
Si sviluppò così la tesi secondo la quale il papa è infallibile in tutti gli atti del suo magistero ordinario. Benché essa abbia sempre suscitato le riserve dei dotti, questa dottrina fu fatta propria, in buona parte, dagli ambienti ufficiali e dalla massa del popolo cristiano, dove ancora oggi si pensa normalmente che 'le encicliche sono infallibili'. Questa falsa concezione è condivisa dai cristiani separati, nella misura in cui non sono stati illuminati dal dialogo ecumenico.
Questi sviluppi, dopo il Vaticano I, si realizzarono seguendo un duplice processo: logico e mistico.
A livello logico, si sfruttò lo schema del solo e del tutto, il papa solo ha tutto il potere nella chiesa. Si arrivò a vedere in lui il solo principio d'ogni giurisdizione, in quanto ogni potere esiste solo all'interno del suo e ne è trasmesso. Queste novità tendevano a imporsi secondo lo schema seguente: ciò che il papa ha fatto a volte, lo può fare sempre, ed è opportuno che lo faccia poiché la chiesa sarà tanto più pura quanto più tutto scaturirà da questa fonte pura: "la Santità di Nostro Signore", come si chiamava allora il papa. Questo processo e altri sono messi particolareggiatamente in evidenza da G. Thils nel suo libro, La primauté pontificale, Duculot, Gembloux 1969, 188-198.
Su questa stessa linea, alcuni teologi sostennero che l'infallibilità del concilio è conferita solo dal papa, come una partecipazione alla pienezza del suo potere personale.
Quanto ai miti e ai riti di questa ideologia, essi si moltiplicarono sotto Pio XII: i pellegrinaggi a Roma avevano sempre meno lo scopo di visitare le tombe degli apostoli e sempre di più quello di 'vedere il papa'. La corte pontificia invitava allora i pellegrini a intensificare le ovazioni, gli applausi, le acclamazioni al Sovrano Pontefice. Quando passava sulla sedia, si andava a gara a toccarlo o a fargli toccare qualche oggetto. Il papa si prestava perfino al rito dello scambio degli zucchetti che alcune ditte cominciarono a fabbricare in serie. I pellegrini ne tendevano uno a Pio XII quando passava sulla sedia gestatoria, e il papa dava loro in cambio quello che portava in testa: preziosa reliquia del Sovrano Pontefice. L'Osservatore Romano non lo nominava mai senza far precedere il suo nome dall'epiteto illuminato o da qualche altro, ecc. Riti, questi, che Giovanni XXIII soppresse all'inizio del suo pontificato.
Questa sottolineatura d'un segno semplice e personalizzato passò più facilmente nelle masse che non le sottili distinzioni dei teologi, dando l'impressione rassicurante di trovare vicina e accessibile, in maniera tangibile e sicura, l'immagine vivente di Cristo invisibile. Essa nutriva un atteggiamento d'obbedienza fondata sul rispetto e l'amore di Dio, mediato dal capo della chiesa.
Ma questa concezione totalitaria del magistero e del primato aveva i suoi inconvenienti.
Fare del magistero papale la regola prossima e universale della fede, secondo l'articolo d'uno dei teologi ufficiali d'allora: Il magistero vivo di SS. Pio XII, norma prossima e universale di verità, equivaleva a ridurre la Scrittura allo stato di norma lontana e incompleta, come aveva allora coraggiosamente fatto osservare il padre G. de Broglie (Prefazione a L. Bouyer, Du protestantisme à l'Eglise, Cerf, Parigi 1951). Significava pure ridurre i teologi a fare la eco delle encicliche, secondo le direttive dell'Humani generis.
D'altra parte, questo totalitarismo pomposo trascinava con sé, se si guardava al potere, una megalomania in disaccordo con l'umiltà evangelica, e riduceva il popolo alla passività irresponsabile che dava corpo alla massima di Brunetière: "Volete sapere quello che io credo? Andatelo a domandare a Roma". Secondo questa massima, la fede sussisteva nella Santa Sede, ma nei cristiani era riferimento estrinseco, adesione cieca e incondizionata a ciò che credeva Pietro. E perdeva d'importanza ciò che era interiormente creduto, assunto, vissuto dal credente. Ci si adagiava su questa sicurezza, a detrimento della vitalità della fede.


