Sotto ogni
pietra e'nascosto un tesoro.... cosi' dice la leggenda
Il genere Fantasy
ed il mondo Celtico
Imprendibili fortezze di
pietra, mitici eroi con spade leggendarie, terribili draghi nascosti
in vallate oscure, agili donne guerriere e ancora bardi dalla musica
incantatrice, maghi potenti.
Quasi tutto il patrimonio basilare della fantasy moderna, in effetti,
da Tolkien agli autori più recenti, affonda in profondità
le sue radici nella fiorente tradizione mitologica della antica civiltà
celtica. Una mitologia ben diversa da quella, insensibile e scolpita
con una sorta di gelida perfezione, delle civiltà classiche;
una mitologia fantasiosa e orgogliosa al tempo stesso, che da una parte
costituisce il tentativo di una civiltà, la cui memoria era unicamente
orale, di descrivere e tramandare la propria storia, e dall'altra riflette
l'irrefrenabile voglia di vivere e l'intero, rigido sistema di valori
proprio della razza che la ha composta.
I Celti affidarono alla mitologia tutti gli archetipi ed i modelli da
cui era necessario trarre esempio, descrivendo con enfasi la selvaggia
bellezza della loro cultura e della loro vita in un affresco difficile
da decifrare. L'amore che prova ogni buon appassionato di fantasy per
l'immaginazione e il mistero era già presente nelle leggende
celtiche di duemila anni fa, permeate di un sottile velo enigmatico
che sembra lasciare sempre un dubbio sulla sua vera natura
o anche
sulla sua semplice esistenza. Nei miti celtici sono presenti in gran
numero creature misteriose che si scontrano con uomini coraggiosi eppure
impotenti davanti alla loro incredibile forza; antiche stirpi dimenticate,
che contendono la terra per generazioni agli invasori celtici o che
si fondono armoniosamente con loro; druidi terribili in battaglia e
senza pari nell'uso della magia, grandi conoscitori della natura e dotati
di vera preveggenza; arpisti dal talento così grande da uccidere
un uomo ascoltandoli; spade invincibili che tagliano anche le montagne,
e molti degli elementi ricorrenti nella letteratura fantastica.
I
Druidi
I druidi occupavano un gradino
davvero notevole all'interno della società, tanto che a Dione
Crisostomo sembrava che costoro detenessero un posto addirittura superiore
a quello del re, e che questi non fosse che un misero fantoccio nelle
loro mani. Ciò non è del tutto esatto, ma contribuisce
a rendere bene l'idea della potenza druidica, che compare anche in numerosi
testi mitologici. Basti leggere questa frase tratta dall'immortale Tain
Bo Cuailnge:
" Nessuno rispose, poiché era proibito agli Ulaid parlare
prima di Conchobar, e Conchobar non parlava mai prima dei suoi tre druidi."
In effetti, similmente a quanto accade nella mitologia indiana con la
coppia Mithra- Varuna, il druida non ha il potere materiale e decisionale,
che spetta di diritto al re, ma possiede comunque un'influenza innegabile
in quanto rappresentante della dimensione trascendentale in un popolo
che aveva sempre rifiutato il dualismo aristotelico tra "realtà"
e "irrealtà".
Il druida consiglia il re come intermediario che riferisce i piani divini:
il re, quindi, non può esimersi dall'ascoltarlo. Il potere giuridico,
riferendosi al discorso precedente, spettava ai druidi in quanto brithem,
ossia magistrati che conoscono, interpretano ed applicano la complessa
legislatura trasmessa, naturalmente, per via orale.
Quella di brithem non però è che una delle numerose funzioni
attribuite ai druidi. Queste complesse figure, ammantate di mistero,
possedevano diverse cariche specifiche di estrema importanza all'interno
della società.
Degni esempi possono essere druidi "specializzati" come il
sencha, che svolge la funzione di storico ed è incaricato di
tramandare la memoria collettiva di una società che si basava
sull'oralità; o il cainte, l'invocatore, colui al quale spettava
il compito di lanciare maledizioni e benedizioni e di evocare gli spiriti
attraverso il canto magico; lo scelaige, il narratore, esperto dei racconti
epici; il dogbaire, grande conoscitore di erbe inebrianti ed allucinogene;
il liaig, preparato medico in grado di combinarei i rimedi magici a
quelli scientifici, come la chirurgia, che era praticata ad un livello
impressionante, e alle piante curative. Diversi druidi avevano anche
doti di vati, come dimostrano anche molti testi mitologici in cui essi
compiono predizioni di tutto rispetto, a volte ottenute con il sacrificio
rituale degli animali e a volte derivate da una sorta di coscienza "superiore".
