Quando l'ideale
diventa legge
James Kavanaugh
~ Il grido d'amore e di speranza
di un prete cattolico «arrabbiato» ~
(Tratto da «A modern priest looks at his outdated Church»
© Father James Kavanaugh, c/o John Farqunarson Ltd, London,
«Rinnovati vecchia Chiesa» © 1969 Piero Gribaudi Editore)
Molto tempo fa, in un mondo pieno
di confusione e di stanchezza, esplose una nuova eccitante speranza. Apparve un
uomo, in Palestina, che disse parole che sembravano provenire da Dio. Era un
ebreo, imbevuto della potenza e della bellezza di un’eredità religiosa che
non aveva paralleli né in Oriente né in Occidente. Non aveva la grettezza dei
bigotti, né si mise al servizio degli interessi d’una singola nazione o d’una
razza particolare. Il suo sangue era quello passionale e bollente di Abramo e di
David, lo stesso sangue che avrebbe continuato a scorrere nelle vene del popolo
ebraico lungo i secoli futuri.
La sua visione, tuttavia, trascese i confini della Palestina e abbracciò il
mondo intero.
I suoi occhi si posavano su chiunque soffrisse, le sue mani
risanatrici si stendevano sulla donna debole e peccatrice, sul lebbroso tenuto
ai margini della società, sul cieco
che coi suoi lamenti s’era reso insopportabile persino agli amici e ai
parenti. Le persone depresse, ascoltandolo, sentivano dentro di sé un
improvviso sussulto
di energia. I colpevoli, alle sue parole, ricominciavano a rispettare se stessi
come uomini.
Lo seguirono dei pescatori, e lo seguirono anche dei nobili i quali
scoprirono che vino e donne non bastano a placare completamente la febbre dei
desideri.
Alcuni lo chiamarono «Uomo-Dio», e anche quelli che non credevano
che egli avesse questa statura si meravigliavano per la potenza che avevano le
sue parole.
Sotto un certo aspetto, egli non diceva nulla di nuovo quando insisteva che in
ogni comandamento la prima e l’ultima parola spetta all’amore.
L’uomo
aveva imparato l’amore già prima che l’Uomo-Dio venisse sulla terra. Gli
egiziani avevano saputo amare veramente le loro mogli, e i babilonesi avevano
capito di dover trattare ogni prossimo con dignità e rispetto. In particolare
gli ebrei, nutriti dall’insegnamento di Isaia, Ezechiele e Geremia, avevano
appreso la responsabilità dell’amore e per secoli avevano lottato cercando d’impedire
che l’ideale dell’amore venisse soffocato dalle grette e arroganti leggi
degli uomini.
Tuttavia, in quanto ad amare il prossimo l’uomo non aveva avuto
grandi successi. Per ogni giusto c’era una dozzina di farisei che deformavano
beffardamente Dio riducendolo ad una serie di norme imposta alla gente atterrita
e indifesa. Per questo Gesù poté parlare di un comandamento nuovo: « Amatevi
gli uni gli altri come io ho amato voi ».
Ebbe così inizio la religione dell’amore, destinata a perfezionare e portare
a pienezza le altre religioni dell’amore che uomini tracotanti avevano
trasformato in glaciali complessi di inflessibili leggi.
Nobili ideali, la
storia li aveva già conosciuti prima, però il tempo e il terrore avevano
sepolto quegl’ideali sotto le zolle pesanti di codici e di tavole legali. Ora,
ecco che Cristo, In una maniera che superava ogni limite, proponeva agli uomini
una nuova eccitante prospettiva. Contagiato dal suo fascino, Paolo scriveva
nella Lettera ai Romani che l’uomo era stato «reso libero della legge» e
sarebbe stato finalmente capace di vivere grazie al violento soffio dello
spirito d’amore. Egli non intendeva dire che non ci sarebbe più stata alcuna
legge religiosa, ma soltanto che l’uomo, nelle sue angosce personali, non
avrebbe avuto più come unico soccorso la fredda regola da applicarsi in tutti i
casi. L’uomo poteva essere una persona perché era ormai in grado di conoscere
un Dio personale che si rifiutava di essere circoscritto da un singolo rito
religioso o dagli inappellabili giudizi di un sommo sacerdote.
L’uomo non poteva più a lungo ridurre la concezione di Dio al livello dei
sordi idoli che servono soltanto a preservare la superbia e la meschinità
umane. Né poteva più a lungo comprimere Dio entro i comodi casellari costruiti
dai suoi simili. Ora, più nessuna statua avrebbe potuto contenere la sua
maestà. Più nessuna legge e nessun codice di leggi avrebbe potuto prescrivere
dettagliatamente le condizioni della misericordia e dell’amore di Dio. Persino
Cristo, nonostante possedesse la divinità in maniera unica, poté manifestarsi
soltanto nella semplicità di due piedi che barcollando cercavano di camminare e
di due mani che si protendevano impazienti verso i seni della mamma.
Cristo, gli uomini potrebbero chiamarlo Dio - come faccio io stesso - con una
fede semplice e priva di argomenti. Altri potrebbero trovare il loro Dio nella
«Chiesa», in «Abramo», cioè nella sinagoga, o nell’«onestà
personale». Ma più nessuno può dire ch’egli ha definito e compreso Dio o
che un altro uomo certamente non ha goduto dell’indulgente amore di Dio.
Dio
non ha nome perché non ha confini, e il suo amore non può essere delimitato
dalla cecità o dall’egoismo di uomini atterriti.
Eppure, nonostante gli sforzi di Cristo per porre fine alle grettezze religiose
e malgrado gli ammonimenti e le riforme della storia, un tempo ero anch’io un
uomo atterrito che cercava di delimitare e d’impacchettare Dio.
Pensavo di
conoscere i confini del suo amore, i limiti della sua pazienza, il colore della
sua barba. Ero e sarò sempre un prete cattolico, ma oggi non posso più essere
lo stesso prete che ero prima. Aderii al sacerdozio con l’apertura e la
generosità di cuore che mi derivavano dalla famiglia e dalla mia formazione.
Volevo confortare i malati, aiutare i poveri, insegnare ai ragazzi i misteri di
quella vita che io avevo appena cominciato a vivere. Ero elettrizzato da un
ideale che mi prometteva di farmi camminare come Cristo in mezzo ai deboli. Così,
ho offerto il suo perdono, ho rasserenato dolenti vedove, ho incoraggiato gli
alcolizzati, ho confortato la macilenta adolescente preoccupata che nessun
giovanotto le desse mai un appuntamento. Ho insegnato nelle scuole superiori e
nell’università, ho predicato con entusiasmo e preparazione, ho sperimentato
quanto rassereni e quanto sostenga l’amore che hanno i cattolici per i loro
preti.
