Le parole tra noi

Chandra Candiani

Parla anche tu,
parla per ultimo,
di' il tuo pensiero.
Parla ma non dividere
il sì dal no.
Da' anche senso al tuo pensiero:
dagli ombra.

Paul Celan

È domenica.
Gli amici con cui ho praticato tutta la giornata se ne sono andati. Come il suono dell'ultima campana, un susseguirsi sempre più sottile di vibrazioni fino a non poterle più ascoltare, fino ad ascoltarle scomparire. Dove vanno tutti i suoni delle campane già suonati? Il silenzio è il buio fuori dalla finestra e il silenzio del petto che per tutto il giorno non ha fatto che aprirsi e chiudersi, come una persiana nel vento.
Il silenzio ci ha legato per tutta una giornata, nella pausa del pranzo ha lasciato i corpi immobili qua e là per la casa, come bambini senza giocattoli. È commovente un gruppo di adulti in silenzio che aspetta la campana, per andare ad ascoltare parole che escono da un registratore, parole che ci ricordano la sottigliezza del vivere, che delicatamente grattuggiano la grossolanità di credersi padroni della vita e ci ridanno la nostra modesta, misteriosa misura.
Alla fine della giornata, tornare alla parola è come imparare a ricamare, senza disegno, senza tracce da seguire, ricamare nell'aria.

Nel Mahatanhasankhayasutta (Majjhima Nikaya, 38), il grande discorso della distruzione della brama, il Buddha illustra quale sia il retto comportamento nel parlare:
…ha rinunciato alla menzogna, è divenuto contrario a essa, dice la verità, non si allontana dalla verità, è affidabile, degno di confidenza, non smentito dai fatti;
ha rinunciato alla maldicenza, è divenuto contrario alla maldicenza, ciò che ha udito in un luogo non lo racconta altrove per disunire taluni; ciò che ha udito altrove non lo racconta in un altro luogo per disunire altri: in tal modo egli unisce i disuniti, incoraggia gli amici, si diletta della concordia, si rallegra della concordia, gioisce della concordia, pronuncia parole che suscitano concordia;
ha rinunciato alle parole aspre, è divenuto contrario alle parole aspre: pronuncia parole prive di biasimo, gradevoli all'udito, dilettevoli, che toccano il cuore, garbate, piacevoli per la gente, amate dalla gente;
ha rinunciato al vaniloquio: parla a tempo opportuno, secondo verità, sensatamente, in modo conforme alla dottrina e alla disciplina; …

La parola è il campo che sembra più duro da dissodare, più pieno di insidie e di possibilità di inciampare. Un cambiamento per me è avvenuto quando ho smesso di volerla lavorare direttamente e l'ho solo usata come specchio e confrontata a posteriori con quello che il Buddha dice a proposito del retto parlare.

Mi sono accorta all'inizio di un ritiro che non mi chiudevo più in camera in attesa del silenzio, che mi piaceva vagare per i corridoi e il giardino e salutare tutti e sentire che mi perdevo e sentire che mi ritrovavo. C'è sempre stato in me un conflitto tra il desiderio di non nuocere e il bisogno di integrità.
Non sempre essere veri permette di non fare male e si tratta di danzare tra il tacere, il dire bene, il dire accettando spiacevoli conseguenze, l'esporsi, il celarsi, il custodire se stessi, il custodire l'altro.
Mi importa sempre meno l'effetto che faccio sugli altri. Più mi espongo e più mi accorgo che è inevitabile raccogliere insieme alla simpatia e alla gratitudine la malevolenza e il rancore, l'invidia, la rivalità. Allora pratico pensando che l'altro sono io sotto altre spoglie e che c'è ancora malevolenza, spirito di rivincita, invidia in me. Allora, quando prendo rifugio nel Sangha, prendo rifugio soprattutto in quelle persone che non mi sono amiche, perché sono le parti di me che urlano per crescere.

