Specchi

CHANDRA CANDIANI

 

Specchio specchio

delle mie brame

chi è la più bella

del reame?


Scrive Corrado ne La tranquilla passione:

Sul finire di una malattia viene un momento in cui avvertiamo con chiarezza che ci stiamo di nuovo svegliando alla vita. Finora eravamo come spenti e passivi, senza energia. Adesso, invece, finalmente, qualcosa rivive in noi: siamo contenti e prendiamo ad assaporare di nuovo semplici cose, come mangiare, camminare, fare qualche progetto interessante per il futuro. In sostanza, ci sta ritornando il gusto di vivere, la passione per la vita. E ci accorgiamo che è un sentimento forte e preciso, che salutiamo con sollievo quando ricompare all’orizzonte e che ci causa invece apprensione se tarda a raggiungerci.

Mi è capitato abbastanza spesso, forse per una certa percentuale di sangue russo nelle mie vene, di partire per improvvisi innamoramenti assoluti, infuocati e naturalmente infelici, cioè non corrisposti. E di viverli come vere e proprie malattie e come momenti fondamentali di pratica. Innanzitutto, permettersi di innamorarsi e non agire l’innamoramento è già pratica di prima linea. Ma anche osservarsi impazzire e non reprimere eppure continuare a osservare è pratica di prima linea. C’è nell’innamoramento ltra un piano ideale e uno assolutamente fisico, è come se le cellule appassionatamente danzassero, è una follia gettata su un altro, una paranoia in rosa, dove tutto ci parla dell’amato o dell’amata, tutto significa, tutto è intenso e numinoso. Si arriva a un punto in cui l’insalata fa male, fa male la sedia, il cielo, le pagine scritte e quelle bianche, tutto, perché tutto apre un varco nel petto che conduce dritti dritti a un’assenza, quella dell’unica persona che conta per noi.

Una delle fondamentali descrizioni di dukkha che dà il Buddha è “l’unione con ciò che non ci è caro, la separazione da ciò che è caro”. E tutto diventa non caro e cara è solo la persona che amiamo. È l’opposto esatto dell’equanimità. Dopo un po’ mi accorgo che l’innamoramento è per me un tormento infernale, in cui tutti mi diventano indifferenti o molesti e capisco che comincio a guarire quando rimpiango i tempi in cui parlavo della raccolta delle olive con l’ortolano, quando facevo due chiacchiere con il giornalaio, quando il cielo azzurro non era una lama nel petto e una giornata grigia una protezione dall’orribile ipotesi dell’arrivo della primavera, che tutto espone.

Un buon modo per utilizzare questi innamoramenti per la crescita interiore è di usarli come specchi del nostro cuore e della nostra anima, anziché usare l’altro come specchio del nostro io: mi ami o no? Ti piaccio o no? Sono unica per te o no? Sono la più bella del reame? Sono la più meditativa del reame? La più saggia, la più etica, la più guerriera, la più trasgressiva, la più selvaggia, eretica, la più più più? Ma piuttosto: chi sto amando? Cosa amo di questa persona? Come la sto amando? Voglio il suo bene, la sua felicità? Cosa mi aspetto? Cosa voglio dare? Cosa prendere? Ed essere spietati nelle risposte, senza timore, perché abbiamo tutti un cuore stracolmo di spazzatura romantica: voglio che mi copra di lodi, voglio mancarle, voglio che detesti tutti tranne me, voglio che mi desideri, che ami tutto di me. In sostanza, voglio che soffra per me, non voglio affatto che sia felice.

E insieme essere teneri verso se tessi, come dice un mio grande amico: “Puoi vedere questo esserino piccolissimo con dentro un innamoramento così grande che non riesce nemmeno più a vedere la persona di cui si è innamorato? Non ti fa tenerezza?”. Che sorpresa! Vedersi con distanza non significa vedersi freddamente, ma anzi con la compassione che spesso proviamo per i personaggi di un film e tanto poco per noi stessi. E allora noto anche l’incondizionatezza dell’innamoramento, questo amare qualcuno per nessuna ragione al mondo, solo perché è tale e quale a se stesso, il gesto che rapisce qualcuno alla folla e ne fa un essere unico, l’incontro tra idealità e fisicità, l’assoluto non controllo sul sentimento, l’energia di rinnovamento che opera in noi. E la sua capacità di rivelare ed esporre le più antiche ferite, i lutti più dimenticati, il sentimento dell’abbandono. E quale maestro più grande dell’abbandono in cui ci getta un innamoramento infelice è capace di farci intendere la differenza tra essere abbandonati da e abbandonarsi a? Abbandonarsi all’abbandono stesso, assaporarlo, assaporare i nodi, sostare nell’abisso che l’assenza dell’altro apre e lasciarsi trasformare.

E scoprire anche che un fuoco non alimentato si spegne, non c’è bisogno di soffocarlo o di calpestarlo, basta non nutrirlo. E resta la cenere. L’esperienza della cenere: fredda e morbidissima. E i versi di Quevedo sull’immortalità dell’amore:

anche in cenere, avranno un sentimento;

saran polvere, ma polvere innamorata.

Come dire che le relazioni finiscono, l’amore no.

