Presentazione Photo Credit Testo
dal catalogo a cura di Thierry Raspail e Jean-Hubert Martin
Apertura
al pubblico: 11 novembre 2003 - 15
febbraio 2004
Itinerario
mostra Musée d’Art Contemporain, Lione marzo/giugno 2003
Museum Kunst Palast, Düsseldorf giugno/ottobre 2003
PAC
Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano novembre 2003/febbraio 2004
Foto in alto: still
from video “PSA: National Anthem”, Courtesy: the artist
Foto di sfondo: “Duet w/Door jamb”, Photo: Bob Bielecki
Organizzata a Milano
nell’ambito della programmazione artistica curata da Jean-Hubert Martin per il PAC,
l’esposizione comprende circa novanta opere - video, sculture, oggetti,
disegni, fotografie e installazioni - che, oltre ad offrire una visione
esaustiva della produzione dell’artista nel corso degli ultimi trent’anni,
interagiscono e si coniugano con una straordinaria presenza visiva del suono.
Laurie Anderson, che si autodefinisce una
“narratrice”, crea installazioni in cui abbina poesie e canzoni, collages di
suoni e musica, basandosi su episodi della propria vita, sui suoi sogni, su poemi,
miti e leggende. “Negli ultimi trent’anni” racconta Anderson ”mi sono
concentrata soprattutto sulla musica e sulla performance. Ho sempre combinato
diverse forme artistiche. [...] Le opere presentate nella mostra The Record
of the Time riflettono soprattutto il lavoro che ho fatto con il suono e il
rumore. Ci sono numerosi motivi conduttori: il violino, la voce, le parole,
spazi sonori e alter ego”.
Una caratteristica dell’opera di Laurie
Anderson è il suo speciale cocktail di teatro, musica pop, azione e immagini,
elementi che vengono miscelati elettronicamente con l’uso del computer e che
danno origine a performance e installazioni audiovisive spettacolari,
producendo un universo molto personale di immagini e suoni. Con questa
combinazione, unica nel suo genere, di sofisticata tecnologia, immaginativi
mondi pittorici, musica innovativa e testi di grande effetto, Laurie Anderson è
diventata un punto di riferimento ineludibile sulla scena dell’arte
multimediale internazionale.
In alcune installazioni
interattive presentate nella mostra i visitatori avranno l’opportunità di
esplorare “fisicamente” il mondo dell’artista: The Handphone Table (Il tavolo monofonico), 1977, per esempio, li
invita a percepire i suoni lungo le ossa delle braccia. Altre esperienze
audiovisive sono proposte dalle opere The
Tape Bow Violin (Il violino lettore di nastro registrato), 1977 e Neon Violin (Violino al neon),
1983, basate sullo strumento così spesso usato da Laurie Anderson da diventare
per lei una sorta di “seconda voce”; uno strumento di cui l’artista ha alterato
e manipolato elettronicamente il suono in ogni maniera possibile. Il Digital Violin (Violino digitale), 1984,
per esempio, riproduce diversi suoni scaricati da un disco fisso: il visitatore
udirà versi di animali e rumori di computer che vanno in tilt.
Laurie Anderson esordisce come
performer nel 1972, con un concerto di clacson. Dalla metà degli anni settanta
si dedica alla performance, lavorando con la musica e il suono. A Londra, nel
1981, la sua canzone “O Superman” giunge in testa alle classifiche e diventa un
successo a livello internazionale. Negli anni seguenti l’artista presenta
performance sempre più complesse e lavora in collaborazione con registi
cinematografici e musicisti come Brian Eno, Wim Wenders e Peter Gabriel,
realizzando fra l’altro il film-concerto “Home of the Brave”. Nei primi anni
novanta il suo lavoro assume una connotazione più politica e parecchie sue
creazioni affrontano i temi della violenza, del conflitto e della censura.
Durante la mostra di Laurie
Anderson proseguirà al PAC il consueto programma di iniziative didattiche
finalizzate alla comprensione dell’arte contemporanea intitolato Vieni al
Laurie-Lab! e realizzato con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia.
