ORTENSIA



AL LETTORE

L'autrice di codeste memorie, la signora Ortensia Giacometti oltrechè parente alla lontana, è una mia cara amica da vecchia data.

Circa tre anni fa gli affezionati parenti, stanchi del continuo andirivieni di autoambulanze presso la sua abitazione di Acquapendente, la convinsero amorevolmente a ritirarsi in una comoda casa di cura nel Nottighamshire, a Newark.

Ella mi fece l'onore - prima della sua rocambolesca fuga dal luogo di villeggiatura oziosa - di inviarmi le memorie vergate in quel tranquillo angolo di paradiso, dandomi facoltà di usarle a mio piacimento. A causa del notevole tasso d'inquinamento da carta nei collettori della piccola città balneare dove vivo, ho deciso di pubblicarle.

Per evitare tuttavia che il volume risultasse troppo sconvolgente ho tagliato molti passi relativi all'orientamento ideologico della Giacometti, ai suoi cambiamenti di dieta, agli spifferi della cantina ove spesso degustava il caffè e quant'altro. Se la mia ignoranza in fatto di questioni psicologiche ha potuto indurmi in qualche errore, ne sono la responsabile: e se qualche neurologo desidera consultare l'opera completa della Giacometti per aggiornare corsi sulle patologie da mancanza di cicorione, potrà rivolgersi direttamente a me, cosicchè io possa liberare il garage dove conservo gelosamente l'intero testo insieme a 312 stappalavandini che posso regalare unitamente al prezioso manoscritto.

Per quanto riguarda poi i collezionisti di "horror" letterari potranno soddisfare la loro mania fin dalle prime pagine del libro, e riavvicinarsi così alla moglie se sono separati.

Finchè c'è vita c'è speranza e se son rose fioriranno.


PROLOGO


Quest'oggi è una bella giornata. Il tepore della primavera incipiente fa da naturale pendant al mio nobile animo, rasserenato dopo l'infelicità invernale. Lo scenario che posso osservare, mollemente adagiata su un' elegante dormeuse di contenzione, allieta il cuore che posseggo. Una cinciallegra sfiora le cime dei pini, lanciando il richiamo d'amore che attraversa l'aria per giungere fino al mio apparecchietto acustico. Più lontano, oltre la verde barriera degli alberi schierati come austeri templari sul viottolo che conduce alla casa di cura, ove mi trovo per un breve periodo di riposo, brilla la perla nera della "merane", francesismo che equivale al termine italiano di "pozza d'acqua stagnante". Così gli indigeni del luogo chiamavano in un lontano passato il laghetto carico di vita che luccica al di là delle sbarre.

La dolce suorina addetta alla mia persona, ex-campionessa di lotta libera a Bankgog ove ha svolto il noviziato, mi avverte che è giunto il momento dell'ora d'aria. Con quanto amore osservo le manone callose, ricoperte da morbida peluria, armeggiare con i lucchetti delle catene che avvolgono il corpo che possiedo. Con quanta leggiadria scivola fuori dalla stanza non appena aperta l'ultima serratura che mi contiene. Sorrido, ricordando il morso che le ho inflitto martedì scorso tra il tarso e il metatarso, non riuscendo a dimostrarle altrimenti la gratitudine per la sua presenza rassicurante.

Finalmente libera oltrepasso con balzo felino la soglia della cameretta inebriandomi del silenzio circostante, quel silenzio in cui posso spaziare da quando mi hanno trasferito al reparto isolamento. La benigna autorità di quest'angolo di paradiso incontaminato ha subito compreso le mie esigenze, la mia necessità di riflettere in silenzio, a tu per tu con me stessa, per riannodare i fili di un'esistenza così carica di eventi. Seguendo le indicazioni apposte dall'accorta intelligenza delle suorine, eccomi nella biblioteca di quest'eremo, ove trovo la consueta risma di carta rosa che una mano benevola prepara sempre per me. Conosco quella dolce mano! Un giorno, forse giovedì scorso, un giovane dottorino incapace di celare sguardi d'ammirazione per la mia persona aveva urlato tramite un megafono celeste il motivo di quel regalo così gradito. Ah, sfortunato giovane che non era in grado di starmi vicino! Non fidandosi degli impulsi violenti provati dal suo corpo preferiva non incorrere in tentazioni ponendosi al riparo di una spessa vetrata dalla quale potevo comunque intravedere la tempesta di sentimenti che lo scuoteva.

Compresi ben presto ciò che più desiderava il casto fanciullo. Voleva che raccogliessi per iscritto le esperienze della mia vita, le mie vicissitudini, la ricchezza della mia esistenza. E nel triste grigiore della stanzetta ove trascorreva le notti di guardia, le avrebbe lette per comprendermi meglio e dichiararsi poi consapevole della mia grandezza, nonchè del mio fascino. Approccio da intellettuale, il suo, ben diverso da quello plebeo del mio ultimo spasimante - sperimentatore di piscine a secco - con il quale avevo trascorso un'estate non molto raffinata ma carica di passione.

Sorrisi benevolmente, comprendendo i desideri implosi del timido dottorino e mi accinsi a soddisfarlo. Già immaginavo con quale tenerezza avrebbe sfiorato le pagine, cariche del mio profumo e segnate dalla mia personalità. Non potevo e non volevo disconoscere una passione sì discreta e silente!

Ma devo confessare che questo non è il solo motivo che mi spinge a vergare codeste pagine di vita. Desidero che quanto avrò modo di raccontare permanga vivido nella mente di tutti gli esseri umani che conducono una vita mediocre, priva di emozioni.

Una vita squallida e senza luce.

Una vita da valvassino.

Da paria.

Per costoro ho scritto. Cosicchè le mie esperienze possano riempire il vuoto che li circonda e far rifiorire i giardini delle loro misere anime.

Per gratificarli.


ORTENSIA IN AMAZZONIA

Mi accingevo a prenotare l'aereo per tornare in Italia, ad Acquapendente quando, imperioso come il senso di colpa di un grande obeso di fronte al saccheggio di una pasticceria, sorse in me l'impulso di telefonare alla mia preziosa segretaria per ascoltare dalla sua garrula voce, le ultime notizie che mi riguardavano.

Adelfia non mi aveva mai delusa. Sempre la sua voce disgustosa mi aveva riportato alla dura realtà della sofferenza che tutti ci avvolge, comunicandomi costantemente notizie da ansiolitico immediato. Cosa mi avrebbe detto questa volta? Quale veleno tonificante per la mollezza dei costumi cui a volte indugio, ella avrebbe versato nelle rosee conchiglie delle mie orecchie? In pochi scatti telefonici, la tragedia si delineò in tutta la sua nera apparenza di lutto. Eppure, man mano che i contorni del disastro, prendevano forma nella coscienza della mia anima, ero felice. So, infatti, che solo queste ardue prove, questi improvvisi crepacci che si aprono nel verde tappeto della tranquilla esistenza, possono forgiare l'individuo. Possono farlo crescere, farlo maturare. Ascoltai tremante come un passerotto colto dall'oscura ala della tempesta: Alfonsina, la mia portinaia, non poteva più venire a stirarmi i panni!

Impietosa, un'artrosi fulminante, le aveva irreversibilmente stroncato la lunga carriera di stiratrice part-time. Le dure zanne della fiera dell'osteoporosi si erano infisse a bloccarle l'omero della spalla sinistra, la spalla del demonio. La spalla infatti con la quale l' ignara donna giocava con fuoco di ferro e getti di vapore demoniaco, dal momento che era mancina. Ancora un altro segno di esoterica lettura. D'altronde, la piccola donna, esile e curva fin dalla nascita - tanto da essere vezzeggiata con il nomignolo de "La gobba de Madame" - con la mano del cuore, la destra, era del tutto incapace di stirare nemmeno una gonna di voile completamente plissettata. Una vera ecatombe di arti superiori!

Il veterinario di fiducia, interpellato d'urgenza al posto del medico allopatico temporaneamente assente per un corso sulla metodologia restaurativa del mobile neolitico, aveva fornito un'anamnesi totalmente disperante. Solo due possibilità potevano restituire Alfonsina al suo prezioso ruolo. La prima coinvolgeva direttamente il rapporto ancestrale che da sempre lega l'umano al terreno. Occorreva infatti raccomandarsi a San Gaspare perchè intercedesse presso Hermes - l'agile dio che recava i messaggi divini - perchè donasse alla mortale creatura nuova agilità anche se era uno specialista degli arti inferiori. Un dio non distingue il superiore dall'inferiore!

La seconda possibilità, di più difficile attuazione, era quella di condurre la portinaia neo-monca in Amazzonia, presso la tribù degli Yanomami. Quest'ultimi, infatti, sono da sempre specializzati nella fangoterapia cosidetta jaluronica, con una particolare abilità nella cura degli omeri sinistri. Il risultato in tal caso, era assicurato al 99%. Il minimo margine d'incertezza era dovuto alla presenza di caimani sulle rive ove si doveva immergere il monco, cosa che a volte risultava esiziale per lo stesso ma vantaggioso per l'ecosistema. Ah! L'eterna altalena entropica dell'Universo!

Tutto questo, la celeste ancella della mia segretaria, ebbe a dirmi in quelle 4-5 ore di teleselezione che feci segnare sul conto del mio ultimo ammiratore. Un boero che mi aveva seguito nonostante le mie pudiche reticenze a confortarlo nelle sue lodevoli intenzioni mendeliane.

Riattaccai corrucciando lievemente il mio bel volto, cosa che non mancò di suscitare una moria di ammiratori nell'hall dell'albergo. Potevo io - pensai tra me e me, tanto per evitare inutili discussioni - rientrare ad Acquapendente senza trovare la fedele custode delle mie seduzioni tessili, con già pronta la prenotazione per il fontanile del quartiere, ove detergere le mie chemises de soirèe?

Potevo forse - insistetti con me visto che mi trovavo bene - affidare al cuoco - ex galeotto - l'incarico di stirare la parure di pura seta che indosso abitualmente per recarmi al mercato del pesce? Proprio a lui che aveva strangolato, stroppiciandolo tutto, un gay che passeggiava avvolto in drappi di soie ècrue, in una notte di eclissi? Occorreva fare qualcosa e soprattutto non cedere nè alla disperazione nè all'improvvisazione! Soltanto io potevo salvare Alfonsina ma non potevo certo sottrarla al condominio che non poteva certo fare a meno della sua più vigile sentinella. D'altrocanto neanche potevo sottoporre la povera donna allo stress di un volo, dato che più volte - come ella stessa racontava avvolta in diffuso rossore che trapelava tra la barba mal fatta - in quelle occasioni cadeva preda di una libido repressa da anni e che esplodeva con danni incalcolabili per il personale maschile viaggiante.

Non restava che un'unica soluzione. Anche questa volta avrei dovuto sacrificarmi affrontando i perigli e le fatiche che un viaggio nella selvaggia Amazzonia avrebbe comportato.

Ah! L'Amazzonia. Le sue foreste inesplorate! Il lungo Rio delle Amazzoni, il misterioso Orinoco! Sapevo tutto dell'Amazzonia.

Sarei andata dalla tribù degli Yanomami e da essi avrei appreso l'antica arte della fangoterapia jaluronica e poi avrei portato in Italia il giusto quantitativo di mota sacra per curare l'omero birichino dell'infelice Alfonsina. Mi commossi, non solo per la mia decisione e il mio coraggio ma anche per i dolci ricordi che a quella sfortunata donna erano legati. Quanto le dovevo! Certo la mia nascita aristocratica non avrebbe dovuto consentirmi una frequentazione troppo assidua verso tale plebaglia. Don Peppino, il nonno paterno che mi aveva nominata erede universale delle piantagioni di pistacchio in Marocco, quando io - ancor bimba magra e pallida, delicata crisalide in attesa di divenir farfalla - sedevo sulle sue ginocchia strappandogli urla di affetto mi rammentava, mentre mi scaraventava verso il caminetto, che il mondo si divide in due categorie: i nobili e il volgo. "Mai dovrai confonderela tua nobile stirpe con la volgarità della plebe. La volgarità della plebe". (Sempre il sant'uomo ripeteva l'ultima frase enunciata). Era codesto un vezzo appreso negli ultimi anni di vita, dal momento che l'arteriosclerosi da Bourbon gli aveva tolto completamente la rimembranza ed era quindi costretto a reiterare con voce stentorea le ultime parole dei discorsi, così da rammentarle per qualche secondo in più. Caro, vecchio, amabile nonno Peppino!

E questo mi ripeteva, anche quando nelle afose notti estive - furtiva come una gazza ladra - cercavo di soccorrerlo recando meco alcune gocce di centerbe a mitigar la sua sete. Essendo egli imprigionato mani, testa e piedi nella gogna del paese di Marakaibly, dove nessuno, dico nessuno, voleva aiutarlo.

Il mondo è volgare, contaminato da paria, valvassini, villani, gentaglia inutile che dovrebbe assaggiare la ghigliottina fin dal primo vagito. Tuttavia, nonostante la diversità abissale di censo e di classe, Alfonsina - pur se di nascita servile - aveva pienamente conquistato la mia fiducia, la mia benevolenza.

Un giorno mentre rientravo da un viaggio in Antartide e ancora sofferente di geloni, stavo per premere il pulsante dell'ascensore, quando mi colse un turbamento. Stavo per perdere i sensi. Forse ero in agonia. Comunque sia, quell'angelo benedetto di Alfonsina, quel puttino contorto e paffutello, prontamente sorresse le nobili membra che mi appartengono, caricandole poi sulla gobba che ne contraddistingueva il profilo. Nulla ricordo di quei terribili istanti, se non confusi sogni di dromedari e di atmosfere orientali dalle quali emersi dopo che Alfonsina, commossa per l'onore che il fato le aveva concesso senza nulla a pretendere, mi ebbe scaricata - ancora pigolante - sul suo letto da vestale severa.

Quando le mie ciglia ripresero a battere come tocco di flebile di cerbiatto prima e come battito potente di allocco poi, una visione terrificante mi si parò innanzi. Ero defunta.

Sulla parete di fronte troneggiava un ritratto ad olio eseguito dal pittore di fiducia della mia amichetta Queen Elizhabet.
Sotto, appoggiati su un centrino ricamato a tombolo, due candelabri di oro massiccio appartenuti alla mia avola prediletta Lady Esperina, brillavano di luce ardente.

Pensai subito ad una trasmigrazione dell'anima ma un dolore acuto, insopportabile, lasciò intendere che il mio corpo era ancora pulsante, pieno di vita e desideroso di calore umano.

I geloni avevano ripreso a battere, portando ossigeno al cuore indebolito ripristinando in tal modo la sinfonia di diastole e sistole cui era avvezzo. Con la vita tornò a scorrere - come ruscello gorgogliante prima e come cateratte terrificanti poi - anche l'eloquio, fluente e raffinato che caratterizza la mia personalità. Finalmente avevo scoperto l'autore dei furti avvenuti nella mia umile ma elegante dimora!

Afferrandola per la carotide - una metodologia comunicativa studiata per non offendere il tenero animo di Alfonsina - le rammentai i suoi natali, la progenie che aveva dato vita a una sì casta fanciulla e il luogo ove avrebbe potuto gioire di ebbrezze sonosciute. La santa donna, di fronte a tanta bontà, cadde in ginocchio ai miei piedi.

Tra singulti, lacrime di sangue e cianosi, giurò di aver asportato la mercanzia unicamente per l'ammirazione che provava nei miei confronti. Per adorarmi quale dea sulla Terra. Aggiunse poi che il paindatif di perle nere del Mar Baltico, il bracelet di smeraldi e lapislazzuli, la couronne royale appartenuta al re Tolomeo erano stati venduti a una specie di usuraire bilingue.

Il vil danaro ricavato era stato poi elargito alla parrocchia di San Celestino Martire, così da formare una chaine de solidarietè che avrebbe pregato a vita per la mia salute, la mia salvezza eterna, per i geloni e per le rughe.

Alfonsina mi aveva conquistato. Per questo le avevo assegnato l'onore di poter stirare i miei vetements. Ed ora, costasse quel che costasse, non potevo abbandonarla. Sarei partita per l'Amazzonia alla ricerca del fango jaluronico.

Appena atterrata a Brasilia agguantai al volo una corriera locale per raggiungere le rive del Rio della Amazzoni. Ivi giunta, mentre addentavo con signorilità, un tramezzino azzimo al pangrattato - specialità della zona - sottoscrissi un contratto sulla carta bollato che porto sempre meco, con la guida locale poliglotta. Il contratto prevedeva, in cambio del set delle mie foto più discinte ma sempre molto eleganti, le seguenti clausole:

- viaggio di andata e ritorno per il villaggio degli Yanomami.

- durata della missione da svolgersi in 9 settimane e mezzo obbligatoriamente comprensive dei week-end lavorativi.

- 235 indigeni aitanti, preferibilmente biondi, con l'incarico di trasportare armi, lucido da scarpe, l'opera completa delle tragedie del divino Gabriele, frullatori, trapani, viveri dietetici e cassapanche stile Luigi XVI ove raccogliere la terapeutica mota.

- assistenza psicologica di uno sciamano in caso di necessità.

- un coiffeur personale con il ruolo di esperto masseur nelle ore dell'ozio, possibilmente di taglia 54.

- un pavone con ruota permanente da installare nel gazebo portatile.

- divieto assoluto a chiunque di lavare e stirare la mia biancheria personale.

- costruzione e trasporto di un fontanile in onice di carrara ove, io stessa, garrula e cinguettante come bella lavanderina, ancheggiando sulle anche eburnee, avrei provveduto a detergere la lingerie per poi esporla allo sguardo ammirato delle popolazioni autocotone.

