Semper
reformanda

(Gianfranco Accattino  Il Foglio, giugno 2001)



Il foglio non manca mai di dare il giusto, non preponderante, ma costante peso alle occasioni in cui la chiesa (intesa come apparato) mostra i suoi vistosi scostamenti dal Vangelo. Questi eventi, sottolineati ora con ironia ora con sdegno, assicurano al giornale, purtroppo, un filone inesauribile. L’apparato ecclesiastico propone le sue esternazioni a ritmo costante e con spiccata tecnica mediatica: squilli di tromba, pronunce solenni, nessun approfondimento né tantomeno dibattito.
Poi il tema viene abbandonato e subito sostituito da un altro. Quanto basta per mantenere desta l’attenzione dell’audience e assicurarsi prima pagina e prima serata. Non è previsto che l’audience tragga occasione di maturazione dal messaggio che riceve. Si deve udire, appunto, acconsentire, dimenticare e attendere il prossimo pronunciamento.

Effetti teatrali.

Chi parla più, oggi, di Stepinac, di Edith Stein, della richiesta di perdono durante il Giubileo, del "beato" Pio IX? Chi volesse, anziché consumare passivamente il singolo spot, cercare una continuità tra questi episodi e valutarli nel loro insieme, non potrebbe non cogliere qualche contraddizione negli atti della massima autorità morale cattolica. Giovanni Paolo II ha esaltato un fautore del nazionalismo croato alleato dei nazisti e responsabile dei massacri di serbi ortodossi. Una settimana dopo ha dichiarato Santa una donna ebrea uccisa ad Auschwitz dai nazisti. Successivamente ha chiesto perdono, a Roma e a Gerusalemme, per alcuni figli della chiesa colpevoli delle sofferenze inflitte al popolo ebraico. Dopo meno di sei mesi, uno di questi figli, rapitore di bambini ebrei e tenutario dell’ultimo ghetto d’Europa, viene assunto a modello di virtù evangelica. C’è da rimanere storditi. Pare di assistere allo sforzo di un’organizzazione commerciale ansiosa di coprire tutti i segmenti del mercato, e soddisfare comunque, incurante delle contraddizioni, tutte le pulsioni che agitano il mondo cattolico. Può darsi che la chiesa veda qualche vantaggio in questo alternarsi di effetti teatrali. Di certo, qualcosa va perso: la credibilità del magistero, per chi si riconosce o vorrebbe riconoscersi in questa chiesa, la sincerità del dialogo con quanti osservano dal di fuori.
È difficile tenere il passo. Spentisi i riflettori sulla cerimonia barocca di investitura dei nuovi cardinali, irrompe in scena il cardinale Sodano con il suo esame di idoneità ai candidati elettorali. L’ironia, in questo caso, sarebbe facile, ma amara. Sodano, oggi segretario di Stato, fu nunzio apostolico in Cile, e in questa veste organizzò nel 1987 l’incontro tra Augusto Pinochet e Giovanni Paolo II. Pinochet dichiarava che nello scatenare il golpe del 1973 aveva posto le sue truppe sotto la protezione della Vergine del Carmelo. Giovanni Paolo II annuiva, sorrideva e stringeva la mano all’assassino, sul balcone della Moneda, che portava ancora i segni del bombardamento golpista e le macchie del sangue di Salvador Allende.
Non bastano ironia e sdegno a fronte di fatti come questi, che pongono domande alle coscienze: si può accettare di far parte di una chiesa in cui il numero uno propone la venerazione di un criminale dell’800 e il numero due coltiva ottimi rapporti con un criminale contemporaneo? Come si forma – e come si può riformare – l’autorità e la rappresentatività di chi guida la chiesa?

L’ultimo re assoluto.

La nomina dei cardinali ha i suoi aspetti di folklore (zucchetti, berrette, porpore e ponsò), ridicoli quanto il caso del vescovo Karl Lehmann, il cui nome è rimasto in pectore in attesa delle reazioni e poi rapidamente espettorato. Occorre però guardare l’essenza del meccanismo di autoriproduzione che l’apparato ecclesiastico si è dato a partire dal XII secolo, quando il Terzo Concilio Laterano stabilì che l’elezione del papa spettasse al collegio cardinalizio e richiedesse la maggioranza di due terzi. Già allora ci si preoccupava di sistemi elettorali e stabilità di governo.
Il capo dell’ultima monarchia assoluta, nella impossibilità di generare biologicamente ed educare il suo successore, ne nomina a discrezione i futuri elettori, per garantire la continuità dottrinale della dinastia. Questo è il nucleo, attorno a cui ruotano raccomandazioni e pressioni, in un ordinato silenzio lievemente disturbato da brusii. Ai membri della comunità, popolo di Dio, non resta, come a tutti i sudditi, che sperare in un futuro re più illuminato, grazie all’illuminazione di qualcuno dei prìncipi. È una comunità di sudditi, non di cittadini, né di fratelli. La chiesa degli Atti ha assunto i modi dello stato imperiale e li mantiene in un mondo in cui gli ultimi re girano in bicicletta o si muovono su una scacchiera.

Due anime.

