Karenina.it - LAURIE ANDERSON al PAC di Milano

Video of the Opening, by Caterina Davinio, for Karenina.it.

 

The Record of the Time

Le opere sonore di Laurie Anderson 

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea - Via Palestro 14 - Milano

Presentazione Photo Credit Testo dal catalogo a cura di Thierry Raspail e Jean-Hubert Martin

 

 

 

Ideatore del progetto: Thierry Raspail, direttore del Musée d’Art Contemporain di Lione

Edizione italiana a cura di Jean-Hubert Martin, direttore artistico PAC      

Apertura al pubblico: 11 novembre 2003 - 15 febbraio 2004

Inaugurazione 10 Novembre 2003

Open video with Real Player (1.700 kb)

 http://members.xoom.virgilio.it/davinio/laurieanderson.rm

 

Itinerario mostra    Musée d’Art Contemporain, Lione marzo/giugno 2003

                                   Museum Kunst Palast, Düsseldorf giugno/ottobre 2003

                                   PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano novembre 2003/febbraio 2004

 

 

Foto in alto: still from video “PSA: National Anthem”, Courtesy: the artist

Foto di sfondo: “Duet w/Door jamb”, Photo: Bob Bielecki

 

Organizzata a Milano nell’ambito della programmazione artistica curata da Jean-Hubert Martin per il PAC, l’esposizione comprende circa novanta opere - video, sculture, oggetti, disegni, fotografie e installazioni - che, oltre ad offrire una visione esaustiva della produzione dell’artista nel corso degli ultimi trent’anni, interagiscono e si coniugano con una straordinaria presenza visiva del suono.

 

Laurie Anderson, che si autodefinisce una “narratrice”, crea installazioni in cui abbina poesie e canzoni, collages di suoni e musica, basandosi su episodi della propria vita, sui suoi sogni, su poemi, miti e leggende. “Negli ultimi trent’anni” racconta Anderson ”mi sono concentrata soprattutto sulla musica e sulla performance. Ho sempre combinato diverse forme artistiche. [...] Le opere presentate nella mostra The Record of the Time riflettono soprattutto il lavoro che ho fatto con il suono e il rumore. Ci sono numerosi motivi conduttori: il violino, la voce, le parole, spazi sonori e alter ego”.

 

Una caratteristica dell’opera di Laurie Anderson è il suo speciale cocktail di teatro, musica pop, azione e immagini, elementi che vengono miscelati elettronicamente con l’uso del computer e che danno origine a performance e installazioni audiovisive spettacolari, producendo un universo molto personale di immagini e suoni. Con questa combinazione, unica nel suo genere, di sofisticata tecnologia, immaginativi mondi pittorici, musica innovativa e testi di grande effetto, Laurie Anderson è diventata un punto di riferimento ineludibile sulla scena dell’arte multimediale internazionale.

 

In alcune installazioni interattive presentate nella mostra i visitatori avranno l’opportunità di esplorare “fisicamente” il mondo dell’artista: The Handphone Table (Il tavolo monofonico), 1977, per esempio, li invita a percepire i suoni lungo le ossa delle braccia. Altre esperienze audiovisive sono proposte dalle opere The Tape Bow Violin (Il violino lettore di nastro registrato), 1977 e Neon Violin (Violino al neon), 1983, basate sullo strumento così spesso usato da Laurie Anderson da diventare per lei una sorta di “seconda voce”; uno strumento di cui l’artista ha alterato e manipolato elettronicamente il suono in ogni maniera possibile. Il Digital Violin (Violino digitale), 1984, per esempio, riproduce diversi suoni scaricati da un disco fisso: il visitatore udirà versi di animali e rumori di computer che vanno in tilt.

 

Laurie Anderson esordisce come performer nel 1972, con un concerto di clacson. Dalla metà degli anni settanta si dedica alla performance, lavorando con la musica e il suono. A Londra, nel 1981, la sua canzone “O Superman” giunge in testa alle classifiche e diventa un successo a livello internazionale. Negli anni seguenti l’artista presenta performance sempre più complesse e lavora in collaborazione con registi cinematografici e musicisti come Brian Eno, Wim Wenders e Peter Gabriel, realizzando fra l’altro il film-concerto “Home of the Brave”. Nei primi anni novanta il suo lavoro assume una connotazione più politica e parecchie sue creazioni affrontano i temi della violenza, del conflitto e della censura.