c/ Il Valicano II


Ciò che ora ci interessa è lo sbocco positivo della revisione attuale, il Vaticano II. Moltissimi padri vi contestarono apertamente lo schema 'piramidale' della chiesa, per il quale 'il papa è tutto e il popolo nulla'. Il Vaticano II ridonò il suo significato alla comunione gerarchica. Mentre i leader del Vaticano I insistevano sull'affermazione d'una dipendenza unilaterale e assoluta nei confronti del papa, il Vaticano II ricorda che non è il popolo per il papa, ma il papa per il popolo, di cui è servitore. Questa rivoluzione copernicana rimetteva nel suo giusto valore tanto il ruolo di Cristo nello Spirito che la responsabilità dei cristiani nella chiesa, superando contemporaneamente le concezioni assolutistiche, tuzioristiche, ipergiuridiche e fissistiche del magistero pontificio.
E questa una rivoluzione nel senso etimologico di rovesciamento che distrugge il passato superato? No, la verità non progredisce per eliminazione e contraddizione.
Le vecchie formule (in primo luogo quelle della definizione del 1870, compreso il ex sese spiegato dal Vaticano II) conservano il loro valore sul piano giuridico dove si collocano. A questo livello, il popolo dipende dall'autorità del papa, assistito da Cristo. Ma, dal punto di vista organico, è il papa che è al servizio del popolo di Dio e ne è finalizzato come un organo per tutto il corpo per esprimere la fede autentica. Il Vaticano II completa ciò che il Vaticano I ha detto sulla dipendenza giuridica, manifestando l'interdipendenza e la solidarietà organica essenziale alla vitalità della chiesa.
In questa prospettiva, cerchiamo di presentare la funzione del successore di Pietro come può essere insegnata, rappresentata, vissuta, nel popolo di Dio.


III/ LA FUNZIONE DEL SUCCESSORE DI PIETRO
A SERVIZIO DELL'UNITÀ DELLA FEDE


1/ Una funzione in e per la chiesa


Innanzitutto la funzione di Pietro e dei suoi successori si colloca all'interno della chiesa, e non al di fuori o al di sopra. È una funzione organica in un corpo vivo.
Infatti, è prima di tutto alla chiesa che Cristo ha promesso l'indefettibilità (Mt 28,20; Gv 14,26; 16,13), ed è in riferimento alla chiesa, contro la quale "le potenze dell'inferno non prevarranno", che si collocano le promesse fatte a Pietro (Mt 16,18; cf. Lc 22,32; Gv 21,15-17) o al collegio apostolico (Costituzione dogmatica su la chiesa Lumen gentium).
La trasmissione della fede non è la funzione esclusiva del papa, ma appartiene a tutta la chiesa, come ha ricordato il Vaticano II (Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, Dei verbum).
La funzione dei Dodici (e dei ministri che li continuano) è un servizio visibile, destinato a conservare l'autenticità dei mezzi di salvezza, una funzione di discernimento autorizzato, in nome dello stesso Cristo, per autenticare, definire la fede e i comportamenti evangelici contro le vicissitudini del tempo e le deviazioni del peccato.
La funzione del successore di Pietro all'interno del collegio è il servizio visibile dell'unità, per l'esercizio d'una autorità che si opponga ai fermenti dell'errore e garantisca, in ultima istanza, questo giudizio e questo discernimento autentici. E' a questo titolo che è assistito per agire a livello universale.
Pertanto, egli è giudice, davanti a Dio, dei mezzi da adoperare per espletare la sua funzione. Durante i primi secoli, questa funzione d'unità consistette nell'arbitrare i conflitti, nel prendere misure di salute pubblica in situazioni d'emergenza, diventando così un esempio. Ma quello che le chiese riconoscevano come esemplare non era la persona del vescovo di Roma, bensì la fede di questa chiesa, fondata sulla confessione di Pietro e di Paolo.
Se la funzione d'unità ha preso attualmente una forma amministrativa che irretisce la chiesa in uffici, in prescrizioni, in regolamenti, nel controllo continuo su ogni cosa, bisogna dire che questa è una forma possibile, ma recente e particolare. Essa evita errori e assicura un certo tipo d'omogeneità, ma ha il difetto di puntare su delle strutture, quando Cristo ha puntato sullo Spirito e sugli uomini, pur sapendo "che cosa c'è nell'uomo" (Gv 2,25). Un tale sistema serve di più a garantire l'autenticità d'un deposito che quella d'un movimento; la stabilità dei quadri, più che la fedeltà all'evangelo; la conservazione di patrimoni materiali, più che l'esigenza interiore e lo slancio missionario.