Finalmente partimmo e molte furono le sensazioni e i palpiti che il mio cuore di donna fremente e sensibile, fu costretto a subire. L'Amazzonia catturò la mia anima di giaguaro con la verde rete della sua foresta! Comodamente adagiata sulla mia fedele ottomana sfogliavo seducente come sempre, le pagine gialle alla voce tribù sconosciute, in modo da poter avere più chiaro il percorso da seguire. Grazie a tale preziosa guida codesto problema fu in breve risolto. Occorreva soltanto attraversare a piedi non so quante miglia - l'imprecisione era dovuta al fatto che tanto quei robusti ragazzoni sarebbero stati felici di potermi trasportare il più a lungo possibile - e quindi affrontare la risalita del Rio Negro e quindi svoltare a sinistra per il Rio Aranco. Da lì poi, una volta rasa al suolo il tratto di foresta necessario per non arrecarmi eccessivi disagi, il villaggio degli indio Yanomami sarebbe apparso tra i fumi della foresta amazzonica. Una vera passeggiata e in quest'ottica mi accinsi a trascorrere il tempo del viaggio immersa nella lettura di quelle tragedie dannunziane che sempre discendevano nella mia anima ferita dal meterialismo contemporaneo, come balsamo benefico e ristoratore. Tutto si svolse come io avevo saggiamente previsto: un terzo della spedizione si perse negli affluenti di fiumi sconosciuti, un terzo nel fitto della vegetazione tropicale mentre assolveva ai propri bisogni corporali e il rimanente un quarto - la metematica è stata sempre materia troppo arida per la mia testolina - riuscì a raggiungere l'obiettivo con il suo prezioso carico, cioè io.

Arrivai all'incontro fatidico leggermente provata, soprattutto a causa delle grida stridule dei miei portatori quando qualcuno di loro veniva addentato da pirania, giaguari, vedove nere ed altri simpatici animaletti che popolavano la regione, come avevo letto nel supplemento sabatico del Washington Post. Un vero supplizio! Naturalmente per le mie orecchie e per il mio delicato equilibrio psicologico, già così duramente provato per la mancanza di acqua di colonia, bevuta da uno dei portatori con un alito particolarmente fetido. Una nuova buona azione! Ma quando avrei cessato di preoccuparmi degli altri per pensare un poco a me?

Sta di fatto che vidi il filo di fumo delle povere capanne indigene, salire in cielo e subito percepii il tipico stridore delle scimmie urlatrici che sempre circondano i villaggi della zona. Senza esitazioni mi passai un po' di fard sulle gote di pesca, mi rassettai i capelli, infilai un discreto body di giaguaro e mi preparai allo storico incontro.

Il silenzio accolse il nostro avvicinarci. Di colpo la colonna sonora della giungla s'interruppe e solo il vento caldo e appiccicoso dei tropici ci diede il benvenuto nello spiazzo del villaggio, ancora immerso nel sonno della notte appena trascorsa.

Ancora pochi istanti e poi l'alba di un nuovo giorno sarebbe sorta sulla storia di quella regione. Poche bottigliette di coca-cola testimoniavano l'isolamento di quel gruppo etnico e il rituale sciamanico che si era sicuramente svolto la notte precedente il nostro arrivo. Silenziosa come il felino maculato a cui a volte mi paragonano i miei più ardenti ammiratori, mi inoltrai verso il centro dello spiazzo dove avevo scorto un indio accovacciato su se stesso. Riconobbi subito, per averlo visto ad una nota trasmissione scientifica, le pitture che contrassegnavano lo sciamano. L'intera foresta tratteneva il respiro mentre i miei passi mi portavano vicino a quell'uomo venuto dal nostro comune lontano passato. Scatarrai sommessamente per attirare la sua attenzione ed egli, lentamente, levò il capo verso di me. Solenne, come si conveniva all'occasione, lo apostrofai con uno storico: "le docteur Livingstone, je suppose". Il vecchio stregone mi osservò per un attimo e, ancora sicuramente preda dei fumi allucinogeni dell'"ebene", esclamò: "Sandra Milo! Moglie mia!".

Evidentemente la star nostrana era passata anche di là, in cerca del suo ennesimo marito. Pacatamente dissuasi lo stregone evidenziando la mia figura più minuta di quella della diva di cellulite, scusate di celluloide e, poggiandoli un braccio attorno alle spalle, sussurrai al saggio vecchio il motivo del nostro incontro.

Come il sole che si stava affacciando tra il fitto fogliame della vegetazione, un sorriso salì alla bocca sdentata dell'uomo che annuii alle mie parole. Rapido, emise un fischio alla pecorara e chiamò il suo assistente. Un bel dottorino di Gallarate che, in mancanza di assistiti nel borgo natio, si era fatto assegnare la certificazione delle cure termali in Amazzonia. Mano nella mano, mentre il discreto vecchio stregone si allontanava verso uno dei miei portatori particolarmente in carne, sprofondai negli occhi azzurro chiaro del medico della mutua distaccata e gli narrai tutte le vicissitudini che avevo dovuto affrontare e la speranza che mi aveva mossa. Finalmente il medico riuscì a liberarsi dalla mia stretta da boa constrictor e mi condusse, leggiadro, verso il bagni termali dove polle di fango bollente sbocciavano al sole come fiori sulfurei. Sostai commossa di fronte a quello spettacolo. Ogni scoppio di una di quelle bolle era come un trillante squillo di trombone contro la malvagità della malattia che, miglia e miglia più lontano, aveva colpito quella buona donna di Alfonsina. Mi chinai verso la superficie di quello stagno color grigio-topo e svenni, come sempre mi accade di fronte ad un'emozione violenta e coinvolgente.

Frotte di colorati "parrocchetti" - i piccoli papagalli delle nostre crudeli gabbie -, torme di cromatici "ara" - i grossi pappagalli dei nostri film pecorecci - sciami di tucani dal grosso becco, si posarono tutti attorno a me, come nei cartoni animati di Walt Disney. Qualcuno dei più audaci volatili tentò di beccarmi uno dei glutei, cercando da me un segno di vita che potesse dissipare il dolore nel vedermi così accasciata e col naso immerso nel fango. Prontamente, il portatore in carne verso cui lo stregone si era diretto con un coltellaccio da cucina, mi issò sulle sue forti spalle e mi scaricò di peso davanti allo sciamano. Più tardi seppi che intendeva scambiare le sue carni di cuoio con le mie bianche membra, ma gli "hekura" del luogo, ossia i cugini di San Gaspare, emigrati per sfuggire alla santa concorrenza, punirono lo stolto commerciante.
Appena mi ebbe gettato al suolo, tessendo le lodi della mia tenerezza di vitella, l'afrore di zolfo nel quale ero stata immersa, lo avvolse nelle sue spire venefiche soffocandolo senza pietà. Come Cenerentola, riaprii i begli occhi in tempo per vedere l'agonia del mostro e lo sguardo di orrore dello stregone anch'esso colpito, seppure più debolmente, dalla fragranza micidiale dello Chanel mischiato con la torba sulfurea.

Stesi la manina verso di lui ma egli si ritrasse come Dracula di fronte al sacro crocefisso. Inaspettatamente agile, urlò gutturalmente i suoi ordini, affinchè mi venisse dato ciò che volevo e quindi allontanata dal villaggio, ormai sempre più avvolto nell'odore che saliva dalla mia persona come fungo velenoso di atomica accidentalmente esplosa.

In breve vennero riempite tutte le 1232 cassapanche stile Luigi XVI, mentre uno ad uno gli sfortunati indios cadevano privi di senso tutte le volte che mi avvicinavo per porgere loro qualche prezioso consiglio sul vestiario - invero misero e demodè - che ancora portavano. I pochi raffreddati e quindi impossibilitati a respirare la mia fragranza infernale, costruirono una rozza "jangada" - una sorta di fuori-bordo ecologico da alcuni impropriamente chiamato anche zattera - e con dei lunghi pali mi spinsero delicatamente verso di essa e il suo prezioso carico.

Ancora li vedo, a tanti anni di distanza, salutarmi con il perizoma a mo' di fazzoletto e ancora arrosisco virginalmente.

In breve, grazie all'odore che si spandeva nell'aria e che attirò l'attenzione di una compagnia petrolifera americana che usava il famoso aereo annusatore - veicolo ancor'oggi coperto dal segreto militare - mi fu donato il foglio di via e venni imbarcata sulla prima nave che trasportava rifiuti chimici verso l'Africa, onde attenuare in parte l'olezzo che ancora non mi aveva abbandonato.

Arrivai un bel mattino di maggio e, nonostante non fosse ancora venuto il mio momento femminile - i fiori appassirono all'istante non appena li toccai. Silenziosamente feci scaricare le cassapanche sulla soglia dell'abitazione della povera Alfonsina, in modo da farle una sorpresa. Ella, percepito l'odore ed essendo - per sua esplicita ammissione una creatura ferina - credette di essere tornata finalmente a casa e spalancò la porta per precipitarsi incontro al signore delle tenebre.

Oh! Sventata fanciulla, come dice Isaia neil suo salmo 23,12,69: "Sfortunato colui che corre dal proprio signore senza guardare dove mettere i piedi" e anche tu incorresti nella punizione di tanta incuria. Alfonsina, che seppur gobba aveva sempre la testa nelle nuvole, non vide i doni che le avevo portato con tanta fatica e crollò nella più capiente delle cassapanche. Ancora la vedo, agitare le braccine esili per sfuggire alla presa del fango jaluronico. Entrambe le braccine! Per uno di quei strani disegni del destino, la soluzione del problema del braccio di Alfonsina, non servì alla sfortunata fanciulla che scomparve nei gorghi della cassapanca. Non era scritto che ella si dovesse salvare e riprendere il posto che la storia le aveva dato accanto alla sua affettuosa padrona! Il mattino dopo raccolsi alla superficie del fango ribollente, la dentiera della mia povera stiratrice e la inviai allo stregone degli Yanomami in ringraziamento della sua comprensione e del suo aiuto. Anche Alfonsina sarebbe stata d'accordo. Triste, abbandonai la scia di cassapanche e mi richiusi dietro le spalle la porta del mio studio. Alzai la cornetta del telefono e composi il numero della lavanderia di zia Teresina. Non dovevo permettere che i sentimenti offuscassero i doveri che avevo verso il mondo. "Lo spettacolo deve continuare" e io non potevo certo andare in giro tutta sciammannata!


ORTENSIA A BANGALORE

La notizia giunse in un radioso mattino d'inverno. Il corpo flessuoso che mi appartiene indugiava ancora negli scricchiolii dell'osteoporosi, indeciso da quale parte del letto scendere per adempiere al richiamo della gravità terrestre.

In una parola stavo svegliandomi allorchè il telefono color glicine maturo - regalo di uno spasimante ottentotto che mi aveva spedito prima di entrar nel convento di San Vitonzo - squillò imperiosamente.

Non appena sollevata la cornetta subito riconobbi l'affabile voce della "signorina Gesuina". Così, molti anni fa, chiamavo la maestra di scuola quand'ella mi scopriva a inchiodar i bagni dei maschietti, dopo aver bloccato l'impianto di areazione.

Quali dolci ricordi risvegliò in un attimo quell'eufonica cadenza, tipica delle figlie dell'orgogliosa terra di Brindisi! La rivedevo inseguirmi per le scale urlando a squarciagola tutto il suo disdoro. Una fanciulla come me, nata da antica e nobile famiglia, non poteva comportarsi come vestale perduta, come angioletto malvagio, triviale e nefando. La ricordavo allorquando mi denunciava, con occhi lacrimanti, all'autorità giudiziaria accusandomi di aver trafugato i primi disegnini "osèe" delle mie compagnette di classe, per rivenderli poi al consueto bruto fuori dalla scuola.

A causa del mio dolce rievocar, sdraiata tra immacolati cuscini di pizzo San Gallo non compresi il significato della telefonata e chiesi alla signorina Gesuina di ripetere quanto mi aveva detto. Ne fu felice!

Aveva letto l'ultimo best-seller intitolato: "Come educare le mucche all'igiene intima per ottener latte direttamente sterilizzato alla fonte", e da profonda conoscitrice dell'animo umano subito aveva riconosciuto quello stile che mi distingue, pur avendo io usato uno pseudonimo.

E imperiosa aveva sentito l'esigenza di riveder l'ochetta ormai divenuta aquila possente della ragione.

Restai allibita, senza parole. Comprendevo bene o erano soltanto frutto della fantasia, quelle parole così cariche di miele che sentivo profferirle? L'antica signorina, ormai prossima al decesso, cercava proprio me, Ortensia la bella, per regalarle il suo adorabile "crochet" dalla punta d'oro.

Negli anni della fanciullezza, invano tentavo di sottrarle quell'uncinetto da ricamo, quando si addormentava reclinando il capo sulla cattedra dopo aver assegnato riassunti quali: "il ruolo dei Rosacroce nella formazione culturale di Benedetto Croce, all'incrocio della doppia croce di S.Andrea".

Soggiunse poi che dovevo raggiungerla nella misteriosa India e più esattamente nella ricca Bangalore ov'ella si era trasferita per seguire il sesto marito - un ex-colonnello della Imperiale Fanteria Leggera Britannica - innammorato perdutamente di quella terra, crocevia di popoli e leggende.

Mentre praticavo ginnastica appesa al quadro svedese - fatto sistemare in cucina, per allenare un ex-galeotto da me assunto in qualità di "chef" - ripassavo ad alta voce quanto conoscevo sul continente indiano, quel continente che ora potevo visitare di persona. L'India! La Misteriosa India bagnata dal sacro Gange, quel Gange alle cui sorgenti Carlo Magno si era tante volte abbeverato! L'India! La fertile India dove i peperoncini crescono così in alto da far innammorar la luna con l'afrodisiaco profumo che emanano! L'India! La sovraffollata India dove le sacre mucche sono fitte come i moscerini che pascolano nella mia casetta in laguna! Sapevo tutto sull'India1! Potevo raggiungerla al più presto senza niun timore!

Dopo un rapido volo sulla penisola arabica, ecco innanzi a me gli scintillanti templi buddisti di Bangalore. Ero finalmente approdata nel cuore della saggezza, nella culla dell'arte, nel "chakra" del mistero. Alla dogana dell'aereoporto con gesto teatrale consegnai il passaporto al doganiere sperando che non mi riconoscesse per via dell'ultimo libro che avevo scritto sulle mucche, giunto fino in quei lontani paesi. Non mi riconobbe.

In perfetto sanscrito ordinai all'autista del taxi, un norvegese emigrato in India dopo la guerra del merluzzo con l'Islanda, di condurmi dalla signorina Gesuina. Di fronte al portone di ferro ove abitava la santa donna, indugiai prima di battere il battente a forma di porco. Stavo per rivedere colei che aveva guidato la mia fanciullezza, che aveva seguito i miei primi turbamenti esistenziali, la levatrice di quella coscienza che ora brillava matura e consapevole.

Sentivo pulsare per la "Sushumna nadi" tutta la mia "sukshma", la mia energia, come ruscello impetuoso che scorra verso il grande padre fiume.

Con determinazione sbattei il batacchio.

Venne ad aprire un "sepoy", un rinnegato indiano passato all'esercito britannico durante il periodo coloniale. La pelle olivastra si confondeva con il buio del salone e di lui intravedevo solo gli occhi febbricitanti di desiderio. Li sentivo correre sull'elegante figura di donna europea in tailleur scuro e soffermarsi sui piedi scalzi dalle unghie laccate di rosso pervinca. E'un mio piccolo vezzo. Stavo per chiedergli il nome, quando da lonatno la voce della signorina Gesuina sventò il mio tentativo di conoscere più a fondo la tradizione del "Padmasana".

Che grande donna! Ancor'oggi, nonostante l'età, nulla poteva sfuggirle. Mi redarguì severamente, come tra i genitori e insegnanti faceva quando circuivo i maschietti durante i colloqui con gli insegnanti! Era sempre lei, malgrado un principio di scarlattina che le imporporava il viso reso grigio dalla malaria.

Mi venne incontro. Rotolò sullo scalone vittoriano a causa di un gradino mancante che, come ebbe a dire più tardi, era sistematicamente asportato ora dal servitore ora dal marito e mi abbracciò alitandomi qualcosa nelle orecchie!

Dopo aver furtivamente passato un bigliettino al sepoy con sù scritte l'indirizzo dell'albergo, la mia taglia nonchè il numero del Fax in Europa, mi diressi con la vecchia maestra nell'ampio salone dei ricevimenti.

Lì conobbi il colonnello Peter, marito di Gesuina, ufficiale del VI Reggimento cacciatori del Bengala. Un uomo imponente che il tempo aveva risparmiato, forse intimorito dall'autorità dei tratti. Non appena mi vide scattò sull'attenti come si conviene ad un gentiluomo, e in tale posizione rimase per mezz'ora buona a causa di un'improvvisa sciatalgia che non gli consentiva di riammorbidirsi. Così, in maniera piuttosto rigida, ebbe a confidarmi che la dolce Gesuina, conosciuta attraverso un'inserzione su una rivista hard-core, sempre aveva elogiato la mia bellezza, nonchè la mia intelligenza, per non parlare del mio fascino e senza contare la mia eleganza. Arrossii nel pensare che forse la realtà superava la fantasia!

Sedemmo sul canapè dopo aver sgomberato i soldatini con cui Pit - così ormai mi consentiva di chiamarlo - ricostruiva le mille battaglie dell'eroica giovinezza. Mentre sorseggiava un punch bollente in una preziosa tazza di giada, il burbero colonnello guardandomi negli occhi chiese a bruciapelo:

"Miss Ortensia, mi dica. Come vanno le fregate?" Chinai imbarazzata il capo, ma il tenero scappellotto di Miss Gesuina mi convinse che avevo frainteso.

Felice di non dover smentire ingiuste illazioni sul mio comportamento risposi che la missione cui il colonnello si riferiva - terminata da oltre 70 anni - era felicemente fallita:

- Si, milord. Sono affondate 272 fregate. Naturalmente le nostre!- Il vecchio colonnello, rassicurato, chiese ulteriori dettagli scabiandomi per il giovane attendente di carriera morto da circa 40 anni. Non volendo amareggiare l'eroico militare così continuai:

- la gloriosa flotta britannica ha attraccato nella città di Berna su invito del premier svizzero Guglielmo Tell per por fine all'embargo sulle mele decretato dai tirolesi. Uscita al casello di Orte, dove ha incontrato difficoltà a causa della moneta spicciola, la flotta ha sbarcato i Royal Marines a Ceprano, stabilendo così una salda testa di ponte.

Il 32-simo battaglione avio-trasportato invece è caduto preda delle vertigini. Ha ricevuto ordine di saccheggiare le farmacie di Bergamo Alta per requisire 22.000 tavolette di Viamal. A tutt'oggi resistono, nonostante la dispesia ostinata!

- E i mercati finanziari come hanno reagito? - Chiese Pit rivelando un intuito estremo sui meccanismi della guerra.