 

Durante la mostra di Laurie Anderson proseguirà al PAC il consueto programma di iniziative didattiche finalizzate alla comprensione dell’arte contemporanea intitolato Vieni al Laurie-Lab! e realizzato con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia.

Si terranno inoltre un ciclo di cinque concerti di musica contemporanea dal titolo PACinConcerto, organizzato da Musikando, e un ciclo di quattro Conversazioni sull’arte contemporanea, organizzato da ACACIA Associazione Amici Arte Contemporanea. Entrambe le iniziative sono organizzate in collaborazione con il PAC.  Info: www.pac-milano.org

 

Mostra realizzata con il sostegno di: Fay

Sponsor tecnici: Edizioni Gabriele Mazzotta e Piccin Trasporti d’Arte

Orari:    9.30 - 19.00 da martedì a domenica - giovedì fino alle 22.00 - chiuso il lunedì, Natale e 1° gennaio

Ingresso  Intero € 5,20 - Ridotti, gruppi e studenti € 2,60 - Scolaresche € 1.80 con lettera dell’Istituto

 

 

 

 

Laurie Anderson: sceneggiatura

 

Sono state necessarie due serate, ossia circa otto ore, per presentare al pubblico raccolto nella sala dei concerti della Brooklyn Academy of Music la nuova performance di Laurie Anderson “United States 1-4”. Siamo nel 1983. Laurie propone combinazioni di suoni, testi e immagini, servendosi di violini modificati, di scatole vocali e ologrammi, oltre che di un autentico arsenale della più recente tecnologia elettronica. I testi sono in gran parte commenti politici e le immagini, secondo la definizione dell’artista, “immagini fluttuanti”. “Uso la tecnologia come mezzo per amplificare o cambiare le cose”, ha affermato Laurie Anderson. “Ma la tecnologia non è la cosa più importante in quello che faccio... Se in una galleria mi basta un’idea per riempire la sala, sulla scena me ne servono cinquecento.”

 

Quando Laurie Anderson giunge a New York nel 1966, “Music Changes” di John Cage è scritto già da trent’anni, mentre “Theater Piece n. 1”, la prima performance realizzata da Cage al Black Mountain College, risale a quindici anni prima analogamente a “4’33’’”, eseguita alla Carnegie Hall da David Tudor che, immobile davanti al pianoforte, osserva il trascorrere del tempo. Sono trascorsi dieci anni da quando George Brecht, Allan Kaprow e Bob Watts hanno scritto “Projects in Multiple Dimensions”, che cerca nelle “nuove tecnologie” nuove forme di espressione artistica. Totalmente dimenticato è ormai “Timetable Music” di Brecht, che il 14 luglio 1959 invitava la gente a comporre la propria musica servendosi di un orario dei treni in una stazione ferroviaria, e anche “18 Happenings in 6 Parts” creato da Kaprow alla Reuben Gallery nell’ottobre dello stesso anno è già roba antiquata. Tuttavia, nell’ottobre del 1966 Rauschenberg e Whitman portano il genere dell’happening a una dimensione senza precedenti con “9 Evenings Theater and Engineering”, realizzato all’Armory sulla 25th Street. Il luogo è gremito di spettatori, l’attrezzatura è sofisticata e il numero di performer impressionante: oltre ai già menzionati Rauschenberg e Whitman, ci sono Öyvind Fahlström, John Cage, David Tudor, Lucinda Childs, Alex e Deborah Hay, Steve Paxton e Yvonne Rainer. Gli happening sono di moda, eppure Red Grooms li ha abbandonati nel 1960, Jim Dine nel 1962 e Claes Oldenburg nel 1966. Con la nascita della pop art, del minimalismo e dell’arte concettuale i tempi sono cambiati.

