Quando l'ideale diventa legge
James Kavanaugh 

~ Il grido d'amore e di speranza
di un prete cattolico «arrabbiato» ~

(Tratto da «A modern priest looks at his outdated Church»
© Father James Kavanaugh, c/o John Farqunarson Ltd, London, 
«Rinnovati vecchia Chiesa» © 1969 Piero Gribaudi Editore)


Molto tempo fa, in un mondo pieno di confusione e di stanchezza, esplose una nuova eccitante speranza. Apparve un uomo, in Palestina, che disse parole che sembravano provenire da Dio. Era un ebreo, imbevuto della potenza e della bellezza di un’eredità religiosa che non aveva paralleli né in Oriente né in Occidente. Non aveva la grettezza dei bigotti, né si mise al servizio degli interessi d’una singola nazione o d’una razza particolare. Il suo sangue era quello passionale e bollente di Abramo e di David, lo stesso sangue che avrebbe continuato a scorrere nelle vene del popolo ebraico lungo i secoli futuri.
La sua visione, tuttavia, trascese i confini della Palestina e abbracciò il mondo intero. 
I suoi occhi si posavano su chiunque soffrisse, le sue mani risanatrici si stendevano sulla donna debole e peccatrice, sul lebbroso tenuto ai margini della società, sul cieco che coi suoi lamenti s’era reso insopportabile persino agli amici e ai parenti. Le persone depresse, ascoltandolo, sentivano dentro di sé un improvviso sussulto di energia. I colpevoli, alle sue parole, ricominciavano a rispettare se stessi come uomini. 
Lo seguirono dei pescatori, e lo seguirono anche dei nobili i quali scoprirono che vino e donne non bastano a placare completamente la febbre dei desideri. 
Alcuni lo chiamarono «Uomo-Dio», e anche quelli che non credevano che egli avesse questa statura si meravigliavano per la potenza che avevano le sue parole.
Sotto un certo aspetto, egli non diceva nulla di nuovo quando insisteva che in ogni comandamento la prima e l’ultima parola spetta all’amore. 
L’uomo aveva imparato l’amore già prima che l’Uomo-Dio venisse sulla terra. Gli egiziani avevano saputo amare veramente le loro mogli, e i babilonesi avevano capito di dover trattare ogni prossimo con dignità e rispetto. In particolare gli ebrei, nutriti dall’insegnamento di Isaia, Ezechiele e Geremia, avevano appreso la responsabilità dell’amore e per secoli avevano lottato cercando d’impedire che l’ideale dell’amore venisse soffocato dalle grette e arroganti leggi degli uomini. 
Tuttavia, in quanto ad amare il prossimo l’uomo non aveva avuto grandi successi. Per ogni giusto c’era una dozzina di farisei che deformavano beffardamente Dio riducendolo ad una serie di norme imposta alla gente atterrita e indifesa. Per questo Gesù poté parlare di un comandamento nuovo: « Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi ».
Ebbe così inizio la religione dell’amore, destinata a perfezionare e portare a pienezza le altre religioni dell’amore che uomini tracotanti avevano trasformato in glaciali complessi di inflessibili leggi. 
Nobili ideali, la storia li aveva già conosciuti prima, però il tempo e il terrore avevano sepolto quegl’ideali sotto le zolle pesanti di codici e di tavole legali. Ora, ecco che Cristo, In una maniera che superava ogni limite, proponeva agli uomini una nuova eccitante prospettiva. Contagiato dal suo fascino, Paolo scriveva nella Lettera ai Romani che l’uomo era stato «reso libero della legge» e sarebbe stato finalmente capace di vivere grazie al violento soffio dello spirito d’amore. Egli non intendeva dire che non ci sarebbe più stata alcuna legge religiosa, ma soltanto che l’uomo, nelle sue angosce personali, non avrebbe avuto più come unico soccorso la fredda regola da applicarsi in tutti i casi. L’uomo poteva essere una persona perché era ormai in grado di conoscere un Dio personale che si rifiutava di essere circoscritto da un singolo rito religioso o dagli inappellabili giudizi di un sommo sacerdote.
L’uomo non poteva più a lungo ridurre la concezione di Dio al livello dei sordi idoli che servono soltanto a preservare la superbia e la meschinità umane. Né poteva più a lungo comprimere Dio entro i comodi casellari costruiti dai suoi simili. Ora, più nessuna statua avrebbe potuto contenere la sua maestà. Più nessuna legge e nessun codice di leggi avrebbe potuto prescrivere dettagliatamente le condizioni della misericordia e dell’amore di Dio. Persino Cristo, nonostante possedesse la divinità in maniera unica, poté manifestarsi soltanto nella semplicità di due piedi che barcollando cercavano di camminare e di due mani che si protendevano impazienti verso i seni della mamma.
Cristo, gli uomini potrebbero chiamarlo Dio - come faccio io stesso - con una fede semplice e priva di argomenti. Altri potrebbero trovare il loro Dio nella «Chiesa», in «Abramo», cioè nella sinagoga, o nell’«onestà personale». Ma più nessuno può dire ch’egli ha definito e compreso Dio o che un altro uomo certamente non ha goduto dell’indulgente amore di Dio. 
Dio non ha nome perché non ha confini, e il suo amore non può essere delimitato dalla cecità o dall’egoismo di uomini atterriti.
Eppure, nonostante gli sforzi di Cristo per porre fine alle grettezze religiose e malgrado gli ammonimenti e le riforme della storia, un tempo ero anch’io un uomo atterrito che cercava di delimitare e d’impacchettare Dio. 
Pensavo di conoscere i confini del suo amore, i limiti della sua pazienza, il colore della sua barba. Ero e sarò sempre un prete cattolico, ma oggi non posso più essere lo stesso prete che ero prima. Aderii al sacerdozio con l’apertura e la generosità di cuore che mi derivavano dalla famiglia e dalla mia formazione. Volevo confortare i malati, aiutare i poveri, insegnare ai ragazzi i misteri di quella vita che io avevo appena cominciato a vivere. Ero elettrizzato da un ideale che mi prometteva di farmi camminare come Cristo in mezzo ai deboli. Così, ho offerto il suo perdono, ho rasserenato dolenti vedove, ho incoraggiato gli alcolizzati, ho confortato la macilenta adolescente preoccupata che nessun giovanotto le desse mai un appuntamento. Ho insegnato nelle scuole superiori e nell’università, ho predicato con entusiasmo e preparazione, ho sperimentato quanto rassereni e quanto sostenga l’amore che hanno i cattolici per i loro preti.