- Sono crollati non appena giunta la notizia che palette e secchielli, richiesti per il 7 battaglione genieri attestato nel deserto di Oman, non sono stati consegnati. L'incaricato d'affari, cardinal Pompa, ha tentato una mediazione con il governo bulgaro per ottenere almeno 10 formine a testa, ma a nulla è valso il suo intervento.

A tale notizia il 7 Genieri ha fornito prova di una fermezza d'animo encomiabile, caratteristica della tempra britannica, scoppiando in un pianto dirotto.

La madonna di Fatima, richiamata dai singhiozzi degli eroici volontari del deserto, ha preso solenne impegno di fronte all'assise internazionale di far pervenire a uomini così provati e coraggiosi, un intero stock di materassini a forma di croce, completi di pompa , in onore del cardinale. -

- E i sottomarini, i sottomarini? - farfugliò Pit con un lecca-lecca d'orzo a forma di papera che gli gonfiava le guancie, perfettamente rasate.

- Sono in ottime condizioni di efficienza e pulizia, come vuole la tradizione inglese fin dai tempi di Van Erik il Rosso. Hanno ricevuto l'ordine, non appena raggiunta la profondità di 1850 mt., di aprire gli oblò per meglio asciugare i pavimenti. Purtroppo il contatto radio si è interrotto alle 13.45. Siamo in attesa di notizie.

- E l'orgoglio della flotta, la portaerei "Guardian II"? - chiese avido il colonnello mentre per diminuire il nervosismo cercava di tagliarmi le unghie dei piedi:

- Perfettamente in ordine. Su di essa è stato imbarcato il 4 corpo guastatori. Dopo il loro imbarco le derrate alimentari sono marcite all'improvviso, in particolar modo le famose pesche sciroppate di Glasgow poi gettate in mare dove hanno provocato un'insolita moria di calamaretti e gamberi -

Il colonnello ormai dormiva rassicurato dalle buone notizie e cullato dalla mia voce paradisiaca. Felice di aver regalato tanta dolcezza, afferrai per la collottola Miss Gesuina, - anch'essa in leggero stato catatonico - e le ricordai quanto mi aveva promesso.

Leggermente cianotica, forse a causa dell' entusiasmo con il quale stringevo quel collo taurino eppur delicato, indicò il cassetto della toilette posto accanto alla scrivania del marito.

Sobriamente e senza tradir l'entusiasmo che il possesso dell'agognato "crochet" mi procurava, sfondai adoperando una bottiglia di Brandy trangugiata durante la conversazione, il ripiano intarsiato del mobile. Eccolo lì, adagiato come piccolo aspide tra le maglie di lana che Miss Gesuina confezionava per i bambini del Rotary Club - il crochet risplendeva alla luce delle lampade che illuminavano il salone. Piansi. Forse di commozione. Forse di gioia. Comunque piansi.

Lo raccolsi tra le braccia, cullandolo come madre che ritrovi l'infante trafugato.

La vecchia maestra che tanto avevo amato giaceva riversa sul tappeto orientale. Ho ancora negli occhi il suo colorito cinereo e il respiro flebile, quasi inesistente.

Non avendo il coraggio di svegliarla attraversai la casa ormai avvolta nel silenzio della calda notte tropicale. Chiusi alle spalle la pesante porta in ferro battuto respirando inebriata quell'aria carica di odori sconosciuti alle mie nari di donna occidentale.

Desideravo tornare al più presto alla maison di Acquapendente dove avrei potuto finalmente terminare l'opera iniziata tanti anni prima e che, incompiuta, attendeva l'ultimo tocco delle mie mani. Il crochet, come spada fiammeggiante usata contro oscure forze infernali, avrebbe consentito di tirar fuori da le trou de le lavabo, il tappo d'onice del mio dentrificio da sera.

ORTENSIA A CASABLANCA


Dovevo andare a Casablanca. Le coltivazioni di pistacchio ereditate dal nonno paterno - interdetto e ricoverato ad Alcatraz per la cura del sonno - stavano bruciando. E con loro gran parte del mio cuore.

In preda alla disperazione e bisognosa di consigli sul da farsi subito mi accinsi a riverire Don Firmino, parroco della diocesi di Acquapendente. Acquapendente è un antico borgo medievale noto per la titubanza con la quale rifornì di vettovaglie l'esercito di Ottone I in marcia verso la Terra Santa. Don Firmino, invece, è il mio consigliere spirituale e sempre mi ha elargito conforto e sollievo durante i momenti più difficili della mia permanenza terrena. Inoltre egli conosceva bene le usanze di quei luoghi così lontani essendo stato missionario, proprio a Casablanca, durante l'ultima epidemia di Afta epizotica che aveva decimato le mandrie locali.

Non appena varcata la soglia della chiesetta settecentesca così carica di ricordi, e che mi aveva vista prima bambina dal passo incerto, poi donna dall'incedere volitivo, provai un senso di subitaneo sollievo. Sarà stata forse l'emozione, il buio della sagrestia, oppure gli occhiali scuri che adopero per mimetizzarmi, sta di fatto che inciampai rischiando di cadere, ma le forti braccia di Don Firmino mi afferrarono prontamente per l'ampio colletto del vestito. Ne porto ancor'oggi i segni sul collo senza una ruga.

All'ombra del crocefisso ottocentesco, Don Firmino dopo avermi fatto inginocchiare su grani di pepe nero, ascoltò attento il racconto delle sventure. Silenzioso come un pekari - sorta di gigantesco ruminante simile ad un ratto che scivoli nel Rio delle Amazzoni - scomparve all'interno della sagrestia, dalla quale riemerse stringendo nel pugno la foto di un nano, autore - così affermava Don Firmino - di molti incendi all'epoca della benefica missione tra le mucche del deserto. Purtroppo la foto raffigurava il nano da piccolo e quindi nulla si vedeva ad eccezione di un puntino scuro al centro della vecchia foto. Comunque era una traccia. L'unica che possedessi.

Ringraziai Don Firmino per la preziosa consulenza e mi accinsi a partire per Casablanca.

Dopo aver fatto un salto dalla sarta di fiducia per acquistare un impermeabile bianco e un panama con banda fosforescente, mi imbarcai sulla prima bananiera battente bandiera liberiana, cercando di ingannare la durata del viaggio chiacchierando con il vecchio capitano. Tra un sigaro avana e un buon bicchiere di Brandy bollente, disquisimmo furiosamente sul numero esatto delle zampe dei polposi granchi "Carponicix striatus". Il vecchio lupo di mare insisteva nel voler considerare nella media ponderata delle zampe, anche il numero delle zampe dei granchi claudicanti. La mia posizioni ideologica, invece, fedele alla pragmatica baconiana, mi costringeva ad oppormi fermamente a tale eresia, frutto solo di una mente ormai distorta dall'alcool e dalla superstizione, tipica in codesti uomini dal volto segnato dalla salsedine e dalle avversità della vita.

Così continua il diario che tenni dall'inizio del viaggio fino alla soluzione del caso che mi vedeva coinvolta in prima persona:

27 febbraio: ore 17.15.

Il caldo è opprimente. Le banane fermentano. Metà dell'equipaggio staziona in infermeria. Reparto craniolesi. Le banane continuano a colpire l'equilibrio, peraltro già precario, di codesta bagnarola. Sovente sono costretta ad evitare, mentre passeggio sul ponte con il mio ombrellino di raso rosa, i corpi imprecanti dei marinai quando scivolano sulla poltiglia di banane che fuoriesce copiosa dai boccaporti. Strani voci circolano per la nave. I marinai, gente incolta avvezza a credere ai malefici, ritengono che la nave sia maledetta per la presenza di una donna a bordo, e a parte il mozzo che si mormora imbarcato alla volta di Casablanca per motivi extra-marinareschi, ritengo di essere l'unica donna a bordo. Che ce l'abbiano con me? -

28 febbraio: ore 18.12

Ce l'hanno con me.

Si è scatenata una sommossa. Il mozzo effemminato, in cambio della mia lingerie usata, mi confida che l'equipaggio vuole gettarmi tra i flutti. In codesto deplorevole intento si distingue particolarmente il cuoco, al quale dispenso ogni giorno preziosi consigli su come approntare un menù raffinato, e cerco inoltre di fargli intendere quale dovrebbe essere il comportamento da tenere nei confronti di una vera lady.

Tutti comunque ritengono che la dea "Banana-Rama" sia oltremodo irata per la mia presenza sulla nave. Tentano più volte di avvicinarsi alla mia persona per por mano allo sgradevole progetto ma fino ad oggi sono riuscita a tenerli lontano parlandogli vis-à-vis. Ho scordato lo spazzolino da denti ad Acquapendente ed ho convinto l'aiuto-cuoco a leggere un libro intitolato "Virtù terapeutiche e alimentari delle cipolle in agrodolce". Sarà un caso?


3 Marzo: ore 7.30


Come dio vuole siamo approdati in Marocco. Dopo aver salutato il vecchio comandante durante uno dei rari momenti di lucidità, scendo dalla nave tra le grida di gioia dell'equipaggio. Cari ragazzi, sempre pronti ad entusiasmarsi di fronte ad una bella donna! Scendo dalla scaletta che percorro in 32 minuti primi per consentire al popolo di estasiarsi delle mie movenze feline. A terra la tipica folla di venditori ambulanti di codesto paese mi attornia. Resto stupita dalla loro pelle chiara e dal fatto che provengono da Bergamo e Borgonovo ma poi comprendo che i venditori autoctoni sono emigrati sulle coste adriatiche, creando nel paese subsahariano nuovi occasioni di fortuna per l'opulento Occidente.

I colori dell'Africa m'inebriano. Una nuvola di odori, suoni, idiomi sconosciuti, mi avvolge. Riconosco i tipici berretti a sonagli dei contabili meneghini, l'eloquio fluente e incomprensibile dei menager torinesi, l'odore forte e penetrante della crema da barba dei consulenti globali emiliani. E poi, più forte degli altri, il pungente afrore dei bomboloni alla crema fritti lì, nell'angiporto marocchino. La lettura dell'antropologo Levi-Strauss mai si rivelò più adeguata per comprendere la fusione di etnie così diverse l'una dall'altra. Ma sto per dimenticare lo scopo della missione. Non sono una turista, sono un'investigatrice. Domani inizierò le ricerche per rintracciare il focoso nano. Ora lascio che la notte dolce e sensuale dell'Africa mi avvolga in un abbraccio impudico e solenne! -

23 Settembre: ore 9.30


Debbo ammettere che ho lasciato trascorrere alcuni giorni senza fare alcunchè ma l'Africa è troppo coinvolgente! Il tavolino pieghevole che sempre porto con me quando viaggio raccoglie cumuli di telegrammi provenienti dalle piantagioni. Tutte bruciate. I contadini grazie all'esperienza acquisita sono entrati a far parte del corpo "Pompieri sperimentali del deserto". Bravi ragazzi! Sapranno farsi onore non appena riusciranno a trovar l'acqua. L'ultimo dei baldi giovanotti mi scrive che durante un barbeque vegetariano, ha intravisto una figura allontanarsi velocemente con un bidone di benzina stretto nelle piccole mani. Il mittente scrive che secondo lui dovrebbe essere lo spirito di Bugs Bunny ma io so chi è veramente! E' il nano di fuoco! Orsù giunge il momento di pensare seriamente alla caccia. Anche perchè sto ingrassando troppo a forza di sgranocchiare bomboloni alla crema.

25 settembre: ore 19.45

Sono giunta sul luogo del delitto. Dove un tempo svettavano alte e maestose piante di pistacchio ora solo alcuni rami inceneriti raccontano la gloria di quelli che furono le piantagioni dei miei avi. Con gli occhi pronti alle lacrime, stringo l'impermeabile bianco attorno al corpo tremante. E' ora di cena e avrei bisogno di prendere una doccia, senza contare che voglio tanto la mia mamma. Basta! Mi chino sul suolo annerito. Sollevo il panama fosforescente sulla fronte per osservare le tracce del terreno calpestato da una mandria di zebù. Forse è un segnale ma gli indigeni mi avvertono che la cosa avviene tutti i giorni da 2500 anni a questa parte.

Il caso si fa complicato.

Con gesti studiati - potrebbe esserci un ammiratore nei paraggi - mi piego all'indietro per osservar meglio le tracce, essendo leggermente presbite. I pigmei acquattati tra le alte erbe della savana mi colgono in codesto atteggiamento regale. Il naso svettante all'aria, gli occhi socchiusi, il corpo arcuato verso il cielo, tutto fa creder loro che una dea sia scesa dall'Olimpo per beneficiarli.

Mi circondano e s'inginocchiano presso le mie caviglie.

Bravi selvaggi!

Riverire una lady è sempre un segno di civiltà raggiunta.
Poi mi depongono in una vasca di acqua calda - forse un po' troppo calda - insieme a del rosmarino, una cipolla e una manciata di zafferano. Deve trattarsi di un bagno rassodante. E tutti sanno che le donne pigmee hanno una pelle soda e levigata, e ciò dovrebbe essere la ricetta del loro segreto!

26 settembre: ore 12.00


Tutto sommato sto bene in codesta vasca tonda. Ma un piccolo dubbio me l'ha fatto sorgere un gesuita che si è avvicinato curioso. Il sant'uomo racconta che dopo alcuni anni è riuscito ad insegnare alle sue pecorelle smarrite nuove tecniche alimentari-mistiche, tra le quali la lenta cottura a bagno-Maria Vergine. Io però non rispondo al nome di Maria e oltrettutto sono signora da molti anni. Per non illudere troppo gli estimatori decido di uscire dalla vasca, non senza prima avvolgermi in un elegante accappatoio di finto coccodrillo. Ancheggiando scompostamente saluto i miei fedeli, avviandomi poi verso le piantagioni di pistacchio. Ostinati come solo i veri ammiratori sanno essere, ancora li vedo inseguirmi urlando nomi di chissà quale divinità propriziatrice. Per la gioia degli antropologi dirò che i piccoletti urlano qualcosa del tipo "pappa buona", invocando di certo un'ascendenza di tipo patriarcale.

In ogni caso riparo sopra una sequoia come feci alcuni anni fa per sfuggire ad un ammiratore esquimese che voleva cospargermi di grasso di foca per iniziarmi a chissà quale immonda pratica sessuale. Grazie ragazzi per aver risvegliato ricordi sì piacevoli, mitigati dalla saggezza che interviene col passar degli anni!


27 settembre: ore 14.30


Eccolo, è lui! Il Sole arde. Sono acquattata sull'ultimo ramo della sequoia. Vedo il maledetto puffo nero aggirarsi ridacchiando tra i resti della piantagione. Una visione infernale. Come disgustoso gnomo annerito dal calore dell'inferno, ha fattezze umane ma contorte. Quasi che il calore l'abbia raggrinzito come prugna lasciata ad essiccare sul terrazzo di via Frasca durante ferragosto.

Mi acquatto ancor di più, per lanciarmi poi su di lui come papera che intraveda una fetta biscottata.

Sono splendida. Le falde dell'impermeabile svolazzano lasciando intuire il candore del corpo scattante. Il profilo aguzzo eppur morbido. La posa plastica dello slancio. La chioma fluente che fuoriesce - come pulcino coraggioso - dalla protezione del panama. Tento di voltarmi per vedermi.

Nel frattempo il nano con urla di sopresa e ammirazione, si dilegua in un formicaio alla base della sequoia.

Ma la fine del "minus hominem" è soltanto rimandata.


28 settembre: ore 4.06

Gocce di sudore scendono dalla fronte. La sabbia penetra nelle fessure dell'impermeabile e tra i capelli. Sono nervosa. Mi capita sempre così quando ho i capelli sporchi e non posso lavarli. Ma non devo allontanarmi dal posto di osservazione neanche per un minuto. Il maligno dovrà uscire prima o poi. E io sarò lì ad aspettarlo. Intrepida. Per ora non posso far altro che dormire e prendere un po' di sole.

3 Ottobre: ore 8.30


Dopo lunghi giorni di attesa l'ho visto sputare semi di anguria dall'entrata del formicaio. Stupido animale! Non sa che i cocomeri costringono a rapida evacuazione idrica e infatti eccolo lì! Vedo spuntare prima i baffetti e poi il grosso naso a medusa, sotto il quale una bocca nervosa sgranocchia tranquillanti. Ne avrei bisogno anch'io. Piccolo essere immondo, oggi riuscirò ad averti!

Attendo immobile come statua. Confondo il mio profilo di femmina con la lussuriosa vegetazione circostante. Ci siamo. Lo afferro per il collo portandolo all'altezza del mio volto, bello ma severo. Lo osservo attentamente. Scalcia per liberarsi dalla presa delle mani delicate ma ferme. Ferme come devono essere quelle di infermiera che pratichi un'intramuscolare ad un obeso.

Porta una strana tuta blu e dal taschino spunta un pappagallo, nel senso dell'attrezzo. Lo guardo negli occhi. Il puzzle si ricompone come per incanto: si tratta di un idraulico frustrato. Tra le lacrime mi racconta tutto. E' di Aversa e fin da piccolo - si fa per dire - aveva due passioni: una positiva, fare l'idraulico e una negativa, il pistacchio che la mamma gli imponeva di mangiare al posto dei ravanelli che egli amava in maniera morbosa.

Una volta venuto a conoscenza, tramite "Fortune", che una donna possedeva le più estese piantagioni di pistacchio del medio Oriente, la sua psiche era crollata. Per lui rappresentavo il male: ero la causa del disgusto provato per la mammona. Poi aveva subito un transfert spostando l'odio edipico su di me. Partorì un'idea invereconda: decise di distruggere le piantagioni per realizzare tubature chilometriche che avrebbero portato decilitri di acqua verso i ravanelli sofferenti per la calura del deserto. I primi allacciamenti sono già in atto. Posso infatti osservare il riflesso dei tubi minacciosamente disposti ai limiti dei miei possedimenti. Come un esercito di osceni anellidi.

Povero piccolo! Nonostante il danno che mi ha procurato provo tenerezza per lui, inconsapevole prodotto dell'ottusità di una madre! Ripenso alla mia gatta Peppina e alla sua incapacità di catturar topi se non sul letto di casa sotto il mio sguardo vigile. Anch'io, per troppo amore, ho creato un mostro. Come posso accusarlo?

