La visione incompleta del Vaticano II
Ekklesìa:
gerarchia o popolo di Dio?(LEONARDO BOFF (*) , Petròpolis, Rio de Janeiro, Brasile)
Le ricerche storico-teologiche effettuate molto accuratamente e in dettaglio hanno
inequivocabilmente dimostrato che:
Nel Vaticano II, in particolare nella Lumen gentium (LG), si
trovano a confronto due paradigmi ecclesiologici, quello della chiesa-società e quello
della chiesa-comunità; c'è indubbiamente la presenza di una ecclesiologia giuridica a
fianco di una ecclesiologia comunionale.
- Tale confronto rappresenta due tradizioni storiche che hanno diviso i padri conciliari e
continuano a dividere menti e cuori della chiesa fino ai nostri giorni, senza alcuna
feconda prospettiva di sintesi.
- Il primo paradigma, chiesa-comunità, ha predominato nel primo millennio; il secondo,
chiesa-società, è prevalso nel secondo millennio.
- I testi della fase preparatoria e della prima sessione del Vaticano II furono
caratterizzati dall'affermazione della chiesa-società.
- Nella seconda sessione conciliare è emerso il paradigma della chiesa-comunità per
prevalere poi al momento della revisione di tutto lo schema della Lumen gentium.
- Nella terza e ultima sessione, tuttavia, i fautori di entrambi i modelli si sono
riorganizzati. Si è così avuto un forte scontro tra i due paradigmi. Non essendo
arrivati a comune accordo, si è trovata una soluzione tipicamente cattolica: il
mantenimento di tutt'e due, in forma però di semplice giustapposizione. Si è fatto, come
vedremo, un fragile tentativo di articolare insieme modello societario e modello
comunionale usando il termine communio hierarchica.
- Però nel corso delle discussioni si ebbero due riaggiustamenti significativi che,
accolti nel testo definitivo della Lumen gentium, potrebbero indicare la via di una
possibile sintesi futura. Si è posto in primo luogo, come capitolo iniziale, una
riflessione sulla chiesa come sacramento-mistero; si tratta di una visione eminentemente
teologica, nel quadro di una visione trinitaria, storico-salvifica e di regno di Dio; tale
visione intende superare in partenza le tensioni dei modelli storici di realizzazione
della chiesa e afferma il significato permanente della chiesa come segno e strumento (=
sacramento-mistero) di salvezza. In secondo luogo, si è invertito l'ordine dei capitoli:
il secondo capitolo - la costituzione gerarchica della chiesa, in particolare l'episcopato
- è diventato il terzo, mentre il terzo - il popolo di Dio - è passato a secondo. Questo
spostamento è della massima importanza perché stabilisce una priorità del popolo di Dio
sulla struttura gerarchica. Quest'ultima è in funzione di servizio al popolo di Dio. La
categoria di popolo di Dio conferisce alla chiesa un carattere storico, di costruzione
aperta, come una pellegrina nel tempo, in compagnia di altri popoli che camminano
anch'essi verso Dio, e ricupera la dimensione biblica di chiesa nella prospettiva di
alleanza e di missione.
Qual è la relazione tra gerarchia e popolo di Dio? È qui che emergono le tensioni,
trattandosi di due opzioni di difficile convergenza. In certi settori dominanti della
chiesa esse vengono presentate come irriducibili e fonte di permanente conflitto teorico e
pratico. La categoria "popolo di Dio" viene letta alla luce della
categoria "gerarchia" e così si elimina la novità introdotta dal Vaticano II.
Noi siamo dell'idea che è possibile una sintesi nella linea del Vaticano II, a condizione
però di andar oltre una lettura sostanzialistica del potere nella chiesa. Vediamo le
ragioni dell'una e dell'altra opzione e come incidano sul tema della politica di potere
nella chiesa.
1/ La chiesa tutta, chierici e laici, è popolo di Dio
Bene hanno fatto i padri conciliari a porre la realtà del popolo di Dio prima della
gerarchia. La categoria "popolo di Dio" ha il vantaggio di inglobare tutti i
fedeli prima di qualsiasi differenziazione interna (chierici e laici). Ricollega
organicamente sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale all'unico sacerdozio di Cristo (LG
10). Se i battezzati formano il popolo di Dio messianico, è altrettanto vero
che tutti i popoli, trovandosi sotto l'arcobaleno della grazia divina, sono in qualche
modo popolo di Dio (LG 9 e 13). Con gradazioni differenti, il popolo di Dio si
realizza anche nei cristiani non cattolici e nelle religioni del mondo; persino gli atei
di buona volontà, che conducono una vita retta, non sono fuori del suo ambito (LG 16).