Ho notato come, quando il Buddha incontra Mara, il seduttore che lo tenta o lo sfida, il Buddha gli dica spesso: “Ti conosco Mara…” e Mara se ne vada, scornato e forse un po’ ammirato nella sua delusione, bisbigliando: “Il Tathagata mi conosce”, come dire che quello che conosciamo non può più non solo spaventarci, ma nemmeno sedurci. È interessante quando ci si sente strappati a se stessi, costretti a lasciare la casa interiore, quando “la mente fugge con i cavalli” come i tibetani definiscono l’innamoramento, fermarsi e dire: “Ti conosco Mara” e vedere che succede. Be’, se era solo follia e seduzione, se ne va tutto, è come vedere gli scenari di un teatro in pieno giorno, se invece c’era qualcosa di autentico, di salutare, solo quello resta.

C’è un terribile verso in una semplicissima poesia di Samuel Beckett che dice: “Vorrei che il mio amore morisse”, perché l’amore infelice è come uno specchio oscurato che ci costringe a chiudere gli occhi e a cercarci dentro. Se non lo spostiamo su altro, se lo accogliamo così com’è, per quanto orribile, si trasforma in un veicolo sicuro e veloce verso il distacco. Non la costruita freddezza dell’amante rifiutato, né la fortezza di difese orgogliose del “Tu non sai chi sono io”, e nemmeno il buttarsi in altre illusioni, ma il distacco come abbandono, quello spazio che un po’ per giorno si crea tra la foglia e il ramo e che un giorno le permetterà di volare, senza più ramo, senza più albero, libera di tornare alla terra e di cominciare un nuovo ciclo, morendo. Il distacco di cui Meister Eckhart parla così:

I maestri lodano soprattutto l’amore (…) Quanto a me, io lodo il distacco più di ogni amore. Prima di tutto per questo motivo: ciò che di meglio vi è nell’amore è che esso mi obbliga ad amare Dio, mentre il distacco obbliga Dio ad amare me. Ora, è molto più nobile obbligare Dio a venire a me che non obbligare me ad andare a Dio. E questo perché Dio può congiungersi più intimamente a me e con me unirsi meglio di quanto io non possa fare con lui. Che il distacco costringa Dio a venire a me, io lo dimostro così: ogni cosa desidera essere nel luogo che le è proprio e naturale. Ora, il luogo proprio e naturale di Dio è l’unità e la purezza, e ciò proviene dal distacco. (…) In secondo luogo, io lodo il distacco più dell’amore perché l’amore mi obbliga a soffrire ogni cosa per Dio, mentre il distacco mi conduce a non essere aperto ad altro che a Dio. Ora, è molto più nobile essere aperto a Dio soltanto, che soffrire tutte le cose per Dio, perché nella sofferenza l’uomo guarda ancora in qualche modo alla creatura che gli è fonte di sofferenza, mentre il distacco è pienamente svincolato da ogni creatura.

Dunque distacco come una forma di amore più grande.

In linguaggio dhammico, ogni sofferenza che non guarda all’altro, che non viene buttata sull’altro, ma vissuta come varco verso una maggiore spaziosità è distacco; ogni volta che riesco, sbagliando e risbagliando ancora, perdonandomi e riperdonandomi ancora, a non trasformare la sofferenza in rabbia, delusione, amarezza, sfiducia, nichilismo, ma a lasciarmi attraversare senza difese, ma ben protetta dalla rete del Dhamma, dall’impetuosa visita della sofferenza, ogni volta dalle ceneri rinasco, un po’ più umile, un po’ più saggia. E se è vero che spesso si possono usare concetti come distacco, osservazione, equanimità, per scappare dalla vita e per difendersi dal suo impeto, è altrettanto vero che siamo tutti immobilizzati dal terrorismo di minacciosi concetti come repressione, fuga dalla realtà, difesa e via dicendo con i sensi di colpa laici. C’è un modo sicuro per sapere se sto reprimendo, creando difese, o mi sto distaccando nel senso di aprirmi a qualcosa di più vasto: la gioia, la gioia della pace. Se provo una gioia salutare, come quando la brezza primaverile attraversa di colpo la strada, raggiunge la faccia e all’improvviso sappiamo che l’inverno è finito, se questa gioia leggera aumenta e ci fa scegliere quello che il Buddha definisce “appoggiarsi al piacere del lasciar andare per distaccarsi da quelli dell’attaccamento”, allora è vero distacco, è aprire le braccia, per essere di tutto, anziché di qualcuno.

C’è una fase in questo processo, in cui l’idealizzazione dell’altro cade e lo vediamo così com’è e forse ci può sembrare che non valesse tutto quell’amore, tutta quella sofferenza, ma è importante non fermarsi lì, non diventare cinici per guarire più in fretta, perché c’è un punto, molto più magico e dolce in cui scopriamo che solo l’amore vede e che le qualità che abbiamo visto nell’altro forse nemmeno lui o lei le conosce, ma esistono davvero e gli occhi dell’amore le ha svelate, perché esistono anche in noi, perché esistono in tutti, se si viene amati, se si viene attesi, se c’è tempo per noi, se c’è pieno ascolto.

Nasce una nuova innocenza dall’esperienza dell’amore non corrisposto, non quella fanciullesca noncuranza che spesso scambiamo per innocenza e che irresponsabilmente semina sofferenza a casaccio, ma una vera, temprata dal dolore, coltivata dall’intimità con se stessi, volontà di non nuocere.

 

 

 

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