Pur tuttavia, giorno per giorno aumentava in me un senso di sofferenza nel vedere come certe leggi presuntuose e infondate hanno circoscritto Dio con limiti sacrileghi. 
Io non potevo camminare come Cristo in mezzo ai deboli perché quelli che più avevano bisogno di me non potevo aiutarli. 
Una volta, per esempio, a una donna che venne a confessarsi potei dire solamente che non le era lecito praticare il controllo delle nascite. Mi raccontò che suo marito si rifiutava di dormire con lei se non aveva preso la pillola. La sentii descrivermi le notti senza fine quando giaceva accanto a lui, lo accarezzava e lo sentiva allontanarsi. Cercò di dirmi il suo terrore ch’egli si trovasse un’altra donna. Cercò di spiegarmi con quanto angoscioso ardore il suo corpo lo desiderava, e mi rievocò i primi tempi del matrimonio quando si accoccolava nel calore delle sue braccia. Pianse, raccontandomi come i suoi quattro bambini, tutti sotto i Sei anni, avessero logorato la sua pazienza e come ella non avrebbe potuto farcela senza il conforto di suo marito. Io le spiattellai la mia risposta. Io, al quale non era mai capitato che il pianto d’un bambino interrompesse il sonno, le dissi che Dio le chiedeva questo nobile sacrificio per mettere alla prova il suo amore, e che la sua generosità non era paragonabile alla generosità divina.
Fu insensato, da parte sua, parlare con me, perché io non avevo orecchi. La penna d’un legislatore me li aveva asportati. 
C’era lì una donna che voleva amare suo marito, che non osava avere altri figli, che donava se stessa in una misura che a me non era mai stata chiesta. Era sposata a un camionista il quale non provava il minimo interesse per i sottili argomenti che gl’insegnavano in quali modi gli fosse lecito far l’amore con sua moglie. Egli l’amava con tutto se stesso, e il suo amore non faceva che accendere sempre di più quello della donna per lui. Egli amava i bambini con calore e virilità, e per essi affrontava il suo ingrato lavoro quotidiano. Si sacrificava al di là d’ogni limite, ma non poteva accettare quella forma d’intimidazione che nasceva dagli scrupoli della donna soggiogata dalla legge della Chiesa. Così, ella si concava gelidamente sotto le coperte accanto a lui e assisteva all’agonia del loro matrimonio. Quella donna venne da me come se venisse da Cristo. Venne perché non conosceva un altro posto dove andare. Venne senza una sua teologia, senza una sua risposta per controbattere i miei roboanti ragionamenti. In lei, non c’era che la paura di perdere l’uomo che guidava un camion e che l’aveva resa madre di quattro piccini. E a quella donna io diedi la mia teoria e la mia legge. 
Le dissi che il controllo delle nascite era egoistico e contro natura. Le spiegai quel che avevo imparato nei miei libri di testo e per mitigare la sua pena le offrii i pronunciamenti pontifici. Proprio mentre le parlavo sentivo quanto le mie parole fossero vane. Segretamente speravo che ella tornasse da suo marito e lo amasse pure come dovrebbe fare una donna, ma mi rendevo conto che invece sarebbe rimasta sotto la tortura del senso della colpa. Era cascata in una trappola, stava subendo un lavaggio del cervello che distruggeva la sua esperienza personale e tendeva a ridurla a un docile robot teleguidato da una legge romana.
Tutto quello che lei voleva era di amare suo marito come Cristo le aveva detto che doveva fare. Era rimasta paziente coi bambini, mentre si baloccavano col cibo invece di mangiarlo e si divertivano a buttare per terra il cucchiaio. Era rimasta paziente ad aspettare che il marito, finito il logorante lavoro lungo le strade, ritornasse a casa. Ella amava la sua calma, la sua voce sommessa, le sue attenzioni e le sue delicatezze verso di lei durante le gravidanze. Ella pensava spesso ai parti che aveva avuto e alla carica di energia che le dava lui nei momenti di paura e di dolore. Ella continuamente aveva davanti a sé, nella sua memoria, gli occhi di lui che la ringraziavano per ogni bimbo nato. Il marito non era di molte parole. Le parlava con gli occhi, e con le carezze con le quali la rasserenava quand’erano a letto. Ora, non poteva più amarlo nel modo in cui egli aveva bisogno di essere amato.
Onestamente, gli argomenti che le esposi non convincevano neanche me, sebbene li esponessi lealmente, o forse sotto la pressione della paura, o forse suggestionato da una fede scriteriata. La penitente conosceva l’amore meglio di quanto io potessi sperare di conoscerlo, e io, io che ero «un altro Cristo», potevo soltanto dirle parole in base alle quali si sarebbe sentita disonesta e si sarebbe vergognata di sé. 
L’ideale dell’amore cristiano, che ella desiderava seguire, era stato trasformato da una spietata legge in mia vita impossibile. Il suo matrimonio era destinato a morire o a raggelarsi; suo marito poteva scivolare nell’amarezza o nell’indifferenza verso di lei. Lei era venuta a trovare Cristo, il quale le aveva detto che Dio non può essere incatenato da una legge anonima, e io la mettevo perentoriamente dinanzi a un dilemma: o si allineava con la legge o abbandonava Dio.
Non ditemi che devo studiare ancora altre argomentazioni! Le ho lette tutte, le ho studiate e ristudiate infinite volte. Non ditemi che devo pazientemente aspettare che il Papa appaia al balcone, prima di poter mandare questa donna a letto con suo marito! Ho collaborato anch’io a generare questa povera creatura timorosa e schiava che venne indifesa da me. Ella non è abbastanza forte per andarsene via, per la sua strada, come fanno oggi le donne più evolute. È una vittima, è una tragedia vivente, è una distorsione che io ho contribuito a generare e che ora contribuivo a perpetuare. Ella non ha l’intelligenza o il coraggio che le ci vorrebbero per di-fendere se stessa. Perciò perderà suo marito, in ossequio a una legge fanatica, oppure ignorerà quella legge e si unirà a quei milioni di anonimi che vanno alla Messa frustrati e impacciati perché io ho detto loro che vivono «in stato di peccato».
Ma com’è che abbiamo edificato proprio quella Chiesa legalistica che Cristo aveva promesso di abbattere? 