Pur tuttavia, giorno per giorno aumentava in me un senso di sofferenza nel
vedere come certe leggi presuntuose e infondate hanno circoscritto Dio con
limiti sacrileghi.
Io non potevo camminare come Cristo in mezzo ai deboli
perché quelli che più avevano bisogno di me non potevo aiutarli.
Una volta,
per esempio, a una donna che venne a confessarsi potei dire solamente che non le
era lecito praticare il controllo delle nascite. Mi raccontò che suo marito si
rifiutava di dormire con lei se non aveva preso la pillola. La sentii
descrivermi le notti senza fine quando giaceva accanto a lui, lo accarezzava e
lo sentiva allontanarsi. Cercò di dirmi il suo terrore ch’egli si trovasse un’altra
donna. Cercò di spiegarmi con quanto angoscioso ardore il suo corpo lo
desiderava, e mi rievocò i primi tempi del matrimonio quando si accoccolava nel
calore delle sue braccia. Pianse, raccontandomi come i suoi quattro bambini,
tutti sotto i Sei anni, avessero logorato la sua pazienza e come ella non
avrebbe potuto farcela senza il conforto di suo marito. Io le spiattellai la mia
risposta. Io, al quale non era mai capitato che il pianto d’un bambino
interrompesse il sonno, le dissi che Dio le chiedeva questo nobile sacrificio
per mettere alla prova il suo amore, e che la sua generosità non era
paragonabile alla generosità divina.
Fu insensato, da parte sua, parlare con me, perché io non avevo orecchi. La
penna d’un legislatore me li aveva asportati.
C’era lì una donna che voleva
amare suo marito, che non osava avere altri figli, che donava se stessa in una
misura che a me non era mai stata chiesta. Era sposata a un camionista il quale
non provava il minimo interesse per i sottili argomenti che gl’insegnavano in
quali modi gli fosse lecito far l’amore con sua moglie. Egli l’amava con
tutto se stesso, e il suo amore non faceva che accendere sempre di più quello
della donna per lui. Egli amava i bambini con calore e virilità, e per essi
affrontava il suo ingrato lavoro quotidiano. Si sacrificava al di là d’ogni
limite, ma non poteva accettare quella forma d’intimidazione che nasceva dagli
scrupoli della donna soggiogata dalla legge della Chiesa. Così, ella si concava
gelidamente sotto le coperte accanto a lui e assisteva all’agonia del loro
matrimonio. Quella donna venne da me come se venisse da Cristo. Venne perché
non conosceva un altro posto dove andare. Venne senza una sua teologia, senza
una sua risposta per controbattere i miei roboanti ragionamenti. In lei, non c’era
che la paura di perdere l’uomo che guidava un camion e che l’aveva resa
madre di quattro piccini. E a quella donna io diedi la mia teoria e la mia
legge.
Le dissi che il controllo delle nascite era egoistico e contro natura. Le
spiegai quel che avevo imparato nei miei libri di testo e per mitigare la sua
pena le offrii i pronunciamenti pontifici. Proprio mentre le parlavo sentivo
quanto le mie parole fossero vane. Segretamente speravo che ella tornasse da suo
marito e lo amasse pure come dovrebbe fare una donna, ma mi rendevo conto che
invece sarebbe rimasta sotto la tortura del senso della colpa. Era cascata in
una trappola, stava subendo un lavaggio del cervello che distruggeva la sua
esperienza personale e tendeva a ridurla a un docile robot teleguidato da una
legge romana.
Tutto quello che lei voleva era di amare suo marito come Cristo le aveva detto
che doveva fare. Era rimasta paziente coi bambini, mentre si baloccavano col
cibo invece di mangiarlo e si divertivano a buttare per terra il cucchiaio. Era
rimasta paziente ad aspettare che il marito, finito il logorante lavoro lungo le
strade, ritornasse a casa. Ella amava la sua calma, la sua voce sommessa, le sue
attenzioni e le sue delicatezze verso di lei durante le gravidanze. Ella pensava
spesso ai parti che aveva avuto e alla carica di energia che le dava lui nei
momenti di paura e di dolore. Ella continuamente aveva davanti a sé, nella sua
memoria, gli occhi di lui che la ringraziavano per ogni bimbo nato. Il marito
non era di molte parole. Le parlava con gli occhi, e con le carezze con le quali
la rasserenava quand’erano a letto. Ora, non poteva più amarlo nel modo in
cui egli aveva bisogno di essere amato.
Onestamente, gli argomenti che le esposi non convincevano neanche me, sebbene li
esponessi lealmente, o forse sotto la pressione della paura, o forse
suggestionato da una fede scriteriata. La penitente conosceva l’amore meglio
di quanto io potessi sperare di conoscerlo, e io, io che ero «un altro Cristo», potevo soltanto dirle parole in base alle quali si sarebbe sentita disonesta
e si sarebbe vergognata di sé.
L’ideale dell’amore cristiano, che ella
desiderava seguire, era stato trasformato da una spietata legge in mia vita
impossibile. Il suo matrimonio era destinato a morire o a raggelarsi; suo marito
poteva scivolare nell’amarezza o nell’indifferenza verso di lei. Lei era
venuta a trovare Cristo, il quale le aveva detto che Dio non può essere
incatenato da una legge anonima, e io la mettevo perentoriamente dinanzi a un
dilemma: o si allineava con la legge o abbandonava Dio.
Non ditemi che devo studiare ancora altre argomentazioni! Le ho lette tutte, le
ho studiate e ristudiate infinite volte. Non ditemi che devo pazientemente
aspettare che il Papa appaia al balcone, prima di poter mandare questa donna a
letto con suo marito! Ho collaborato anch’io a generare questa povera creatura
timorosa e schiava che venne indifesa da me. Ella non è abbastanza forte per
andarsene via, per la sua strada, come fanno oggi le donne più evolute. È una
vittima, è una tragedia vivente, è una distorsione che io ho contribuito a
generare e che ora contribuivo a perpetuare. Ella non ha l’intelligenza o il
coraggio che le ci vorrebbero per di-fendere se stessa. Perciò perderà suo
marito, in ossequio a una legge fanatica, oppure ignorerà quella legge e si
unirà a quei milioni di anonimi che vanno alla Messa frustrati e impacciati
perché io ho detto loro che vivono «in stato di peccato».