Nella sua storia, la chiesa è sempre apparsa con una doppia anima: da una parte l’apparato visibile, con troni, eserciti e paludamenti, dall’altra il sale della terra, silenzioso, invisibile, spesso perseguitato, ma operante nell’annuncio evangelico e nello slancio del ritorno alle origini. Le due anime spesso sono venute a contatto, in una dialettica di repulsione e accettazione, condanna e riassorbimento. Ogni libera coscienza si è posta il problema di come dare corpo alla natura semper reformanda della chiesa, e ogni risposta si è plasmata nell’accumularsi di fattori individuali, politici e storici.
Pietro Valdo e Francesco d’Assisi percorsero la stessa strada che li condusse a Roma a proporre la loro regola di vita a un’autorità da essi riconosciuta. Qui ci fu la divergenza. I Poveri di Lione suscitarono l’ilarità della Corte per la loro scarsa dimestichezza con le argomentazioni teologiche, e grave preoccupazione per la pretesa di leggere e interpretare la parola di Dio nella loro lingua, secondo coscienza e senza intermediari. Al loro disprezzo per il potere si opposero scomunica e persecuzione. Francesco si pose in un singolare rapporto con l’istituzione, senza contrapposizione. Individualmente, egli riuscì ad andare oltre, ma ciò permise che il suo messaggio fosse assorbito e asservito al potere ecclesiastico. In conclusione, dopo pochi anni, mentre Francesco saliva alla gloria degli altari, i Francescani erano già schierati tra i cristiani persecutori di cristiani.
Anche Teresa d’Avila si prefisse il ritorno alle origini, nel suo caso alle origini della vita monastica, nello spirito degli eremiti che salirono il monte Carmelo rifuggendo la violenza crociata in Palestina. Volle spogliare l’ordine carmelitano delle incrostazioni che ne facevano un tassello di una società modellata sui valori feudali dell’onore (honria), della purezza etnica (limpieza de sangre), dell’emarginazione della donna. Una vita tortuosa e rischiosa la condusse indenne, attraverso le minacce dell’Inquisizione, a realizzare la sua riforma e riportare l’istituzione monastica alla ricchezza dell’interiorità. Ma anche per lei, a pochi anni dalla morte, la gloria degli altari coincise con lo stravolgimento del suo ideale di fraternità. L’Ordine reimpose la norma della limpieza de sangre, in base alla quale Teresa stessa, figlia di padre ebreo e nipote di un ebreo marrano, non sarebbe stata ammessa nei monasteri da lei fondati. L’istituzione fece di Teresa il modello della concezione clericale di uno stato "cristiano", dove i poteri costituiti non potevano essere discussi, in quanto sia la gerarchia ecclesiastica che la nobiltà fondiaria traevano la loro autorità da Dio. Stiamo parlando del XVI secolo, ma questa era ancora la concezione dello stato cristiano di Pio XII. Francisco Franco, a cui la chiesa dedicava acclamazioni durante le funzioni liturgiche, si tenne fino alla morte nella sua residenza privata un braccio mummificato di Teresa d’Avila.

Un silenzio arrendevole.

Una chiesa dell’autorità, che si preoccupa dell’errore più che dell’ingiustizia e della violenza, che anzi spesso ha usato violenza in nome della verità. Dall’altra parte, una chiesa dell’interiorità, che guarda all’amore prima che al dogma, che non dissocia la verità dalla libertà delle coscienze né confonde l’umiltà con la viltà. Possono coesistere nella stessa istituzione queste due anime? Si può far emergere lo scisma sommerso fra autorità e individualità, un’autorità che si accontenta di un’adesione formale e spettacolare pur sapendo che le convinzioni e i comportamenti dei singoli sono opposti o lontani dall’apparato dottrinale? Si può dare voce alla soggettività, alla libera scelta, compreso il rifiuto, restando dentro una istituzione che nega la stessa soggettività e preferisce tollerare un dissenso muto e acquiescente piuttosto che aprire un libero confronto?
La venerazione di un personaggio come Pio IX, responsabile di violenza di stato, antisemitismo, violazione dei diritti umani, è stata proposta dal vertice della chiesa e avallata unanimemente dall’apparato, ma anche dalla quasi totalità dei fedeli. Le voci di dissenso sono state rarissime, talmente isolate che la gerarchia le ha facilmente ignorate e censurate. Ora, se per la gerarchia può valere l’attaccamento alla propria autorità, è ben più difficile spiegare l’acquiescenza e l’indifferenza dei comuni fedeli. Non li si può ritenere, in massa, né in malafede né devoti della ghigliottina. Allora perché l’esaltazione della violenza non ha suscitato ribellione né protesta, neppure tra quei cattolici che realmente e personalmente vivono l’interezza del Vangelo?
Di fronte al silenzio arrendevole o al tiepido dissenso di un’alzata di spalle e di un sospiro di fastidio per la gaffe pontificia, è allora lecito chiedersi se non sia la stessa chiesa, intesa questa volta come la collettività che vi si riconosce, a essere messa in discussione, nelle sue convinzioni, nelle sue devozioni, nelle sue sottomissioni.
Ognuno di noi cerca la sua risposta, nel conflitto e nel disagio. Nel frattempo la storia continua. Alle riflessioni sul pluralismo religioso di padre Dupuis la Cdf, ex Sant’uffizio, ha opposto i consueti metodi: imposizione dell’abiura e condanna, espressa con una sussiegosa Notificazione che ripete quattro volte "deve essere fermamente creduto che...". Questa formula ipocrita e maestra di ipocrisia significa in realtà "deve essere fermamente dichiarato, anche se non creduto, che...".
Dall’anima non autoritaria della chiesa, quella che rifiuta la coercizione e non elogia l’ipocrisia, giunge a questa Notificazione una risposta indiretta, sincera e piena di sana allegria.
A una domanda sull’ex Sant’Uffizio rispondeva il monaco Benedetto Calati: "Diciamolo sinceramente: deve andare a farsi friggere".

 

                          Ikthys