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Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare
coepit et in silvas fugit. Ego primitus nesciebam ubi essem; deinde accessi, ut
vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt. Qui mori timore nisi
ego?
Ma, come stavo dicendo, una volta diventato lupo, incominciò ad ululare e
fuggì verso i boschi. Io sulle prime non capivo più dove fossi; poi mi feci
vicino, per raccattare i suoi abiti: quelli però erano diventati di pietra. Chi
più di me moriva di paura?
(Petronio, Satyricon, 62, 7-9)
Streghe, vampiri, lupi mannari sono figure consuete nei film d’orrore e nei
libri. Ma se oggi le guardiamo come frutto della fantasia popolare e ci
permettiamo di scherzarci sopra, trasformando le orribili streghe in belle e
simpatiche ragazze, i vampiri in affascinanti e sensibili difensori della
giustizia, o i lupi in innamorati infelici ed errabondi, non dobbiamo
dimenticare che una volta essi erano temuti e, purtroppo, perseguitati (si
pensi alle numerose “streghe” finite al rogo e torturate dall’Inquisizione, o
alle sconcertanti esecuzioni di “licantropi” condannati nel XVI sec da Henry
Bougeut). Come la maggior parte delle figure fantastiche, esse fanno parte
dell’immaginario collettivo di moltissime culture passate, le cui credenze sono
sopravvissute fino a noi; se parliamo del mondo occidentale, la cultura che più
ci ha condizionato è senza dubbio quella classica, di cui fece parte anche
Petronio.
Petronio nella descrizione del licantropo sfrutta un tema tipico, e di ciò
possiamo starne certi data la particolarità del romanzo, che racchiude in sé
numerosi generi letterari (satira menippea, romanzo ellenistico, poesia epica,
critica letteraria, trattati tecnico-scientifici, storiografia…) facendone una
scherzosa e raffinata parodia. Egli sfruttò la figura del licantropo al fine di
far provare qualche brivido al lettore o semplicemente per catturare la sua
attenzione, ma il fatto che il lupo mannaro compaia anche nel romanzo di
Apuleio (II, 22) e che persino Plinio il vecchio ne faccia una descrizione
accurata (Naturalis historia, VIII), seppur ritenendola una superstizione, ci
dimostra fino a che punto si spingesse la credulità popolare.
La trasformazione in lupo, comunque, nelle storie non ha mai una vera
spiegazione (si tratta forse di una punizione divina? Della maledizione di una
qualche fattucchiera?), ma senza dubbio non porta alcun vantaggio a colui che
la subisce, che spesso invece fa una brutta fine: si tratta allora di una
metamorfosi verso il basso.
Parlando di superstizioni, una che continua a protrarsi ai giorni nostri è
quella sui maghi. A Roma il vocabolo magus, derivato dal greco, entrò in uso
solo a partire dalla metà del I sec a.C., con il quale si intendeva un
sacerdote persiano specializzato nella divinazione; nell’età augustea poi,
magus divenne l’esperto di riti magici capace di modificare le leggi naturali e
di sottomettere a proprio vantaggio la volontà degli dèi, dèi che, ricordiamo,
erano i soli esseri capaci di trasformare la natura e l’uomo. Callimaco (305
a.C.-240 a.C.) in questo caso ci offre due eleganti casi di metamorfosi che
potevano compiere le divinità: il primo è nell’Inno a Demetra, nel quale la
dea, dopo essersi trasformata in una sacerdotessa e aver messo in guardia il
giovane Erisittone che stava abbattendo gli alberi a lei sacri, di fronte alla
sua cocciutaggine lo trasforma in un uomo insaziabile, sempre divorato dalla
fame, che manderà ovviamente in rovina i suoi genitori, e che non risparmierà
né il cavallo da corsa né il gatto; si tratta evidentemente di una metamorfosi
verso il basso, che ha come causa una profanazione.
Il secondo caso è sempre in un inno, Per il bagno di Pallade, dove Tiresia,
punito con la cecità per aver visto involontariamente Atena nuda, viene però
trasformato, grazie all’amicizia tra la dea e la madre di lui, in un profeta
che avrà lunga vita e fama. E’ una metamorfosi che dunque nasce come punizione,
ma che poi si rivela vantaggiosa con l’acquisto di una conoscenza superiore a
quella umana: è una metamorfosi verso l’alto. Ma se gli dei oltre a punire
possono rendere gli uomini superiori, i maghi, almeno nella letteratura
classica, agiscono a proprio esclusivo vantaggio.
Una descrizione davvero esemplare di un rito magico ce la fornisce Teocrito
(315 a.C.-260 a.C.) in uno dei suoi mimi, l’“Incantatrice”. Simeta, una donna
innamorata di un giovane palestrato di nome Delfi, disperata perché il suo
amore da un po’ non si vede e si dice stia dirigendo le sue attenzioni altrove,
compie un rito magico che avrebbe lo scopo di trasformare l’animo di Delfi per
farlo tornare da lei più innamorato che mai. L’incantesimo si basa tutto sui
principi della “magia simpatica”, secondo la quale il simile
produce il simile. In primo luogo l’elemento chiave dovrebbe essere un uccello,
il torcicollo, chiamato da lei torquilla, che durante il periodo degli amori
ruota il collo: posto sopra una ruota fatta girare ad intervalli regolari,
secondo il principio della magia simpatica dovrebbe attirare l’amato come la
compagna è attratta dalla rotazione del collo della torquilla. Difatti, il
ritornello fino alla fine della prima parte è “Torquilla, attira tu alla mia
casa quel uomo.”