In questo orizzonte si può intendere per popolo di Dio l'insieme di tutti i giustificati,
sia pure in diversi gradi di inserimento nella realtà teologica di quella che chiamiamo
"chiesa" (LG 14-16). Si potrebbe pensare che l'umanità redenta, che accoglie la
grazia attraverso una vita giusta, costituirebbe il grande popolo di Dio. Formalizzando la
riflessione fondata sul Vaticano II, possiamo dire che l'umanità come un tutto forma il
popolo di Dio nella misura in cui si apre alla visitazione divina. La chiesa nella sua
istituzionalità storica sarebbe il sacramento del popolo di Dio segnalandosi così come
popolo di Dio messianico.
L'intera concezione di "popolo di Dio" del Vaticano II è permeata dall'esigenza
di partecipazione e di comunione di tutti i fedeli nel servizio profetico, sacerdotale e
regale di Cristo (LG 10-12), che si traduce nell'inserimento attivo nei vari servizi
ecclesiali e nei carismi dati per la comune utilità (LG 12).
Questo popolo di Dio prende corpo nelle chiese particolari e nelle culture stesse di cui
accoglie valori e usanze (LG 13). Quantunque vi siano differenze, "fra tutti vige
però vera uguaglianza quanto alla dignità e all'azione nell'edificare il corpo di
Cristo, che è comune a tutti quanti i fedeli" (LG 32).
L'idea di popolo di Dio pone l'esigenza di partecipazione cosciente, di organizzazione
comunitaria attorno a un progetto comune, di uguaglianza tra tutti, di unità nelle
differenze e di comunione di tutti con tutti e con Dio. Poiché si tratta di un popolo e
non di una massa, esistono organi di direzione e di animazione, che sorgono però
dall'interno del popolo di Dio, non sono al di sopra e al di fuori ma dentro e al servizio
del popolo di Dio. Una chiesa, ad esempio, dove i laici non possano partecipare al potere
sacro, o dove le donne ne siano escluse a limine né abbiano parola nella comunità, dove
le decisioni si concentrino nel corpo clericale, non può realmente e senza metafora
chiamarsi popolo di Dio. Vi manca quel minimo di partecipazione, di uguaglianza e di
comunione senza il quale non nasce la realtà di popolo di Dio ma quella di una massa
informe di fedeli, clienti di un centro di servizi religiosi e consumatori privati nel
mercato di beni simbolici.
Popolo di Dio è una definizione concreta di chiesa e non una metafora solamente se sarà
il risultato di una rete di comunità dove i fedeli partecipano, si distribuiscono tra
loro le responsabilità, e vivono la realtà della comunione.
2/ La chiesa, società gerarchizzata di potere sacro
L'altro paradigma di chiesa si trova nel terzo capitolo della Lumen gentium, riguardante
la gerarchia e in particolare l'episcopato. Si articola qui un altro tipo di riflessione,
che è un corpo parallelo a quello precedente di "popolo di Dio". L'idea
principale non è la comunità e il popolo di Dio, ma Cristo e la gerarchia in senso
giuridico. La categoria del "potere sacro" (sacra potestas) organizza la
comprensione ecclesiologica prendendo a modello le relazioni che una società possiede col
suo fondatore. Paradigma referenziale risulta quindi la chiesa-società. Cristo, fondatore
della chiesa, trasmette tutto il potere ai Dodici il cui ministero è "pascere e
accrescere sempre più il popolo di Dio" (LG 18) insegnando, santificando e
governando (LG 25-27). Il collegio apostolico trasmette il potere ricevuto ai suoi
successori in una ininterrotta linea storica. Questo potere sacro si ritrova in pienezza
nel papa e nel collegio apostolico riunito, viene distribuito a cascata e gerarchicamente
ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. Tutti ricevono questo potere sacro mediante il
sacramento dell'ordine, formando un corpo speciale (corpus clericorum) distinto
dall'altro corpo, quello dei laici (corpus laicorum: LG, l'intero cap. IV).