Ma com’è che abbiamo edificato proprio quella Chiesa legalistica che Cristo
aveva promesso di abbattere?
Com’è che siamo passati da un Vangelo di
libertà e di amore a un sistema che può strappare i mariti dalle mogli in nome
della giustizia?
Com’è che siamo arrivati a sostituire la religione coi
cavilli d’una teologia ormai morta?
La teologia dovrebbe essere una scienza
che insegna all’uomo di qualsiasi epoca il modo migliore di amare il suo Dio.
Dovrebbe prendere i tesori del Vangelo e trasformarli in parole e in idee che
possano spiegare all’uomo moderno come vivere e come amare. Invece la nostra
teologia è diventata un gioco per esercitazioni scolastiche. Essa è un codice
di regole accumulatesi durante insulse guerre scatenate da rancori religiosi. E'
una raccolta di verità avvizzite che serve unicamente a saccheggiare l’uomo
della sua responsabilità personale e a ridurlo in quello stato d’indifferenza
in cui cadono gli schiavi terrorizzati.
La teologia ha tolto all’uomo l’intelligenza
e gli ha lasciato dei vocaboli imparati a memoria.
Lo ha privato della
libertà e gli ha impedito di sperimentare quale avventura dovrebbe essere la
ricerca di Dio. Ha osato entrare nelle camere da letto e dire a ciascun uomo ch’egli
deve amare la propria moglie nella maniera di tutti gli altri uomini.
È questa la teologia che io ho imparato e ho poi trasmesso in ogni confessione
che ho ascoltato, in ogni lezione che ho impartito, in ogni sermone che ho
predicato al gregge già infettato dal senso della colpa.
Non potrei predicare
a gente libera, non potrei dare semplici suggerimenti, posso soltanto comandare.
Mi è proibito di comportarmi diversamente! In confessionale devo parlare come
gli altri preti. Agli infelici devo dire che il divorzio non è lecito, in nome
dell’amore cristiano. Non ha la minima importanza lo stato in cui è ridotto
il loro matrimonio: il tormento, l’amarezza, lo spirito di vendetta, e i
contraccolpi di tutto ciò sui figli. Ovviamente, tutto questo lo conosco,
perché sono un prete cattolico. Posso dire a questa donna che Dio le ha
proibito di sposarsi di nuovo, e saprei dirlo, perché ho ridotto Dio entro gli
angusti limiti del sistema che rappresento. Lei può spiegarmi che il suo
secondo matrimonio le ha dato la pace, che il suo nuovo marito l’ha resa più
serena e ricca d’amore di quanto mai avesse sognato. Lui può perorare la sua
causa insistendo che ai bambini della donna vuoi bene come se fossero suoi, e
può addirittura piangere alla mia presenza, come accade spesso. Io, io ho il
dovere di dire loro che questo matrimonio è maledetto da Dio.
Sarebbe diverso se non avessi
studiato le origini di simili leggi, se non conoscessi la rozza ignoranza degli
uomini che sono obbligati a farle rispettare. Conosco, inoltre, le sofferenze di
molti preti che deprecano la mentalità gretta che ho descritto, ma non trovano
le parole o il coraggio per combatterla apertamente. Nemmeno io ho coraggio. Ho
solamente tanta pena. Ma mi rifiuto di restare zitto quando i sofferenti
indifesi, «la trascurata moltitudine dei disorientati, dei semplici, di coloro
che non sanno parlare» rimane disarmata e nuda dinanzi alla presuntuosa
arroganza della legge cattolica.
Che commedia, lo spettacolo d’una Chiesa
universale in attesa d’una voce da Roma che spieghi come i mariti possano
dormire con le proprie mogli! Sì, una commedia, se la situazione non fosse
così tragica.
La vera tragedia è che Roma
non comprende i nostri reali bisogni.
Noi non abbiamo bisogno d’una soluzione
del problema del controllo delle nascite.
Abbiamo bisogno della libertà nei
confronti d’un sistema che s’è impossessato delle nostre vite.
Abbiamo
bisogno della libertà nei confronti d’una Chiesa legalistica che ha
trasformato la semplicità d’un amore personale e cristiano in un mondo di
paura e di colpa.
Noi non sappiamo come si fa a cercare Dio, non l’abbiamo
imparato. Ci è stato solo insegnato a rispettare le leggi, a evitare il
peccato, a temere l’inferno, a portare una croce costruita da noi stessi.
Io lo so come l’adolescente spasima
sentendosi colpevole, quando s’è masturbato. Alcuni studiosi medievali gli
hanno insegnato che ha offeso seriamente Dio, che ogni atto furtivo commesso nel
silenzio della sua camera può condannano per l’eternità all’inferno.
Io lo
vedo perdere sempre di più qualsiasi interesse per la ricerca di Dio e
diventare sempre di più ossessionato dal suo piccolo inondo di peccato e di
rabbia. Lo vedo correre ogni mattina a confessarsi, prima d’andare a scuola.
In classe lo vedo distratto e svogliato, e m’accorgo che ha passato un’altra
notte di terrore, di quel terrore che io ho contribuito a infondergli. Mi
meraviglio che egli non mi odi. Io m’insinuo nella sua coscienza quand’egli
va a un appuntamento con un’altra adolescente, e gli prospetto minacciosamente
l’inferno se la sua mano accarezza con curiosità il petto della compagna.
Egli corre poi da me a confessarsi, per sentirsi libero, per avvertire il calore
del perdono di Dio. Ma io, proprio mentre gli offro l’assoluzione, so bene che
in realtà contribuisco a renderlo prigioniero per tutta la vita.
Ricordo le
lotte della mia adolescenza, le notti cariche di tensione nelle quali un qualche
ricordo d’un giorno come gli altri mi gettava nella tortura di trovarmi alle
prese con quei pensieri sessuali che m’era stato insegnato a paventare.
Ricordo il mio terrore di morire durante il sonno e di trovarmi così all’improvviso
nel tribunale di quel Dio che manda i masturbatori all’inferno.
Ricordo che
invocavo perdono dozzine di volte prima d’addormentarmi esausto.
Ricordo, al
tempo del liceo, le feste da ballo nelle quali non osavo stringere troppo una
ragazza per paura che Dio mi chiamasse a sé e mi condannasse come lussurioso.
No, non abbiamo bisogno d’un Papa che ci dica che ai cattolici è permesso l’uso
della pillola. Abbiamo bisogno d’un Dio che ci dica che siamo liberi.
Abbiamo
bisogno di una Chiesa che ci liberi dal legalismo che ci ha sepolti sotto il
senso della colpa e sotto il terrore e ci ha portato via il nostro Dio.