Com’è che siamo passati da un Vangelo di libertà e di amore a un sistema che può strappare i mariti dalle mogli in nome della giustizia? 
Com’è che siamo arrivati a sostituire la religione coi cavilli d’una teologia ormai morta? 
La teologia dovrebbe essere una scienza che insegna all’uomo di qualsiasi epoca il modo migliore di amare il suo Dio. Dovrebbe prendere i tesori del Vangelo e trasformarli in parole e in idee che possano spiegare all’uomo moderno come vivere e come amare. Invece la nostra teologia è diventata un gioco per esercitazioni scolastiche. Essa è un codice di regole accumulatesi durante insulse guerre scatenate da rancori religiosi. E' una raccolta di verità avvizzite che serve unicamente a saccheggiare l’uomo della sua responsabilità personale e a ridurlo in quello stato d’indifferenza in cui cadono gli schiavi terrorizzati. 
La teologia ha tolto all’uomo l’intelligenza e gli ha lasciato dei vocaboli imparati a memoria. 
Lo ha privato della libertà e gli ha impedito di sperimentare quale avventura dovrebbe essere la ricerca di Dio. Ha osato entrare nelle camere da letto e dire a ciascun uomo ch’egli deve amare la propria moglie nella maniera di tutti gli altri uomini.
È questa la teologia che io ho imparato e ho poi trasmesso in ogni confessione che ho ascoltato, in ogni lezione che ho impartito, in ogni sermone che ho predicato al gregge già infettato dal senso della colpa. 
Non potrei predicare a gente libera, non potrei dare semplici suggerimenti, posso soltanto comandare. Mi è proibito di comportarmi diversamente! In confessionale devo parlare come gli altri preti. Agli infelici devo dire che il divorzio non è lecito, in nome dell’amore cristiano. Non ha la minima importanza lo stato in cui è ridotto il loro matrimonio: il tormento, l’amarezza, lo spirito di vendetta, e i contraccolpi di tutto ciò sui figli. Ovviamente, tutto questo lo conosco, perché sono un prete cattolico. Posso dire a questa donna che Dio le ha proibito di sposarsi di nuovo, e saprei dirlo, perché ho ridotto Dio entro gli angusti limiti del sistema che rappresento. Lei può spiegarmi che il suo secondo matrimonio le ha dato la pace, che il suo nuovo marito l’ha resa più serena e ricca d’amore di quanto mai avesse sognato. Lui può perorare la sua causa insistendo che ai bambini della donna vuoi bene come se fossero suoi, e può addirittura piangere alla mia presenza, come accade spesso. Io, io ho il dovere di dire loro che questo matrimonio è maledetto da Dio.
Sarebbe diverso se non avessi studiato le origini di simili leggi, se non conoscessi la rozza ignoranza degli uomini che sono obbligati a farle rispettare. Conosco, inoltre, le sofferenze di molti preti che deprecano la mentalità gretta che ho descritto, ma non trovano le parole o il coraggio per combatterla apertamente. Nemmeno io ho coraggio. Ho solamente tanta pena. Ma mi rifiuto di restare zitto quando i sofferenti indifesi, «la trascurata moltitudine dei disorientati, dei semplici, di coloro che non sanno parlare» rimane disarmata e nuda dinanzi alla presuntuosa arroganza della legge cattolica. 
Che commedia, lo spettacolo d’una Chiesa universale in attesa d’una voce da Roma che spieghi come i mariti possano dormire con le proprie mogli! Sì, una commedia, se la situazione non fosse così tragica.
La vera tragedia è che Roma non comprende i nostri reali bisogni. 
Noi non abbiamo bisogno d’una soluzione del problema del controllo delle nascite. 
Abbiamo bisogno della libertà nei confronti d’un sistema che s’è impossessato delle nostre vite. 
Abbiamo bisogno della libertà nei confronti d’una Chiesa legalistica che ha trasformato la semplicità d’un amore personale e cristiano in un mondo di paura e di colpa. 
Noi non sappiamo come si fa a cercare Dio, non l’abbiamo imparato. Ci è stato solo insegnato a rispettare le leggi, a evitare il peccato, a temere l’inferno, a portare una croce costruita da noi stessi.
Io lo so come l’adolescente spasima sentendosi colpevole, quando s’è masturbato. Alcuni studiosi medievali gli hanno insegnato che ha offeso seriamente Dio, che ogni atto furtivo commesso nel silenzio della sua camera può condannano per l’eternità all’inferno. 
Io lo vedo perdere sempre di più qualsiasi interesse per la ricerca di Dio e diventare sempre di più ossessionato dal suo piccolo inondo di peccato e di rabbia. Lo vedo correre ogni mattina a confessarsi, prima d’andare a scuola. In classe lo vedo distratto e svogliato, e m’accorgo che ha passato un’altra notte di terrore, di quel terrore che io ho contribuito a infondergli. Mi meraviglio che egli non mi odi. Io m’insinuo nella sua coscienza quand’egli va a un appuntamento con un’altra adolescente, e gli prospetto minacciosamente l’inferno se la sua mano accarezza con curiosità il petto della compagna. Egli corre poi da me a confessarsi, per sentirsi libero, per avvertire il calore del perdono di Dio. Ma io, proprio mentre gli offro l’assoluzione, so bene che in realtà contribuisco a renderlo prigioniero per tutta la vita. 
Ricordo le lotte della mia adolescenza, le notti cariche di tensione nelle quali un qualche ricordo d’un giorno come gli altri mi gettava nella tortura di trovarmi alle prese con quei pensieri sessuali che m’era stato insegnato a paventare. 
Ricordo il mio terrore di morire durante il sonno e di trovarmi così all’improvviso nel tribunale di quel Dio che manda i masturbatori all’inferno. 
Ricordo che invocavo perdono dozzine di volte prima d’addormentarmi esausto. 
Ricordo, al tempo del liceo, le feste da ballo nelle quali non osavo stringere troppo una ragazza per paura che Dio mi chiamasse a sé e mi condannasse come lussurioso.
No, non abbiamo bisogno d’un Papa che ci dica che ai cattolici è permesso l’uso della pillola. Abbiamo bisogno d’un Dio che ci dica che siamo liberi. 
Abbiamo bisogno di una Chiesa che ci liberi dal legalismo che ci ha sepolti sotto il senso della colpa e sotto il terrore e ci ha portato via il nostro Dio. 