Si terranno inoltre un ciclo di
cinque concerti di musica contemporanea dal titolo PACinConcerto,
organizzato da Musikando, e un ciclo di quattro Conversazioni sull’arte
contemporanea, organizzato da ACACIA Associazione Amici Arte Contemporanea.
Entrambe le iniziative sono organizzate in collaborazione con il PAC. Info: www.pac-milano.org
Mostra realizzata con il
sostegno di: Fay
Sponsor tecnici: Edizioni Gabriele Mazzotta e Piccin Trasporti d’Arte
Orari: 9.30 - 19.00 da martedì a
domenica - giovedì fino alle 22.00 - chiuso il lunedì, Natale e 1° gennaio
Ingresso Intero € 5,20 -
Ridotti, gruppi e studenti € 2,60 - Scolaresche € 1.80 con lettera
dell’Istituto
Sono state necessarie due serate, ossia
circa otto ore, per presentare al pubblico raccolto nella sala dei concerti
della Brooklyn Academy of Music la nuova performance di Laurie Anderson “United
States 1-4”. Siamo nel 1983. Laurie propone combinazioni di suoni, testi e
immagini, servendosi di violini modificati, di scatole vocali e ologrammi,
oltre che di un autentico arsenale della più recente tecnologia elettronica. I
testi sono in gran parte commenti politici e le immagini, secondo la
definizione dell’artista, “immagini fluttuanti”. “Uso la tecnologia come mezzo
per amplificare o cambiare le cose”, ha affermato Laurie Anderson. “Ma la
tecnologia non è la cosa più importante in quello che faccio... Se in una
galleria mi basta un’idea per riempire la sala, sulla scena me ne servono
cinquecento.”
Quando Laurie Anderson giunge a New
York nel 1966, “Music Changes” di John Cage è scritto già da trent’anni, mentre
“Theater Piece n. 1”, la prima performance realizzata da Cage al Black Mountain
College, risale a quindici anni prima analogamente a “4’33’’”, eseguita alla
Carnegie Hall da David Tudor che, immobile davanti al pianoforte, osserva il
trascorrere del tempo. Sono trascorsi dieci anni da quando George Brecht, Allan
Kaprow e Bob Watts hanno scritto “Projects in Multiple Dimensions”, che cerca
nelle “nuove tecnologie” nuove forme di espressione artistica. Totalmente
dimenticato è ormai “Timetable Music” di Brecht, che il 14 luglio 1959 invitava
la gente a comporre la propria musica servendosi di un orario dei treni in una
stazione ferroviaria, e anche “18 Happenings in 6 Parts” creato da Kaprow alla
Reuben Gallery nell’ottobre dello stesso anno è già roba antiquata. Tuttavia,
nell’ottobre del 1966 Rauschenberg e Whitman portano il genere dell’happening a
una dimensione senza precedenti con “9 Evenings Theater and Engineering”, realizzato
all’Armory sulla 25th Street. Il luogo è gremito di spettatori, l’attrezzatura
è sofisticata e il numero di performer impressionante: oltre ai già menzionati
Rauschenberg e Whitman, ci sono Öyvind Fahlström, John Cage, David Tudor,
Lucinda Childs, Alex e Deborah Hay, Steve Paxton e Yvonne Rainer. Gli happening
sono di moda, eppure Red Grooms li ha abbandonati nel 1960, Jim Dine nel 1962 e
Claes Oldenburg nel 1966. Con la nascita della pop art, del minimalismo e
dell’arte concettuale i tempi sono cambiati.