Dischiudo le mani come bimba che liberi una farfalla e il nano idraulico cade dall'altezza di 1.70 mt.

Giace nella polvere come sasso dormiente. Il capino fracassato da una roccia appuntita sulla quale, l'imprudente, è andato a cadere. Gli parlo con dolcezza ma nemmeno la voce morbida e sensuale che mi appartiene può trarlo da quel sonno eterno.

Provo commozione quando vedo una iena che staziona poco distante, afferrarlo per il collo e fuggir via. Non lo vedrò mai più. Ma imperituro sarà il ricordo nel mio cuore.

Asciugo una furtiva lacrima che si affaccia sul ciglio delle ciglia e mi appresto a tornare a Casablanca. Il tramonto si tinge di rosso e porpora come se la Natura volesse unirsi a me per onorare lo scomparso eroe che solo un destino avverso ha voluto dalla parte del male. Mi affretto.

Prima con passi pesanti e gonfi di dolore. poi quasi a voler fuggire lontano dall'anfiteatro dove si è svolta la tragedia. I calzari ortopedici accentuano l'andatura sulla sabbia.

Ora, come magico felino alla ricerca di un riparo, corro. Corro trafelata. Abdul El Rosbif, coiffeur in Casablanca, chiude alle 17.45.


ORTENSIA IN EGITTO


La notizia giunse fulminea come pioggia acida su coltivazioni di petunie. Mia figlia si era fidanzata. La piccola Silvy, quel tenero esserino, quella creatura angelica e soave era ormai donna. Come la mamma. Avevo ancora negli occhi cerulei l'esile figura rincorrere le oche del casale per spennarle penna per penna, ed ecco che l'immaginelascia posto a una protuberante fanciulla con nello sguardo un fuoco che non le conosco! Anche adesso mi par di sentire gli striduli gorgoglii quando saltando sul mio sterno con i suoi 160 Kg., voleva mostrar tutto l'amore che provava! Rivedo ancora lo sguardo di iena inferocita seguirmi mentre l'abbandono al riformatorio o nella colonia penale dove la segnavo durante l'estate, con la segreta speranza che ivi rimanesse per tutto l'anno.

Ora - la fanciulla di un tempo - era divenuta donna. Le fattezze acerbe dell'innocenza avevano lasciato il posto ai tratti decisi di una femminilità incontinente.

Da tempo avevo intuito - con l'istinto infallibile della mamma balena mentre osserva la sua balenottera prendere il largo - che qualcosa stava cambiando. Il primo dubbio mi sfiorò la mente quando la sorpresi ad ululare in una notte di luna piena, con l'abbondante pelo biondo ritto sulla statuaria schiena. La Natura stava reclamando i suoi diritti! Per rispondere all'egoismo di madre che mi attanagliava l'animo, tentai di distrarla da certi pensieri che immaginavo santi come quelli della monaca di Monza. Riuscii a venderla come mozzo di bordo ad un peschereccio maori dove la conformazione fisica non le avrebbe fatto correre alcun pericolo. Grazie ad un seno particolarmente florido, infatti, in caso di naufragio sarebbe rimasta a galla senza sforzo alcuno. Già l'immaginavo salvare i suoi compagni di navigazione e ricevere la "legion d'onore" per l'eroico sforzo sostenuto dal busto prosperoso.

Con quale attenzione seguii, mese dopo mese, la "voce dei naviganti" per sapere se le preghiere recitate ogni notte fossero state esaudite.

Con quale trepidazione leggevo quelle poche righe stentate che la grassoccia mano vergava su cartoline unte di pesce fritto.

Con quale preoccupazione, mista a sollievo, notai il diradarsi delle affettuose missive. Poi quando già ero in procinto di rallegrarmi per il lungo silenzio, ecco arrivare la stupenda notizia.

La piccola tricheca si era innammorata! Le rosee dita di Cupido avevano stretto quel cuore di megattera!

Durante una visita culturale nel porto del Cairo, così lessi nella lettera in cui l' infanta annunciava la sua gioia, in una delle tante bettole in cui si era soffermata ansante a causa della mole e del caldo, aveva conosciuto un efebico giovanotto dagli occhi divergenti che prese a guardarla con lo stesso interesse con il quale lei rimirava i quarti di bue che ero solita prepararle a merenda.

Ah, l'amore! Questa fiamma che tutto avvolge nell'attimo fuggevole di uno sguardo! Rivedevo me stessa nelle parole della mia "ciccionina". Intuivo dalle ardenti frasi l'odore di passione che anch'io prima di lei - e come tutte le eredi di Lillith - avevo aspirato a pieni polmoni. Il promesso, così mi diceva la piccola palla di lardo, era un principe iraniano sfuggito da bambino all'epurazione islamica del paese natio. Attualmente risiedeva a Il Cairo mettendo a profitto l'istruzione di cuoco ricevuta alla prestigiosa accademia militare di West-Point.

Dio! Dio mio! Un nobile! La mia piccola dalla vita stretta come tronco di sequoia aveva fatto innammorare un nobile. Un principe! Provai un senso di colpa avendole presentato, alcuni anni fa, il salumiere di fiducia, preoccupata per l'endemica tristezza post-prandiale! Come avevo potuto dubitare di lei? Del suo innato fascino? Che poi è quello della genitrice? A ben altro poteva aspirare la mia piccola bomboniera! Ed ecco infatti che il destino compiva il suo corso. Un nobile! Temevo soltanto, in cuor mio, che il fato non si accanisse su di lei come aveva fatto con me quando, in un non lontano passato, mi aveva strappato alle ardenti braccia del principe Vladimir, palafreniere di corte all'ippodromo di Tor di Valle, dopo la rivoluzione d'ottobre. Respinsi le lacrime che scendevano pudiche sul volto e presi la decisione. Occorreva preparare una degna accoglienza ai due colombi che sarebbero rientrati in Italia di lì a qualche giorno. Presto avrei potuto riabbracciare il grasso del mio grasso e conoscere finalmente il coraggioso sufi d'oriente!

Ma di certo non potevo accoglierli come se nulla fosse e decisi quindi di approntare un rinfresco cui avrei invitato soltanto gli amici più intimi, quelle affettuose 1500 persone sempre così interessate alle vicende della mia famiglia. Doveva esser qualcosa di particolare, qualcosa che sottolineasse la fortuna del pretendente nell'impalmare quel prezioso bocciolo di cactus della mia piccola Silvy.

Mentre sottoponevo i neuroni che posseggo allo stress del pensare in modo veramente creativo mi sovvenne che avrei fatto allestire un menù all'egiziana, così da ricostruire nella vecchia Europa - l'atmosfera del primo incontro tra i due passerottoni. Un menù solitamente consumato nell'antico Egitto, nell'Egitto dei Faraoni, delle piramidi, della Sfinge. Sapevo tutto dell'Egitto!

Potevo raggiungere quella terra fertile per ricostruire, dalla lettura della stele di Polankamen, le pietanze in uso presso le nobili corti di quel tempo passato.

Stringendo sotto il braccio il dizionario di Champillon per decifrare i geroglifici senza alcun errore, dopo un breve volo arrivai a Il Cairo. Emozionata mi recai in un'agenzia turistica specializzata nelle escursioni alle tombe sconosciute di cui possedeva l'esclusiva. Esposi il caso. Mi assegnarono una guida esperta, un ometto pallido di origine chiaramente autoctona che m'issò - a fatica - su un cammello a due gobbe. Dopo aver bisbigliato qualcosa nelle orecchie del quadrupede diede una pacca al mio sedere lascinadomi andare. Forse aveva fatto un po' di confusione. In ogni caso il ruminante si diresse sapientemente verso un puntino nero che spiccava sulla linea retta dell'orizzonte. Con apprensione giungemmo innanzi ad una specie di cubo le cui facce di marmo grigio tremolavano al calore del deserto circostante.

Ero di fronte alla tomba del cuoco di corte, Polankamen II! Avrei dovuto stuparmi nell'osservare la forma eretica del tumulo, così diverso dalle dozzinali piramidi egiziane. Ma avevo letto molto sulla personalità innovativa del cuoco di fiducia del faraone Ramsette Sei. Lo chef era stato un precursore incompreso. Prima di altri aveva intuito l'importanza dei surgelati ma vivendo in un clima ostile gli esperimenti erano sempre falliti.

Tragico destino il suo. Volle brevettare un contenitore per cibi - una specie di congelatore cubico ove deporre gli alimenti- ma nonostante ciò gli stessi alimenti raggiungevano la mensa del sovrano in pessime condizioni di conservazione. Dopo l'ultima forma di bruxellosi provocata nel divino Ramsette Sei, Polankamen II fu costretto ad abiurare e la leggenda vuole che uscendo dalla sala ove il Gran Sacerdote lo aveva inquisito, abbia esclamato: "Eppur fa freddo!".

Sta di fatto che il cuore non resse all'ordine di cucinare soltanto alimenti freschi e decise di togliersi la vita, non prima di aver fatto costruire un tumulo a forma di congelatore, in cui ordinò di essere seppellito vicino a cumuli di orate, merluzzi, cozze e vongole. La tragica vicenda di Polankamen era descritta in geroglifici che decoravano la tomba unitamente alle sue migliori ricette. Da tempo i profanatori avevano trafugato le cataste liquefatte dei prodotti ittici che avrebbero dovuto accompagnare il lungo viaggio del defunto alla mensa aziendale degli dèi. Pur tuttavia, e pur non avendo ancora varcata la soglia del tumulo, il mio olfatto riusciva ugualmente a percepire l'acre effluvio del dio Nettuno.

Catturata forse dall'afrore, forse dalla leggenda, forse dall'odore stesso della storia, volli entrare nella piramide quadrata per scoprire codelle misteriose ricette. In un angolo, poco lontani dalla mummia del cuoco, illuminati da vivido raggio di Sole ecco raffigurati gli ingredienti sacri, gli alimenti divini! Avevo scoperto le ricette e le invocazioni del celestiale cuoco!

Tremante mi avvicinai e in ginocchio - quasi a riverire -sillabbando lessi ad alta voce:

"Divino P'ta custode dei defunti

perdona il servo che osa bussar

alla porta della tua garconierre

neanche fossi il portier del palazz"

- L'invocazione poi così proseguiva:

Armando ama Alma. 12 Ottobre 1917

Forse la frase era una contraffazione rupestre. Scandalizzata prosegui la lettura:

Divino P'ta

accetta codesto piccolo caimano

riempito di barbabietole

Fa che esso navighi nel tuo capiente ventre

che divenga energia divina

che nutra il corpo dalla faccia da sciacallo che possiedi

Un asterisco posto alla fine dell'invocazione rimandava ad una nota a piè parete ove in caratteri minuscoli erano forniti gli ingredienti delle varie ricette. Emozionata presi nota su una pietra che avevo portato meco per rispettare la tradizione:


PAPIRO ALLA GIUDIA

Ingredienti per l'Esodo


1 ettaro di canne di papiro maturo

1000 schiavi ebrei

2000 galoches

4 cozze

1 profeta in umido


Fate radere al suolo una piantagione di papiro da mille schiavi ebrei, cui avrete in precedenza fatto indossare le galoches.

Lasciate bollire le zampotte degli schiavi nelle suddette per 25 giorni a partire dall'ultima settimana di Pasqua, possibilmente al Sole del deserto. Quando saranno ben rosolate, aggiungete un profeta e lasciate riposare il tutto.

Preparate a parte degli involtini con le foglie del papiro e riempiteli con il popolo eletto. Aggiungete le 4 cozze per guarnire e spingete il tutto nel Mar Rosso fino alla sponda opposta.

Lanciate le vostre guarnigioni al recupero e attendete che vengano travolte dall'alta marea.

Servire ben caldo.

Un piatto leggero indicato soprattutto per l'estate e la riduzione degli armamenti.
La ricetta si presta ottimamente per i pic-nic nella buona stagione.
Geniale! Quasi deliravo di fronte a tanta creatività. Di fronte al destino infame di un grande artista che, argutamente, mi parlava da oltre 2000 secoli di distanza. Proseguendo nella ricerca trovai la ricetta di un secondo piatto:

COCCODRILLO PESANTE

Ingredienti per 350 persone.


1 coccodrillo del Nilo, possibilmente maschio.

1 quintale di barbabietole rosse, possibilmente femmine.

1 ettolitro di succo di riso

5 tronchi di cedro tagliati a mò di palo acuminato.

1 carriola di sabbia bagnata

3 bandierine dai colori sgargianti

3 ombrellini

1 pagliaccetto.


Con 2 mani spalancate le fauci del coccodrillo ancora vivo e catturato durante una notte di luna nera.

Fissate le fauci con due dei 5 pali acuminati in modo che rimangano ben aperte e riempite poi il coccodrillo di 1/2 quintale di barbabietole che avrete sbucciato e affettato un mese prima.

A parte, in un tegame, mescolate metà della sabbia con le restanti barbabietole e cuocete fino a far dorare.

Bruciate i rimanenti pali in modo da coprire l'odore forte del soffritto.

Quando il soffritto acquisterà un bel colore pervinca-rubino, mettete il coccodrillo in una pentola fino a coprirlo per metà, avendo l'accortezza di far penzolare fuori la testa.

Fate bollire per almeno una settimana in modo da frollare il tutto, e ogni tanto mandate un servo a mordere la testa del coccodrillo.

Quando uno dei servi riuscirà a tornare, vorrà dire che la pietanza è cotta a puntino.

Versate il coccodrillo e i resti dei servi in un ampio piatto da portata e ornate con il soffritto.

Guarnite con le bandierine, l'ombrellino e il pagliacetto.

Lasciate riposare per 15 giorni in aperta campagna e quindi servite insieme ad un Bordeaux del '22"

E la frutta, la frutta? Chiesi ad alta voce, quasi che il cuoco fosse lì davanti a me, tanto erano vivide le immagini sulla parete della tomba! Ed ecco la risposta incisa in un blocco di tufo staccatosi dalla volta:


PASTICHE SAHARIANO

Ingredienti per 4500 persone

12000 Kg. di angurie fresche

3 galee di pompelmi, possibilmente non israeliani

1 piramide piena di maraschino bianco

1 sfinge riempita di datteri con il nocciolo

300 palme verdi, belle mature

1 passaporto con il sigillo imperiale

Invadete nottetempo l'Assiria e fate prigionieri 3000 schiavi cui darete ordine di tagliare le angurie in piccoli esagoni di non più di 2.3 mm. di lato.

A parte, ad altri 3000 schiavi etiopi catturati in una seconda campagna militare a Nord, date ordine di attaccare i pompelmi alle 300 palme, ad una distanza di non meno di 3.2 cm l'uno dall'altro.

Fatto ciò, sciogliete sotto il tremendo sole africano il maraschino con gli esagonini di anguria . Quando la nube nera delle cavallette avrà coperto il lago prodotto dal cocomero e maraschino - il cui sito avrete ricavato deviando il corso del Nilo - presentate domanda di catastrofe naturale al ministero dell' agricoltura e foreste.

Non appena giungeranno gli ispettori inviati dal ministro bersagliateli con i pompelmi e fuggite in Magna Grecia dove, mi dicono, si mangi molto bene.

Per evitare spiacevoli soste alla frontiera presentate il passaporto e offrite ai doganieri un soufflè di cocomero, maraschino e cavallette.

Mai di giovedì perchè sono analfabeti.

Era fatta! Finalmente possedevo il menù completo. Dopo aver bruciato il bastoncino del ghiacciolo per propiziare il sacro cuoco, uscii al Sole del deserto ormai quasi al tramonto. Incredibile come passa il tempo nelle tombe!
Agile come una gazzella, attenta come una pantera, elegante come uno zebù, raggiunsi con il cammello dell'andata la città de Il Cairo. Fremevo dall'impazienza di porre in atto i preziosi consigli dell'impagabile Polankamen II. Rifiutai con decisione la corte di un miliziano dell'Armata Rossa di stanza in Egitto sotto le mentite spoglie di guardia-macchine e chiesi ad un taxi di condurmi in albergo e al più presto. L'adorabile Silvy sarebbe stata fiera - come sempre - della sua incredibile mammetta e il cuoco-principe avrebbe pianto di gioia per una suocera che gli riportava sapori e odori della città ove aveva incontrato la sua amata silfide. Ringraziai nel chiuso del mio cuore la saggezza dell'antico cuoco che così amorevolmente aveva risposto alle esigenze di madre affettuosa e rientrai in Italia.

Per una volta trascurai le attenzioni del capo dei pompieri dell'aereoporto. Il tempo stringeva. Dovevo affrettarmi se volevo essere a casa in tempo per cogliere la giornata propizia - il giovedì - nella quale procedere al maceramento del coccodrillo. Quel coccodrillo acquistato in Egitto e che si dibatteva nella borsetta scelta della stessa razza per non farlo sentire troppo lontano da casa.

Il giovedì, infatti, sarebbe stato il giorno fatidico del Destino, quando avrei potuto avere libero accesso alle fontane del condominio. Come da statuto.

Ortensia in Austria, nella valle dell'Alm

Nel tempo dorato della fanciullezza pochi sono consapevoli dei gesti che poi, in età matura, possono rivelarsi fatali.

Così io, quando ancora bimbetta strappavo le penne alle oche non potevo immaginare che quel tenero gesto avrebbe procurato alla mia persona imperitura fama.

Così pensavo, immersa nella lettura del telegramma che l'esimio herr professor Lorenzetti aveva a me fatto recapitare.

Deliziosa figura di scienziato, quella del Lorenzetti.

Ebbi modo di conoscerlo a Yalta, durante una primavera tenera e calda quando ivi mi recai per disintossicarmi da un abuso di lattuga, come ordinato dal medico di fiducia. Accettai la corte discreta del timido uomo di scienza per non appesantire lo stato di solitudine in cui versava. Stato che derivava, e ben presto lo compresi, da un'abbondante sudorazione del piede destro.

Durante le lunghe passeggiate nelle quali cercavo di tenermi sottovento rispetto al Lorenzetti, gli raccontai dell' infanzia trascorsa a Cordovado, ridente paesino del Polesine che mi aveva dato i natali nella pasqua di un anno che più non ricordo.

Gli parlai del fascino che sempre avevano esercitato su di me i fossi a cielo aperto, dell'amore con cui ingozzavo, fino a farle scoppiare, le oche del casale di famiglia dove la tata Trofimena, nelle ore di riposo, zappava le carote con i gesti fluidi di chi sa da sempre e mai ha bisogno di ricordare, tanto che spesso dovevamo recuperarla nell'orto dei vicini.