Un simile modello di chiesa più che un'ecclesiologia è una gerarcologia. I membri della
gerarchia hanno tutto, i fedeli nulla in termini di potere. Unicamente il diritto di
ricevere. La gerarchia produce tutti i valori religiosi (quanto a parola, sacramento e
guida) per il consumo da parte dei fedeli. Si tratta di una società religiosa
profondamente disuguale, monarchica e piramidale. Essa prolunga la prospettiva
ecclesiologica del Vaticano I, incentrata sul potere supremo del papa, nel Vaticano Il,
completata dalla visione del vescovo, che rappresenta il papa, e del presbitero, che a sua
volta rappresenta il vescovo (LG 28).
Due punti rendono teologicamente problematica questa visione. Il ministero viene concepito
all'interno di una ontologia sostanzialistica, come dice chiaramente la Nota esplicativa
previa alla Lumen gentium. Lo stesso sacerdozio ministeriale differisce da quello dei
semplici fedeli "di essenza e non soltanto di grado" (LG l0b). Non è più una
disuguaglianza di funzioni, ma di realtà. Il corpo ecclesiale, secondo questa visione, è
costituito da due frazioni che compromettono l'unità della chiesa. Coerentemente papa
Gregorio XVI (1831-1846) afferma: "Nessuno deve ignorare che la chiesa è una
società disuguale, nella quale Dio ha destinato alcuni come governanti, altri come
servitori. Questi sono i laici, quelli sono i chierici". I principi ecclesiologici
che sottendono questa affermazione si trovano per intero nel capitolo III della Lumen
gentium. Con identica coerenza il cardinale Joseph Ratzinger, al Congresso mondiale dei
movimenti ecclesiali tenutosi a Roma dal 27 al 29 maggio 1998, ha proclamato che
"l'istituzione chiesa si basa sul ministero dell'ordine, che "è l'unica
struttura permanente vincolante che la costituisce come istituzione"; questo
"ministero è innanzi tutto sacramento, cioè ricreato ogni volta da Dio"".
Una volta accettata questa visione, ci si domanda spontaneamente come essa si accordi con
l'affermazione così centrale del capitolo I della Lumen gentium (n. 4) e del decreto
sull'ecumenismo (n. 2), secondo la quale l'unità della chiesa trova il suo supremo
modello e principio organizzatore nell'unità della Trinità, la quale è sempre unità di
tre Persone divine che, diverse tra loro, vivono in eterna uguaglianza di natura e di
comunione. Ciò che è errore nella teologia trinitaria non può essere verità nella
teologia ecclesiologica. Ogni gerarchia e subordinazione nella Trinità è errore. Non è
invece errore ma ortodossia la gerarchia e la subordinazione nella chiesa. Una
contraddizione del genere è teologicamente insostenibile.
Questo tipo di ecclesiologia rappresenta l'ideologia di quelli che detengono il potere
nella chiesa. Essa è troppo contraddittoria per creare comunione e partecipazione tra
tutti i fedeli. Legalizza invece in maniera perversa l'emarginazione dei laici e
l'esclusione delle donne. Rappresenta così uno stato patologico da cui occorre guarire
mediante una visione più conforme all'utopia di Gesù (cf. Mt 23,8-12) e teologicamente
meglio fondata.
3/ Un ponte interrotto: la comunione gerarchica
Il problema è stato avvertito dai padri conciliari. Per questo nel
Vaticano II si introdussero le modifiche che abbiamo prima analizzate, senza però
invalidare l'interpretazione societaria. Esiste tuttavia nei testi conciliari una
categoria che potrebbe servire da ponte tra visione societaria e visione comunitaria:
quella di communio. Con questo termine vengono intesi tre livelli di comunione: la
comunione ecclesiale (o spirituale), che risponde ai vincoli tra i battezzati e tra le
varie chiese particolari; la comunione ecclesiastica, costituita dal legame tra le varie
chiese locali con la chiesa di Roma; infine, la comunione gerarchica, che significa il
vincolo strutturale e organico tra tutti i membri della gerarchia tra di loro e di tutti
con il capo, il papa.
