Praticare e predicare
(Gianfranco Accattino, Il Foglio, maggio 2002)



La condanna vescovile di Franco Barbero, il prete scomodo di Pinerolo, comincia così: «Innanzitutto Franco Barbero, negando i misteri principali della Fede: Trinità, Divinità di Cristo e Incarnazione, non è più in comunione con le Chiese e le Comunità ecclesiali. In particolare è fuori della comunione con la Chiesa cattolica perché nega la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, la maternità verginale di Maria, il Ministero ordinato e il ruolo del Magistero come guida della Chiesa».
Da altra fonte, risuona come un’eco: «Don Barbero non crede nella Trinità né nell’Incarnazione, né nella divinità di Cristo; e allora che cristiano è? Potrebbe egualmente essere una persona onesta e rispettabile come rispettabili sono tanti che non credono ... ma non fanno i preti, non predicano il Vangelo. Magari lo praticano ma non lo predicano». Così Adriana Zarri sul «manifesto».
Anche tra noi del foglio c’è chi sostiene che la solidarietà con l’operare di Franco Barbero non esclude la disapprovazione al suo pensare. Ossia, Barbero continui la sua meritevole azione, ma non si dica cristiano. Non c’è nulla di male nel non essere cristiano, è male invece volersi considerare tale senza condividere le asserzioni della chiesa, «i misteri principali della Fede».
Tutto ciò induce a qualche riflessione sul credere e sull’agire, su ortodossia e ortoprassi. Qualunque associazione, movimento o chiesa riunisce in sé uomini e donne accomunati da un obiettivo da realizzare, e le convinzioni comuni ai membri dell’associazione non sono altro che quelle implicite nell’obiettivo che si prefiggono. Questo esclude in partenza ogni possibilità di conflitto dottrinale: un vegetariano non si sognerà mai di aderire alla Confraternita della Trippa, né la Confraternita si porrà mai il problema di espellere (scomunicare) un vegetariano.

Ortodossia e ortoprassi.

Nella storia, al contrario, è successo e succede che un’organizzazione definisce un corpus dottrinale e richiede ai suoi aderenti non solo di condividere obiettivi pratici riconosciuti giusti (ortoprassi) ma anche, talvolta soprattutto, di accettare e proclamare delle asserzioni di verità (ortodossia).
Quando le asserzioni si spingono ben al di là dei campi inerenti agli obiettivi pratici, gli effetti sono curiosi e sorprendenti: non si può essere cristiano (e tale voleva essere, indubbiamente, Galileo) se non si accetta con papa Urbano VIII che la Terra è immobile al centro dell’universo; non si può essere comunista con Stalin se non si condividono le teorie genetiche di Lysenko.
I due esempi, non casuali, dimostrano che lo slittamento dal fare al pensare è strettamente legato al potere e al totalitarismo. Quando un movimento nato dal libero associarsi di persone si trasforma in regime di potere, necessariamente sente il bisogno di misurare la fedeltà dei suoi aderenti o sudditi sulla base delle affermazioni e non dei comportamenti. L’apparato di potere che ha tradito gli scopi su cui si era radunata la comunità originaria non può reprimere il dissenso sui comportamenti se non esercitando l’accusa di negare le verità che l’apparato stesso ha costruito e posto come condizioni dell’appartenenza.

«Della stessa sostanza del Padre».

A comprendere come le verità non siano slegate dal potere ci può aiutare la storia della «sostanza del Figlio». Con tutta la buona volontà, non si troverà mai nei vangeli un cenno di interesse, da parte di Gesù, su quale fosse la sua sostanza in relazione a quella di Dio Padre. Anzi, se qualcuno gli avesse posto un quesito del genere, Gesù lo avrebbe fulminato con una battuta di umorismo biblico. La sostanza del Figlio fu invece al centro di una delle prime dispute sulle quali la chiesa cristiana iniziò a edificare il suo apparato dottrinale.
Il primo Concilio ecumenico si svolse nel 325 a Nicea, residenza estiva dell’imperatore Costantino. Il Concilio non era presieduto dal papa, anzi il vescovo di Roma (che allora neppure sapeva di essere papa – questo titolo fu proclamato per sé per la prima volta dal vescovo Siricio negli anni 384-99) era assente. Presiedeva invece l’imperatore, da poco convertito, neppure battezzato, certamente incompetente a dirimere questioni teologiche, ma preoccupato di consolidare il potere politico e religioso su una affermazione di fede, reprimendo il dissenso coagulato intorno all’eresia di Ario. Così la verità sulla sostanza del Figlio divenne verità della chiesa, approvata dal Concilio con le sole voci dissenzienti di due vescovi, che Costantino immediatamente condannò all’esilio. Da allora, miliardi di cristiani ripetono la formula «della stessa sostanza del Padre», senza probabilmente sapere né il significato né le origini storiche di quello che solennemente affermano di credere.
Un altro esempio, più recente, di come una affermazione dottrinale possa mascherare un atto di potere politico: il decreto del Santo Uffizio del 1949 con cui fu pronunciata la scomunica di quanti appoggiassero un partito comunista. Questo decreto (mai abrogato ufficialmente) accomuna disinvoltamente la condanna del pensare e del fare. Da una parte dichiara la scomunica ipso facto e l’esclusione dai sacramenti per chi aderisce ideologicamente al comunismo («qui communistarum doctrinam materialisticam et anti Christianam profitentur»): si tratta di una banale tautologia, che trova gli interessati indifferenti e sorridenti. Dall’altra però vuole colpire il vero obiettivo, cioè quanti non vedono incompatibilità tra la fede cristiana e l’azione politica in difesa dei diritti dei lavoratori. Questi vengono accomunati nella scomunica non per il loro comportamento politico (sul quale era ed è giusto discutere) ma sul piano della dottrina, come se essi, votando o collaborando con i comunisti («partibus communistarum nomen dare vel eisdem favorem praestare»), facessero propria una visione filosofica non cristiana, e peraltro, almeno dal partito comunista italiano, mai richiesta ai propri aderenti.