Gli descrissi la mia profonda conoscenza dei bioritmi della Natura, nonchè i ritmi del fattore che, miope e sfortunato, sempre mi mancava quando sgambettavo ingenua verso il fienile per incendiarlo.

Tutto ciò scosse favorevolmente l'arguto uomo di scienza tanto che un giorno mentre stava arieggiando l'estremità inferiore destra incurante del vuoto e del silenzio calato attorno a noi, si dichiarò nonostante io fossi svenuta.

In lacrime - come seppi più tardi mentre riacquistavo conoscenza in una camera iperbarica - mi aveva lasciato per tornare a Gottinga dove avrebbe cercato l'oblio dei sensi dedicandosi interamente alle ricerche in campo scientifico.

Ed ora eccolo lì, parlarmi da un freddo telegramma che però non riusciva a celare l'antico ardore.

Mi chiedeva di aiutarlo a comprendere un fenomeno cui non riusciva a venire a capo.

Faceva appello alla mia intelligenza, alla mia arguzia. Lui, proprio lui che così castamente aveva amato il mio corpo, allora virginale, sapeva che la mente che lo corona come diadema su una statua di Fidia, lo avrebbe aiutato!

Non potevo diniegare l'invito. Partii subito alla volta di Grenu nella valle dell'Alm in Austria, dove il Lorenzetti, solitario asceta dell'intelligenza, tentava di aprire nuovi orizzonti al sapere umano.

Lo vidi all'aereoporto venirmi incontro sorridente e garrulo come nella reclame dei baci Perugina, incapace di trattenere la gioia nel riveder colei che aveva fatto breccia in quel duro cuore di scienziato. Con gesto pieno di grazia infilai rapida la maschera antigas, dono di un marines conosciuto a Grenada, e lo abbracciai, con le lacrime agli occhi.

Veloci montammo sull' Ape chevrolet che aveva acquistato da pochi giorni - forse per l'occasione - dirigendoci alla volta dell' eremo di scienza dove alloggiava.

Durante il viaggio, trattenendo a stento commozione e mani, ebbe modo di spiegarmi il quesito che lo attanagliava.

Il Lorenzetti, dopo la frustrazione subita per il mio rifiuto, si era dedicato allo studio delle oche, forse per cercare un feticcio a ricordo dell'impossibile amore.

E per anni aveva studiato il loro comportamento. Era riuscito a procurarsi, dopo estenuanti trattative con i villani di quella zona rurale dell'Austria, un folta colonia di oche cinerine scoprendo elementi ignoti alla comunità scientifica.

Aveva partecipato a numerosi congressi internazionali ma sempre - e io ne intuivo la motivazione - le sue relazioni erano disertate dai colleghi che imperioso sentivano il desiderio di prendere una boccata d'aria fresca.

Ostinata tempra di scienziato, aveva proseguito gli studi riuscendo a pubblicare parte delle scoperte nella prestigiosa rivista inglese "The voix of St.Antony".

Oggi, finalmente, l'uomo sapeva che le oche soffrono di mal di fegato, e a prova di ciò, il Lorenzetti poteva mostrare una serie di foto in cui un'oca, tal Teresina, fuggiva non appena scorgeva un imbuto. Inoltre l'uomo di scienza aveva scoperto un fenomeno eccezionale, il cosidetto "imprinting", ovvero......Infatti dopo aver fatto assistere le ochette appena nate allo sceneggiato "Uccelli di rovo", prendevano a seguire i sacerdoti che passavano di là ritenendoli la loro mamma. Conferma questa che anche le oche posseggono un'anima, al contrario di quanto predicava Aristotele. Ma forse Aristotele faceva riferimento alle donne. Non so, adesso non rammento bene.

Ad ogni modo qualcosa turbava la frenetica mente dello scienziato, rischiando di sconvolgere il prezioso arazzo dei pensieri ivi contenuti.

Uno strano fenomeno aveva colpito la sua attenzione: lo stormo di oche allevate dallo studioso nel tranquillo specchio d'acqua di Grenu, mostrava un comportamento anomalo.

Non si posavano più, ordinate e allineate come sempre avevano fatto, sulla superficie del laghetto.

Starnazzavano, lottavano, erano inquiete. Forse si odiavano.

Non intrecciavano più i lunghi colli emettendo il tipico grido ritmico che il Lorenzetti aveva chiamato "Giaculatoria del bentornato a casa, era ora, fannullone avvinazzato, con chi sei stato fino ad adesso, e io sempre a casa, mai che mi porti una sera fuori!".

Grido con il quale le oche femmine accoglievano i loro compagni.

Negli utlimi tempi, non appena qualche oca maschio accennava il gesto amoroso dell'intrecciare il lungo collo con quello della compagna, la femmina lo afferrava saldamente con il becco e lo strapazzava come spaghetto lasciato da una comitiva di turisti in vacanza a Grenoble.

Tutto ciò influiva negativamente sulla colonia di oche seguita dal Lorenzetti, colonia che al momento annoverava circa 2300 esemplari, creando problemi con il traffico del ponte aereo stabilito con la Groelandia, dopo l'invasione repentina della pacifica nazione da parte degli ottentotti.

La minaccia era esplicita: o le oche cessavano di combattere al di sopra dei 3500 mt. di altezza, o l'Air Force austriaca avrebbe irrorato i palmipedi di polvere "grattarola"; un gas pericoloso che le avrebbe costrette a grattarsi facendole così piombare sui villaggi della regione con un'accelerazione di 9.8 mt/sec^2. Ciò avrebbe procurato un effetto deleterio per le coltivazioni di melanzane, in piena fioritura, e dunque un conseguente crollo della borsa.

Gli agenti della Borsa sarebbero poi intervenuti in massa e la colonia delle oche, e il Lorenzetti stesso, sarebbero finiti in eleganti confezioni di cibo per canguri.

Dovevo far qualcosa! Occorreva individuare perchè mai i palmati erano divenuti iracondi ma soprattutto perchè mai non scendevano più allineati sul lago come un tempo.

Mi accinsi all'impresa chiedendo al Lorenzetti di lasciarmi sola, nascosta nel canneto che ornava il lago. La sua presenza, o meglio l'effluvio della sua persona, avrebbe sconvolto il delicato equilibrio ecologico della zona, alterando il comportamento delle oche che - non a caso - avevano scelto quel posto giacchè distava 2 Km. dalla tenda che accoglieva lo scienziato.

Non appena il rumore scoppiettante dell'Ape si fece più lontano - unitamente alla fragranza del guidatore - mi approntai per la lunga attesa.

Il lago era immerso nel verde: come occhio azzurro di gigante benevolo steso ad osservare il cielo!

Quando resto sola, sempre indugio in simili pensieri, pensieri al confine tra poesia e leggenda. E' la mia natura che traspira. O traspare. In ogni caso ero felice nell'assistere allo sfoggio di tanta serenità campestre ma non per questo la mente cessava di riflettere.

Cosa dovevo cercare? Cosa dovevo osservare? Cosa dovevo fare? Nel dubbio, o forse a causa dell' "omelette à la cipolle" consumata per immunizzare il mefitico Lorenzetti, mi appisolai.

Al risveglio il terrore mi ghermì.

Era notte fonda e lo sguardo da presbite che posseggo aveva intravisto il volto sfigurato della luna piena.

Il disco lucente appariva quasi interamente coperto da una nube irregolare di puntini neri. Gradualmente lo spazio fu pieno prima del fruscio e poi del rombo di 2300 oche che calavano in picchiata verso il lago. L'acqua, a causa dello spostamento d'aria aveva raggiunto forza 8.

Ripassai il trucco sciolto dalle ondate tentando di avere un aspetto presentabile.

Le oche erano a soli 2 Km. di altezza e lo stormo procedeva a zig zag, indeciso se schiantarsi sulle pendici delle colline circostanti il lago, o affondare di colpo nelle scure acque.

Mi afferrai alle canne del canneto per osservare meglio.

Le più grosse spingevano le più piccole mentre le più piccole pizzicavano i piedi alle più grosse.

Qualcuna assumeva un atteggiamento indifferente chiudendo le ali e guardandosi con non chalanche la punta dei piedi,cadendo così come sasso sulle sottostanti che, per reazione, cercavano di strappar loro le penne caudali.

Il tutto al grido che il Lorenzetti aveva battezzato "à les mieux places" che tradotto vuol dire "a li mejo posti", nel vernacolo dialettale del Sud Tirolo.

Ormai erano a pochi metri da terra e già le prime affondavano sotto il peso delle nuove arrivate.

Mi allontanai per riflettere. Come impedire che 2300 oche in corsa posassero tutte insieme i loro corpi sul lago?

Come evitare che la confusione impedisse la covata delle oche che stavano covando, e che non covando più, presto la colonia sarebbe stata solo un ricordo di covata?

Infilai gli occhiali sul naso e presi ad avviarmi, pensosa, verso la tenda del Lorenzetti.

Ben presto individuai l'ubicazione a causa della totale assenza di vegetazione e vita animale nei dintorni.

Attesi che il vento della sera recasse un po' di sollievo a quella terra maledetta, e poi discutemmo a lungo su quanto avevo osservato.

Già disperavo di arrivare a qualche conclusione quando il mio sguardo cadde, inavvertitamente, sui piedi del sapiente uomo.

Fu il lampo. Lo squarcio nelle tenebre!

Rapida e indifferente allo stupore del Lorenzetti, presi le pinne che porto sempre con me quando vado in posti affollati, e lo pregai di indossarle senza indugio alcuno.
Quell'uomo sapeva con chi aveva a che fare: una venere con la mente di Minerva! E senza por tempo in mezzo eseguì l'ordine.

Ora era tutto chiaro! Così palmato, il Lorenzetti che indossava solitamente scarpe misura 45, raggiungeva misura 50, con ciò coprendo buona parte della superficie polverosa dell'accampamento.

Ora mi era chiaro il comportamento delle oche. Con le ampie zampe palmate avevano bisogno di spazio per atterrare e intelligenti com'erano cercavano di atterrare il più presto possibile, così da non farsi schiacciare i piedi palmati dalle altre che sopraggiungevano.

Bene! La causa della loro frenesia era stata individuata, ma cosa fare per aiutarle a superare l'impasse palmipede?

Nervosa, mordicchiavo il fazzolettino di batista osservando la testa lucida del Lorenzetti scossa dalla rivelazione.

La luna, galeotta, batteva sul capo glabro e oscillante dell'uomo, ferendomi gli occhi, ma decisi di non dare ascolto alla sinfonia che la Natura stava eseguendo.

La situazione delle oche era drammatica, e il progresso scientifico aveva bisogno delle nostre menti, non dei nostri corpi!

Poi l'idea arrivò fulminea! Sarebbero bastati 2300 cappelli tirolesi, facili da reperire data la vicinanza con la regione, e poi sottoporre le oche ad un "imprinting".

In altri termini ognuna delle oche, prima di prendere il volo, avrebbe dovuto occupare il posto che stava per lasciare con un cappello. Ed essendo notoriamente le oche corrette e ben educate, al ritorno, nessuna di loro avrebbe invaso un luogo occupato da altre.
Cosicchè non sarebbe stato necessario atterrare con tanta fretta.

La pace sarebbe tornata e con essa anche il desiderio di accoppiamento dei palmipedi. Quello stesso desiderio che leggevo negli occhi del Lorenzetti, ormai completamemte folle d'amore dopo la mia ultima scoperta.

Fingendo indifferenza lo caricai di peso, ancora inebetito e in contemplazione, sull'Ape chevriolet.

Avremmo dovuto incontrare il borgo mastro del vicino paese che, guarda caso, era proprietario di una fabbrica di scarpe.

Ben presto fu da noi convinto a riconvertire la produzione, considerando il vantaggio che l'intera regione avrebbe tratto dalla nuova economia.

Il tempo stringeva. Di lì a poco le oche avrebbero ripreso il volo e il disastro si sarebbe ripetuto.

Devo dire che il borgomastro, uomo obeso ma scattante nei muscoli, all'inizio era titubante, ma di fronte alla promessa che avrei accettato di sorseggiare un thè alla menta con lui, cedette.

La scienza, o prima o poi, impone sempre qualche sacrificio alle sue vestali! E la scienza è scienza!

Una processione di Api, unico mezzo di locomozione del luogo, cariche di cappelli tirolesi prese il via dal paese fino al lago ove le oche stavano per tornare in volo.

Perplesse, scrutavano i nostri gesti nel deporre le casse che contenevano i cappelli.

Qualcuna s'immerse spaventata osservando le penne che spuntavano dai berretti tirolesi. Subito comprendemmo l'errore e con le mie forbicine d'argento per le unghie dei piedi, le tagliammo via.

Ora dovevamo somministrar loro l' "imprinting". Seguii con apprensione i gesti misurati del Lorenzetti che lentamente si avvicinava alle rive del lago.

Con calma prese un cappello, poggiandolo in testa. Zompettando con le pinne - che gli avevo consigliato di calzare - per rendere ancor più veritiero il messaggio - si allontanò dal luogo mimando il volo. Era bello. Bello da soffrire. Mentre mimava il volo un languore mi colse. Chiesi un rosolio per riprendermi. Poi il Lorenzetti tornò tranquillo, con il collo rovesciato, verso lo specchio d'acqua. Immergendosi poggiò il cappello sull'acqua calma ed emise un verso sgraziato che avrebbe dovuto avere codesto significato:"il posto è già occupato".

In silenzio abbandonammo le casse aperte, allontanandoci.

Trepidi attendevamo l'esito dell'esperimento dal quale dipendeva il destino della colonia. Un dubbio improvviso ci afferrò le cervella: forse i palmipedi avrebbero preferito dei cappellini con la gorgiera?

Poi lo stormo che si alzava in volo divenne rombo e ci precipitammo verso il lago.

Il miracolo si era compiuto. L'imprinting era stato recepito. Le intelligenti creature avevano compreso il messaggio ed ora il lago era coperto da 2300 cappelli alla tirolese, privi di piume, che galleggiavano pigri al dondolio delle piccole onde lacustri! La colonia era salva!

Il giorno dopo mi accinsi a salutare il Lorenzetti. Lo rivedo ancora mentre cercava di trattenere lacrime di sale per il nuovo abbandono rimpiangendo la breve stagione vissuta insieme - Breve ma intensa -. Imbarazzata di fronte alla tristezza struggente di quell'uomo così spartano - eppur così dolce - cercai di assumere un atteggiamento d'indifferenza. Simile a una dea costretta a lasciare la Terra per tornar nell'Olimpo, lasciai cadere nelle sue mani un tubetto di "Pedodor", allontanandomi poi da quell'Ape intrigante che aveva visto momenti così intensi e felici. Non mi voltai. Il Lorenzetti era a favore di vento!



Ortensia sull'isola di Pasqua


Ho sempre amato andare a fondo nelle cose, riprendedo in questo il carattere di ferro di un mio antico avo, detto il "capitano di breve corso" a causa del suo repentino affondamento al largo del lago di Bolsena. Sta di fatto che spesso mi soffermo a chiedermi il perchè di eventi che per il resto dell'umanità appaiono naturali e scontati come la rata del condominio. Tutto ciò a volte mi ha comportato qualche inconveniente, dato che questi pensieri mi colgono all'improvviso e scatenati dagli accadimenti più innocui. Una specie di "trance" che getta nello spavento coloro che mi sono vicini in quei momenti. Spesso al termine delle mie meditazioni mi sono trovata osservata da uno staff di medici preoccupati,indecisi se asportarmi la milza o praticarmi un'iniezione sottocutanea di porporina per restituirmi il mio incarnato di pesca, momentaneamnte impallidito.

Oh Harvey, Harvey! Elegante e raffinato gentiluomo inglese cui si deve la scoperta della circolazione sanguigna, essi ancora ignorano che il sangue corre all'organo più interessato dallo sforzo del momento e che nel mio caso è quasi costantemente il cervello!

Sta di fatto che quel giorno, mentre ero a cena dal mio ennesimo, noiosissimo, spasimante mi ritrovai a fissare intensamente l'uovo alla coque che mi aveva posto davanti in un bicchierino d'argento su un tovagliolino rosa damascato che era un amore!
Lui no! Era uno stuart della Aereoflot bulgara emigrato e che sbarcava il lunario come consulente per i disastri aerei di una società assicurativa italiana. Sta di fatto che, forse a causa dell'insistenza che doveva aver imparato presso il KGB, avevo accettato di andare a cena nella sua magione, interamente costruita con tronchi di betulla ricavati dall'arredamento interno di un aereo della sua vecchia compagnia di bandiera. Avevo però trascurato un particolare e che cioè non conoscevo il bulgaro moderno, essendo io un'amante delle lingue morte. Forse per reazione alla mia capacità di tenere ben viva la mia lingua! Comunque, dopo averlo invitato con il linguaggio dei sordomuti a tenere un comportamento più consono, mi trovai a perdermi dietro le mie meditazioni su quell'uovo che ora brillava invitante e discreto davanti ai miei occhi lucenti di uri.

Riandai con la mente alle tante teste d'uovo che avevo conosciuto e che avevano fatto follie per me e mi ritrovai ad interrogarmi sul perchè nella Thorà, la pergamena sacra della religione ebraica, non fosse mai menzionato l'uovo. Eppure esso era stato simbolo esoterico per eccellenza degli antichi alchimisti, acerrimi avversari infatti della frittata con le cipolle che cercavano di creare senza rompere le uova, appunto. Eppure la Pasqua era una festività importante della religione ebraica durante la quale però non si scambiano le uova di pasqua ma piuttosto pane azzimo! Eppure le uova di pasqua erano fatte di cioccolata, quindi di colore oscuro, esattamente il colore simbolico del male contrapposto al candore delle uova naturali. Quasi come se il male della tecnologia odierna si contrapponesse all'ingenuità dolce dell'antichità! E le sorprese? Perchè ci soprprendevamo tanto per il contenuto delle uova mentre le galline sembravano impassibili di fronte allo schiudersi dei loro caldi frutti pigolanti di vita? Quante cose poteva nascondere un uovo! Eppure il mio interlocutore non gli prestava la minima attenzione tutto perso nell'occhieggiare nella scollatura del saio che avevo indossato tanto per chiarire la mia opinione sul dopo-cena. Ottuso uomo! Dedito ai piaceri della carne e incapace di andare oltre la mera apparenza delle cose!

