La poesia del Dharma


CHANDRAVIMALA CANDIANI


Il cuculo canta
per me, per la montagna,
a turno.

Issa (1763-1827)

Ogni volta che partecipo a un ritiro mi sembra, non tanto di lavorare, ma di lasciarmi lavorare (sgretolare?) dal Dharma.
Un po' come andare a lavorare in miniera, ma non più io sono il minatore, come credevo un tempo, non c'è fatica, ma solo lo sforzo di lasciarsi andare a essere miniera e lasciar fare al Dharma e aver fiducia nelle gemme che il piccone scoprirà.
E ogni volta sembra che uno dei piani su cui avviene lo sgretolamento sia quello delle mie opinioni sulla meditazione, il cammino spirituale, il Dharma.

Nell'ultimo ritiro con Corrado, a Pomaia, ho sentito che il Dharma per me non era più un esercizio, una serie di istruzioni, di regole, di comportamenti a cui adeguarmi, più o meno facilmente e con il continuo incubo di poter sbagliare o perdermi, no, il Dharma stava diventando sempre più simile alla poesia. E mi ha invaso il terrore.
Il terrore. Perché la poesia la conosco bene, conosco la sua ferocia e la sua grazia.

Per me, la poesia non è il poetico, la poesia è un'energia che attraversa l'esistenza e che assomiglia molto più all'etica che all'estetica; perché chi chiacchiera molto, riempie i vuoti, teme la solitudine e il silenzio non può accogliere la vertigine di un verso. Etica perché anche nelle sue regole estetiche si affaccia sempre la presenza dell'altro, il desiderio di fargli intravedere il mistero senza gettarlo nell'oscurità. E inoltre perché è un luogo di domande e non di risposte adatte a tutti e a nessuno come il moralismo.

La poesia è il trasalimento di saper di essere vivi e la forza dirompente della gratitudine. La poesia è apertura all'inaspettato. È ferrea disciplina che non si deve avvertire, nascosta dalla levità. La poesia è saper andare a capo, saggiamente, come un respiro che manca, consapevole del suo intervallo fino alla prossima inspirazione, gratuita, immeritata, sorpresa.
La poesia è lasciarsi fare da lei.
La poesia è attesa della poesia.

Rilke ne Il testamento:
Non pensare, artista, che la tua prova consista nel lavoro. Non sei l'uomo che intendi far credere e per il quale alcuni, non riuscendo a vedere più lontano, possono prenderti, fino a quando questo lavoro non sia connaturato in te al punto da non lasciarti altra soluzione che affermarti in esso. Operando così, sei il giavellotto magistralmente scagliato: dalla mano della lanciatrice ti accolgono leggi che si abbattono con te sulla meta. Cosa ci sarebbe di più sicuro del tuo volo?
Ma la tua prova deve consistere nel non essere sempre gettato. Che la solitudine lanciatrice non ti scelga, per lungo tempo, che ti dimentichi. Questo è il tempo delle tentazioni, quando ti senti inutilizzato, impotente. (Come se l'essere pronto non fosse un impegno sufficiente!)
( ......................)
Oh allora, più fermo: con tutto il peso giaci.
Come giavellotto. Come giavellotto. Come giavellotto.
Quante volte, nella pratica, è necessario giacere come giavellotti su un terreno arido, senza neanche un filo di vento, ottusi e inutilizzati. Ma poi da quell'immobilità... Come giavellotto. Come giavellotto. Come giavellotto.
Nella pratica del vivere quotidiano, i versi dei poeti mi aiutano, come versi di uccelli umani.
Kabir, poeta, tessitore, mistico indiano, vissuto tra il '400 e il '500:

O mio cuore,
non andare altrove.