Abbiamo bisogno d’una rinnovata fede in noi stessi, in quella somiglianza con Dio che portiamo nei nostri corpi e nei nostri cuori. 
Vogliamo imparare ad amare, noi che abbiamo imparato solo a rispettare un rituale e delle regole. 
Per anni noi abbiamo mangiato pesce al venerdì senza capire che valore d’amore potesse mai avere quest’antica forma di rinunzia. 
Quale uomo potrebbe prendere sul serio leggi del genere? Quale uomo potrebbe aver paura di violare prescrizioni così infantili? Ebbene, milioni di cattolici furono uomini così: essi s’assoggettarono a questa regola antiquata con lo stesso impegno d’un selvaggio superstizioso. 
È possibile che Dio si preoccupi se noi mangiamo carne o pesce? Possibile che stia dietro a simili stupidaggini? Se un uomo pensa che Dio s’interessi tanto ad esse, questo ci dà un’idea di come quell’uomo concepisca Dio.
È proprio la concezione di Dio, quello che abbiamo perso.
In pratica, ciò che interessa non è il come, ma il semplice fatto che noi guardiamo al passato e osserviamo norme e riti che hanno nascosto Dio ai nostri occhi. 
Gli studiosi mi diranno che sotto i codici e i catechismi Dio è presente, ma io non ho più intenzione di stare al loro gioco e di unirmi ad essi in questo tipo di ricerca. Io posso solo rivolgermi alla gente che ho conosciuto da prete e narrare la mia vita, lasciando gli studiosi alle prese coi loro solenni testi. Io guardo come le persone stanno alla Messa: leggono preghiere che non le toccano nemmeno, e non potranno mai essere una comunità finché avranno a che fare con canti estranei e con l’indifferenza organizzata. Ascolto insieme a loro i sermoni, che per il predicatore hanno ancor meno significato che per il suo gregge, e le vedo star sulle spine dinanzi alla banalità di quelle parole. 
Le osservo venire alla Messa e mi domando meravigliato perché mai ci vengano. In realtà, lo so perché ci vengono. Ci vengono per adempiere a una legge, ci vengono perché a non venirci hanno paura, quella paura che abbiamo istillato loro fin dalla gioventù. 
Ci vengono perché noi chiediamo che vengano, ed esse hanno imparato a rispettare la nostra parola come se uscisse dalla bocca stessa di Dio. 
Ci vengono, e si sorbiscono ogni nuovo trucchetto che noi imponiamo loro per rendere la Messa un po’ più significativa; poi se ne vanno chete chete, con quell’insulso silenzio che è diventato così tipico del gregge cattolico. 
Ci vengono cercando quello che Cristo ha promesso, cioè una comunità di fede e di premure fraterne; noi invece diamo loro uno spettacolo pieno di gesti senza senso e di frasi monotone. Ci vengono quindi come corpi senza testa, come facce senza nome e senza idee, semplicemente per ottemperare alla legge, e se ne vanno ancor più prive di testa e di nome di quando sono arrivate. 
Cercano Dio, qualche pensiero valido, un po’ di forza per dare un senso alla settimana che comincia, e noi offriamo loro soltanto la vacuità del rituale e delle leggi.
Eppure non posso biasimarle se continuano a venire. Non posso accusarle per quella paura e quel senso di colpa che io non ho condiviso, per quel legalismo che io non ho conosciuto. 
Se hanno cessato di perseguire ideali personali diventando schiave della legge, io a mia volta ho permesso che il mio sacerdozio diventasse quel rituale impersonale e quella preservazione della legge che la Chiesa si aspettava da me. Io, che ho imparato abbastanza a combattere, io, che sono abbastanza capace di parlare apertamente, io potevo soltanto declamare le leggi che m’avevano insegnato proprio mentre avevo paura di affrontare le realtà della mia vita. Io potevo dirmi «povero» e continuare ad usufruire dell’agiatezza delle classi arrivate. Potevo chinarmi nell’«obbedienza» clericale, mentre in realtà sfuggivo alle responsabilità delle riflessioni personali. Potevo tutelare l’osservanza di leggi che per me non avevano senso, insegnare devozioni che non praticavo chiedere sacrifici che non avrei potuto fare, e accettare gli elogi d’un popolo ingannato dalle apparenze esterne della mia vita. 
Ciò nondimeno, accettai le leggi come stavano scritte, sebbene esse mi rinchiudessero sempre più in me stesso.
Accettai la legge del celibato al fine di essere libero di dedicarmi al servizio degli uomini. Avrei potuto essere padre di molte anime, rinunziando alla paternità e ai piaceri della carne. Avrei potuto occuparmi delle persone sofferenti e solitarie, mettermi a loro disposizione, non dovendo come gli altri uomini restare a parlare coi figli o interessarmi alla moglie. 
Sarei sempre stato pronto a qualsiasi chiamata, sempre disponibile a prestare la mia opera in mezzo alla gente smarrita e povera, resistendo alla tentazione di provare anch’io che cos’è l’amore. Così, vigilavo sui miei pensieri, rifiutavo le offerte d’amore, evitavo le occasioni pericolose e facevo sempre nuovi progetti per occupare continuamente il mio tempo libero. Poi, un giorno, feci una pausa e scoprii che non ero autenticamente celibe.
Ero piuttosto un uomo egoista e atterrito che aveva lottato per osservare una legge senza senso. Il celibato, che mi aveva promesso di rendermi libero e che era stato così ricco di significato per i monaci e per uomini d’altro stampo, mi aveva in realtà fatto soltanto ripiegare su me stesso e mi aveva chiuso all’amore’. Io non avevo mai offerto il mio celibato a Dio, avevo semplicemente ottemperato a una legge che s’era frapposta tra me e certe situazioni che di me avrebbero potuto fare un uomo. 
M’ero tenuto lontano dalla frequentazione delle donne, per una falsa lealtà verso un sistema e una legge. M’ero rifiutato di fermarmi a pensare, per domandarmi se quel tipo di vita mi aveva aperto all’amore. E quando capii, in mezzo al vortice del mio lavoro e della mia sofferenza, che sarei stato un prete migliore se avessi avuto moglie e bambini, chiusi gli occhi, mi detti del traditore e continuai ad accettare l’assurdità della legge.
Il celibato, per me, è sinonimo d’infelicità. Ciò nonostante, per anni restai chiuso in un vile silenzio, timoroso di parlare. Sperimentai intanto che cosa dava una vita senza matrimonio a me e a centinaia di preti che mi aprivano il loro cuore. 