Infine, tra di loro, va annoverato
il cruitire, l'arpista, in grado di suonare con tecniche così
raffinate da suscitare ilarità, pianto o sonnolenza nei suoi
ascoltatori, secondo i suoi desideri.
Questi rappresenta una figura di spicco all'interno della cultura e
del panorama mitologico celtico. Più e più volte sono
nominati, nell'epica irlandese, musici dotati di queste doti particolari.
Ad esempio, poco dopo il ritrovamento, riportato più sopra, della
spada Orna da parte di Ogmè, il dio In Dagda riprende possesso
di un'arpa che gli era stata rubata dai mitici Fomoire. Questa, lungi
dall'essere raffigurata come un mero oggetto, ha ben due nomi che indicano
il rispetto che i Celti dovevano a questo tipo di strumento. Si dice
inoltre che In Dagda "aveva racchiuso le proprie melodie"
nell'arpa. Il dio, poi, la utilizza per suonare le "tre arie che
distinguono l'artista", facendo dapprima lacrimare, quindi piangere
ed infine addormentare i Fomoire che stavano per attaccarlo, e riuscendo
così ad andarsene incolume. Tale episodio è ben esplicativo
del grande rispetto che la gente comune attribuiva ai bardi. I Celti
erano grandi amanti della musica; a tutt'oggi possiamo ascoltare con
ammirazione gli armoniosi brani degli artisti contemporanei, che hanno
saputo conservare l'incanto e la magia dei loro predecessori. Un altro
aneddoto molto significativo è il fatto che l'Irlanda, dopo le
innumerevoli invasioni di popoli mitologici, sia stata conquistata definitivamente,
secondo la leggenda, non dalle armi ma dall'arpa e dal canto di Amergin,
il poeta.
I Celti avevano un grande rispetto per tutte le categorie di artisti,
dai bardi agli artigiani. Questi ultimi, chiamati aes dana, godevano
di privilegi spesso non accordati nemmeno alla nobiltà, come
ad esempio la possibilità di varcare impunemente i confini tribali.
Possedevano notevoli tecniche di lavorazione, ammirate sia dai loro
vicini, i Romani, che dai moderni studiosi dell'arte. Si può
restare ancora stupefatti dinanzi alla intricata bellezza di una torquis,
di un elmo o di uno dei loro splendidi e ostentatamente preziosi manufatti,
ornati con migliaia di figure simboliche stilizzate con abilità.
Anche nei testi mitologici si esalta l'amore celtico per la bellezza
dei monili, descrivendo con accuratezza i preziosi e gli artefatti scolpiti
dagli artigiani più dotati.
Abbandonando questa parentesi, possiamo notare come il rispetto di cui,
pare, godessero i druidi fosse davvero straordinario. La mitologia,
come sempre, è una delle nostre maggiori fonti di informazione:
veniamo così ad apprendere che, durante una lotta o addirittura
una battaglia, bastava che uno di loro alzasse un ramo di quercia perché
cadesse il silenzio e ogni combattimento cessasse.
Durante uno scontro, ogni druida e bardo godeva di totale immunità,
tanto da potersi aggirare per il campo di battaglia liberamente senza
che nessuno potesse fargli del male, in parte anche per il suo compito
di storico. Questo speciale salvacondotto non veniva a cadere nemmeno
nel caso che un druida decidesse di schierarsi con una delle sue parti
o esasperasse un guerriero in modo eccessivo: Cù Chulainn trova
la morte per aver infranto tutti i gessa che gravavano su di lui, e
tra questi si trova il divieto universale di uccidere un membro della
classe druidica (nel caso specifico un satirista, che pure lo aveva
provocato e ripetutamente insidiato). I druidi, in effetti, pur non
essendo ufficialmente costretti a partecipare alle guerre, spesso vi
si recavano in ogni caso, di loro volontà. Numerose sono le descrizioni
di druidi pronti per la battaglia; a quanto pare, alle numerose magie
guerresche che compivano, essi univano anche una buona preparazione
bellica più materiale. Anche Diviziaco, il druido degli Edui
divenuto confidente di Cesare, parlava nel Senato appoggiandosi al suo
scudo, e non esitava a pianificare le tattiche delle sue truppe come
un vero stratega, pur sotto le direttive romane.