Colta da una giusta insofferenza per tanta superficialità gli affibiai un calcio in uno dei T'ien vitali, un po' sotto la vita e lo lasciai rantolante a meditare su come ci si comporta con una vera signora.

Lungo la strada presi la decisione inevitabile. Dovevo andare nell'isola di Pasqua, all'origine di tutta la tradizione che così decisamente nascondeva ben più di quanto mostrasse.

L'isola di Pasqua! Scarno masso di poche anime, a circa metà strada tra la Polinesia e le coste a picco della Cordigliera Andina! Terra sconosciuta con mille e mille statue gigantesche di cui rimanevano solo misteriose teste di pietra ad osservare immote l'Oceano Atlantico! Sapevo tutto dell'isola di Pasqua.

Partii. Ebbi qualche difficoltà nell'atterrare sulla lontana isola, essendo questa fuori dalle rotte turistiche ma la mia anima era troppo avida di sapere per fermarsi di fronte a difficoltà logistiche. In questa decisione venni aiutata dalla comprensione del pilota di un aereo di linea che avevo informato per circa 8 ore consecutive delle mie intenzioni culturali e del guardaroba che avevo scelto per l'occasione, nonchè sullo stato di salute della mia gatta che avevo lasciato ad Acquapendente e di quello della mia piccola sfera rotolante di ciccia che il Fato aveva deciso di darmi come erede. Al 1232 capoverso della lettura del mio ultimo libro sulla coltivazione del pistacchio in Angola, il pilota - bell'uomo ma leggermente obeso per i miei gusti - mi ordinò d'indossare un paracadute e mi spinse fuori dallo sportello dell'aereo.

Piccolo romatico! Non poteva resistermi più oltre e aveva deciso di porre fine alle sue sofferenze di gentiluomo, paracadutandomi sull'isola di Pasqua.

Scesi leggiadra, seguita da un nugolo di valigie e bauli che mi seguivano come lo strascico di un'ape regina che abbia deciso di spostare il sito del suo alveare! Che esplosione di colori dovevo essere, avvolta nel mio ampio scialle e con il lungo decoltè di organza rosa pervinca!

Finalmente presi terra, poco distante dall'unica cittadina della sperduta isoletta mentre tutta la popolazione si affannava a raccogliere i miei bagagli, convinti - come seppi più tardi - che contenessero uno stock di radioline a transisor per seguire il campionato di campana che si svolgeva in Alaska.

Dopo aver strappato un completo di lingerie ad un barbuto pescatore che lo voleva impiegare per costruire delle esche per i calamaretti maschi durante il periodo dell'accoppiamento, mi feci indicare l'unica locanda del paese e ivi presi alloggio per ristorarmi dalle fatiche del viaggio e darmi una rinfrescata.

La sera, fasciata in un discreto abito da sera di lameè rosso fucsia, affrontai con l'oste il motivo del mio viaggio. Alla luce soffusa dei lumini a olio di balena discussi con lui le antiche leggende che avvolgevano l'isola in un'atmosfera sospesa tra verità e leggenda. Gli chiesi, con voce suadente, di dirmi tutto ciò che sapeva sulle famose teste dei Mohaw - l'antica popolazione dell'isola, ritenuta l'autrice delle statue - che si affacciavano sul tempestoso Pacifico come a scrutare chissà quale orizzonte.

L'uomo, tossendo forse per il fumo dei lumini, forse per l'imbarazzo di trovarsi di fronte a una simile dea - che poi sarei io - mi disse che ne sapeva ben poco. Suo nonno, ora emigrato a Pordenone dove aveva una fiorente attività di lavavetri, gli aveva detto che le statue erano lì da sempre, diretta creazione degli antichi dèi che un tempo avevano calcato il lavico terreno dell'isola di Pasqua.

Con orrore sentii poi che l'oste era il promotore di un referendum per l'abrogazione dell'antico nome dell'isola in favore del più moderno "isola di Natale". Egli mi spiegò che in tal modo si sarebbe cercato di aumentare il flusso turistico con una speciale convenzione per le settimane bianche. Dovevo fare in fretta! La locomotiva del progresso stava per fagocitare anche questo sperduto angolo di passato e ben presto gli sky-lift avrebbero coperto i nasi delle austere teste dell'isola di Pasqua!

Abbandonai l'oste con negli occhi la mia statuaria immagine e salii in camera, lasciando socchiusa la porta. Non si sa mai!

L'indomani, con delle comode scarpe con il tacco a spillo, m'inerpicai per le scoscese scogliere dell'isola, riparandomi il capo con un ombrellino rosa e difendendomi dagli spruzzi salmastri con un elegante impermeabile da sera - nonostante l'ora piuttosto avanzata -. La natura selvaggia del fuoco dal quale era nata quell'isola vulcanica, era ben presente davanti ai miei occhi. Il nero della lava si stagliava contro l'azzurro di un cielo sgombro di nubi e contro il verde acquamarina dell'Oceano spumeggiante! Ero inebriata dal colore, dalla luce, dal vento che sembravano voler gareggiare con la mia figura agile e scattante che saltellava da un masso all'altro, tra un crepaccio ed un anfratto. Poi ci fu l'esplosione candida e merlettata di nero di mille pulcinelle di mare che si alzarono contemporaneamente in volo davanti ai miei occhi. Immediatamente misi gli occhiali da sole per difendermi dall'inevitabile pioggia di quegli uccelli incontinenti e finalmente la vidi! Vidi la testa! Fuggite le pulcinelle essa si rivelava in tutto il suo arcaico splendore primitivo. La fronte alta, i lunghi orecchi quasi a sfiorare il suolo, il naso puntato ad Est, tutto mi ricordava il ritratto di un mio vecchio amore che io chiamavo affettuosamente - e nell'intimità - la mia bella testa d'uovo! Ancora lui! L'uovo! Come l'arazzo della mia vita si ricomponeva, tassello per tassello, per svelarmi il segreto della mia esistenza! Mi avvicinai trepidante e con le scarpe in mano, abitudine che avevo imparato a Costantinopoli e che sapevo essere il segno della reverenza e della prevenzione delle storte alle caviglie.

Mi sentivo così piccola e minuta di fronte a quel guardiano dallo sguardo severo e un po' fisso! Sfiorai delicatamente la sua superficie scabra e dopo aver tolto un po' di guano con i miei guanti a mezza manica, scorsi dei segni sconosciuti provenienti da chissà quale remoto passato.

Mentre scorrevo con le dita i profili di quei caratteri, molto simili ai geroglifici egiziani che ben conoscevo, qualcosa accadde alla mia mente recettiva.

Vidi con il terzo occhio che tutti possediamo ma che pochi sanno usare - diretto retaggio della nostra origine divina - agili piroghe partire da isole lussureggianti. Una folla divisa tra entusiasmo e dolore, salutava intrepidi esploratori polinesiani che stavano per lasciare le loro isole per avventurarsi a Nord - come tutte le persone intelligenti prima o poi fanno -.

Vidi i corpi scattanti di quei robusti ragazzoni lucidi di sudore mentre remavano contro le correnti. Vidi i loro muscoli gonfiarsi - e la cosa non mi dispiaceva - per tirare le funi delle loro fragili vele. E vidi lui! Il capo di quella missione dall'esito sconosciuto, sporgersi dalla bassa fiancata della piroga con lo sguardo corrucciato a cogliere il misterioso fraseggio del vento.

Lo vidi, mentre passavano i giorni, divenire sempre più nervoso, insofferente della dieta a base unica di pesce che era stato il motivo - intuii nelle note a piè visione - che lo aveva spinto a partire verso lidi sconosciuti.

Le piroghe si dirigevano sempre più a Nord, attraversando un Oceano vuoto di ogni segnale di vita terrestre. Il capo - Ovocoq - diveniva sempre più nervoso, rifiutando il pesce che veniva quotidianamente pescato dai suoi uomini e che - seppi sempre dalle note - erano dei suoi debitori insolventi.

Ovocq un giorno, stremato, decise di rivolgersi ai suoi dèi che sembravano averlo abbandonato.

Potevo sentire, sempre grazie al mio transfert rupestre - le sue invocazioni e che suonavano più o meno così:

"potente squalo bianco, signore degli abissi, lucente creatura zannuta, ascolta la preghiera del tuo umile servo Ovocq. Non abbandonarlo alla demenza delle folli otarie o alla lussuriosa accidia dei Pinguni. Fa chè egli possa portare il segno della tua potenza oltre il muro del bianco Oceano. Guida la tremante ma salda mano del tuo rematore verso lidi dove egli possa riposare le sue stanche membra e sacrificare 200 Kg. di filetto di gabbiano alle tue ampie fauci, divino macellaio! E tu, o Sole, scintillante lapislazzulo del mare rovesciato,intercedi presso la tua bianca sposa e le sue tenere sorelle stelle perchè io possa calcare terra vergine di piede, almeno di piede! Datemi un segno, divina accozzaglia di spiriti. Non ce la faccio più a mangiare pesce, pesce, sempre pesce! Potessi variare con qualche frittata! Mandatemi, vi prego un segno se proprio non volete mandarmi un uovo!"

Ovocq fu accontentato e una pinna nera si materializzò come dal nulla e si diresse verso est. Sedato il tumulto che l'ordine di cambiare rotta, aveva scatenato nei debitori-rematori che già pregustavano le gioie di Las Vegas, la fragile flotta di canoe prese a seguire la scia del dio squalo e finalmente avvistarono il pinnacolo vulcanico dell'isola sulla quale io, a secoli di distanza, ora mi trovavo a rivivere la loro odissea.

Tentai di staccare la mano dalla statua, cercando di riprendere il controllo della mia mente, ma il guano e il sudore della tensione della visione avevano cementato il tutto e fui costretta a sopportare il secondo tempo della storia di Ovocq, non senza un moto di disappunto per non poter cambiare canale.

Vidi il capo saltare a terra, prostrarsi sulla battigia mentre dava ordine ai suoi più fedeli seguaci - quelli che avevano più debiti - di gettare a mare in prossimità dello squalo-cicerone metà del suo equipaggio, facendo attenzione a non comprendere nel gruppo il cuoco francese che Ovocq aveva vinto durante una partita a Bacarà con il comandate di un brigantino francese.

Poi lo vidi trasalire e tremante avvicinarsi ad un oggetto candido che spiccava sul dorato tappeto della sabbia di quell'isola. Con amore lo vidi prenderlo con delicatezza e, tra le lacrime, consegnarlo a "Monsieur Le Chef" perchè potesse praticare la sua sapienza. Quest'ultimo - e che in realtà era un borseggiatore del metrò a cavallo parigino - temendo che il suo inganno fosse scoperto si diede da fare nell'unico modo con il quale sapeva cucinare le uova e, con un colpo secco, asportò la parte superiore dello stesso dopo averlo lasciato al Sole tropicale per qualche giorno, mentre Ovocq era in meditazione sulla scogliera.

Al grido cantinelante de "la pappe l'è pronte, la pappe l'è pronte", il capo Ovocq si precipitò verso la spiaggia e lì sorbì il prezioso cibo con lo sguardo fisso verso est.

Sempre grazie alla mia trance potevo vedere il suo profilo stagliarsi contro l'orizzonte ed essendo piuttosto piccolo di statura e con un grosso capoccione, era il ritratto delle statue che ben conoscevo. Ovocq rimase profondamente impressionato dalla ricetta del borsaiolo-cuoco e soprattutto sorpreso dalla chiara condensata e dal rosso che sembrava sfuggire al destino della prima.

Così come era venuta, la visione scomparve. Ma ormai sapevo, grazie alla mia stupefacente intelligenza, cosa successe. Velocemente rientrai nel villaggio dove l'oste aveva divorziato dalla moglie e aveva preparato un perfetto menù indiano. Ma non avevo tempo per simili sciocchezze e mi chiusi in camera. Efficente come sempre, sapevo cosa cercare. Nella mia biblioteca portatile stile '700 inizi 300, possedevo un antico manoscritto francese che descriveva la raccolta di un naufrago al largo dell'isola di Conception. Sapevo chi era quel naufrago! Era "monsieur le chef" che era riuscito a fuggire da Ovocq e a nuoto aveva attraversato il Pacifico. Lo sfortunato borseggiatore fu sbarcato dalla nave che lo aveva salvato il giorno di Pasqua del 1612 ed essendo, ladro si, ma anche dotato di una buona dose di inventiva, mise su a Parigi una manifattura di uova di cioccolato fondente.

In quel simbolo, egli, voleva significare il male a cui era sfuggito e la sorpresa della nuova vita a cui era nato con il salvataggio della "Miserere", la nave che lo aveva salvato e che trasportava salme a Baden Baden. Tutto tornava! Mentre in Europa si affermava l'usanza di regalare uova di pasqua con la sorpresa, a ricordo della nuova vita che ognuno poteva intraprendere, nella lontana isola del Pacifico, il saggio Ovocq era immortalato in centinaia di statue che lo raffiguravano nel momento della sua sorpresa per la nuova saggezza culinaria che aveva conosciuto. Come in un delicato e complesso meccanismo di retroazione, in cui il battito d'ali di una farfalla provoca un ciclone a Tokio, la sciagura di un uomo si tramutava nella gloria di un altro. Ah! Gli imperscrutabili disegni del destino! I tempi erano maturi e il pane azzimo, piuttosto sciapo e poco cotto, venne rapidamente sostituito dal più dolce uovo, parallelamente al progressivo lassismo dei costumi, non più avvezzi alla spartaneità degli antichi profeti ebraici! Ah! Come può cambiare l'uomo e io lo sapevo bene avendo cambiato due mariti!

Esitai nel riportare queste mie scoperte su carta vergatina, color azzurro paglierino. Forse, avrei dovuto lasciare che il mistero avvolgesse ancora le tradizioni e l'isola di Pasqua, ma poi il mio amore per la scienza ebbe il sopravvento e ho deciso di raccontare tutto quello che vi ho raccontato, sicura, come sono sicura ancor'oggi, che la superstizione non ha posto nella nostra civiltà cartesiana!

L'indomani, dopo una notte passata a scrivere queste mie memorie, scambiai una mia foto scollacciata con il fuoribordo dell'oste - contrabbandiere a tempo perso - e feci rotta verso il più civilizzato Cile. Da lì, dopo aver irretito un guardia marina, tornai verso casa non prima di aver acquistato a prezzo di costo uno stock di uova di cioccolato.

Natale era vicino e non avevo tempo per andare a Milano.

Mentre lasciavo quei luoghi così carichi di significato, ancor'oggi, mi sembra di vedere il profilo di Ovocq sorridermi dalle scabre coste nere della sua isola, commosso per la mia intuizione nonchè ovviamente per la mia bellezza, anch'essa lavica!


ORTENSIA E I RICORDI


Osservavo i rododendri dalla vetrata abusiva in plexiglass, mentre una leggera pioggerellina autunnale si distendeva - dolce ma insistente - sulle corolle assetate. Sarà stato il rumore rasserenante, la tenera melanconia del meriggio o la gotta rimane comunque il fatto che, lentamente, mi assopii.

Mentre crollavo sul davanzale della finestra ebbi la fugace visione di un tenero pettirosso che tentava di schivare le gocce di quella pioggia acida che così provvidenzialmente cade sulle nostre città, mondandole da ogni forma di vita sporca e rumorosa. Poi, mentre ancora mi stupivo della "nouvelle allieance" tra natura e progresso tecnologico, le frangie dei miei luminosi occhi chiusero le imposte dei vasti saloni della mente facendomi piombare in un sonno profondo e ristoratore.

Mentre russavo - pardon mentre respiravo appena più forte a causa dell'emozione che sempre mi coglie quando le rosee dita del sonno accarezzano la pelle di alabastro che possiedo - pian piano, come contorni di personaggi noti eppure ancora indecifrabili -apparvero i miei ricordi.

Oscure colline sulle quali inerpicarmi per ritrovare gli umili - eppur preziosi - compagni che avevano visto i quarti crescenti della mia femminilità lunare.

La prima sottile, timida, falce della fanciullezza.

La metà decisa ma ancora inesperta della giovinezza.

La piena luminosità di donna che fuga la notte e ai naviganti intenerisce il cor (mi si perdoni la citazione di Nostradamus!).

Mi vidi - spettacolo superbo - con i capelli sciolti, li sentii cadere scomposti sul volto di granito, prede inermi delle folate dei ricordi.

Poi lo vidi avanzare, tarchiato profilo che dondolava le lunghe braccia. Le riconobbi subito!

Ah, quelle braccia da bradipo che tante volte mi avevano cullato, quelle braccia che mi avevano stretto con forza soprattutto nella parte più morbida del lungo collo di cigno che possiedo a tutt'oggi. Scorsi i suoi occhi di bragia, rossi come la passione, profondi come pozzi neri, distanti tra loro come il Bene e il Male. Infine lo vidi accoccolarsi sui talloni e fissarmi grugnendo come ben ricordavo, incapace di articolare altro che il suono della bestialità vinta dalla bellezza!

Lo avevo conosciuto durante un mio viaggio nelle profonde foreste del freddo Nord canadese. Mi ero colà recata per partecipare ad un sit-in contro lo sterminio indiscriminato delle foche monache, vittime innocenti del materialismo ateo dei nostri giorni.

Mentre mi accingevo a deporre la mia pelliccia di ermellino canadese nel portabagagli della mia fiammante limousine rosa fuxia, una dispettosa folata di vento avvolse la morbida spoglia attorno al volto impedendomi la visuale e facendomi scivolare nel gelido mare canadese. Mentre la corrente, felice di aver afferrato una simile leggiadra preda, mi trascinava via per fare scempio di me vidi una nera collinotta di pelo gettarsi nell'acqua e nuotare nella mia direzione.

Schivai l'arpione del peloso cacciatore per istinto, quello stesso istinto che mi fece comprendere come quell'essere volesse solo salvarmi, seppure in maniera approssimativa. Ricordai le antiche usanze di quelle barbare regioni e per fargli comprendere che accettavo la sua offerta di aiuto, gli sputai contro centrandolo in uno dei due occhi, curiosamente distanti.