C'è un movimento che va verso l'altro in cui occorre perdersi e un movimento che va verso di sé in cui occorre trovarsi e col tempo si è consapevoli del perdersi e si è morbidi nel trovarsi, come entrare tuffandosi nel mare e non essere distratti a quell'attimo in cui entrando nell'altro elemento non si è più nulla e uscendone si ritorna solidi e confinati.
L'altro è il mare, la parola è il tuffo, il silenzio la riva.
C'è una parola che nasce dal silenzio e non può essere malevola, eppure non è sempre gradevole, può esporre l'altro, costringerlo all'aria di alta montagna, o al tuffo o a un vento che gli strappa i vestiti. Le parole sono tra noi, si allungano a toccare l'altro, a chiedergli se c'è, se c'è l'anima, se vuole farla uscire e incontrare la tua a metà percorso.

Dice Borges:
…una discussione è vista più che altro in termini di perdere o vincere, mentre in realtà un dialogo deve essere una ricerca della verità. E se si arriva a un risultato, poco importa che sia l'interlocutore a raggiungerlo, purché ci si arrivi.
Forse non è nemmeno uno dei due a dire la verità, forse è l'assenza di io di entrambi che fa parlare un terzo, in chi dei due non importa.
Sembra, come tutto nel Dhamma, qualcosa di molto alto, di arduo, di ideale, ma no, è proprio ora, proprio qui e si svolge piano piano, lemme lemme, da minimi indizi, da modesti tentativi, fino a stupirci, fino a farci tacere in due. L'utopia di non ferire mai nessuno porta a ferire spesso se stessi e la strategia di un continuo proteggersi porta all'isolamento interiore, alla perdita dell'intimità.

Lavorare sulla parola e lavorare sull'ascolto sono contemporanei: meno mento e più mi accorgo se l'altro mi mente; meno sono malevola e più la malevolenza stride nelle parole dell'altro; meno chiacchiero e più rumorose sono le chiacchiere di altri. E fa meno male, o è un male più isolato, dai contorni più netti, che dura meno, perché non si partecipa, perché risuona e poi scompare, senza necessità di reagire, di echeggiarlo, di farlo durare.

Ho notato che una delle forme di parola che più mi fa soffrire è la parola allusiva e ho smesso di usarla per prima. Dico direttamente e accolgo le conseguenze che questo comporta.
O taccio e accolgo le conseguenze che questo comporta. Nella parola allusiva c'è un misto di menzogna, di parola aspra e di parola maligna. Il suo colore è giallo verde, il giallo dei limoni, il colore del livore, dell'invidia. Accenna, crea turbamento, finge di parlare al positivo per far rilucere il negativo dell'altro, vuole far soffrire, umiliare o distruggere la gioia dell'altro. È una parola vile, che non accetta la bellezza epica di incontrare l'altro in campo aperto, faccia a faccia, di sfidarlo.

Il Buddha ha parlato solo una volta dell'ascolto, mentre ha molto parlato della parola. E credo che questo sia già significativo, nel senso che lavorare sulla propria parola cambia anche l'ascolto e che l'ascolto cambia la parola dell'altro. Il Buddha dice dell'ascolto di determinare semplicemente: "Questa parola è falsa" oppure "Questa parola è vera", "Questa parola è maligna", "Questa parola è benevola".
È interessante dunque che venga deteminato dall'ascolto quale tipo di parola sto ascoltando e non giudicata la persona che la pronuncia. E che genere di determinazione è? Mi accorgo che sempre di più ascolto con tutto il corpo, che le parole vibrano in vari punti del corpo e che le sensazioni che le accompagnano possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre. E talvolta non coincidono affatto col loro contenuto. Una parola seduttiva non risuona in me felicemente, il riverbero è subdolo, c'è qualcosa di piacevole, ma avido, teso, non acquieta, eccita. La parola allusiva non entra direttamente, non brucia purificando, uccide con uno spillo, irrita, crea invisibili punti doloranti che dolgono dopo, quando si resta soli.