Quest'ultima forma di comunione, gerarchica, è quella decisiva, poiché secondo
Gianfranco Ghirlanda, che ha studiato minuziosamente il tema, "è la chiave di
interpretazione della ecclesiologia proposta dalla Lumen gentium". La ragione
principale sta in questo: è la gerarchia che crea con la parola e con il sacramento il
popolo di Dio. Senza gerarchia non si avrebbe popolo di Dio, non si avrebbe comunità
ecclesiale. Rimane qui chiaro che gerarchia viene intesa fuori e al di sopra del popolo di
Dio, essendone la causa e la guida.
L'espressione communio hierarchica venne pensata per fare da ponte tra i due tipi di
ecclesiologia. Prese dall'ecclesiologia del popolo di Dio la categoria communio e
dall'ecclesiologia giuridica la categoria gerarchica. Sennonché questi sono termini che
rifiutano di unirsi. La comunione non tollera gerarchia. Essa è il nome che indica
uguaglianza, libera circolazione di vita e di servizio tra tutti. La gerarchia,
sostanzialisticamente intesa come avviene in questo tipo di ecclesiologia, introduce una
rottura nella comunione, poiché stabilisce una disuguaglianza. L'unica gerarchia valida
è quella di funzioni, dal momento che non tutti possono fare tutto. Si dividono compiti e
servizi, senza però spezzare l'unità di base dove tutti sono uguali e associati nella
comunità.
L'espressione communio hierarchica rappresenta un ponte interrotto; essa non unisce ciò
che dovrebbe unire: popolo di Dio e gerarchia di servizi e doni.
4/ Una visione coerente di chiesa: comunità di persone, di doni e di servizi
Per gettare un ponte tra popolo di Dio e gerarchia occorre partire da
quel minimo senza il quale non c'è chiesa. Tale minimo è dato dalla definizione reale e
non metaforica di chiesa come communitas fidelium. La chiesa non è inizialmente un
corpo sacerdotale che crea comunità, ma è comunità di coloro che hanno risposto con
fede alla convocazione di Dio in Gesù mediante il suo Spirito. La rete di queste
comunità forma il popolo di Dio, dal momento che il popolo di Dio risulta da un processo
comunitario e partecipativo. Dal seno della comunità sorgono le varie funzioni: alcune di
carattere permanente, come la necessità di annunciare, di celebrare, di operare nel
mondo, di creare coesione e unità dei fedeli e dei servizi; sorgono allora servizi di
natura più istituzionale, perché rispondenti a necessità permanenti cui si attende
meglio con l'istituzionalità delle funzioni; ne emergono anche altri più sporadici ma
ugualmente importanti per l'animazione delle comunità: il servizio della carità, la
preoccupazione verso i poveri, la promozione dei diritti e della giustizia sociale, ecc.
Questi vari carismi danno vitalità alla comunità, fanno sì che essa non sia solo
organizzata e disciplinata ma soprattutto creativa e irradiatrice di speranza e di gioia,
realtà tipicamente evangeliche.
Questo modo di intendere la chiesa assegna ai ministeri una nuova corretta collocazione.
Il loro posto è nella comunità, mediante la comunità e per la comunità. La comunità
costituisce la realtà fondativa, portatrice permanente del potere sacro, la exusìa di
Gesù. Con i Dodici Gesù non aveva in mente la gerarchia ma la comunità messianica.
Animata dalla presenza del Risorto e dallo Spirito, è dal suo interno che scaturisce
tutto ciò di cui essa ha bisogno per funzionare. V'è in essa una diversità di funzioni,
di incarichi e servizi, che Paolo chiama carismi (cf 1°Cor 12 e Rm 12). Il carisma non si
colloca nell'ambito di una realtà straordinaria ma di quella comunitaria quotidiana. Ogni
cristiano è un carismatico nel senso che, dentro la comunità, ognuno ha il suo posto e
la sua funzione: "Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un
altro" (1°Cor 7,7); "a ciascuno è data una manifestazione particolare dello
Spirito per l'utilità comune" (1°Cor 12,7). Nella comunità cristiana non v'è
nessun membro ozioso: "Ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli
altri" (Rm 12,5).
