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Dioniso

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Pe. kai mhn oran moi duo men hlious dokw,
dissas de Qhbas kai polism¢ eptastomon×
kai tauros hmin prosqen hgeisqai dokeis
kai sw kerata krati prospefukenai.
all¢ h pot¢ hsqa qhr; tetaurwsai gar oun.


PENTEO Mi pare di vedere due soli,
e Tebe dalle sette porte si è sdoppiata.
E tu, che mi conduci, mi sembri un toro,
e al tuo capo sono spuntate corna taurine.
Ma tu fosti mai bestia selvaggia?
Ora sei divenuto toro.


Penteo, personaggio delle Baccanti di Euripide (485/484 a.C.- 406 a.C.), l’opera che meglio dipinge il culto dionisiaco, in questi pochi versi descrive le caratteristiche di Dioniso: il dio del vino, ma in Euripide soprattutto il dio vegetale e animale per eccellenza, il dio della follia iniziatica. L’aspetto vegetativo del dio è nell’edera e nel tirso, suoi attributi, e quello animale è nelle corna taurine e nel grido simile ad un boato, per il quale Dioniso viene anche chiamato “il Bromio” o il dio degli “euoi”. La follia iniziatica consiste invece in quel meccanismo che trasforma gli adepti del suo culto in invasati che assumono le caratteristiche del dio: il fedele cioè vive un’esperienza di smarrimento (vede gli oggetti sdoppiati e confonde le forme), fino a che perde la sua identità e diviene un uomo dentro cui dimora un dio. Dioniso è dunque un dio capace come gli altri di trasformarsi a suo piacimento (nelle baccanti è dio, è un giovane straniero, è toro, è voce tonante, è una lucente forma d’aria) ma capace anche di penetrare nell’animo e nelle menti dei suoi seguaci, che a quel punto compiono una metamorfosi.

Quando l’adepto è in trance, non compie una metamorfosi solo mentale, ma anche fisica: le baccanti per esempio inarcano il corpo in movimenti convulsi, roteano la testa nella danza scagliando le chiome alte nel cielo, gridano, cadono a terra, il loro viso si altera terribilmente, acquistano una ferocia e una forza selvaggia che mette in fuga persino gli uomini. La persona che incontra Dioniso non esiste più nella sua integrità, ma i suoi “euoi”, cioè le grida, divengono il segno di una presenza, quella divina, e di una scomparsa, quella dell’io. La trance, il momento in cui Dioniso possedeva i fedeli, era innescata senza l’uso del vino (come si potrebbe ingenuamente pensare), ma con la danza e la musica ossessiva al ritmo di sistri e flauti, accompagnate dal senso di straniamento che provocava un luogo selvaggio e lontano dalla cultura quale poteva essere un monte. Dioniso è anche un dio che non fa distinzioni: tutti sono ammessi al suo culto, spariscono la barriera degli anni e le differenze sociali. Persino le donne recuperano una loro autonomia, seppur temporanea; la menade nelle Baccanti diventa un fiera, si maschera cioè con pelli di animale e ne assume i comportamenti: dimentica la famiglia umana e corre sui monti ad allattare lupacchiotti, maneggia serpenti senza timore, è preda cacciata dagli uomini ma allo stesso tempo cacciatrice che si avventa sulle greggi, sbranandole, è capace di uccidere gli uomini, perde addirittura l’uso del linguaggio ed è costretta ed esprimersi con urla e suoni disarticolati.

Tutto questo è espresso nelle Baccanti tramite le diverse metamorfosi che compiono i personaggi, a partire da Dioniso stesso: egli all’inizio della tragedia è se stesso, poi si mostra come giovane dall’aspetto effeminato per poi tornare dio alla fine. Al v.5 dice infatti:


murfhn d¢ ameiyas ek qeou brothsian

(ho mutato l’aspetto divino in umano);
la seconda metamorfosi è quella di Tiresia e di Cadmo, che da vecchi divengono spiritualmente giovani, come è detto da Cadmo ai vv.186-189:


ws ou kamoim¢ an oute nukt¢ ouq¢ hmeran
qursw krotwn ghn× epilelhsmeq¢ hdews
gerontes ontes.