È interessante come nella nostra epoca in cui si chiacchiera molto, in cui ci sono trasmissioni televisive basate sulle chiacchiere, segreterie telefoniche che annunciano che l'altro è impegnato in altra conversazione, programmi internet per chiacchierare con tutto il mondo, c'è in realtà un'enorme sfiducia nella parola.
Capita spesso di trovare che persone che praticano arti o terapie o lavori non verbali hanno in realtà paura e sfiducia nella parola e non che la ritengono uno tra i mezzi di comunicazione, la vedono più che altro come un dèmone, qualcosa di diabolico che li esclude o li sommerge.
Sono stata un'adolescente e una giovane donna quasi muta, imbarazzavo tutti col mio silenzio, finché non sono arrivata in India. E con gli indiani, che sono molto chiacchieroni, ma anche disarmati e quindi disarmanti, abbiamo cominciato a ridere dei miei silenzi, d'altra parte li facevano anche loro, ma silenzi senza tensione, silenzi da animali, cioè da creature, ogni tanto parlati, ogni tanto no. Ho imparato una parola che ride, ma non deride, un silenzio insieme, un non cancellare tutto il paesaggio intorno per effondersi in un cieco dialogare, ma dirsi spesso: "Oh, guarda!" o "Senti?" o solo sorridersi in silenzio. Ma senza paura della parola.

Invecchiando, mi accorgo che quanto meno amo la chiacchiera, tanto più amo la parola e ci sono persone con cui potrei parlare tutta una notte. E svegliarmi riposata. Non intossicata o deserta.

C'è un modo di dire nel linguaggio comune che afferma: "Questa persona non mi dice niente", è interessante perché sembra presupporre che la parola è tra noi, che con qualcuno c'è e con qualcun altro no. Se parliamo tanto o poco con tutti in ugual misura, probabilmente parliamo da soli. E una persona che non ci dice niente non significa che non ci dia serenità o voglia di ridere o di abbracciare o di starsene seduti a guardare insieme qualcosa. Peccato che sia così proibito dalla nostra civiltà, in cui il sesso è diventato un gradevole dopo cena, ma stare zitti insieme senza allusioni è pornografia.

E se ci sono persone "che non ci dicono niente", ci sono anche ascolti che dicono troppo. Certe volte sento che qualcuno mi ascolta per scovare dove sbaglio, per dimostrare a se stesso che non valgo un granché o per mettermi in contraddizione, allora la gola mi si chiude, inciampo in me stessa, vorrei tacere e invece mi confondo e parlo per non ascoltare. Ma la prossima volta credo che oserò il silenzio o una domanda: "Cosa vuoi in realtà sapere?". Una volta, Ianai Postelnik, un insegnante di Dhamma di Gaia House, mi disse: "Datti il permesso di essere strana, se gli altri ti giudicheranno, soffriranno per questo".

I versi che ho scelto come epigrafe a queste riflessioni sono di Paul Celan, un poeta che ha portato un peso molto grande di parole, un macigno così grande che una sera lo ha gettato nelle acque della Senna, dal ponte Mirabeau, e poi l'ha seguito, assumendone il peso, annegando.
Era aprile, "il più crudele dei mesi" l'ha chiamato Eliot. E Celan invita a parlare per ultimi, come dire a non voler vincere, a essere parlati, ad aspettare la parola. E in questa parola, ricevuta, attesa, il sì e il no non sono divisi, non possono esserlo, perché non è una parola che incanta né accusa, eppure meraviglia, eppure brucia, perché canta. E prosegue invitando a dare senso al pensiero dandogli ombra.
E l'ombra è la freschezza della parola che non vuole insegnare, che non risplende soltanto, che accoglie sguardi e corpi e gole stanche e "ombra" è l'oscurità della vita e della parola, il lato negato e vilipeso dall'ideologia della risata. Ci sono tristezze e malinconie che non vogliono ridere, vogliono ombra. Ci sono fantasmi, ricordi, nostalgie che non vogliono essere messi in luce, vogliono ombra. Non essere nascosti o celati, ma stare, riposare nell'evidenza di una serena, estiva ombra.

Le parole di un poeta non sono quelle di un risvegliato, ma spesso sono parole risvegliate che visitano qualcuno che né dorme né è completamente sveglio, vive una frontiera. Un poeta non sa insegnare, sa solo, se è un vero poeta, di essere una fragile verticale tra il cielo e la terra, una fragile verticale visitata dalle parole. La poesia non è sinonimo di romanticheria o di rêverie, la poesia è uno strumento di conoscenza, spassionato e leale come tutti gli strumenti di conoscenza. Come uno specchio.

E concludo con questo invito a ricordarci della nostra misteriosa misura, minima e immensa, tratto dallo Zibaldone di Leopardi:
Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, né l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.
Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degl'infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell'immensità delle cose e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero, egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e dell'immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contenere col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose.

 

 

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