I carismi fondano un principio strutturale nella chiesa. Non sono qualcosa che ci può
essere ma che potrebbe anche non esserci. Al contrario, essi sono costitutivi della chiesa
a tal punto che non esiste chiesa senza carismi (funzioni e servizi). La gerarchia stessa
è uno stato carismatico. Non prima della comunità né al di sopra di essa, ma al suo
interno e al suo servizio. Se ognuno ha il suo carisma, dobbiamo allora affermare che
esiste simultaneità dei carismi più diversi. Tale diversità solleva un interrogativo
fondamentale: chi garantisce l'unità tra le varie funzioni e il loro ordinamento al bene
di tutti? Sorge così la necessità del carisma relativo alla guida. Paolo parla di questo
carisma di assistenza, governo, presidenza della comunità e di vigilanza sulla sua unità
(1°Cor 12,28; 1°Ts 5,12; 1°Tm 5,17). Le lettere paoline e deuteropaoline fanno
riferimento a presbiteri, episcopi e diaconi. Il carisma dell'unità dev'essere al
servizio di tutti i carismi. È un servizio tra gli altri, ma orientato in modo tutto
speciale a fare da elemento-ponte tra le varie funzioni della comunità.
Sta qui l'essenza e il senso del sacerdozio ministeriale nei suoi vari gradi di
realizzazione gerarchica: coordinare i carismi, ordinarli in vista di un progetto
comunitario, saper scoprire carismi esistenti ma non riconosciuti, esortare chi sta forse
mettendo a rischio l'unità della comunità. In una parola, la loro funzione non è
l'accumulo ma l'integrazione dei carismi.
Traspare da tutto questo che intendere la chiesa come comunità e popolo di Dio non
esclude ma include la gerarchia nella chiesa. Questa è un carisma permanente, un vero
stato carismatico, perché risponde a una necessità permanente della comunità: l'unità
tra tutti.
Oggi il corpo ecclesiale si trova diviso da cima a fondo. Se non cerchiamo una visione
coerente capace di equilibrare le relazioni di potere ecclesiale corriamo il rischio di
una chiesa cattolica che si mantiene divisa con danno enorme per la qualità della vita
cristiana. Non è impossibile una biforcazione: da un lato, una chiesa-popolo di Dio con
strutture ugualitarie, di partecipazione e comunione tra tutti e, al suo fianco e in
conflitto, una chiesa-società gerarchica, clericale, piramidale e centralizzatrice che
continuamente crea, riproduce e legittima disuguaglianze provocando tensioni e
contrapposizioni per l'impossibilità di vivere negli spazi ecclesiali pratiche di
partecipazione, esercitate nella società civile, e valori cari al sogno di Gesù, quali i
valori di comunione e uguaglianza tra tutti come fratelli e sorelle.
In una ecclesiologia di chiesa-società gerarchica non c'è salvezza per le donne in
termini di integrazione nei servizi e doni comunitari. Esse verranno sempre emarginate o
addirittura escluse. Un fatto simile è incompatibile con una teologia minimamente
evangelica, che deve incorporare valori umani perché sono anch'essi valori divini. È
questa la ragione fondamentale per abbandonare l'ecclesiologia societaria e gerarchica e
per rafforzare un'ecclesiologia di comunità e di popolo di Dio.
(traduzione dal portoghese di ENZO DEMARCHI)
(*) Leonardo Boff
È nato nel 1938 a Concordia (Brasile). Ha compiuto gli studi a Curitiba, Petropolis e
Monaco (Germania). Dopo aver insegnato teologia sistematica all'istituto teologico
francescano di Petropolis, attualmente è professore di etica e ecologia filosofica
all'università di Rio de Janeiro e membro del Comitato scientifico della rivista Concilium.
È autore di numerose opere, tra cui: Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1973; Teologia della cattività e della liberazione, Queriniana, Brescia 1977; Ecclesiogenesi, Borla, Roma 1978; Il volto materno di Dio. Saggio interdiscipliriare sul feniminile e le sue forme religiose, Queriniana, Brescia 1981; Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1983; Trinità e società, Cittadella, Assisi 1987; Ecologia, mondialità, mistica. L'emergenza di un nuovo paradigma, Cittadella, Assisi 1993; Grido della terra, grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, Assisi 1996.
- Indirizzo: C.P. 92144-25.741-970 Petropolis, Rio de Janeiro, Brasile -
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