 

A New York, nel 1976, Laurie Anderson frequenta Joel Fisher, Phil Glass, Gordon Matta-Clark, Richard Nonas e Keith Sonnier. Dan Graham le fa conoscere Vito Acconci…

 

Nel 1977 Anderson incide un 45 giri realizzato da Holly Solomon: un disco di vinile che può essere ascoltato su qualsiasi vecchio giradischi. I brani sono tratti dall’installazione audiovisiva “Jukebox”, presentata lo stesso anno nella Holly Solomon Gallery e comprendente 24 (vere) canzoni, in maggioranza scritte dall’artista per gli amici fra il 1976 e il 1977; le canzoni sono accompagnate, sulle pareti della galleria, da 24 testi e 24 partiture musicali. Il lato A del 45 giri è dedicato a Chris Burden e s’intitola Non è la pallottola che ti uccide, è il buco”. È un’opera d’arte pur essendo contemporaneamente una canzonetta. Laurie Anderson ha scelto nella straordinaria ricchezza della scena artistica il piccolo elemento di congiunzione: e. Opera e musica, e installazione, e teatro, e arte, e ecc. Ogni forma trova espressione in un contesto diverso: dagli scaffali del negozio di dischi alla sala di un’esposizione, dal museo al palcoscenico, dalla galleria alla pagina. Ogni forma giustappone spazi emozionali differenti e corrisponde a temporalità, a qualità sensoriali dello spazio, a immagini materiali e spirituali nettamente distinte. In questo senso Anderson supera il vecchio antagonismo tra il generico e il suo contrario, lo specifico, aggirando i due termini con un’inversione sorprendentemente semplice: il racconto. È in effetti dal “racconto” che estrae le categorie, sia estetiche che ideologiche, e le attraversa senza negarle ma anche senza farle proprie, indifferente alla teoria (troppo disincarnata) come ai fenomeni di fusione (insalata russa). Narratrice, sceneggiatrice e autrice di romanzi (“In famiglia siamo tutti dei grandi narratori”, afferma), è dalle parole che attinge tutte le risorse dell’espressione, per strappare alla “stranezza” quanto ha di più resistente, integrarlo in un’altra forma e assegnargli un’altra plasticità.

 

Le sue prime sculture, del 1972, sono fatte con carta di giornale intrecciata: le trame testuali appaiono e scompaiono. Al 1972 risale anche “Scrittura a mano”, ispirata al linguaggio buddhista dei gesti, un’opera in papier mâché realizzata con il “New York Times”. Tutte le parole vi sono agglomerate in un solo segno: una mano che significa scrivere. Come John Baldessari e Ed Ruscha, Anderson prende a fabbricare da sé la carta per i propri libri.

 

Nel 1974 lascia che sia il vento a girare le pagine di un libro di progetti e idee: “Il libro a vento”. Il rumore delle pagine sfogliate dal caso, lo sguardo che vaga senza percepire niente di quanto c’è scritto, la narrazione che fluttua!

 

Nel 1978, un anno dopo “Jukebox”, con “Tavolo manofonico” svela qualcosa d’immutabile rimasto fino ad allora nell’ombra: stando con la testa fra le mani, i gomiti sul tavolo e le orecchie tappate, le mie ossa trasmettono nella testa i suoni provenienti dall’interno del tavolo. Spettatore-ascoltatore, sono semplicemente ma completamente attraversato da un verso a malapena udibile del poeta secentesco George Herbert, che recita più o meno così: “Now I in You without a body move” (Ora Io in Te senza alcun movimento del corpo). Catturato dalla trama delle voci elettroniche, abbraccio un mondo continuo, ne sono il ricettacolo, l’altoparlante. Il mio corpo è l’anello di congiunzione fra me e il mondo. È al centro, ma non centrale; solo un corpo conduttore; un filo conduttore, come si dice a proposito della lettura. Metaforica e incarnata, l’opera possiede tuttavia l’evidente levità di un oggetto molto leggero che può essere mosso senza difficoltà. Spostare la pesantezza dei fatti è il nocciolo del messaggio di Laurie Anderson.

 

Nel 1973 l’artista si era proposta di dimostrare che i suoi sogni erano influenzati, guidati e colorati dallo spirito dei luoghi in cui sceglieva di dormire (“Serie dei sogni istituzionali”).

 

Alleggerire la cartografia per arrivare all’essenza della verità, senza venire a patti con la verosimiglianza! In questo senso l’opera di Laurie Anderson ha più a che fare con Cervantes che con la Sony.

 

La mostra ripercorre le varie tappe (ad alcune delle quali si è qui accennato brevemente) che dal primo gesto (“Scrittura a mano”) hanno portato alle più recenti installazioni sonore. Sotto ogni aspetto, la sceneggiatura della mostra è principalmente di Laurie Anderson.

 

 

 

Thierry Raspail e Jean-Hubert Martin