2/ Un servizio in e per la fede


La funzione di Pietro non ha senso che in e per la fede, in e per la carità, e s'è radicata in una duplice confessione:
confessione di fede a Cesarea (Mt 16,16), confessione di carità a Genezareth (Gv 21,15).
Se dunque la funzione di Pietro comporta un aspetto giuridico, bisogna questo aspetto metterlo in rapporto con l'essenziale. Non si tratta di un assegno in bianco dato a un procuratore, secondo le formule giuridiche di questo mondo. Cristo contrappone vigorosamente il 'servizio' degli apostoli alla dominazione e all'autorità (exusia) dei re.
Il papa non eredita un'autorità bell'e pronta, ma una missione organica da esercitare nella fede e nella carità, e anche nell'umile condizione di peccatore. Per questo Cristo ha severamente rimproverato Pietro non appena l'aveva stabilito nel suo ruolo di fondamento (Mt 16,18), dicendogli: "Lontano da me, Satana, tu mi sei di scandalo, perché i tuoi pensieri non sono quelli di Dio, ma quelli degli uomini" (Mt 16,23). Cristo non approva tutti i pensieri umani di Pietro e dei suoi successori. Così la funzione di "confermare i fratelli" è data a Pietro in riferimento preciso alla sua caduta precedente: "Tu stesso, quando sarai convertito (pistrépsas), conferma i tuoi fratelli"; e l'invito alla triplice confessione d'amore: "mi ami tu più che costoro?" (Gv 21, 15-17), si presenta come una riparazione del triplice rinnegamento.


3/ Un servizio subordinato alla rivelazione


La funzione di Pietro è completamente relativa alla rivelazione di Cristo. Il papa vi è completamente sottoposto, come ogni altro cristiano; nello stesso esercizio della sua funzione, non è il padrone ma il servitore. Non può aggiungere nulla a questa rivelazione. Non sarebbe più nel suo ruolo se, per un caso impossibile, gli venisse in mente di fare una nuova rivelazione che, allora, cadrebbe sotto la parola di s. Paolo ai Galati in 1,8: "Se un angelo del cielo vi annunciasse un altro evangelo, che sia anatema".
E questo il limite inferiore cui dà corpo la classica ipotesi del papa eretico agli antipodi del limite superiore che sono le definizioni infallibili.
Il papa, sottoposto ai dati oggettivi della rivelazione, trasmessi nella Scrittura e nella stessa vita della chiesa indefettibile, è soggettivamente sottomesso alla luce dello Spirito. Non è infallibile che come testimone del Dio infallibile, nella misura in cui ha il mandato di esserne il testimone.