A New York, nel 1976, Laurie Anderson frequenta Joel Fisher, Phil Glass,
Gordon Matta-Clark, Richard Nonas e Keith Sonnier. Dan Graham le fa conoscere Vito Acconci…
Nel 1977 Anderson incide un 45 giri
realizzato da Holly Solomon: un disco di vinile che può essere ascoltato su
qualsiasi vecchio giradischi. I brani sono tratti dall’installazione
audiovisiva “Jukebox”, presentata lo stesso anno nella Holly Solomon Gallery e
comprendente 24 (vere) canzoni, in maggioranza scritte dall’artista per gli
amici fra il 1976 e il 1977; le canzoni sono accompagnate, sulle pareti della
galleria, da 24 testi e 24 partiture musicali. Il lato A del 45 giri è dedicato
a Chris Burden e s’intitola “Non è
la pallottola che ti uccide, è il buco”. È un’opera d’arte pur essendo
contemporaneamente una canzonetta. Laurie Anderson ha scelto nella
straordinaria ricchezza della scena artistica il piccolo elemento di
congiunzione: e. Opera e musica, e installazione, e
teatro, e arte, e ecc. Ogni forma trova espressione in un contesto diverso: dagli
scaffali del negozio di dischi alla sala di un’esposizione, dal museo al
palcoscenico, dalla galleria alla pagina. Ogni forma giustappone spazi
emozionali differenti e corrisponde a temporalità, a qualità sensoriali dello
spazio, a immagini materiali e spirituali nettamente distinte. In questo senso
Anderson supera il vecchio antagonismo tra il generico e il suo contrario, lo specifico,
aggirando i due termini con un’inversione sorprendentemente semplice: il
racconto. È in effetti dal “racconto” che estrae le categorie, sia estetiche
che ideologiche, e le attraversa senza negarle ma anche senza farle proprie,
indifferente alla teoria (troppo disincarnata) come ai fenomeni di fusione
(insalata russa). Narratrice, sceneggiatrice e autrice di romanzi (“In famiglia
siamo tutti dei grandi narratori”, afferma), è dalle parole che attinge tutte
le risorse dell’espressione, per strappare alla “stranezza” quanto ha di più
resistente, integrarlo in un’altra forma e assegnargli un’altra plasticità.
Le sue prime sculture, del 1972, sono
fatte con carta di giornale intrecciata: le trame testuali appaiono e
scompaiono. Al 1972 risale anche “Scrittura a mano”, ispirata al linguaggio
buddhista dei gesti, un’opera in papier mâché realizzata con il “New York
Times”. Tutte le parole vi sono agglomerate in un solo segno: una mano che
significa scrivere. Come John Baldessari e Ed Ruscha, Anderson prende a
fabbricare da sé la carta per i propri libri.
Nel 1974 lascia che sia il vento a
girare le pagine di un libro di progetti e idee: “Il libro a vento”. Il rumore
delle pagine sfogliate dal caso, lo sguardo che vaga senza percepire niente di
quanto c’è scritto, la narrazione che fluttua!
Nel 1978, un anno dopo “Jukebox”, con
“Tavolo manofonico” svela qualcosa d’immutabile rimasto fino ad allora
nell’ombra: stando con la testa fra le mani, i gomiti sul tavolo e le orecchie
tappate, le mie ossa trasmettono nella testa i suoni provenienti dall’interno
del tavolo. Spettatore-ascoltatore, sono semplicemente ma completamente
attraversato da un verso a malapena udibile del poeta secentesco George
Herbert, che recita più o meno così: “Now I in You without a body move” (Ora Io
in Te senza alcun movimento del corpo). Catturato dalla trama delle voci
elettroniche, abbraccio un mondo continuo, ne sono il ricettacolo,
l’altoparlante. Il mio corpo è l’anello di congiunzione fra me e il mondo. È al
centro, ma non centrale; solo un corpo conduttore; un filo conduttore, come si
dice a proposito della lettura. Metaforica e incarnata, l’opera possiede
tuttavia l’evidente levità di un oggetto molto leggero che può essere mosso
senza difficoltà. Spostare la pesantezza dei fatti è il nocciolo del messaggio
di Laurie Anderson.
Nel 1973 l’artista si era proposta di
dimostrare che i suoi sogni erano influenzati, guidati e colorati dallo spirito
dei luoghi in cui sceglieva di dormire (“Serie dei sogni istituzionali”).
Alleggerire la cartografia per arrivare
all’essenza della verità, senza venire a patti con la verosimiglianza! In
questo senso l’opera di Laurie Anderson ha più a che fare con Cervantes che con
la Sony.
La mostra ripercorre le varie tappe (ad
alcune delle quali si è qui accennato brevemente) che dal primo gesto
(“Scrittura a mano”) hanno portato alle più recenti installazioni sonore. Sotto
ogni aspetto, la sceneggiatura della mostra è principalmente di Laurie
Anderson.
Thierry Raspail e Jean-Hubert Martin