Abbiamo
bisogno d’una rinnovata fede in noi stessi, in quella somiglianza con Dio che
portiamo nei nostri corpi e nei nostri cuori.
Vogliamo imparare ad amare, noi
che abbiamo imparato solo a rispettare un rituale e delle regole.
Per anni noi
abbiamo mangiato pesce al venerdì senza capire che valore d’amore potesse mai
avere quest’antica forma di rinunzia.
Quale uomo potrebbe prendere sul serio
leggi del genere? Quale uomo potrebbe aver paura di violare prescrizioni così
infantili? Ebbene, milioni di cattolici furono uomini così: essi s’assoggettarono
a questa regola antiquata con lo stesso impegno d’un selvaggio superstizioso.
È possibile che Dio si preoccupi se noi mangiamo carne o pesce? Possibile che
stia dietro a simili stupidaggini? Se un uomo pensa che Dio s’interessi tanto
ad esse, questo ci dà un’idea di come quell’uomo concepisca Dio.
È proprio la concezione di Dio, quello che abbiamo perso.
In pratica, ciò che
interessa non è il come, ma il semplice fatto che noi guardiamo al passato e
osserviamo norme e riti che hanno nascosto Dio ai nostri occhi.
Gli studiosi mi
diranno che sotto i codici e i catechismi Dio è presente, ma io non ho più
intenzione di stare al loro gioco e di unirmi ad essi in questo tipo di ricerca.
Io posso solo rivolgermi alla gente che ho conosciuto da prete e narrare la mia
vita, lasciando gli studiosi alle prese coi loro solenni testi. Io guardo come
le persone stanno alla Messa: leggono preghiere che non le toccano nemmeno, e
non potranno mai essere una comunità finché avranno a che fare con canti
estranei e con l’indifferenza organizzata. Ascolto insieme a loro i sermoni,
che per il predicatore hanno ancor meno significato che per il suo gregge, e le
vedo star sulle spine dinanzi alla banalità di quelle parole.
Le osservo venire
alla Messa e mi domando meravigliato perché mai ci vengano. In realtà, lo so
perché ci vengono. Ci vengono per adempiere a una legge, ci vengono perché a
non venirci hanno paura, quella paura che abbiamo istillato loro fin dalla
gioventù.
Ci vengono perché noi chiediamo che vengano, ed esse hanno imparato
a rispettare la nostra parola come se uscisse dalla bocca stessa di Dio.
Ci
vengono, e si sorbiscono ogni nuovo trucchetto che noi imponiamo loro per
rendere la Messa un po’ più significativa; poi se ne vanno chete chete, con
quell’insulso silenzio che è diventato così tipico del gregge cattolico.
Ci
vengono cercando quello che Cristo ha promesso, cioè una comunità di fede e di
premure fraterne; noi invece diamo loro uno spettacolo pieno di gesti senza
senso e di frasi monotone. Ci vengono quindi come corpi senza testa, come facce
senza nome e senza idee, semplicemente per ottemperare alla legge, e se ne vanno
ancor più prive di testa e di nome di quando sono arrivate.
Cercano Dio,
qualche pensiero valido, un po’ di forza per dare un senso alla settimana che
comincia, e noi offriamo loro soltanto la vacuità del rituale e delle leggi.
Eppure non posso biasimarle se continuano a venire. Non posso accusarle per
quella paura e quel senso di colpa che io non ho condiviso, per quel legalismo
che io non ho conosciuto.
Se hanno cessato di perseguire ideali personali
diventando schiave della legge, io a mia volta ho permesso che il mio sacerdozio
diventasse quel rituale impersonale e quella preservazione della legge che la
Chiesa si aspettava da me. Io, che ho imparato abbastanza a combattere, io, che
sono abbastanza capace di parlare apertamente, io potevo soltanto declamare le
leggi che m’avevano insegnato proprio mentre avevo paura di affrontare le
realtà della mia vita. Io potevo dirmi «povero» e continuare ad usufruire
dell’agiatezza delle classi arrivate. Potevo chinarmi nell’«obbedienza»
clericale, mentre in realtà sfuggivo alle responsabilità delle riflessioni
personali. Potevo tutelare l’osservanza di leggi che per me non avevano senso,
insegnare devozioni che non praticavo chiedere sacrifici che non avrei potuto
fare, e accettare gli elogi d’un popolo ingannato dalle apparenze esterne
della mia vita.
Ciò nondimeno, accettai le leggi come stavano scritte, sebbene
esse mi rinchiudessero sempre più in me stesso.
Accettai la legge del celibato al fine di essere libero di dedicarmi al servizio
degli uomini. Avrei potuto essere padre di molte anime, rinunziando alla
paternità e ai piaceri della carne. Avrei potuto occuparmi delle persone
sofferenti e solitarie, mettermi a loro disposizione, non dovendo come gli altri
uomini restare a parlare coi figli o interessarmi alla moglie.
Sarei sempre
stato pronto a qualsiasi chiamata, sempre disponibile a prestare la mia opera in
mezzo alla gente smarrita e povera, resistendo alla tentazione di provare anch’io
che cos’è l’amore. Così, vigilavo sui miei pensieri, rifiutavo le offerte
d’amore, evitavo le occasioni pericolose e facevo sempre nuovi progetti per
occupare continuamente il mio tempo libero. Poi, un giorno, feci una pausa e
scoprii che non ero autenticamente celibe.
Ero piuttosto un uomo egoista e atterrito che aveva lottato per osservare una
legge senza senso. Il celibato, che mi aveva promesso di rendermi libero e che
era stato così ricco di significato per i monaci e per uomini d’altro stampo,
mi aveva in realtà fatto soltanto ripiegare su me stesso e mi aveva chiuso all’amore’.
Io non avevo mai offerto il mio celibato a Dio, avevo semplicemente ottemperato
a una legge che s’era frapposta tra me e certe situazioni che di me avrebbero
potuto fare un uomo.
M’ero tenuto lontano dalla frequentazione delle donne,
per una falsa lealtà verso un sistema e una legge. M’ero rifiutato di
fermarmi a pensare, per domandarmi se quel tipo di vita mi aveva aperto all’amore.
E quando capii, in mezzo al vortice del mio lavoro e della mia sofferenza, che
sarei stato un prete migliore se avessi avuto moglie e bambini, chiusi gli
occhi, mi detti del traditore e continuai ad accettare l’assurdità della
legge.