4/ Un servizio che va molto al di là delle forme infallibili


Bisogna ora aggiungere una domanda fondamentale: in quale senso la funzione di Pietro concerne la verità? La teologia decadente di questi ultimi secoli, ispirata d'altra parte da una lodevole preoccupazione di distinzione e di chiarezza, tendeva a dissociare sia la verità dei dogmi, considerati come formule sussistenti in se stesse, sia i comportamenti pratici, considerati come semplici conseguenze o applicazioni di questa verità. Eravamo così portati a considerare le norme giuridiche come principi di vita e d'azione mentre non sono che la loro regolamentazione.
Lo schema che va unilateralmente dalla verità all'azione, è il contrario di quanto si trova in Gv 3,20: "Colui che fa la verità viene alla luce". Oggi questo secondo schema è ritornato in onore. In realtà, la rivelazione di Gesù non si presenta come un corpo di dottrina, ma come la manifestazione e il dono dell'agàpe: il Dio-Amore e l'Amore ch'egli comunica agli uomini. D'altra parte egli lo rivela nella sua persona e nei suoi atti più profondamente che nelle sue parole.
Certo, l'amore implica una conoscenza, traducibile in termini di dottrina, ma questa dottrina di salvezza s'è sviluppata posteriormente e non avrebbe senso al dl fuori dell'agàpe che definisce l'essenza stessa di Dio e della salvezza.
Non si tratta d'opporre la vita alla verità, poiché sono correlative e non si potrebbe rapportarle l'una all'altra come un epifenomeno. L'ortoprassi ha più importanza dell'ortodossia, secondo la parabola dei due figli (Mt. 21,28-32). O, meglio, non esiste ortodossia al di fuori d'una ortoprassi, poiché una prassi errata smentisce la parola e l'accusa di menzogna.
La missione del successore di Pietro non si riduce a garantire delle verità speculative, ma si estende a questo insieme che sono indistintamente amore e conoscenza. L'autenticità dell'agire e del fare non è meno importante di quella del conoscere, e nemmeno ne può essere separata.
Questa funzione che il papa esercita a livello universale e che ha, come compito specifico, la conservazione dell'unità, non consiste solamente nel pronunciare definizioni infallibili, ma nell'orientare, dirigere, correggere, confermare e consolidare la fede. Si tratta, attraverso tutti questi mezzi, di conservare, verso e contro tutto, l'autenticità della trasmissione che è movimento; è necessario, dunque, garantire l'unità nel movimento, nel pluralismo qualunque possa essere, non incoerenza ma convergenza, non contraddizione ma armonia, non disintegrazione ma complementarietà.
Fu pertanto, nefasta la preoccupazione di sicurezza che privilegiò le formule astratte e si polarizzò soprattutto sulle definizioni infallibili, che sono solamente un rarissimo e particolarissimo aspetto del carisma di Pietro.
L'infallibilità pontificia non è stata esercitata che due volte
, per la definizione di due privilegi della Vergine Maria: l'Immacolata Concezione nel 1854 e l'Assunzione nel 1950.
Si tratta di dottrine periferiche e questi atti, di cui la letteratura del tempo aveva considerevolmente maggiorato la portata lasciando pensare che sarebbero state fonti vive per una nuova tappa della chiesa, appaiono retrospettivamente come atti minori. Nulla prova che abbiano stimolato una rinascita, anche nel campo della devozione mariana. Al contrario, la definizione dell'Assunzione fu seguita da una specie di indifferenza nei confronti di questo dogma e di questa festa: "Ora, ciò non interessa più nessuno" diceva un editore subito dopo la proclamazione del dogma. E di fatto le pubblicazioni che s'erano, fino a quel momento, moltiplicate su quel soggetto, cessarono di colpo. L'importanza delle definizioni pontificie infallibili nella vita della chiesa è, dunque, molto ristretta. Sarebbe falso maggiorarle, per non correre il rischio che siano come l'albero che ci impedisce di vedere la foresta.