I druidi erano estremamente apprezzati anche dai loro contemporanei
Latini e soprattutto Greci. Basti pensare a come Cicerone si vantasse
pubblicamente, con aperto orgoglio, di aver potuto parlare ad uno di
essi. Da più e più autori classici, i druidi vengono messi
in relazione con la dottrina pitagorica. Ciò non è assolutamente
vero- l'unica credenza da loro condivisa era quella dell'immortalità
dell'anima- ma testimonia, comunque, il rispetto di cui dovevano godere
questi filosofi anche presso i popoli mediterranei, ben lungi dal catalogarli
come selvaggi e anzi propensi a riconoscere la loro alta levatura intellettuale
e di pensiero
I druidi officiavano ovunque:
la loro magia era la magia della terra. Tuttavia, avevano dei "santuari",
per quanto diametralmente opposti da quelli a cui la nostra civiltà
ci ha abituati. I loro santuari, o "nemeton" (da una radice
che indica propriamente il "sacro"- presente nel nome del
personaggio epico di Nemed) erano delle radure nelle foreste, degli
sprazzi di erba nei querceti sacri, ed i Celti non ebbero templi sino
alla romanizzazione. Rutherford riporta un brano inquietante con cui
Lucano descrive un bosco sacro (per quanto esso tenda, al pari di Cesare,
a "barbaricizzare" i Celti ed a dare l'idea di un popolo selvaggio,
superstizioso e crudele: è probabile, tanto per dirne una, che
i druidi, nonostante tutte le idee comuni e preconcette diffuse da Cesare
ai giorni nostri, non sacrificassero mai uomini, e rimando per questo
argomento all'enciclopedico Il Druidismo di Markale):
" C'era un bosco sacro, mai profanato da tempo immemorabile, che
sotto la volta dei suoi rami racchiudeva un'aria tenebrosa e gelide
ombre, facendo schermo in alto ai raggi del sole. Non Pani agresti e
Silvani, signori delle selve, e Ninfe lo abitavano, ma vi erano celebrate
cerimonie di barbari riti: vi si ergevano sinistri altari e durante
i sacrifici il sangue umano sprizzava su ogni pianta. Se un po' di fede
merita l'antichità, che ha provato lo stupore per il divino,
persino gli uccelli avevano paura di posarsi su quei rami e le fiere
di sdraiarsi in quella selva; neppure il vento o la folgore che piombava
dalle fosche nubi si abbattevano su di essa e le fronde degli alberi
avevano un brivido tutto loro, senza che il vento le scuotesse. Acque
abbondanti cadevano da cupe sorgenti e le lugubri statue degli dèi
erano prive d'arte, ricavate rozzamente da tronchi intagliati. [
]
E si narrava che spesso muggivano per i terremoti le profondità
delle caverne, si risollevavano i tassi abbattuti e si vedevano bagliori
nelle selve, senza che vi fossero incendi, e che draghi striscianti
si avviticchiavano ai tronchi. Le genti non si radunavano in quel luogo
per celebrarvi il culto, ma lo avevano lasciato agli dèi. Quando
Febo è a metà del suo corso o in cielo si stendono le
tenebre della notte, neppure il sacerdote osa addentrarvisi per paura
di vedersi improvvisamente davanti il signore del bosco." (III,
400-425).
A prescindere dal fatto che sfido un qualunque scrittore moderno di
fantasy o di altro a scrivere una descrizione maggiormente evocativa
e lugubre, il fatto che Lucano, cittadino di Roma, narrasse con tanta
enfasi di questo luogo, che forse ha toccato delle corde sepolte nel
suo cuore "civilizzato", non può che far pensare. Non
si prenda come oro colato anche il discorso sulle statue: in effetti
la parola del testo latino non indica precisamente le "statue",
quanto i "simulacri". E' possibile che si trattasse di semplici
cippi lignei. D'altronde, è ridicolo pensare che i Celti possano
aver concepito la divinità sotto forma umana e la possano aver
raffigurata nella roccia (Brenno insegna; vedi sezione sulla religione).
E' importante sottolineare come dolmen, menhir, cromlech e megaliti
in genere NON facessero parte della cultura e della religione celtica
e NON fossero stati costruiti dai Celti, per quanto è possibile
che in certi punti essi possano averli adottati come luoghi di culto
sotto l'influenza della fusione della loro civiltà con quella
precedente, la civiltà megalitica.
Rutherford si inoltra poi in un discorso sull'importanza degli alberi
nella cultura celtica. A questo proposito rimando anche a Il Druidismo
di Markale.