Il celibato, per me, è sinonimo d’infelicità. Ciò nonostante, per anni
restai chiuso in un vile silenzio, timoroso di parlare. Sperimentai intanto che
cosa dava una vita senza matrimonio a me e a centinaia di preti che mi aprivano
il loro cuore.
Sperimentai le nostre compensazioni e i nostri compromessi, e li
ho tuttora ben presenti alla mente. Migliaia di noi preti coviamo ambizioni e
perdiamo qualsiasi sensibilità, ci prendiamo vacanze costose delle quali non
avremmo bisogno, beviamo più di quanto dovremmo, ci facciamo pomposi e
arroganti, trasformiamo la parrocchia nel nostro piccolo regno personale,
accendiamo irresponsabilmente l’irrequietezza delle donne col nostro fascino
fanciullesco, diventiamo freddi e cinici, facciamo l’amore nella nostra
fantasia rimasta puerile, sopportiamo nobili croci costruite da noi stessi,
consideriamo l’indifferenza del nostro gregge come un affronto personale.
Siamo così osservanti che non riusciamo più a comprendere la debolezza, così
celibi da fare dei peccati del sesso il bersaglio numero uno delle nostre
preoccupazioni religiose. E tuttavia pochi di noi sono autenticamente celibi.
Siamo, in realtà, uomini impauriti che osservano una legge senza effettivamente
comprenderla.
Siamo le vittime d’un sistema che si è risucchiato la nostra
giovanile indipendenza e ci ha plasmati in senso opposto alla nostra reale
volontà. Ci hanno insegnato a difendere qualsiasi aspetto della nostra fede
prescindendo dai nostri personali sentimenti, cosicché questa educazione ci ha
resi maestri nel sostenere agli occhi altrui quella follia che sono le nostre
vite così legalistiche.
Siamo dei prigionieri, isolati dal mondo del pensiero
libero e indipendente, siamo uomini che non sanno cosa sia un’autentica
scelta. Accettammo un modo di vivere che non comprendevamo, e continuiamo ad
aderire alle sue leggi perché ci manca il coraggio di stare in piedi da soli.
Così, possiamo pregare in latino pur sapendolo a malapena balbettare, indossare
abiti che avevano senso in un’altra società, riempire turiboli d’incenso e
aspergere la gente con l’acqua, usando simboli arcaici e superstiziosi. E
possiamo anche fare i celibi, celibi che rimangono attaccati alle leggi sperando
che Dio li aiuti nel loro dilemma e nella loro pena. Abbiamo paura di lasciare
il sacerdozio, e paura anche di modificarlo, sebbene il suo legalismo abbia
soffocato il nostro amore. Ma finché non siamo liberi di lasciarlo, non
possiamo dirci li-ben nel rimanervi. Il legalismo ci ha ridotti a schiavi.
Se lasciassi il sacerdozio perché il celibato per me non ha più senso ed
offusca anzi il genuino amore cristiano al cui servizio un tempo intesi pormi,
verrei considerato un rinnegato, un traditore, un transfuga. Resterei pur sempre
un prete, ma mi troverei infelice e solo: tanto la famiglia come gli amici mi
lascerebbero andare alla deriva. Se poi decidessi di sposarmi, si pregherebbe i
miei genitori d’ignorare la moglie che mi sono scelto e di tenersi alla larga
dai bambini: il tutto, in nome dell’amore cristiano.
Benché mi amino
profondamente, con tutto il cuore, essi non avrebbero la libertà di prescindere
dai regolamenti della Chiesa.
In pratica mi ripudierebbero, me che ero la loro
gioia e il loro orgoglio e che vorrei continuare ad esserlo. Si allontanerebbero
da me e offrirebbero tutta la loro sofferenza a Dio. In chiesa ci andrebbero
quasi di nascosto, evitando il loro parroco, paventerebbero qualsiasi
conversazione perché potrebbe cadere su ciò che è la loro vergogna, e
starebbero a domandarsi in che cosa hanno sbagliato nelle loro fatiche per
educarmi. Comunque mi ripudierebbero, perché questa mia Chiesa così arrogante
li ha resi incapaci di scegliere altrimenti.
Eppure io non sono un celibe che liberamente ha offerto la sua condizione a Dio.
Io sono un legalista deluso, che osserva le leggi in ossequio a un sistema e a
una causa.
Io non sono un vero celibe perché sto semplicemente a un gioco che
altri mi hanno insegnato a giocare.
Io sono uno scapolo egoista, un fariseo che parla di amore ma che si intende
soltanto di legge.
Sono un uomo di gusti sofisticati e costosi, un uomo che non
si assumerà mai reali
responsabilità, un uomo più colpevole degli ignari ragazzi che condanna, un
uomo isolato dalle pene e dai problemi personali. Il mio celibato è un idolo,
un’ossessione, un culto del mio io, uno stare a guardarmi l’ombelico.
Sono
un uomo che chiede denaro senza darlo a nessuno, che raccoglie omaggi senza
averli meritati e che ha gran cura del suo corpo diventato troppo celibe per
amare.
In me l’ambizione ha sostituito l’amore, la sete di titoli s’è divorata
il mio cuore.
M’accorgo della mia grettezza, della mia mancanza di
sensibilità, della mia crescente incapacità ad occuparmi degli altri. Il
celibato è il paravento che mi separa dalla realtà, io scudo che mi protegge
dalla gente, la muraglia che m’isola dai problemi vitali. Sono un soldato
messo a vigilare un vecchio fortilizio, una sentinella che col fucile va avanti
e indietro sugli spalti d’una rocca. Mi è proibito mescolarmi tra le persone,
per paura che oda il loro grido pieno di angoscia. Parlo a distanza, con parole
che diventano semplici suoni confusi.
Gli illetterati non mi rispondono perché
non sono abbastanza vicino ad essi o perché tratto argomenti assolutamente
estranei ai loro interessi. E quando non mi rivolgono la loro attenzione, mi
chiudo presuntuosamente nella mia rispettabilità e prego invocando la
misericordia divina per le loro anime. Io non sono un celibe rigenerato dal
servizio e dall’amore; sono un impaurito legalista che ha fatto una promessa
che non può mantenere. Sono diventato bisognoso d’aiuto come le stesse
persone che ho il compito di guidare, silenzioso come coloro che non sanno
parlare.
Sono docile come la moglie del camionista che condanno se usa
contraccettivi, sono tutto tremante come l’adolescente che si masturba
sentendosi in colpa, sono pieno di tedio come la gente che viene in chiesa la
domenica e si domanda che senso abbia la Messa.