(non mi stancherò né notte né giorno di battere la terra col tirso: è dolce dimenticare di essere vecchi);
la metamorfosi colpisce anche le donne tebane che divengono simili a bestie, come è detto ai vv.695- 703:


kai prwta men kaqeisan eis wmous komas
nebridas t¢ anesteilanq¢ osaisin ammatwn
sundesm¢ eleluto, kai katastiktous doras
ofesi katezwsanto licmwsin genun.
ai d¢ agkalaisi dorkad¢ h skumnous lukwn
agrious ecousai leukon edidosan gala,
osais neotokois mastos hn spargwn eti
brefh lipousais× epi d¢ eqento kissinous
stefanous druos te milakos t¢ anqesforou.


(Subito sciolsero i capelli facendoli ricadere sulle spalle, e riannodarono le nebridi, quelle che si erano allentate, e cinsero le pelli maculate con serpenti che lambivano loro le gote. Altre, che erano da poco madri e avevano lasciato a casa i piccini, tenevano al seno cerbiatti e lupacchiotti selvaggi e li allattavano offrendo loro le mammelle gonfie; e tutte s’inghirlandarono il capo con corone d’edera, di quercia, di smilace fiorito.); certamente il cambiamento più evidente nella tragedia è quello di Penteo, che da giovane arrogante che disprezza il nuovo culto diviene una baccante pronta a partecipare al culto, per poi rivelarsi tragicamente quale vittima prescelta per la vendetta del dio. I versi in cui si attua questo improvviso mutamento nell’animo di Penteo sono i vv.809-814:

Pe. ekferete moi deur¢ opla, su de pausai legwn.
Di. a.
boulh sf¢ en oresi sugkaqhmenas idein;
Pe. malista, murion ge dous crusou staqmon.
Di. ti d¢ eis erwta toude peptwkas megan;
Pe. luprws nin eisidoim¢ an exwnwmenas.


(PENTEO: Portatemi le armi, e tu cessa di parlare.
DIONISO: Ehi. Desideri vederle tutte sedute insieme sul monte?
PE: Più di tutto, e dando subito una montagna d’oro.
DI: E come mai sei stato preso da questo grande desiderio?
PE: Ma dolorosamente le vedrò sbronze.);
L’ultima metamorfosi è infine quella della madre di Penteo, Agave. Come tutte le donne tebane anche lei viene posseduta da Dioniso, ma quando ormai la tragedia si è compiuta suo padre Cadmo riesce a farla tornare lentamente in sé, così Agave da fiera selvaggia si trasforma in madre disperata per la morte del figlio che lei stessa ha ucciso. Questa struggente immagine è quella che compare a partire dai versi 1277-1284:


Ka. tinos proswpon dht¢ en agkalais eceis;
Ag. leontos, ws g¢ efaskon ai qhrwmenai.
Ka. skeyai nun orqws× bracus o mocqos eisidein;
Ag. ea, ti leussw; ti feromai tod¢ en xeroin;
Ka. aqrhson auto kai safesteron maqe.
Ag. orw megiston algos h talain¢ egw.
Ka. mwn soi leonti fainetai proseikenai;
Ag. ouk, alla Penqews h talain¢ ecw kara.


(CADMO: Quale testa rechi tra le braccia?
AGAVE: Un leone, così dicevano le mie compagne di caccia.
CA: Osservalo bene: non è una grande fatica.
AG: Ah, che vedo? Cos’è questo che porto tra le mani?
CA: Guardalo e capirai meglio.
AG: Me sventurata, vedo un dolore immenso.
CA: Ti pare ancora che somigli a un leone?
AG: No, sventurata che sono, ma nelle mani ho il capo di Penteo.).

Possiamo perciò dire che Dioniso è il dio del doppio, egli stesso si definisce nelle Baccanti “un dio terribile e dolce”, che capovolge e frammenta l’identità di coloro che desiderano fuggire dalle barriere sociali. E’ nella sua figura, presente con altri nomi in tutte le religioni orientali, che scopriamo un tema da sempre presente nell’animo umano: quello del doppio, o ancora della frammentarietà dell’uomo, amatissimo e perciò ripreso da molti autori de Novecento.