5/ Un servizio che delimita ma non crea la certezza della fede


È necessario, infine, porre la funzione di Pietro in rapporto alla certezza di fede. Tale punto è doppiamente importante per il nostro tema perché Pietro è stato stabilito da Cristo come un fondamento (Mt 16,18) e una garanzia tanto di solidità (Lc 22,23) che di direzione o di leadership pastorale (Gv 21,15-18), e perché oggi la fermezza dei fedeli nella fede soffre una crisi.
Qui ancora, la funzione di Pietro deve essere posta all'umile livello dove acquista il suo vero valore.
È necessario ricordare, innanzitutto, la dottrina classica: la certezza di fede riposa prima di tutto e immediatamente sulla testimonianza di Dio in ogni credente. Questa testimonianza non ha il carattere d'una rivelazione oggettiva. Si tratta d'una luce che illumina, dall'interno, la certezza dell'insegnamento oggettivamente trasmesso attraverso parole e segni. Se questa testimonianza crea una certezza fondamentale, l'oscurità inerente alla fede e alla condizione dell'uomo peccatore dà luogo a molteplici confusioni fra la realtà illuminata dalla luce di Dio e ogni genere di miraggi. È per rimediare a queste vicissitudini umane che è stata stabilita la funzione visibile degli apostoli e di Pietro. Ma l'infallibilità non ha per funzione di creare la certezza di fede che riposa immediatamente su Dio stesso. Il suo ruolo specifico e più particolare è di proteggere, sostenere, discernere, circoscrivere, definire e autenticare le certezze di fede, e di escludere gli errori che vi si mescolano.
La luce di fede non è puramente individuale. Non è un filo diretto di Dio con delle monadi chiuse. È una luce data nella carità, per la carità, una luce comunitaria, concessa nell'interazione comunitaria. Questa luce è data organicamente, in questa comunità che è il corpo di Cristo. Il magistero ne è un organo specializzato. Ciò che caratterizza questo servizio non sono tanto l'informazione e la competenza scientifica (che specifica il ruolo dei teologi), né l'intensità della luce (che è il fatto dei Santi). Il magistero (che può beneficiare di queste qualità) ha per funzione specifica il giudizio e l'autenticazione. Nell'esercizio della sua funzione, partecipa di questa stessa luce infallibile di Dio.
Bisogna, in questo modo, situare correttamente l'assoluto e il relativo. E ciò è tanto più necessario per il fatto che, dopo avere assolutizzato l'infallibilità per secoli, come abbiamo visto, si è oggi caduti in relativizzazioni radicali e generalizzate che lasciano il credente senza difese, disorientato.
Per ritrovare il senso dell'assoluto, bisogna porlo umilmente là dove si trova. Ci sono, infatti, dei falsi assoluti, che sono la morte di Dio, delle false trascendenze che ne sono la meschina materializzazione o qualche idolo fallico.
Non abbiamo più, oggi, l'illusione che l'assoluto della verità possa strettamente identificarsi con una formula adeguata, fosse anche infallibile. Tommaso d'Aquino non aveva quest'illusione, poiché sapeva che ogni formula non è che un segno, un mezzo relativo, pertanto, un relé per l'intenzionalità della nostra conoscenza del Dio salvatore. È quanto egli esprime con quest'affermazione ancora oggi così illuminante: "L'atto di fede non si esaurisce nell'enunciato, ma nella realtà".
La realtà assoluta, che è il termine, è il mistero di Cristo, del Dio-salvatore, mistero che "supera ogni conoscenza" (Ef 3,20, Fil 4,7 ecc.).
La realtà è anche il termine della storia poiché la rivelazione ha per oggetto una speranza. Cristo, così, è la via prima di essere la verità (Gv 14,6).
In altre parole, duplice è la relatività degli enunciati di fede:
a) Sono relativi al mistero di Dio che non può essere racchiuso esaustivamente in nessuna formula. Pertanto attraverso le formule mancanti e imperfette a diversi livelli è proprio l'essenziale che ci è dato di raggiungere. Attraverso una formula o un'immagine accidentalmente mediocre, un credente fedele può raggiungere, grazie alla luce di Dio, questa realtà nella sua interezza, mentre delle eccellenti formule restano oscure, opache e sterili nello spirito di credenti mediocri o d'uomini estranei alla fede, così come l'incompetente non comprende nulla in un'ottima lastra radiografica, mentre un medico esperto sa leggere molte cose in una lastra mal riuscita. Tommaso d'Aquino, riconoscendo l'umiltà delle formule, permette d'individuare il loro valore come mezzo per raggiungere l'assoluto;
b) Le formule di fede sono relative in rapporto all'avvenire. Infatti, la verità rivelata è la verità della salvezza, dunque d'una promessa, d'un disegno incompiuto, che deve realizzarsi mediante una trasformazione vitale e un'attività in ogni credente e in tutta la chiesa. In questo senso, la verità assoluta è escatologica. "Essa si trova al termine", diceva la teologia classica ancora prima di Moltmann.
Coloro che hanno maggiorato la funzione di Pietro l'hanno compromessa agli occhi dei cristiani, cattolici e no.
E' un fatto significativo che i polemisti protestanti estremisti abbiano preferibilmente colto tesi cattoliche estremiste sull'infallibilità. Essi vi trovavano, con un compiacimento di segno contrario, la caricatura, l'idolo che si poteva facilmente distruggere. L'umile modo, invece, con il quale Giovanni XXIII ha condotto, durante il concilio, certe mediazioni per suscitare il dialogo fra tendenze dottrinali opposte (sulla rivelazione, ad esempio, nel dicembre del 1962), ha manifestato agli osservatori non-cattolici presenti al concilio il senso e l'utilità della funzione del successore di Pietro. E' necessario, dunque, essere coscienti dell'umile statuto di questa funzione che realizza, fra gli altri, un modo di presenza del Dio infallibile nella sua chiesa e nei credenti. Questa funzione, che ha un senso solamente nella fede e nella carità, deve essere accolta nella fede e nella carità, e, conseguentemente, nell'umiltà.