Io non posso aspettare che Roma prenda delle decisioni per cambiare il nostro
legalistico modo di vivere. Non ce la faccio più a veder lacrime che non posso
asciugare e ferite che posso soltanto riaprire. Non riesco più a trattare gl’innocenti
come se fossero pietre incapaci di soffrire, a considerare gli uomini come
numeri senza volto. Non posso stare ad aspettare i vescovi troppo impauriti e
troppo distanti per pensare e per rimettere in discussione il legalismo che ci affligge:
si trovano così a loro agio nelle loro disimpegnate sollecitudini!
Non riesco a
condividere la loro paura che una Chiesa leale e meno perentoria provochi tra la
gente la confusione e la paralisi. Credo che Dio, nella creazione, abbia
stabilito con l’uomo un contatto troppo profondo per permettere che ora siano
la forza e il terrore a fare di lui un figlio. La lealtà verso la legge ci ha
resi schiavi, e io non voglio più vivere come il lacchè d’un sistema.
Nella nostra Chiesa non c’è posto per le persone. C’è posto soltanto per
gruppi che chinano il capo dando il loro assenso a occhi chiusi. A ciascuno viene
chiesto di accettare quel che ha deciso la Chiesa sui controllo delle nascite,
sul divorzio, sul sesso e sui peccato, sull’educazione e sulla vita religiosa,
e se uno ha il coraggio di dissentire gli viene solennemente proibito di
esprimersi.
Nel mio lavoro non posso prendere nessuna decisione personale,
poiché ogni mia sillaba deve coincidere perfettamente con le sillabe già
pronunciate da Roma.
Mi si chiede di respingere l’uomo che si sposa una
seconda volta, di condannare la ragazza nubile che non riesce a maritarsi ma che
esercita la sessualità nella fedeltà e nella verità maturando profondamente
il suo amore.
Devo cacciar via l’omosessuale o pretendere da lui una promessa
che so bene che non può fare.
Non posso aiutare un uomo a riesaminare i suoi
ideali, né condividere la sua convinzione che soltanto il divorzio gli farà
fare qualche passo avanti verso un amore maturo e cristiano.
Non posso
dichiararmi d’accordo col giovane ebreo che ama una ragazza cattolica ma non
se la sente di ottemperare alle odiose condizioni impostegli dalla mia chiesa.
Non posso dire quel che veramente penso sulle antidiluviane e funeste scuole
cattoliche, sull’orrore dei nostri conventi, sulla miserabile mediocrità
della vita parrocchiale.
Non posso fare esperimenti, mettere in discussione
forme che hanno perso ogni senso, piantarla con l’ascoltare insulse
confessioni, a meno che non mi cerchi un altro genere di vita. A me è proibito
sposarmi, con un divieto che prescinde dai vantaggi che ne trarrei per il mio
lavoro di prete, che prescinde dall’egoismo in cui sono precipitato per la
mancanza d’una donna. Io sono un cattolico, e i cattolici devono muoversi come
un immenso robot o cessare di usufruire dei benefici della Chiesa.
Ho il dovere
di aspettare finché i prudenti gerarchi non abbiano scritto un’altra legge.
E' la mia, una Chiesa arrogante che non conosce altre strade fuorché quella
della legge.
È una Chiesa presuntuosa che tiene uno sterminato numero di figli
in continua attesa della sua parola. È una Chiesa orgogliosa che chiude le
orecchie e non ascolta milioni di voci cariche dì sofferenza È una Chiesa non
cristiana che soffoca i suoi ideali sotto una farragine dileggi.
È una Chiesa
funesta che ha perso la fiducia negli uomini, una Chiesa fegatosa, facile a
incollerirsi e a condannare.
Nonostante ciò è la mia Chiesa, e non me ne
andrò via nascondendo nel silenzio la ferita del mio cuore.
Se non la amassi,
non starei qui a scrivere. Se non soffrissi per il suo comportamento, la
guarderei beffardo e sbatterei la porta.
Ma essa mi ha formato e plasmato,
nutrito e perdonato, applaudito e deriso, e ora può straziare il mio cuore. Le
basta prendermi per la mano, ricordarmi i preti che mi hanno conosciuto ed
amato, bisbigliarmi una parola sui miei genitori che invecchiano, rievocarmi l’infanzia,
e io mi sento male, irrimediabilmente scosso dalla paura.
Sono pronto a
inginocchiarmi dinanzi ad essa, a stringerla affettuosamente fra le mie braccia
di giovane pazzo, a chiamarla «madre» sperando di poter essere ancora suo
figlio.
Però non posso tacere quando vedo il suo amore immeschinito in legge.
Abbastanza a lungo sono stato un prete
che costringeva i semplici ad agire contro la loro volontà. Abbastanza a lungo,
sia nel confessionale che fuori, ho imposto l’osservanza delle leggi,
allontanando maggiormente gli uomini proprio da quell’amore di Dio al quale
cercavo di condurli. Ora non posso più continuare a risolvere drammi complessi
con una legge semplicistica. Non posso più continuare ad agitare il mio sacro
pugno dinanzi ad anime ingenue e disorientate.
Troppo a lungo sono stato il
leale legalista che diceva ai ragazzi ch’era contro la religione andare a
ballare o a nuotare insieme alle ragazze.
Ho rifiutato i sacramenti al cattolico
la cui moglie protestante insisteva per condurre i figli alla sua chiesa, ho
negato il matrimonio al luterano che non era disposto ad educare i bambini nella
mia fede, ho predicato l’ortodossia con la faziosità d’un malato di mente.
I giovani mi chiedevano scusa quando fissavano un appuntamento con fanciulle non
cattoliche, e le ragazze piangevano disperate dinanzi a me quando dicevo che
poiché i loro fidanzati erano agnostici non le avrei sposate nella nostra
chiesa.
Lo
spirito del legalismo, che avevo assorbito nella scuola parrocchiale e che mi
aveva modellato in seminario, ha investito ogni aspetto della mia vita
sacerdotale. Ha contagiato il mio comportamento nel confessionale, s’è
riversato in tutto il mio insegnamento, ha ispirato tutto il mio lavoro
pastorale.
La Chiesa aveva sempre ragione, chi la criticava era un ignorante
mosso dal pregiudizio e dall’astio.
Ho combattuto gli assistenti sociali
convinti che i poveri dovessero praticare il controllo delle nascite, e me ne
sono fatto un vanto.
Ho condannato gli ospedali che permettevano l’aborto e la
sterilizzazione, i medici che suggerivano alle madri di non avere più bambini,
i professori che parlavano dell’intolleranza della Chiesa.
Ho fatto tutto ciò
in nome della legge, d’una legge che ignora eccezioni o discussioni.