Sperimentai le nostre compensazioni e i nostri compromessi, e li ho tuttora ben presenti alla mente. Migliaia di noi preti coviamo ambizioni e perdiamo qualsiasi sensibilità, ci prendiamo vacanze costose delle quali non avremmo bisogno, beviamo più di quanto dovremmo, ci facciamo pomposi e arroganti, trasformiamo la parrocchia nel nostro piccolo regno personale, accendiamo irresponsabilmente l’irrequietezza delle donne col nostro fascino fanciullesco, diventiamo freddi e cinici, facciamo l’amore nella nostra fantasia rimasta puerile, sopportiamo nobili croci costruite da noi stessi, consideriamo l’indifferenza del nostro gregge come un affronto personale. 
Siamo così osservanti che non riusciamo più a comprendere la debolezza, così celibi da fare dei peccati del sesso il bersaglio numero uno delle nostre preoccupazioni religiose. E tuttavia pochi di noi sono autenticamente celibi.
Siamo, in realtà, uomini impauriti che osservano una legge senza effettivamente comprenderla. 
Siamo le vittime d’un sistema che si è risucchiato la nostra giovanile indipendenza e ci ha plasmati in senso opposto alla nostra reale volontà. Ci hanno insegnato a difendere qualsiasi aspetto della nostra fede prescindendo dai nostri personali sentimenti, cosicché questa educazione ci ha resi maestri nel sostenere agli occhi altrui quella follia che sono le nostre vite così legalistiche. 
Siamo dei prigionieri, isolati dal mondo del pensiero libero e indipendente, siamo uomini che non sanno cosa sia un’autentica scelta. Accettammo un modo di vivere che non comprendevamo, e continuiamo ad aderire alle sue leggi perché ci manca il coraggio di stare in piedi da soli.
Così, possiamo pregare in latino pur sapendolo a malapena balbettare, indossare abiti che avevano senso in un’altra società, riempire turiboli d’incenso e aspergere la gente con l’acqua, usando simboli arcaici e superstiziosi. E possiamo anche fare i celibi, celibi che rimangono attaccati alle leggi sperando che Dio li aiuti nel loro dilemma e nella loro pena. Abbiamo paura di lasciare il sacerdozio, e paura anche di modificarlo, sebbene il suo legalismo abbia soffocato il nostro amore. Ma finché non siamo liberi di lasciarlo, non possiamo dirci li-ben nel rimanervi. Il legalismo ci ha ridotti a schiavi.
Se lasciassi il sacerdozio perché il celibato per me non ha più senso ed offusca anzi il genuino amore cristiano al cui servizio un tempo intesi pormi, verrei considerato un rinnegato, un traditore, un transfuga. Resterei pur sempre un prete, ma mi troverei infelice e solo: tanto la famiglia come gli amici mi lascerebbero andare alla deriva. Se poi decidessi di sposarmi, si pregherebbe i miei genitori d’ignorare la moglie che mi sono scelto e di tenersi alla larga dai bambini: il tutto, in nome dell’amore cristiano. 
Benché mi amino profondamente, con tutto il cuore, essi non avrebbero la libertà di prescindere dai regolamenti della Chiesa. 
In pratica mi ripudierebbero, me che ero la loro gioia e il loro orgoglio e che vorrei continuare ad esserlo. Si allontanerebbero da me e offrirebbero tutta la loro sofferenza a Dio. In chiesa ci andrebbero quasi di nascosto, evitando il loro parroco, paventerebbero qualsiasi conversazione perché potrebbe cadere su ciò che è la loro vergogna, e starebbero a domandarsi in che cosa hanno sbagliato nelle loro fatiche per educarmi. Comunque mi ripudierebbero, perché questa mia Chiesa così arrogante li ha resi incapaci di scegliere altrimenti.
Eppure io non sono un celibe che liberamente ha offerto la sua condizione a Dio. 
Io sono un legalista deluso, che osserva le leggi in ossequio a un sistema e a una causa.
Io non sono un vero celibe perché sto semplicemente a un gioco che altri mi hanno insegnato a giocare.
Io sono uno scapolo egoista, un fariseo che parla di amore ma che si intende soltanto di legge. 
Sono un uomo di gusti sofisticati e costosi, un uomo che non si assumerà mai reali responsabilità, un uomo più colpevole degli ignari ragazzi che condanna, un uomo isolato dalle pene e dai problemi personali. Il mio celibato è un idolo, un’ossessione, un culto del mio io, uno stare a guardarmi l’ombelico. 
Sono un uomo che chiede denaro senza darlo a nessuno, che raccoglie omaggi senza averli meritati e che ha gran cura del suo corpo diventato troppo celibe per amare.
In me l’ambizione ha sostituito l’amore, la sete di titoli s’è divorata il mio cuore. 
M’accorgo della mia grettezza, della mia mancanza di sensibilità, della mia crescente incapacità ad occuparmi degli altri. Il celibato è il paravento che mi separa dalla realtà, io scudo che mi protegge dalla gente, la muraglia che m’isola dai problemi vitali. Sono un soldato messo a vigilare un vecchio fortilizio, una sentinella che col fucile va avanti e indietro sugli spalti d’una rocca. Mi è proibito mescolarmi tra le persone, per paura che oda il loro grido pieno di angoscia. Parlo a distanza, con parole che diventano semplici suoni confusi. 
Gli illetterati non mi rispondono perché non sono abbastanza vicino ad essi o perché tratto argomenti assolutamente estranei ai loro interessi. E quando non mi rivolgono la loro attenzione, mi chiudo presuntuosamente nella mia rispettabilità e prego invocando la misericordia divina per le loro anime. Io non sono un celibe rigenerato dal servizio e dall’amore; sono un impaurito legalista che ha fatto una promessa che non può mantenere. Sono diventato bisognoso d’aiuto come le stesse persone che ho il compito di guidare, silenzioso come coloro che non sanno parlare. 
Sono docile come la moglie del camionista che condanno se usa contraccettivi, sono tutto tremante come l’adolescente che si masturba sentendosi in colpa, sono pieno di tedio come la gente che viene in chiesa la domenica e si domanda che senso abbia la Messa.