Altri elementi che accompagnano il rito sono: la coppa bendata da una lana
purpurea, per avvincere l’amato, farina d’orzo da spargere, come si spargessero
le ossa di Delfi, l’alloro da bruciare, affinché anche le carni di Delfi
possano bruciare di passione, la cera che si strugge dal calore, perché l’amato
si strugga d’amore, un rombo di bronzo che gira, perché Delfi si aggiri presso
la porta dell’incantatrice, infine l’ippomane, una pianta d’Arcadia per cui si
diceva le puledre infuriassero, perché anche Delfi come un folle potesse
correrle incontro.
La credenza sull’efficacia di tale tipo di magia è attestata dalle cosiddette
“tavole defixiones”, ossia tavolette che contenevano formule magiche e
maledizioni contro certe persone; il principio per cui dovevano funzionare è
quello della magia simpatica: legando la tavola impedivi ed ostacolavi le
persone i cui nomi erano stati incisi (serviva per esempio per fare in modo che
certe persone non testimoniassero in un processo), oppure trafiggendola con un
chiodo i nomi riportati venivano “trafitti” dalla maledizione degli dèi
infernali.
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Niente di così assurdo in verità: non è lo stesso principio
delle bambole voodoo?
Di maghi, anzi, di ciarlatani ne parla anche Luciano (120 d.C.-180 d.C.) nel
suo“Alessandro o il falso profeta” e in “Amante della menzogna” ,
rispettivamente un pamphlet contro un famoso santone e un dialogo che si fa
beffa delle credenze popolari su mostri e prodigi vari. Il risultato che il
nostro sofista sperava di ottenere con queste due opere, ma anche con altri
libri satirici, era quello di mostrare la falsità di certe tendenze mistiche e
irrazionali che si stavano diffondendo ampiamente all’epoca, anche se mai con
toni da moralista, ma preferendo l’eleganza formale di una satira leggera. Se
l’Alessandro ci svela i trucchi di cui poteva servirsi un furbastro per far
cadere la folla ai suoi piedi e farsi venerare come un profeta, è soprattutto
l’Amante della menzogna che ci interessa per il nostro studio sulle
metamorfosi.
La vicenda è questa: l’io narrante, Tichiade, riferisce all’amico Filocle una
conversazione avuta a casa di un amico malato, attorno al cui letto si era
radunata una schiera di persone che si proclamavano filosofi, mentre invece si
erano messi a raccontare fatti e storie di paura basate su certe superstizioni.
E’ certamente un’allusione beffarda al Fedone di Platone che tratta con
leggerezza e sorriso ammiccante gli incredibili casi presentati dai personaggi:
un mago che fabbrica un golem capace di sedurre una ragazza, un indemoniato a
cui viene fatto un esorcismo, abitazioni infestate da spiriti, statue parlanti,
stregoni. Circa gli ultimi due casi, a parlarci per primo di una statua
parlante è, nel dialogo, un certo Eucrate: egli ha in casa l’opera di un
ritrattista di nome Demetrio che rappresenta Pellico, stratego corinzio del V
sec a.C.; particolare di questa statua è che è capace di guarire le febbri
(“Ah, era dunque anche un medico, il nostro bravo Pellico?” domanda
sarcasticamente il protagonista) e di trasformarsi la notte in un essere vivo
che scende dal suo piedistallo e va tranquillamente in giro per la casa
canticchiando e giocando mentre si fa il bagno. Non solo, ma se qualcuno si
azzarda a rubargli le offerte mentre si allontana dal suo piedistallo, lo
acciuffa e lo riempie di botte ogni sera fino a quando il ladro non muore. A
questo punto si aggiunge Antigono che racconta di avere anch’egli una statua
che si anima, un’Ippocrate in bronzo che va in giro facendo rumore, rovesciando
i vasetti e mescolando i farmaci, specialmente quando non gli vengono fatti
sacrifici (Tichiade: “Di bene in meglio! -esclamai- ora persino il medico
Ippocrate esige dei sacrifici”). L’altra metamorfosi è nell’episodio conosciuto
come “l’apprendista stregone”, fonte della poesia omonima di Goethe e diventata
famosa grazie a “Fantasia” di Walt Disney, dove Topolino interpreta
l’apprendista. Un tale infatti racconta di aver conosciuto per caso Panciate,
un famoso stregone esperto nelle arti magiche di Iside, capace di cose
prodigiose quali cavalcare i coccodrilli; egli col tempo divenne suo amico e
confidente, al punto che lo stregone gli propose di seguirlo.
Quando arrivavano in una qualsiasi locanda, lo stregone prendeva il
chiavistello della porta, la scopa, o un pestello, gli gettava sopra dei
vestiti, recitava una formula e l’oggetto diventava un servitore a tutti gli
effetti, e agli occhi di tutti pareva uguale ad un uomo. L’apprendista di
nascosto udì la formula e, trasformato un pestello, gli ordinò di portargli
dell’acqua: il pestello gliene portò, ma poi continuò ad andare avanti e
indietro versando acqua in continuazione, perché l’apprendista non sapeva come
fermarlo, finendo per allagare la casa; inoltre, quando l’apprendista,
disperato, tentò di distruggere con un’ascia il pestello, questi si divise in
due, e la situazione peggiorò fino a quando tornò lo stregone che, risolto
tutto, lo piantò in asso.
Entrambi questi due casi ci presentano una particolare metamorfosi, quella di
un oggetto che diviene un uomo o simile ad un uomo. Esse rappresentano il
desiderio presente in ogni epoca di dominare la natura, di poterla controllare:
e la magia, non solo nelle epoche passate, costituisce lo sforzo di questo
dominio, un primo passo verso quella che è poi la scienza moderna.
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