Ma ora ne ho abbastanza.
Non posso
più restare zitto né continuare a comportarmi da legalista.
Non posso più
accettare questa semplicistica concezione dell’uomo e della vita.
Non posso
più far violenza ai cattolici, ricattare i protestanti, disprezzare gli ebrei e
sostenere i sistemi della mia Chiesa, ridicoli e antiquati.
Non posso più
ascoltare le confessioni comportandomi come un pizzardone preoccupato unicamente
del rispetto della legge, né rifiutare le esequie a chi le vuole.
Non posso
più vivere senza un atteggiamento misericordioso, senza un amore personale, né
cessare di fare quello che è il vero lavoro del prete.
Non posso più essere un
giudice o un carceriere, un ritualista o un predicatore di parole consunte, il
difensore d’una tradizione che deve scegliere tra il riformarsi o il morire.
Ecco perché protesto.
Lo faccio con parole piene della sofferenza senza senso
che ho sperimentato e che ho visto. Questo libro è appunto l’espressione di
quell’angosciata protesta.
Alcuni uomini, nonostante la
legge, sono diventati liberi dentro a questo sistema che ha confinato noialtri
in una pena disperata.
Questi uomini, comunque, sono la nobile eccezione che
dimostra come sotto la legge resti nascosto Dio. Essi sono la speranza che l’uomo
sopravvivrà alla corruzione che ci ha fatti prigionieri, mentre prometteva di
renderci liberi.
Sono pochi uomini animati da gran coraggio che possono
camminare da soli senza la dolce guida della Chiesa. Hanno la saggezza
necessaria per analizzare le cose e fare le loro scelte, e la gioia di saper
distinguere il frutto dalla corteccia.
Ma noialtri non siamo così dotati né
così audaci. Non possiamo rimanere soli, senza quella Chiesa che ci ha
insegnato a dipendere da essa.
Noi sappiamo bene di avere bisogno d’una qualche legge, come ne ha bisogno
qualsiasi famiglia, però sappiamo anche che l’ampiezza del nostro codice è
proporzionale all’assenza di fiducia e di amore.
L’uomo che per seguirci
deve sempre attenersi alle leggi è un uomo che ha paura di noi perché
anzitutto ha paura di se stesso. Egli non ha fiducia nei valori umani, non crede
nella sua dignità, non avverte quell’impronta che Dio ha impresso in lui. Il
confessore più crudele è l’uomo più guastato dal peccato.
Il legalista più
severo è l’uomo più disposto a violare la legge. Anche lui non ha fiducia
nella propria umanità, e ciò equivale ad ammettere che il mondo è destinato
al fallimento.
Solo un padre amorevole può indicare al figlio uno scopo da
raggiungere e dargli la libertà per raggiungerlo. Solo un’autentica famiglia
può circondare un bambino di quella fiducia che è necessaria per fare di lui
un uomo. Solo essa può offrire ai figli la possibilità di commettere sbagli
perché possano sperimentare la gioia di comportarsi bene.
[...] Cristo non chiese tempo per scatenare una
rivoluzione, per sfidare i farisei, per
minacciare i superbi che scandalizzavano i piccoli. Li chiamò «ipocriti»,
«vipere», «sepolcri imbiancati», e aveva
abbastanza fiducia negli uomini per permettere loro di amare.
Io odio il
legalismo della mia Chiesa.
Odio quel che ha fatto ai cattolici e quel che ha
fatto a me.
Mi dice che devo recitare il breviario per un’ora al giorno.
Mi
vincola con la minaccia del peccato, perché non riesce a credere che
impiegherei volentieri il mio tempo nella preghiera.
Ma io odio la preghiera
programmata che il legalismo impone, il massiccio
libro dei salmi e delle letture che devo rapidamente smaltire.
Sono costretto a
leggere discorsi verbosi e vacui di uomini, anziché stare in silenzio
dinanzi al mio Dio.
Odio le scappatoie che mi offre il giurista per sottrarmi a
quest’obbligo, perché simili scuse mi fanno soltanto capire quanto
la mia preghiera sia poco importante.
Egli mi dice che se pago qualche dollaro
a una società missionaria riceverò il permesso di dire
il rosario al posto del breviario ogni volta che dovrò guidare per un certo
numero di chilometri la macchina. Ma se non pago sono costretto a recitare anche
se guido la macchina. Egli mi dice questo, ed io, pur odiandolo, una volta ho
dato retta alle sue parole.
Io odio il legalismo
che mi obbliga a ungere i cadaveri con
gli oli santi nella speranza che l’anima s’attardi
ancora nel corpo già freddo. Il disagio mi paralizza quando le infermiere
tirano via il lenzuolo che copre quella carne inerte perché la segni con l’olio
mormorando strane
parole. Si
tratta di superstiziosa magìa, ma essi mi
stanno a guardare gravemente, con rispetto o compassione. Dentro di me so che sto sciupando il mio e
che, se in quel corpo c’è ancora un soffio di vita, il morente che ha
perso i sensi non ha bisogno del mio olio per
raggiungere Dio.
Pur tuttavia io stesso mi sono
messo in
una condizione tale da dover rispettare la
legge, perpetuando
quella crassa ignoranza che il Medio Evo ha lasciato in eredità ai
cattolici d’oggi.
Io condanno il legalista, quando
decreta che il cattolico deve
essere sposato da un prete. Conosco bene la storia di questa legge,
e so che la razza dei giuristi ha preteso
nel XVIII secolo, che i
protestanti stessi fossero costretti
a sposarsi dinanzi al prete.
Odio questa protervia che
obbliga i cattolici a condurre le loro spose protestanti, e protestatarie nei
presbiteri
delle nostre chiese, a ignorare le coscienze e i sentimenti, a ricattare la gente
semplice con l’alternativa tra l’impossibilità
del matrimonio o la sottomissione a leggi arcaiche e presuntuose.
Odio le promesse che uomini di altra
fede devono firmare per sposare una cattolica.
Odio le leggi che
offendono
la tradizione protestante e feriscono l’onore degli ebrei.
Ma soprattutto
odio me stesso, per avere obbedito
a queste leggi.
[...]
Odio il legalismo che sdottoreggia sulle indulgenze e
calcola il quoziente d’aiuto che esse possono arrecare alle anime sofferenti
nel purgatorio. Esso insegna che una preghiera di tre parole vale quanto sette
anni di penitenza
pubblica, talmente è cospicuo il tesoro spirituale
della Chiesa.