Io non posso aspettare che Roma prenda delle decisioni per cambiare il nostro legalistico modo di vivere. Non ce la faccio più a veder lacrime che non posso asciugare e ferite che posso soltanto riaprire. Non riesco più a trattare gl’innocenti come se fossero pietre incapaci di soffrire, a considerare gli uomini come numeri senza volto. Non posso stare ad aspettare i vescovi troppo impauriti e troppo distanti per pensare e per rimettere in discussione il legalismo che ci affligge: si trovano così a loro agio nelle loro disimpegnate sollecitudini! 
Non riesco a condividere la loro paura che una Chiesa leale e meno perentoria provochi tra la gente la confusione e la paralisi. Credo che Dio, nella creazione, abbia stabilito con l’uomo un contatto troppo profondo per permettere che ora siano la forza e il terrore a fare di lui un figlio. La lealtà verso la legge ci ha resi schiavi, e io non voglio più vivere come il lacchè d’un sistema.
Nella nostra Chiesa non c’è posto per le persone. C’è posto soltanto per gruppi che chinano il capo dando il loro assenso a occhi chiusi. A ciascuno viene chiesto di accettare quel che ha deciso la Chiesa sui controllo delle nascite, sul divorzio, sul sesso e sui peccato, sull’educazione e sulla vita religiosa, e se uno ha il coraggio di dissentire gli viene solennemente proibito di esprimersi.
Nel mio lavoro non posso prendere nessuna decisione personale, poiché ogni mia sillaba deve coincidere perfettamente con le sillabe già pronunciate da Roma. 
Mi si chiede di respingere l’uomo che si sposa una seconda volta, di condannare la ragazza nubile che non riesce a maritarsi ma che esercita la sessualità nella fedeltà e nella verità maturando profondamente il suo amore. 
Devo cacciar via l’omosessuale o pretendere da lui una promessa che so bene che non può fare. 
Non posso aiutare un uomo a riesaminare i suoi ideali, né condividere la sua convinzione che soltanto il divorzio gli farà fare qualche passo avanti verso un amore maturo e cristiano. 
Non posso dichiararmi d’accordo col giovane ebreo che ama una ragazza cattolica ma non se la sente di ottemperare alle odiose condizioni impostegli dalla mia chiesa. 
Non posso dire quel che veramente penso sulle antidiluviane e funeste scuole cattoliche, sull’orrore dei nostri conventi, sulla miserabile mediocrità della vita parrocchiale. 
Non posso fare esperimenti, mettere in discussione forme che hanno perso ogni senso, piantarla con l’ascoltare insulse confessioni, a meno che non mi cerchi un altro genere di vita. A me è proibito sposarmi, con un divieto che prescinde dai vantaggi che ne trarrei per il mio lavoro di prete, che prescinde dall’egoismo in cui sono precipitato per la mancanza d’una donna. Io sono un cattolico, e i cattolici devono muoversi come un immenso robot o cessare di usufruire dei benefici della Chiesa. 
Ho il dovere di aspettare finché i prudenti gerarchi non abbiano scritto un’altra legge.
E' la mia, una Chiesa arrogante che non conosce altre strade fuorché quella della legge. 
È una Chiesa presuntuosa che tiene uno sterminato numero di figli in continua attesa della sua parola. È una Chiesa orgogliosa che chiude le orecchie e non ascolta milioni di voci cariche dì sofferenza È una Chiesa non cristiana che soffoca i suoi ideali sotto una farragine dileggi. 
È una Chiesa funesta che ha perso la fiducia negli uomini, una Chiesa fegatosa, facile a incollerirsi e a condannare. 
Nonostante ciò è la mia Chiesa, e non me ne andrò via nascondendo nel silenzio la ferita del mio cuore.
Se non la amassi, non starei qui a scrivere. Se non soffrissi per il suo comportamento, la guarderei beffardo e sbatterei la porta.
Ma essa mi ha formato e plasmato, nutrito e perdonato, applaudito e deriso, e ora può straziare il mio cuore. Le basta prendermi per la mano, ricordarmi i preti che mi hanno conosciuto ed amato, bisbigliarmi una parola sui miei genitori che invecchiano, rievocarmi l’infanzia, e io mi sento male, irrimediabilmente scosso dalla paura. 
Sono pronto a inginocchiarmi dinanzi ad essa, a stringerla affettuosamente fra le mie braccia di giovane pazzo, a chiamarla «madre» sperando di poter essere ancora suo figlio. 
Però non posso tacere quando vedo il suo amore immeschinito in legge.
Abbastanza a lungo sono stato un prete che costringeva i semplici ad agire contro la loro volontà. Abbastanza a lungo, sia nel confessionale che fuori, ho imposto l’osservanza delle leggi, allontanando maggiormente gli uomini proprio da quell’amore di Dio al quale cercavo di condurli. Ora non posso più continuare a risolvere drammi complessi con una legge semplicistica. Non posso più continuare ad agitare il mio sacro pugno dinanzi ad anime ingenue e disorientate. 
Troppo a lungo sono stato il leale legalista che diceva ai ragazzi ch’era contro la religione andare a ballare o a nuotare insieme alle ragazze. 
Ho rifiutato i sacramenti al cattolico la cui moglie protestante insisteva per condurre i figli alla sua chiesa, ho negato il matrimonio al luterano che non era disposto ad educare i bambini nella mia fede, ho predicato l’ortodossia con la faziosità d’un malato di mente. I giovani mi chiedevano scusa quando fissavano un appuntamento con fanciulle non cattoliche, e le ragazze piangevano disperate dinanzi a me quando dicevo che poiché i loro fidanzati erano agnostici non le avrei sposate nella nostra chiesa. 
Lo spirito del legalismo, che avevo assorbito nella scuola parrocchiale e che mi aveva modellato in seminario, ha investito ogni aspetto della mia vita sacerdotale. Ha contagiato il mio comportamento nel confessionale, s’è riversato in tutto il mio insegnamento, ha ispirato tutto il mio lavoro pastorale. 
La Chiesa aveva sempre ragione, chi la criticava era un ignorante mosso dal pregiudizio e dall’astio. 
Ho combattuto gli assistenti sociali convinti che i poveri dovessero praticare il controllo delle nascite, e me ne sono fatto un vanto. 
Ho condannato gli ospedali che permettevano l’aborto e la sterilizzazione, i medici che suggerivano alle madri di non avere più bambini, i professori che parlavano dell’intolleranza della Chiesa. 
Ho fatto tutto ciò in nome della legge, d’una legge che ignora eccezioni o discussioni.