Questo verso ricollega spesso il mio cuore ai miei piedi e mi rivela, senza sgridarmi, che se, mentre cammino, resto 'a casa', mi sciolgo in un niente che cammina, in una forma bizzarra perché la folle esuberanza dell'esistenza possa manifestarsi così, anche così.
Cos'è il cuore? A un ritiro con Ajahn Sucitto sentivo un terribile male a una spalla, che mi accompagnava da mesi, acuirsi a ogni seduta. Finché Ajahn Sucitto disse: "Il dolore alle spalle è l'irrequietudine del cuore". Paf! Come un sasso in uno stagno.

E quell'irrequietudine, quel vibrare inarrestabile per un nonnulla io avevo sempre chiamato cuore? Cominciai a osservare tutte le volte che il cuore se ne andava altrove, tutte le volte che inutilmente tremava e sussultava per qualcuno o per qualcosa. E dopo pochi giorni mi accorsi che solo un cuore vuoto e fermo può ricevere il canto della gentilezza e della compassione, può sintonizzarsi sulla gioia di un altro, può accettare le cose come sembrano essere e come forse sono. Almeno per un attimo.
Quando sento che la pratica si fa arida e scolastica per la stanchezza o per il mio attaccamento a un obbiettivo, il suono dei corvi, un clacson, una rosa, un brillio nell'asfalto gridano con Kabir:

O servo, dove Mi cerchi?
Guarda! Io sono vicino a te.


E poi i versi di J. Donne:

E quindi non ti chiedere
per chi suona la campana;
essa suona per te.


Li ho usati a lungo, a lungo cantati per sapere che non sono sempre e solo gli altri a morire e che comunque, chiunque muoia, si sta portando via un pezzetto di me.
Ma poi ho cominciato a utilizzarli per ogni proiezione, per ogni gioco della mente in cui buttavo la responsabilità sull'altro. Ogni cosa, dalle tossi da ultimo stadio che si accendono solo in sala di meditazione, fino agli insulti nella vita di tutti i giorni, i malumori o peggio, sono tutte campane e le campane suonano solo per me.
Credo di aver scoperto questo legame tra il Dharma e la poesia quando, in una sera di stanchezza, mi sono detta che il Dharma non può essere più piccolo della vita, o è grande uguale o è più grande.
Praticare per niente, per la pura bellezza di praticare, per onorare la vita mantenendosi svegli, presenti, sapendo di essere vivi. Lo sforzo di un atleta, non di un soldato.
Pasternak:

Essere rinomati non è bello
non è così che ci si leva in alto.
Non c'è bisogno di tenere archivi,
di trepidare per i manoscritti.
Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il gran successo.
È vergognoso, non contando nulla,
essere favola in bocca di tutti.


E ancora il mio amatissimo Boris (Pasternak):

Entra in corrispondenza con l'orizzonte.

mi sussurra quando mi sento abbandonata o messa di fronte a una richiesta di vastità che mi sembra di non poter ancora reggere.
"Entra in corrispondenza con l'orizzonte" ogni volta che qualcuno ti gira le spalle o non ti capisce, ci sono così tanti regni e siamo presi sempre e solo da quello umano.
Ci sono, poi, gli amici di leggerezza, i versi che danzano.
Rimbaud:

Io ho fatto i magici studi
della Gioia.


Majakovskj:

Spero,
ho fiducia
che non verrà mai
da me
l'ignominioso buon senso.


Emily Dickinson:

Così poco ha da fare l'erba
una sfera di semplice verde.


Colonne sonore per le giornate che ci amano e in cui ci lasciamo amare.
È come se la pratica avesse acceso la poesia, i versi non sono più un'astratta bellezza che non regge alla prima sofferenza, ma risuonano da una pancia fiorita, si illuminano in mille occasioni diverse, perché ogni verso è un pezzo di vita accettato con ardore.
E la poesia ha reso meno severa la pratica, meno isolata, più folle, sollievo di non dover diventare, né dea né illuminata, ma di entrare profondamente nella mia umanità, di accompagnarmi in un vivere che già c'è.
Pasternak:

Non si può non incorrere
alla fine, come in un'eresia,
in un'incredibile semplicità.


Alla fine? Oh, anche in mezzo, anche all'inizio: benvenuta semplicità.

 

 

 

 

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