Il bruto, forse per l'emozione, perse la coordinazione dei movimenti e in breve prese ad affondare con un gorgoglio di soddisfazione per aver ricevuto la mia attenzione.

Lo sostenni, pietosa, per i capelli o per la pelliccia - non so - e lo trascinai verso riva dove poi svenni per l'emozione di aver ancora una volta salvato una vita così preziosa.

La mia.

Al mio risveglio la sicurezza che il mondo stava andando alla rovescia ebbe un'ulteriore conferma forse a causa della posizione in cui mi risvegliai. Il leggiadro bruto, evidentemente confuso dal profumo che sempre mi accompagna, mi aveva scambiato per una specie di aringa e mi aveva distesa, a testa in giù, su una specie di stendino per i panni, intelligentemente costruito con dei tronchi di betulla.

Emisi dei delicati respiri, tanto da avvertire l'uomo che ciò che si stava accingendo a fare al riparo di un cespuglio, non era un comportamento da tenere in presenza di una signora.

Lo rivedo ancora tornare velocemente verso di me e porre il suo muso a pochi centimetri dalla labbra carminie che possiedo per osservarmi con un misto di curiosità e adorazione. Sarà stato per l'emozione o forse per la dieta punti composta da bacche e aringhe cui lo scimmione si stava indubbiamente sottoponendo, sta di fatto che il suo alito mi provocò un turbamento che ben conoscevo.

Con gesto misurato trassi dalla tasca del tailleur artico un deodorante spray e glielo ofrii perchè ne facesse buon uso. Immediatamente il giovane lo ingoiò con soddisfazione cadendo in breve preda di un languore di chiaro significato. Il corpo appoggiato al tronco dell'unica betulla rimasta dopo il disboscamento causato dalla costruzione dello stendino per i panni, le mani pelose strette attorno alla vita a botte, lo sguardo rovesciato e il capo abbandonato a ringraziare il Fato che gli aveva permesso di osservare una simile beltà - io -, il primitivo ma sensibile ragazzo emetteva dei rantoli di agonia che m'intenerivano. Comprendevo l'intimo dramma che si agitava nella sua anima. Sapeva - lo sfortunato pelosone - che la sua era una passione impossibile e soffriva di ciò. Chiedeva agli dèi il motivo di tanta crudeltà ed io - pur non sognandomi certo di presentarlo ai miei raffinati amici - soffrivo per la sua spontaneità adorante e adorabile.

Mi sciolsi - agile come una pantera - e caddi morbidamente sul tappeto delle foglie, riempiendomi le narici del pungente odore della terra umida di ghiaccio. Scivolai verso il bruto ormai preda della passione e di una fastidiosa, inopportuna, nonchè inelegante colica. Lo sfiorai come si può fare con un amante in disarmo e una vibrazione passò tra i nostri due corpi.

Lui non seppe resistere. Di scatto si levò sulle corte zampe e, ululando, corse a nascondersi nel folto della foresta per piangere in silenzio. Ma non potevo abbandonarlo in quelle condizioni e poi, qualcosa - uno strano brivido di ritrovata animalità - mi imponeva di trattenerlo ancora al mio fianco, non fosse altro che per convincerlo che il Destino era stato comunque generoso con lui, permettendogli di potermi adorare anche se per brevi istanti.

Lo placcai rotolando con lui nel complice abbraccio di un cespuglio di rovi.

L'eccitazione e la gioia scossero il giovanotto che, agitando le lunghe braccia, cercò di liberarsi delle 30-40 spine che si erano infisse nelle callose mani.

Rimasi ad osservarlo affascinata da quello spettacolo. Bello e primitivo come può essere quello di un vulcano che erutta, di una mareggiata che mareggia, di una tempesta che tempesteggia.

Lo rivedo ancora pestare con le larghe piante dei piedi callosi le api assassine, infastidite dai movimenti del suo corteggiamento che avevano scosso il loro nido nascosto nel cespuglio.

Odo ancora il suo urlo di gioia istintiva, potente e netto come solo la Natura priva degli orpelli della civiltà, può essere.

L'intera foresta fu scossa da quella promessa di amplesso mai consumato e l'onda sonora della passione irrefrenabile si propagò fino al lucido pack che prese a frammentarsi come un sogno al lento risveglio del giorno!

E infine li vidi tutti. Tutti gli abitanti della foresta, si avvicinarono comprensivi al giovane impetuoso, per confortarlo. Vidi la potente alce spingerlo con le sue ampie - perdonatemi - corna. Forse un avvertimento, un presagio, o forse soltanto il desiderio materno di evitargli la mia vista e la conseguente sofferenza.

Vidi il folto branco di lupi stringersi attorno alla sua figura sempre più scomposta e bruciante di passione. Li vidi azzannargli le zampotte vorticanti come ad invitarlo a desistere da quella passione impossibile.

Vidi gli artigli decisi delle aquile reali piombare sul suo capo per carezzarne il cranio microcefalo e chetare il fuoco che ardeva sotto le sue creste sovraorbitali.

Poi il virgineo orso, come paterno compagno, poggiò le sue zampone su quelle spalle scosse dalle lacrime, facendolo rotolare verso un crepaccio poco distante.

Lo rivedo ancora, mentre scivola nella nera bocca della fenditura della Terra, osservarmi con sguardo implorante amore.

Non potei resistere più oltre e avvicinatami, gli sollevai una dopo l'altra le dita serrate attorno all'esile ramoscello cui si era abbarbicato, per stringere le sue mani nelle mie. Carezzai con dolcezza e - devo ammetterlo - con languore, il tozzo mignolo che ancora rimaneva infisso nel tronco che lo sosteneva sul baratro.

Fu l'esplosione dei sensi! Con un urlo di energia, finalmente liberata, il giovanotto - di cui non sapevo neanche il nome ma che sarebbe rimasto per sempre nel mio cuore per la sua corte sobria e discreta - piombò nelle fauci del vuoto. Agitò ancora per un istante le sue manone per salutarmi prima di scomparire nel nulla.

Sostai ancora un poco, poi, leggermente turbata, mi passai un filo di rimmell e mi avviai verso la civiltà non prima di aver gettato un mio oggetto personale e intimo in quel crepaccio. Era il minimo che potessi fare!
Povero bruto! Cosa desideri ancora da me, oscura figura che ti aggiri per i meandri della mia memoria? Placa la tua passione, oh ombra sofferente, e sii felice di avere un posto nel mio cuore! Quanti vorrebbero avere avuto la tua fortuna!

Vidi nelle nebbie del sogno l'ombra amata allontanarsi caracollando come la prima volta e subito la mia attenzione fu attirata da una nuova spettrale figura, totalmente diversa da quella che stava svanendo. Oh, come è incostante e diverso l'animo umano! Conoscevo bene quella forma slanciata e svettante, quei capelli serici, quel portamento fiero e nobile.

Lo conobbi ad una convention sulla sindrome premestruale nella pubblicità per il Terzo Mondo e rimasi subito colpita dai suoi modi eleganti e la profonda conoscenza del problema.

Naturalmente non feci nulla per attirare la sua attenzione, consapevole dell'ineluttabilità del Destino, tranne che fissarlo per 24 ore consecutive negli occhi a 10 cm. di distanza e sedermi sulle sue ginocchia mentre ascoltava con attenzione le nuove tecniche d'imprinting sull'impiego degli sturalavandini nelle nuove generazioni.

Com'era bello ed elegante nella sua felpa rosa e i bigodini arancioni! Attesi paziente che il Destino facesse il suo corso e mi lanciai sul telefono della camera dove proprio non pensavo potesse trovarmi, non appena questi squillò discreto ma insistente.

Ah! Il Fato! Come aveva potuto trovarmi? Non poteva essere stato il numero di telefono che avevo scritto sul rotolo di carta "igenique" che si trovava nel luogo che egli abitualmente frequentava nè, tanto meno, i graffiti che avevo inciso sulle pareti della sua stanza! No! Io non avevo fatto nulla perchè accadesse, eppure era accaduto e cosa potevo io - debole erede di Eva - contro il Fato?

Me lo chiedevo ancora mentre, appena emozionata, sollevavo la cornetta per ascoltare la sua voce bassa, profonda, tranquillizzante.

Parlammo per ore. Felici soltanto del poter ascoltare le nostre voci e mai pensando di poter andare oltre.

Mentre il portiere galeotto, gli portava gli anticoncezionali che gli avevo inviato, capii che nulla ormai poteva frapporsi alla nostra felicità e gli promisi che avrei trascorso volentieri il resto della serata con lui. Ricordo ancora l'ora: erano le 10.30 di un giorno radioso. Quanto poco tempo ci rimaneva per usufruire della notte ormai quasi prossima!

Mi precipitai - pardon, mi avviai - verso la sua camera stupendomi di conoscere perfettamente la sua ubicazione. Ah i segreti percorsi del cuore, sconosciuti a noi stessi!

Ricordo ancora il timido bussare a quella porta dietro il quale pulsava il nostro futuro! Divelto a spallate l'uscio rimasi commossa dalla discrezione del mio amato - posso ormai chiamarlo così - che per non imbarazzare una vera signora si era chiuso nel bagno come potevo dedurre dalla dentiera adagiata sul comodino e dal mio donodiscreto, parzialmente nascosto sotto una rivista porno.

Ah! Raffinato amante! Incapace di trovare le parole si affidava alla mia intuizione che, sapeva, voleva ciò che anch'egli voleva con tutta la forza della sua anima.
Attesi discreta e, leggermente turbata per la passione che sconvolgeva la mia abituale freddezza per le materialità della vita, cercai di dissimulare le mie confuse sensazioni, leggendo quella rivista così sobria e rasserenante, nonostante fosse il numero del mese scorso.

Finalmente lui uscì.

Lo rivedo ancora! Avvolto in un accappatoio di Kasmire, uscire dai fumi del bagno caldo in cui aveva rassodato le membra virili.

Sorrisi nel vedere il suo infantile imbarazzo estrinsecarsi nello stringere il nodo della cravatta che sempre portava e che era stata la prima cosa che avevo notato - almeno così mi sembra di ricordare. Lento come un ghepardo appoggiò la sua gamba tornita, avvolta in un lezioso calzino color "seppia che fugge", sul bordo del letto in cui mi ero inavvertitamente adagiata, incapace di resistere alla tensione del momento.

Silenzioso come un predatore, trasse dal marsupio una cassetta di Wagner e cercò d'infilarla nel mangianastri che arricchiva il suo repertorio di seduzione.

La musica si diffuse, complice, nell'aria parlando d' amore e passione mentre le prime proteste arrivavano alla reception che, tuttavia, sapeva bene cosa fare! Non a caso andavo sempre in quell'albergo.

Indifferenti a tutto e a tutti, ci perdemmo l'uno negli occhi dell'altra mentre l'atavica vibrazione scorreva per i nostri corpi ormai decisi a non posporre oltre il loro desiderio.

Il resto della notte o del giorno - che importanza aveva ormai? - trascorse in un lampo di passione e il risveglio mi trovò abbracciata al comodino. Sorrisi.

Un vero uomo sa tacitare l'ardore di fronte all'imperioso richiamo del dovere. E il vuoto che egli aveva cercato di colmare sostituendo al suo atletico corpo quello altrettanto legnoso del piccolo mobile, stava a testimoniarlo.

Felice e orgogliosa, scesi nella sala delle riunioni e li trovai tutti riuniti. Lui, i 32 bambini, le 3 suocere e la moglie.

Mi commossi di fronte alla sua muta richiesta di comprensione e non ebbi un attimo di esitazione a concedergliela, mentre velocemente nascondevo le ciabatte per salire sul podio dove era il mio turno di tenere la perorazione conclusiva di quella splendida convention. Parlai a braccio, spinta dalla passione e dalla perfetta comprensione dell'argomento. Come erano già lontane quelle ore notturne, illuminate dai bagliori della nostra passione, come ero consapevole dell'eterno altalenarsi dei ruoli e delle vite degli esseri umani! Vite che possono solo essere prede e mai cacciatori!

Guardai con affetto quella figura che ora mi era vicina nella notte del ricordo. Lo amai di nuovo per un nuovo breve istante prima che scomparisse nello scrigno del mio cuore chiedendomi che sorte avesse avuto quella insignificante brunetta della moglie.

Poi, come diga infranta dalla spinta dell'acqua, una torma di figure dalle diverse fogge e dalle molteplici forme mi sfilò davanti in muta processione. Li riconobbi tutti: conoscenze occasionali, punti fermi della mia vita, esempi di vita. A tutti donai qualcosa e qualcosa essi donarono a me.

Li vidi sfilare, lenti e solenni, verso un orizzonte lontano, salmodiano le mie lodi con in mano ognuno l'esile - ma duratura - fiammella del mio ricordo.

La finestra in plexiglass si ruppe sotto l'urto del mattone di uno sconosciuto ammiratore, strappandomi alla visione - serena eppur inquietante - del mio sogno, mentre il telefono squillava imperiosamente. Chi poteva essere? Mi salirono alle labbra le parole del poeta: "Solo il Fato può rispondere" e uscii dalla stanza, il cuore e lo stomaco in disordine.


ORTENSIA SULL'EVEREST


Precoce come il ridestarsi di un insonne, la mia mente lavorava frenetica sull'ultima notizia che avevo letto mentre sorseggiavo il quotidiano sakè delle 4 a.m. nella thea-room che avevo ricavato nel loculo adibito originariamente alla conservazione delle ramazze. Scostando gli strofinacci che ingombravano, come fossili di un'era terribile ed arcaica, il prezioso ripiano del mio tavolino a 3 zampe - dono di un antiquario zoppo della West Coast perdutamente innammoratosi di me - stavo riflettendo come una vaporiera sulla notizia dell'ultimo male che affligerebbe la nostra amata palla di fango. La notizia del quotidiano si riferiva al cosidetto "effetto serra" e aveva attirato la mia sempre vigile attenzione, per le implicazioni ortofrutticole ad esso immediatamente riconducibile. Mettendo insieme i frammenti di un'istruzione vasta e desertica come le plaghe del profondo Oriente sabbioso, comprendevo che l'articolista si riferiva ad una recente polemica tra diversi scienziati, indecisi se il futuro dell'umanità dovesse dividersi tra il finire arrosto o surgelato. Ah! L'eterna, feconda, contraddittoria scienza, così carica di dubbi e certezze, indistricabilmente connesse le une con gli altri. Intuivo i silenziosi drammi che sconvolgono ogni serio uomo di scienza, sempre titubante tra il dover fornire risposte sicure al grigio volgo e tacitare la propria umile consapevolezza del sempre possibile errore! Non per niente ero stata l'amante di un biologo, eternamente indeciso tra la prevalenza del fenotipo sul genotipo o viceversa nei riguardi del pollame da cortile. Una domanda atavica che - egli mi spiegava mentre lo tenevo tra le mie braccia e guardandomi negli occhi con una strana luce - poteva riassumersi nel sintetico: "vient-il

avant l'oeuf où la galline?". Un amore tormentato che, oltre ad una fastidiosa forma di scabbia dovuta alle frequentazioni di ratti da laboratorio, mi aveva consentito di abbandonare una visione manichea del procedere della scienza e, in ultima analisi, del progresso dell'umanità. La domanda era: l'aumento del tasso di anidride carbonica, più altre schifezze che immettiamo nell'atmosfera, fermerà la penetrazione della radiazione solare gettando il pianeta in un eterno inverno o intrappolerà la stessa radiazione - come in una serra, appunto - riscaldando la superficie terrestre con conseguente boom turistico e allungamento delle ferie? Le implicazioni sociali di un simile dilemma erano evidenti anche al più sprovveduto lettore - ed io non ero tra questi -. L'ago della bilancia tra settimane bianche e ferie estive era rappresentato proprio da quel delizioso gas, orrendamente chiamato dai moderni alchimisti, anidride carbonica ed occorreva una sua precisa misurazione per stabilire con certezza quale abbigliamento avrei dovuto scegliere per la prossima stagione turistica. Quei pasticcioni degli scienziati non consideravano il dramma che avrei vissuto nel trovarmi in pieno inverno con il mio guardaroba estivo privo delle necessarie correzioni. Basta! Non potevo attendere oltre, anche perchè non amo gettare vie i miei denari senza un'adeguata pianificazione, caratteristica quest'ultima che è stata evidenziata dal noto economista americano Galbwrite che ha più volte richiesto la mia consulenza, oltre altri favori che fanno parte della mia privacy.
Occorreva essere precisi ma nello stesso tempo fantasiosi, arditi nelle ipotesi ma cauti nelle conclusioni, materialisti nella disamina dei fatti ma creativi nella loro interpretazione. Potevo io sottrarmi ad un simile compito che sembrava tracciato proprio per evidenziare le mie caratteristiche?

Mi mondai le labbra con lo strofinaccio e volai come una nube rosa-confetto, verso il telefono. Dopo qualche tentativo che mi mise in comunicazione con il convento spagnolo della Santa Cabeza di San Juan Baptiste nella persona della dolce suorina Salomè, finalmente riuscii a mettermi in comunicazione con l'uomo delle pulizie della National Accademy of Sciences che - ad ascoltare la voce bassa e profonda da Orango - non doveva essere niente male.

Dopo aver fissato un appuntamento per conoscerci meglio, gli affidai il messaggio che avrebbe avuto cura di scrivere sullo specchio del bagno del rettore, mio buon amico fin dai tempi delle elementari di Rovigo. Una semplice frase sarebbe stata sufficente: "Ci penso io!", lui avrebbe compreso.

Riattaccata la cornetta, tanto per non far torto a nessuno e in virtù di quello spirito ecumenico che mi ha regalato la devozione di Monsignor Lefebvre, l'alzai di nuovo per chiamare l'Union of Concerned Scientist. Questa volta parlai con la moglie del portiere che, intuendo in me una pericola rivale per la sua carriera e la sua felicità coniugale, ascoltò freddamente le mie parole. Facendo pesare il mio lignaggio e assicurandola che non conoscevo suo marito, ottenni dalla meschina donna l'assicurazione che avrebbe trasmesso al primo premio Nobel che si sarebbe recato nell'istituzione il mattino seguente, il mio messaggio. Anche in questo caso, poche parole avrebbero portato pace e serenità tra gli austeri uomini di scienza, nonchè una ventata di fascino. Affidai alla squallida donna queste semplici parole: "Tranquilli!".