Ma ora ne ho abbastanza. 
Non posso più restare zitto né continuare a comportarmi da legalista. 
Non posso più accettare questa semplicistica concezione dell’uomo e della vita. 
Non posso più far violenza ai cattolici, ricattare i protestanti, disprezzare gli ebrei e sostenere i sistemi della mia Chiesa, ridicoli e antiquati. 
Non posso più ascoltare le confessioni comportandomi come un pizzardone preoccupato unicamente del rispetto della legge, né rifiutare le esequie a chi le vuole. 
Non posso più vivere senza un atteggiamento misericordioso, senza un amore personale, né cessare di fare quello che è il vero lavoro del prete. 
Non posso più essere un giudice o un carceriere, un ritualista o un predicatore di parole consunte, il difensore d’una tradizione che deve scegliere tra il riformarsi o il morire. 
Ecco perché protesto. 
Lo faccio con parole piene della sofferenza senza senso che ho sperimentato e che ho visto. Questo libro è appunto l’espressione di quell’angosciata protesta.
Alcuni uomini, nonostante la legge, sono diventati liberi dentro a questo sistema che ha confinato noialtri in una pena disperata. 
Questi uomini, comunque, sono la nobile eccezione che dimostra come sotto la legge resti nascosto Dio. Essi sono la speranza che l’uomo sopravvivrà alla corruzione che ci ha fatti prigionieri, mentre prometteva di renderci liberi. 
Sono pochi uomini animati da gran coraggio che possono camminare da soli senza la dolce guida della Chiesa. Hanno la saggezza necessaria per analizzare le cose e fare le loro scelte, e la gioia di saper distinguere il frutto dalla corteccia. 
Ma noialtri non siamo così dotati né così audaci. Non possiamo rimanere soli, senza quella Chiesa che ci ha insegnato a dipendere da essa.
Noi sappiamo bene di avere bisogno d’una qualche legge, come ne ha bisogno qualsiasi famiglia, però sappiamo anche che l’ampiezza del nostro codice è proporzionale all’assenza di fiducia e di amore. 
L’uomo che per seguirci deve sempre attenersi alle leggi è un uomo che ha paura di noi perché anzitutto ha paura di se stesso. Egli non ha fiducia nei valori umani, non crede nella sua dignità, non avverte quell’impronta che Dio ha impresso in lui. Il confessore più crudele è l’uomo più guastato dal peccato. 
Il legalista più severo è l’uomo più disposto a violare la legge. Anche lui non ha fiducia nella propria umanità, e ciò equivale ad ammettere che il mondo è destinato al fallimento. 
Solo un padre amorevole può indicare al figlio uno scopo da raggiungere e dargli la libertà per raggiungerlo. Solo un’autentica famiglia può circondare un bambino di quella fiducia che è necessaria per fare di lui un uomo. Solo essa può offrire ai figli la possibilità di commettere sbagli perché possano sperimentare la gioia di comportarsi bene.
[...] Cristo non chiese tempo per scatenare una rivoluzione, per sfidare i farisei, per minacciare i superbi che scandalizzavano i piccoli. Li chiamò «ipocriti», «vipere», «sepolcri imbiancati», e aveva abbastanza fiducia negli uomini per permettere loro di amare. 
Io odio il legalismo della mia Chiesa. 
Odio quel che ha fatto ai cattolici e quel che ha fatto a me. 
Mi dice che devo recitare il breviario per un’ora al giorno. 
Mi vincola con la minaccia del peccato, perché non riesce a credere che impiegherei volentieri il mio tempo nella preghiera. 
Ma io odio la preghiera programmata che il legalismo impone, il massiccio libro dei salmi e delle letture che devo rapidamente smaltire. 
Sono costretto a leggere discorsi verbosi e vacui di uomini, anziché stare in silenzio dinanzi al mio Dio. 
Odio le scappatoie che mi offre il giurista per sottrarmi a quest’obbligo, perché simili scuse mi fanno soltanto capire quanto la mia preghiera sia poco importante. 
Egli mi dice che se pago qualche dollaro a una società missionaria riceverò il permesso di dire il rosario al posto del breviario ogni volta che dovrò guidare per un certo numero di chilometri la macchina. Ma se non pago sono costretto a recitare anche se guido la macchina. Egli mi dice questo, ed io, pur odiandolo, una volta ho dato retta alle sue parole. 
Io odio il legalismo che mi obbliga a ungere i cadaveri con gli oli santi nella speranza che l’anima s’attardi ancora nel corpo già freddo. Il disagio mi paralizza quando le infermiere tirano via il lenzuolo che copre quella carne inerte perché la segni con l’olio mormorando strane parole. Si tratta di superstiziosa magìa, ma essi mi stanno a guardare gravemente, con rispetto o compassione. Dentro di me so che sto sciupando il mio e che, se in quel corpo c’è ancora un soffio di vita, il morente che ha perso i sensi non ha bisogno del mio olio per raggiungere Dio. 
Pur tuttavia io stesso mi sono messo in una condizione tale da dover rispettare la legge, perpetuando quella crassa ignoranza che il Medio Evo ha lasciato in eredità ai cattolici d’oggi. 
Io condanno il legalista, quando decreta che il cattolico deve essere sposato da un prete. Conosco bene la storia di questa legge, e so che la razza dei giuristi ha preteso nel XVIII secolo, che i protestanti stessi fossero costretti a sposarsi dinanzi al prete. 
Odio questa protervia che obbliga i cattolici a condurre le loro spose protestanti, e protestatarie nei presbiteri delle nostre chiese, a ignorare le coscienze e i sentimenti, a ricattare la gente semplice con l’alternativa tra l’impossibilità del matrimonio o la sottomissione a leggi arcaiche e presuntuose.
Odio le promesse che uomini di altra fede devono firmare per sposare una cattolica. 
Odio le leggi che offendono la tradizione protestante e feriscono l’onore degli ebrei. 
Ma soprattutto odio me stesso, per avere obbedito a queste leggi. [...]
Odio il legalismo che sdottoreggia sulle indulgenze e calcola il quoziente d’aiuto che esse possono arrecare alle anime sofferenti nel purgatorio. Esso insegna che una preghiera di tre parole vale quanto sette anni di penitenza pubblica, talmente è cospicuo il tesoro spirituale della Chiesa. 