(traduzione dal francese di LUISITO BIANCHI)


(*) RENE' LAURENTIN
E nato il 19 ottobre 1917 a Tours (Francia) ed è stato ordinato nel 1946. Ha compiuto i suoi studi nell'Institut Catholique di Parigi e alla Sorbona (Parigi) conseguendo la laurea in lettere con menzione d'onore e in teologia cum singolari prorsus laude. E professore di teologia nell'Universita' cattolica d'Angers (Francia) e tiene corsi in diverse Università straniere: nel Canada (Montreal, Quebec), negli USA (Dayton) e nell'America latina. Ha partecipato al concilio Vaticano II, prima come membro della Commissione teologica preparatoria e poi come esperto. E incaricato della cronaca religiosa nel quotidiano di Parigi Le Figaro ed è vice-presidente della società francese di Studi mariani. Esercita il ministero pastorale nei dintorni di Parigi.
Tra le sue pubblicazioni in italiano ricordiamo: La Madonna. Questioni di teologia, Morcelliana, Brescia 1964; Bilancio del Concilio, J.P.L., Milano 1968; presso le Edizioni Paoline (Roma):
Dio, dopo la morte di Dio; Flashes sull'America latina; Non sappiamo più cosa significa amare; Speranza Cristiana immensa riserva dell'uomo; La Vergine Maria; Iniziazione alla vera Teresa di Lisieux,
Queriniana, Brescia 1973. Collabora con La Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques. E' membro del Comitato internazionale di direzione della rivista Concilium e membro del Comitato di redazione della sezione 'Dogma' della medesima rivista.


Se per Chiesa Romana voi intendete la sua Testa o Pontefice,
è fuori di dubbio il fatto che egli possa errare, persino in materia di fede.
Egli erra quando insegna l'eresia a proprio giudizio o per decreto.
In verità molti pontefici romani erano eretici. L'ultimo di essi fu papa Giovanni XXII
.
(
Papa Adriano VI, A.D.1523)


Ikthys