11 settembre 2001
Rivelazioni
 

(Il Foglio, novembre 2001)


Il simbolismo dei fatti dell’11 settembre è densissimo. Subito vediamo l’immagine della torre di Babele, il mito originario del tentativo di unificazione imperialistica, frustrato da Dio con l’arma vitale della differenza. La pace, l’unità dell’umanità, sarà vera soltanto nel rispetto e valorizzazione delle differenze, che sono ricchezza. Sono problema, ma condizione di vita giusta e ricca.
Ogni torre, penetrazione della terra nel cielo, è un simbolo fallico. In questo caso, simbolo duplicato nella gemellazione.
Le due torri significavano la potenza dell’ardimento, della tecnologia, dell’economia, e, insieme agli altri obiettivi degli attentatori, dell’apparato militare. Come nella città medievale, la torre della famiglia vinta veniva spezzata o abbattuta, la distruzione delle due torri di New York voleva essere un segno poderoso e immaginifico di vittoria. Ma ogni vittoria distrugge la pace e la giustizia. Richiede la contraria vittoria della vendetta, come sa tutta la storia degli errori e dei dolori umani. Unica vera vittoria è il vincere insieme le avversità esterne, e le avversioni dentro di noi. L’arte di trasformare i conflitti in «occasione di maggiore verità» (Gandhi) e di allargamento dell’esperienza, deve sostituire l’arte inutile della guerra.
La massima potenza si è rivelata al mondo massima impotenza. Ciò è avvenuto nella parte colpita, resa fragile dalla sua grandezza e complessità, ed anche nella parte che ha colpito, fattasi nemica dell’umanità, iniqua sostenitrice di equità, produttrice di morte, che è impotenza.
Questa è una Apocalisse, parola che non significa distruzione, ma rivelazione della storia profonda, nel male e nel bene. C’era la bomba A, la bomba H, la bomba N, le bombe B e C, ecco la bomba uomo, la bomba davvero “intelligente”, perversamente intelligente, ed invincibile. Non la ferma neppure la minaccia di morte, perché coincide col prezzo che ha messo in conto per il suo scopo. La difesa antica non serve più. La forza militare è annullata. Da questa bomba è necessario inventare un’altra difesa. I kamikaze antichi (da Sansone) e recenti erano solo dei precorritori. I prossimi possono portare nella valigetta un’atomica (si trovano a buon mercato), per chiudere il cerchio.
Uccidersi per uccidere è agghiacciante e spaventoso. Ma è una rivelazione preziosa: uccidere è sempre stato anche uccidersi, negare la propria vita, inseparabile dalla vita altrui. Uccidere non ci salva dall’ucciderci. La sola difesa è levare i motivi, distorti ma fondati in qualcosa di reale. Annientata la rete terroristica, come subito si è promesso con leggerezza, resterebbero intatti, anzi esasperati, i motivi. Per trasformare degli uomini in bombe non basta da sola un’ideologia falsamente islamica, che sacralizza la morte omicida, ma occorrono pretesti fondati nella realtà.
Morire per uccidere ci fa orrore e terrore. Ma dobbiamo esaminare le nostre certezze, come 
l’oro alla prova del fuoco. I nostri eroi di guerra, elevati sugli altari del culto militare, soldati ammazzati nell’ammazzare, certo non sono kamikaze: salvo pochi fanatici, non hanno voluto bruciare nella fornace della guerra. Ma abbiamo onorato il soldato ammazzato (chiamandolo «caduto») più del reduce. Il soldato è sempre stato una pedina sacrificabile per decisione dei capi. Kamikaze, uno che butta nel vento le vite umane, è chi gli comanda di
ammazzare o morire. Chi può sentirsi innocente, o migliore?
Per Elias Canetti, l’essenza del potere è la volontà di solitaria sopravvivenza a tutti gli altri. Il potere enorme dei piloti suicidi è stata invece una con-morienza: capovolgimento del potere finora conosciuto, oppure piuttosto una rivelazione della sua essenza, ancora più profonda e oscura, infernale, di quella vista da Canetti? La via d’uscita è la con-vivenza delle differenze.


                          Ikthys