Benché il teologo ne sappia più di lui — come del resto chiunque si prenda la pena di pensare —, è il giurista che indottrina la gente. Egli spiega che le preghiere dette per guadagnare le indulgenze devono comportare qualche movimento delle labbra. Ciò le renderà «pubbliche», come esige la legge. 
Spiega poi che una serie d’indulgenze può essere lucrata mediante varie visite in chiesa, cosicché fa uscire i fedeli dalle «sacre mura» per un istante, quindi li fa girare su se stessi e a rientrare a dire altre orazioni. E a lui obbediscono tutti, siano essi operai, suore o preti, medici o professori, tutti ossequienti dinanzi al legalismo della Chiesa.
Odio il legalismo che proibisce ai cattolici di partecipare ai riti d’un’altra confessione religiosa. 
Odio la grettezza mentale e il timore che m’impediscono di pregare con gli ebrei nella sinagoga, d’unirmi ai metodisti nelle loro preghiere e nei loro inni. 
Io non ho la fede neurotica del legalista, che non osa dare un’occhiata agli scritti delle altre religioni, che non osa guardare criticamente le dottrine della sua Chiesa.
Io posso pregare con qualsiasi uomo, inginocchiarmi insieme a lui, cantare insieme a lui, fare la comunione insieme a lui, o perlomeno riconoscere il valore delle sue convinzioni. 
Soltanto un legalista può chiedermi di amarlo a parole mentre lo umilio con l’insolente complesso di superiorità della sua fede. 
Egli è onesto al pari di me, e quindi vicino a Dio al pari di me. Questo, glielo dimostrerò col rispetto per la sua fede, pur continuando a cercare la maturità della mia.
Io disprezzo il legalismo che interdice a un amico non cattolico di ricevere la comunione nella mia chiesa. Finché non condivido con lui il mio cibo, non posso chiamarlo mio fratello. 
Il legalista mi dice che sarebbe un sacrilegio se mangiasse alla mia tavola, che sarebbe un insulto a Dio. 
Il legalista gestisce un ristorante segregazionista, con un elenco di regole decrepite solidamente attaccato alla porta. [...]
Io odio il legalismo che tiene in vita cerimonie or­mai prive di qualsiasi significato e giustifica antichi riti ormai incapaci di essere fonti d’ispirazione per l’uomo d'oggi. [...]
Soprattutto odio il legalismo che costringe i cattolici a venire ogni settimana alla Messa e poi si congratula con se stesso per quella prosperità della Chiesa ch’è attestata dall’affollamento delle navate e dei parcheggi. 
É stato questo legalismo a fare dell'inferno il chiodo fisso delle coscienze cattoliche, a intontire le intelligenze cattoliche con l'onnipresenza del peccato. [...]
Il legalismo ha risucchiato la nostra teologia, incatenato il nostro popolo, disgustato i nostri amici non cattolici.
Permette ai vescovi d’imperversare sulla testa dei preti, di ignorare i problemi reali, di ammucchiare denaro, di vivere nello splendore, di dimenticare i poveri. [...] 
Permette ai giovani preti di predicare senza prepararsi, di confessare con tono arrogante, di compiacersi per elogi immeritati, di fare orecchi da mercanti alle rimostranze, di rimanere nel loro infantilismo, di alimentare le proprie ambizioni, di rifuggire dalle responsabilità, di avvizzirsi intellettualmente, di congelarsi emotivamente, di sprofondare nell’autocommiserazione, di girare alla larga dalle angosce e dai sentimenti degli uomini.
Il legalismo permette ai cattolici di considerarsi santi quando sono soltanto docili, cristiani quando non sono nient’altro che scrupolosi esecutori delle leggi. 
Li rende fieri di non essere protestanti, soddisfatti di essersi liberati dal peccato. [...]
Quella legalistica è una mentalità gretta e meschina, che non può muoversi senza una direttiva giuridica che legittimi il più piccolo passo del suo pensiero. Non le basta attenersi alle norme dell’amore cristiano, o scoprirle nell’avventura d’una vita impegnata. 
Il legalista sorride dinanzi alla prospettiva di questa scoperta, e considera la leale ricerca di Dio un atteggiamento egoistico e lassista. Egli conosce soltanto la via della legge, cosicché per lui una Chiesa che non sia strangolata dal diritto canonico è una religione senza valori assoluti, una società senza scheletro, un corpo senza colonna vertebrale. La sua via è l’unica via, anche se milioni di persone gli gridano la loro sofferenza.
Ma siamo cattolici anche noialtri, che ci rifiutiamo di lasciarci incatenare da una legge senza senno. 
Noi non abbandoneremo il nostro Cristo semplicemente perché un legalista ci dice che dobbiamo andarcene. 
Noi vogliamo sacramenti ricchi di vita, e non forme stanche le quali non dicono più niente. Vogliamo una Messa che ci offra pane ed amore, e non una cerimonia sterile che ci tedia mortalmente. 
Vogliamo vivere secondo la nostra coscienza, riflettere sulla nostra esperienza, ascoltare le parole di Cristo, e non lasciarci pavidamente schiacciare dalla gelida forza della legge. 
Noi non siamo disposti a staccarci dai nostri amici che pensano di dover praticare la contraccezione, che trovano la pace in un nuovo matrimonio, che lasciano il sacerdozio per un altro tipo di vita. 
Noi vogliamo una Chiesa che si metta al nostro servizio mentre andiamo alla ricerca della felicità e della pienezza, invece di soffocarci ancor prima d’aver visto chi siamo.
Dalla nostra Chiesa pretendiamo ancor più che dal nostro governo, dalla nostra economia, dai nostri genitori e dalla nostra famiglia. 
Sappiamo bene che la Chiesa è una società e che deve avere una sua struttura e una sua legge. Però essa non può adorare le strutture e moltiplicare le leggi a tal punto da privare l’uomo d’una vita e d’una coscienza proprie. 
La coscienza è la mano di Dio che si posa su di me per orientarmi, dirigermi, rassicurarmi che non mi sono smarrito, convincermi che non posso vivere come qualsiasi altro uomo, approvarmi quando agisco rettamente. [...]
Newman lo ha detto con rara efficacia: «La coscienza è una guida personale, e io ne faccio uso perché devo far uso di me stesso: pensare con l’intelligenza d’un altro mi è impossibile come respirare con i polmoni di un altro. La coscienza è più vicina a me di qualsiasi altra forma di conoscenza».


                         Ikthys