Non mi potevo più tirare indietro! Le agenzie di stampa da lì a qualche ora, avrebbero diffuso in tutto il mondo la notizia del mio intervento e l'intero pianeta avrebbe atteso i risultati delle mie indagini. Un altro fardello appesantiva la mia mente, oltrechè quello della prenotazione per la sfilata della stagione autunno-inverno in Piazza di Spagna.

Ma dove avrei dovuto recarmi per contare le molecole di anidride carbonica? Scartata l'ipotesi di farlo nel seminterrato che uso come garconierre per le mie cene di lavoro e che si trova al centro di una via piuttosto trafficata, soprattuto di notte, compresi che l'unico luogo che mi avrebbe consentito di indagare a fondo sul reale qauntitativo del pericoloso, eppur vitale, gas era l'Everest, al confine tra il Tibet e la Cina.

L'Everest! La montagna più alta del mondo, le sue nevi immacolate! La sua atmosfera rarefatta che consente quasi di toccare le stelle che brillano sul tetto del mondo. I portatori, piccoli ed olivastri con le schiene curve di strumenti e bagagli dei pochi viaggiatori! Gli sherpa! Sapevo tutto dell'Everest!

Preparai la borsetta con la strumentazione indispensabile per il mio scopo e cioè:

- una bussola trovata ai giardinetti sotto casa.

- il pallottoliere della prima elementare.

- un canarino che avrebbe fatto da rilevatore e cinguettato ad ogni molecola di anidride carbonica inspirata.
A questo prezioso carico che tenevo stretto sotto il braccio aggiunsi piccole comodità dal minimo ingombro e che spedii prima di partire affittando un Hercules C-130, regalatomi da un mio amico ministro attualmente divenuto poeta dialettale.

Giunta a destinazione, trovai una gradita sorpresa. Il mio buon amico, il rettore del MIT, una volta venuto a conoscenza della mia missione, mi aveva voluto inviare tre tra i suoi più validi collaboratori in modo da alleviare in parte la fatica dell'impresa e - io sospetto - per controllare discretamente la mia condotta morale tra gli indigeni del luogo. E' sempre stato geloso ma devo dire che mai lo è stato in maniera inopportuna. Un vero gentleman innammorato!

La divisa dei dottori Keel, Manable e Wetherald si stagliava nettamente nel cristallino mattino di quell'angolo di mondo. Gli eleganti pigiami a righe indicavano nettamente la provenienza degli uomini di scienza dalle segrete dell'Istituto di pena ove il MIT li aveva inviati perchè conducessero diverse importanti ricerche. Dopo il doverso omaggio alla mia persona, furono essi stessi a presentare il loro curriculum.

Il Dr. Keel era un esperto biochimico con particolari capacità nelle contraffazioni alimentari, il Dr. Manable studiava la secrezione ghiandolare ad alta quota sui babbuini in calore e infine, il timido Dr. Wetherald era un esperto delle cianosi indotte da aspirazione di deiezioni gassose ad alta quota.

Tutti, mi dissero poi durante il break-fast in cui l'atmosfera era meno formale come si poteva dedurre dalle mani avide che si protendevano verso il mio cappellino di tulle e veletta, avevano poi hobby particolari ma tutti confacenti alla loro personalità e ai loro studi. Il corpulento Keel amava intrattene i suoi ospiti davanti ai fornelli, l'alto Manable amava collezionare stampe erotiche balinesi e il magro Wetherald aveva una collezione completa di impermeabili da esibizionista.

Conosciuta un po' meglio la personalità dei miei preziosi collaboratori e recupernado parte del mio vestiario, li lasciai immersi in una violenta ma civile discussione sulle preferenze estetiche nei miei riguardi, e mi approntai ad iniziare la missione. Assoldai 3500 portatori per il mio spartano bagaglio e licenziai 243 guide inviatemi da una nota ditta di prodotti caseari in cambio dei bollini da me accumulati durante 20 anni di spesa quotidiana. Non avevo bisogno di guide, la mia bussola e il mio intuito sarebbero stati sufficenti e avrei potuto richiedere invece delle guide quel servizio da 12 in alabastro e oro zecchino che avevo visto esposto sul banco del salumiere del supermercato! Mi feci issare - per la gioia dei miei preziosi collaboratori - sul cavallo bianco che avevo portato meco e, come novella Alessandra Magna, mi diressi decisamente a Nord.

La spedizione era cominciata!

Ricordo ancora le grida di avvertimento degli sherpa che precipitavano nei crepacci che, infidi, si aprivano davanti a noi improvvisi comne le fauci di un orco dalla testa canuta. Ricordo i loro gesti di saluto rivolti verso di me, quando cadevano nelle forre o scivolavano verso gli abissi. Sento ancora le loro benedizioni, salmodiate nello sconosciuto dialetto di questi montanari chiusi eppur fedeli. Sentivo le leggende che stavano prendendo forma attorno alla donna bianca che osava sfidare la mammella nivea della Terra, come amante curioso ed avido. E come non ricordare il sacrificio gioioso di molti dei miei portatori che arricchivano il nostro percorso di lapidi, in modo che esse segnassero il percorso del nostro ritorno? Come non ricordare le facezie e gli scherzi che i miei collaboratori si scambiavano per rimanere un istante in più accanto a me? Sembravano fanciulli travestiti da scienziati o scienziati travestiti da fanciulli, non so! So soltanto che a tanto può una donna come me! Come non ricordare il dolore per il rotolare a valle del tondeggiante Dr. Keel, le cui trance furono poi rinvenute in un negozio di surgelati a Kioto nel lontano Giappone? Come non commuoversi di fronte al gesto, a lui consueto, del discreto Dr. Wetherald. Gesto dopo il quale fu colto da quel malore che lo convinse a dedicarsi alla meditazione trascendetale in un monastero tibetano, oltre a far richiesta di cambiamento omeopoatico di sesso alla mutua di Pechino? Come non amare indugiare sul sobrio tumulo che racchiude l'epilogo del coraggioso Dr. Manable, invitato a cena dalla consorte dello Yeti, la Donna Barbuta, e poi caduto vittima delle sue scarse conoscenze linguistiche? Amo in particolare quest'episodio perchè esso mi conferma come l'uomo sia in grado di assolvere a diverse funzioni, nonostante l'educazione così settorializzata che oggi riceve. Il Dr. Manable ne fu l'esempio più luminoso: egli era un biochimico di fama, un amante del bello - non a caso aveva brigato per essere inviato nella mia spedizione - e nonostante ciò, nonostante la sua formazione intellettuale e spirituale, servì egregiamente anche come abbacchio per la dolce copietta dell'Himalaya! Questo è il vero compito dello scienziato! Essere capace di assolvere diversi ruoli, tutti quelli che la sua avventura culturale, gli offre come matrigna benefica!

Potrà sembrare che io indugi troppo nel descrivere l'aspetto sociale della mia spedizione a discapito della sua valenza originaria, ma è inevitabile per una donna che - come son io - non disgiunge il dato tecnico dalla poesia che lo sottende.

Comunque sia, il viaggio continuò per altri 7 mesi, a causa di una fastidiosa tosse stizzosa che mi aveva colto superata la quota dei 20 mt. Appena ripresa accelerai la marcia, cambiando il cavallo bianco con un elefante grigio che avevo fatto paracadutare nel campo base, dopo aver letto le imprese di Annibale raccontate nel n.987 dell'Enciclopedia che porto sempre con me. Man mano che salivamo, l'aria si faceva sempre più sottile e già i primi segni di anoressia si manifestavano tra il mio seguito che avevo obbligato a calzare delle scarpe di piombo per aiutarli a resistere alla tentazione di abbandonare l'impresa e correre a valle. La colonna di forzati - ma solo nel corpo, non certo nell'anima che anzi anelava a non abbandonare mai il mio fianco, sottile e curvo come la chiglia di una nave che fenda le acqua bianche di spuma, continuò la marcia.

Con gli occhi fissi sul quadrante della bussola, il vento che mi scompigliava i capelli e il busto orgogliosamente eretto dovevo sembrare un'antica e bellissima dea scesa in terra a reclamare il suo dominio usurpato dal gelido Maestro del ghiaccio! Poi, un mattino di maggio che dirvi non so, vidi la vetta stagliarsi a pochi metri dalla proboscide gelata del mio elefante che, starnutendo, aveva falcidiato i pochi resti della mia carovana. Rossa per l'emozione, nonchè per il freddo pungente, scivolai dal pachiderma in un turbinio di gonne, sottogonne, corpetti, claze, giarrettiere e culottes merlettate taglia ottava. Rovesciai la borsetta e mi detti un po' di rossetto. Il momento era giunto! Decisa trassi il pallottoliere e la gabbia del canarino che immediatamente cinguettò il suo saluto al Sole che coronava il candore di quel momento storico.

Presi a contare, eliminando il rumore di fondo dovuto agli starnuti di Dumbo - era il nome del mio elefante - che non potevano essere imputati all'anidride carbonica ma alla temperautura piuttosto rigida del luogo.

Dapprima il canarino dispiegò a piena voce il suo canto, ritmando i suoi cinguettii in modo sempre più frenetico. Evidentemente l'ossigeno puro lo entusiasmava, dopo tutti gli anni che aveva passato nella gabbietta attaccata fuori dalla finestra del bagno dove lo tenevo. Mi commuovo ancora nel rivedermi con la forza dell'immaginazione, tenere in una mano la gabbietta di bambù occupata dal piccolo batuffolo di penne e nell'altra spostare le palline dell'abaco per contare i suoi gorghegii. Una sorta di dea della giustizia che sostituiva la spada e la bilancia con gabbia e pallottoliere. Ma entrambe, fosse essa il simbolo della giustizia classica o me, figura reale di scienziata, ricercavamo la verità. Tale era la potenza del simbolo e del significato che si erano materializzati in quello scenario incontaminato!

Poi, il canarino cominciò a diradare i suoi trilli, virando il proprio colore dal giallo naturale ad un blu-muffa. Frenetica spostavo il mio sguardo dal volatile alle palline che si accumulavano nella parte sinistra del pallottoliere. Scandivo mentalmente: 3500-3501-3502-.... ad intervalli sempre più lunghi e poi vidi il tenero uccellino portarsi le alucce alla gola fremente e stramazzare sul fondo della gabbia che lo aveva visto testimone del futuro dell'umanità. Segnai rapida il numero dei conteggi e bruciai il canarino e la sua gabbia su una pira funeraria - il cui materiale mi ero portato per ogni evenienza - come è uso nei paesi dell'area asiatica. Un doversoso tributo alla sua preziosa, per quanto esiziale, partecipazione al cruciale esperimento.

Girai l'elefante in direzione sud, essendo ormai il bestione, completamente ghiacciato e iniziai a spingerlo verso valle. Rapida amazzone gli montai in groppa non appena preso l'abbrivio e scendemmo rapidamente verso la civiltà.

Terminammo la nostra corsa in un banco di artigianato locale del paese ai piedi dell'Everest, cosa che innervosì il proprietario.

Ma di fronte al mio sguardo di fuoco si tacitò subito indicandomi il luogo del più vicino telegrafo da dove avrei potuto trasmettere i preziosi dati alla Comunità Scientifica, in loro trepida attesa. Il Fato burlone, come a blandirmi per i pericoli, trascorsi, mi mise in comunicazione nuovamente con Suor Salomè che tuttavia, comprese subito l'importanza del messaggio e lo ritrasmise - mettendolo sul conto del Vaticano - immediatamente a New York. Stanca ma felice ordinai al solerte impiegato delle PP.TT. nepalesi di recarmi un chinotto gelato con il quale rinfrancarmi. Trascorsi la notte in attesa sia del chinotto - erba sconosciuta in quelle lande sperdute - sia della risposta che io, per altro già intuivo. Il Sole mi colse con il capo reclinato sulla scrivania e il suo bagliore ridestò in me la coscienza del nuovo giorno e della nuova vita che stava iniziando per tutta l'umanità, finalmente libera dal demone dell'incertezza riguardo il proprio destino. Il telegrafo ticchettò il suo messaggio:"Anidride Carbonica in aumento costante del 20% annuo. Ipotesi di surriscaldamento smentita.Previsione scioglimento ghiacciai impossibile da realizzarsi con un margine di affidabilità del 100%. Previsioni climatiche per i prossimi 2000 anni ottime con tempo stabile. Grazie a nome dell'umanità."

Commossa ma compiaciuta indossai le galosche e mi allontanai a bordo del gommone della protezione civile nepalese, mentre il ghiacciaio scendeva rombando a valle, mentre i primi speculatori di ombrelloni e i primi bagnini si attestavano nella nuova "Venice" asiatica. La certezza, come insegna S.Agostino, non è di questo mondo e nemmeno il guardaroba.

ORTENSIA E LO ZEN

Il problema mi stringeva le meningi.

Come morsa ferrea attanagliava e assorbiva tutta la mia contemplazione, scagliando la mia anima negli angoli più oscuri del limbo dei problemi irrisolti.

Man mano che il tempo passava sentivo, confusamente, che il disastro si approssimava rapidamente.

Generosa e incoscente come sempre, indifferente alle sofferenze che gli eventi mi avrebbero procurato, mi ero lasciata convincere dalla modista che cura il mio look da molti anni, ad aiutarla nel prepare il ricevimento per la prima comunione della sua figliola protestante. Avevo intuito, quando ella raggiante di gioia mi aveva messo tra le mani la guida Monaci, che il problema della disposizione degli invitati sarebbe stata difficoltoso, ma non potevo certo deludere l'umile donna che richiedeva il soccorso della mia intelligenza e della mia ben nota capacità di tenere ricevimenti.

D'altrocanto, sapevo perchè me lo raccontò ella stessa tra le lacrime, che la volta precedente - durante la cresima del nonno maomettano - l'errata disposizione dei parenti e degli amici aveva innescato la miccia di uno scontro interazziale che aveva occupato le cronache rosa per molti mesi. Dovevo fare qualcosa, come sempre!

Oltrettutto la mia sterminata cultura mi metteva in grado di risolvere il problema ricorrendo alla teoria dei grafi, utilizzando i ben noti numeri di Ramsey che ormai appartengono alla comune cultura popolare. Il problema in sè era piuttosto semplice:"se un insieme contiene un numero abbastanza grande - ah! La precisione del linguaggio matematico - di oggetti e se tra ciascuna coppia di oggetti esiste una e una sola relazione tra le molte considerate, allora esiste sempre un sottoinsieme contenente un certo numero di oggetti tra ogni coppia del quale sussiste la stessa relazione". Un vero inno all'infedeltà!

D'altrocanto io stessa avevo avuto un problema analogo durante i miei primi compleanni quando dovevo far sedere attorno alla stessa tavola i miei innumerevoli conoscenti, in modo che potessero scambiarsi opinioni nei miei confronti in maniera difforme. Insomma in modo che non si raccontassero a vicenda cose che una vera signora non può certo divulgare a chiunque. Risolsi il problema evitando i compleanni e fissando la mia età sui 23 anni.

Stavo quindi riflettendo sul numero di Ramsey da attribuire alle 250.000 coppie di conoscenti della mite sartina, quando la forzata inattività dello scattante corpo che posseggo fece scattare la scintilla della rivelazione che, come sempre accade per le rivelazioni, non riguardava minimamente il problema che stavo analizzando sotto la luce rosa della mia lampada liberty a forma di canguro.

Mentre l'ombra sinuosa si stagliava sui mobili di cedro e palissandro, mi sforzai di essere presente a me stessa in ogni minimo gesto. Mi vennero alla mente le parole di un saggio monaco buddista che diceva che ebbe la rivelazione quando, invano, aveva tentato di camminare identificandosi interamente nell'atto del camminare, senza badare a null'altro. Ora, nell'oscurità parziale della mia cameretta, stavo provando la stessa sensazione mentre proiettavo, con le dita, sulle mura i profili di animali come, papere, leprotti, cani, ittiosauri e colibrì. Volevo identificarmi interamente nel gesto delle mie mani e l'insoddisfazione che sperimentavo, mi convinse della mia non-esistenza, di tale incompiuto tentativo di esistere autenticamente e decisi di orientarmi verso le arti marziali. Io stessa volevo sentire il mio corpo, quel corpo che aveva donato tanta gioia agli altri ma che rimaneva sconosciuto alla sua padrona. Basta! Era venuto il momento di comprendere profondamente le gioie, la potenza, la bellezza che vedevo solo riflessa negli occhi frebbicitanti di desiderio dei miei coinquilini.

Telefonai al ristorante cinese e mi feci dare l'indirizzo del più vicino maestro di "budo" - il complesso delle arti marziali comprendenti il kendo, l'aikido, il judo, il karate-do e il kiudo - che con mia sorpresa teneva uno stage nello stabile occupato dai "Bambini di Dio", nei pressi del deposito comunale delle vetture rimosse. Ah! Quale fusione culturale! Quale contorta metafora poteva leggersi in quelle circostanza che solo una mente atea e materialista, poteva scmabiare per pura coincidenza! L'Oriente, mistico e intimista, a fianco del consumismo coatto dell'Occidente!

Non persi tempo. Dopo aver restituito l'elenco degli invitati alla sartina non senza aver tracciato dei segni a casaccio prodotti dalla mia intuizione scevra dalla fredda razionalità, sottraendo le mani al bacio viscido delle labbra della povera donna, mi affrettai verso il luogo indicatomi.

Vi arrivai quando il Sole già era alto e subito la mia anima respirò più forte, anche a causa dell'ossido di carbonio che stagnava come nebbia su quel luogo uscito dal tempo e dallo spazio. Lo riconobbi subito.

Il maestro era lì. Immobile osservava nella tipica posizione del loto, il lento snodarsi delle auto che gli scorrevano poco distante. Il tipico cappello orientale rivelava la sua vera identità, nonostante la bisaccia a tracolla potesse far pensare ad un volgare guardiamacchine.

Mi avvicinai discreta, quasi intimorita dai gesti solenni con i quali indicava agli automobilisti il luogo ove lasciare la loro vettura e con essa le loro angoscie. Lo toccai su una spalla e non appena egli volse il capo verso di me, capii che era proprio lui. I muscoli scheletrici ma duri come l'acciaio guizzarono sotto la maglietta con il caimano - simbolo di forza e astuzia -.

I suoi occhi, celati dietro due spessi lenti da miope, verdi come bottiglie, si fissarono su di me.


FINE