«Deve essere fermamente creduto».

Da Costantino a Ratzinger, l’idea che l’appartenenza alla chiesa di Gesù implichi l’adesione alle verità stabilite dall’autorità si è consolidata: ne è una sintesi l’espressione «deve essere fermamente creduto che...», riecheggiata anche di recente. Questa espressione, riadattamento moderno di «doctrinam ... ab omnibus fidelibus firmiter constanterque credendam» (Pio IX, 1854) può avere tre interpretazioni. Si vuole che ogni membro della chiesa operi un atto di volontà sulle sue convinzioni fino a farle coincidere con quelle dell’autorità: in questo senso l’affermazione è semplicemente una sciocchezza. Oppure si vuole che, anche se la propria personale convinzione non coincide con la verità ufficiale, sia quest’ultima a dover essere proclamata: e allora si tratterebbe di un invito all’ipocrisia. Non resta che una terza interpretazione: la verità è quella, e chi non la condivide esca dalla comunità. Questa appare essere l’opinione di Adriana Zarri e di quanti non amano le “arditezze teologiche” di Franco Barbero.
Ma il principio che l’appartenenza implichi l’accettazione dell’apparato dottrinale fa parte dello stesso apparato dottrinale. Tra ciò che «deve essere fermamente creduto» c’è anche che deve essere fermamente creduto! Qui entriamo nel terreno dei classici paradossi autoreferenziali, e arriviamo subito al punto cruciale che la condanna vescovile cita come «il ruolo del Magistero come guida della Chiesa» per non chiamare le cose col loro vero nome: l’infallibilità della chiesa. Che il papa si proclami infallibile, o si faccia proclamare tale da un gruppo di personaggi da lui condizionati, costituisce un altro paradosso auto-referenziale, vero e falso allo stesso tempo, inconsistente. Occorre una convalida esterna: il mentitore non può aiutarci a stabilire se mente, un’autorità della chiesa non può stabilire quali siano i misteri principali in cui deve credere un cristiano.
Poiché una tale convalida non esiste, non resta che lasciare alla libera coscienza di chi si riconosce nella chiesa il decidere quali verità accettare, quali rifiutare, quali considerare problematiche, quali considerare irrilevanti. Gesù ha lasciato all’umanità un imperativo etico e una promessa in cui sperare, non un corpus dottrinale. Che male deriva all’umanità se tra quelli che intendono praticare questo imperativo etico coesistono e convivono spiriti assertori, negatori e critici riguardo alla maternità verginale di Maria? Ho scelto questo esempio proprio perché si tratta di cosa a cui, stando ai discorsi privati di molti cattolici, «non crede più nessuno».
È più importante, per definire un cristiano, quel che si pratica o quel che si predica? Chi ha il diritto di stabilire se un individuo può riconoscersi nella chiesa, se non la sua coscienza? L’autorità ecclesiastica deplora chi si allontana, ma allo stesso tempo vuole mantenere il diritto di allontanare. Restare nella chiesa per cambiarla o uscirne per sottrarle il proprio consenso è un antico, per molti doloroso, dilemma, la cui soluzione deve essere lasciata alla libera coscienza dei singoli.
Lascio a Franco Barbero le parole conclusive: «La chiesa cristiana a mio avviso non è come un palazzo di proprietà della gerarchia per cui tu sei fuori quando ti danno lo sfratto. La chiesa cristiana è là dove si tenta di vivere sui sentieri del vangelo, sulle tracce di Gesù, sotto lo sguardo di Dio».


              Ikthys