Benché il teologo ne sappia più di lui — come del resto chiunque si prenda la pena di pensare
—, è il giurista che indottrina la
gente. Egli spiega che le preghiere dette per guadagnare le indulgenze devono
comportare qualche movimento delle labbra. Ciò le renderà
«pubbliche», come
esige la legge.
Spiega poi che una serie d’indulgenze può essere lucrata
mediante varie
visite in chiesa, cosicché fa uscire i fedeli dalle «sacre
mura» per un istante, quindi li fa girare su se stessi e a rientrare a dire altre orazioni. E a lui obbediscono tutti,
siano essi operai, suore o preti, medici o professori,
tutti ossequienti dinanzi al legalismo della Chiesa.
Odio il legalismo che proibisce ai cattolici di partecipare
ai riti d’un’altra confessione religiosa.
Odio la grettezza mentale e il
timore che m’impediscono di pregare
con gli ebrei nella sinagoga, d’unirmi ai metodisti nelle loro preghiere e
nei loro inni.
Io non ho la fede neurotica del legalista, che non osa dare un’occhiata
agli scritti delle altre religioni, che non osa guardare criticamente
le dottrine della sua Chiesa.
Io posso pregare con qualsiasi uomo,
inginocchiarmi insieme a lui, cantare insieme a lui, fare la comunione
insieme a lui, o perlomeno riconoscere il valore delle sue convinzioni.
Soltanto un legalista
può
chiedermi di amarlo a parole mentre
lo umilio con l’insolente complesso di superiorità della sua fede.
Egli è
onesto al pari di me, e quindi vicino
a Dio al pari di me. Questo, glielo dimostrerò col rispetto per la sua fede,
pur continuando a cercare la maturità
della mia.
Io disprezzo il legalismo che
interdice a un amico non cattolico
di ricevere la comunione nella mia chiesa.
Finché non condivido con lui il mio cibo, non posso
chiamarlo mio fratello.
Il legalista mi dice che sarebbe
un sacrilegio se mangiasse alla mia tavola, che sarebbe
un insulto a Dio.
Il legalista gestisce un ristorante segregazionista,
con un elenco di
regole decrepite solidamente attaccato alla porta. [...]
Io odio il legalismo che tiene
in vita cerimonie ormai prive
di qualsiasi significato e giustifica antichi riti
ormai incapaci di
essere fonti d’ispirazione per l’uomo d'oggi. [...]
Soprattutto odio il legalismo che costringe i cattolici a
venire ogni settimana alla Messa e poi si congratula
con se stesso per quella prosperità della Chiesa ch’è attestata dall’affollamento
delle navate e dei parcheggi.
É stato questo legalismo a fare dell'inferno
il chiodo fisso delle coscienze cattoliche, a intontire
le intelligenze cattoliche con l'onnipresenza
del peccato. [...]
Il legalismo
ha risucchiato la nostra teologia,
incatenato
il nostro popolo, disgustato i nostri
amici non cattolici.
Permette ai vescovi d’imperversare sulla testa dei preti, di ignorare i
problemi reali, di ammucchiare denaro, di vivere nello
splendore, di dimenticare i poveri. [...]
Permette ai giovani preti di predicare senza
prepararsi, di confessare con tono arrogante, di compiacersi
per elogi immeritati, di fare
orecchi da mercanti alle rimostranze, di rimanere nel loro
infantilismo, di alimentare le proprie ambizioni, di rifuggire dalle
responsabilità, di avvizzirsi intellettualmente, di
congelarsi emotivamente, di sprofondare nell’autocommiserazione,
di girare alla larga dalle angosce e dai sentimenti degli uomini.
Il legalismo permette ai cattolici di considerarsi santi
quando sono soltanto docili, cristiani quando non sono nient’altro che scrupolosi esecutori delle leggi.
Li rende fieri
di non essere protestanti, soddisfatti di essersi liberati
dal peccato.
[...]
Quella legalistica è una mentalità gretta e meschina, che
non può muoversi senza una
direttiva giuridica che legittimi il più piccolo passo del suo pensiero. Non
le basta attenersi alle norme dell’amore cristiano, o scoprirle
nell’avventura d’una vita impegnata.
Il legalista sorride dinanzi alla
prospettiva di questa scoperta, e considera la leale
ricerca di Dio un atteggiamento egoistico e lassista. Egli conosce soltanto la
via della legge, cosicché per
lui una Chiesa che non sia strangolata dal diritto
canonico è una religione senza valori assoluti, una società
senza scheletro, un corpo senza colonna vertebrale. La sua via è l’unica
via, anche se milioni di persone gli gridano la loro sofferenza.
Ma siamo cattolici anche noialtri, che ci rifiutiamo di
lasciarci incatenare da una legge senza senno.
Noi non abbandoneremo il nostro
Cristo semplicemente perché un legalista ci dice che dobbiamo andarcene.
Noi
vogliamo sacramenti ricchi di vita, e non forme
stanche le quali non dicono
più niente. Vogliamo una Messa che ci offra pane ed
amore, e non una cerimonia sterile che ci tedia mortalmente.
Vogliamo vivere
secondo la nostra coscienza, riflettere sulla nostra esperienza, ascoltare
le parole di Cristo, e non lasciarci pavidamente schiacciare dalla gelida
forza della legge.
Noi non siamo disposti a staccarci dai nostri amici che
pensano di dover praticare la contraccezione, che trovano la pace in un nuovo
matrimonio, che lasciano il sacerdozio per un altro tipo di vita.
Noi
vogliamo una Chiesa che si metta al nostro servizio
mentre andiamo alla ricerca della felicità e della pienezza, invece di
soffocarci ancor prima d’aver visto chi siamo.
Dalla nostra Chiesa pretendiamo ancor più che dal nostro
governo, dalla nostra economia, dai nostri genitori e
dalla nostra famiglia.
Sappiamo bene che la Chiesa
è una società e che deve avere una sua struttura e una sua legge. Però essa
non può adorare le strutture e moltiplicare
le leggi a tal punto da privare l’uomo d’una vita
e d’una coscienza proprie.
La coscienza è la mano di Dio che si posa su di me per
orientarmi, dirigermi, rassicurarmi che non mi sono smarrito, convincermi che
non posso vivere come qualsiasi altro uomo, approvarmi quando agisco
rettamente. [...]
Newman lo ha detto con rara
efficacia: «La coscienza è una guida personale, e io ne faccio uso perché
devo far uso di me stesso: pensare con l’intelligenza d’un altro mi è
impossibile come respirare
con i polmoni di un altro. La coscienza è più vicina a me di qualsiasi altra
forma di conoscenza».