CINEMA

I diari della motocicletta new!

 Kill Bill volume 1 e 2

Non ti Muovere  
L'ultimo Samurai  Master and Commander Together with you
City of God Lontano dal Paradiso La Finestra di fronte
8 mile Baciate chi vi pare Il pianista
Il mio grosso grasso matrimonio greco L'uomo senza passato Ricordati di me
Pantaleon e le visitatrici Bowlinkg for Columbine La Leggenda di Al John e Jack
La compagnia dell'anello Le due torri Un viaggio chiamato amore
11 settembre 01 Magdalene pane e tulipani
Minority report Hollywood ending Sud side story
Signs Cuori in Atlantide Shrek
Ocean's eleeven Resident evil Brother
Parla con lei I tenenbaum Before night falls
Gosford park a beautiful mind La tigre e il dragone
Kate and Leopold Iris The man who wasn't there
Il favoloso mondo di Amelie Spider AI (intelligenza artificiale)
i perfetti innamorati Rat Race Billi Elliot
Apocalypse now Le verità nascoste Train the vie
Il dottor T e le donne La cena dei cretini Fargo
Criminali da strapazzo i Cento passi l'anima di un uomo
Elephant Non ti Muovere (altra recensione) new!

 

Pinocchio

I diari della motocicletta

Regia: Walter Salles 

Dalle prime scene, ma anche dal titolo, è facile capire cosa sarà il film. La pellicola è stata una corsa del regista attraverso la mente e le parole di un personaggio leggendario del novecento, Ernesto Che Guevara. Per chi a letto molte biografie ed in particolar modo quella di Paco Ignacio Taibo II, risulta facile seguire l’autore dell’opera durante il racconto dell’amicizia fra il Che è Alberto Granado che si fortificò nel viaggio che li vide insieme, a percorrere il Sud America ed il suo popolo. Una solo dimenticanza o un omissione volontaria, la frase che Che Guevara pronunciò appena giunto a Matchu Piccu: “E’ l’unico posto al mondo dove non c’è l’insegna della Coca – Cola”. Bernal è stato pienamente in grado di impersonare il giovane Guevara e nel rappresentare le sue crisi d’asma e, quindi, tutto il suo lato umano ha dato una prova forte di tutte le sue capacità di recitazione. E’ quasi inutile, soffermarsi sulla bellezza affascinante delle riprese che sono solo il risultato della proposizione di incantevoli luoghi sudamericani. Dalla pampa alle Ande senza perdere un filo di purezza e castità espressiva che hanno aggiunto qualità all’opera. La scontata, ma opportuna carrellata di fotografie immesse nel finale del film a sigillare il valore dello stesso è stato il suggello che serviva per dire cosa fu che servì al Che per diventare il Che. L’importanza dei legami umani e delle relazioni interpersonali, come anche quello “particolare” fra uomo e donna viene fuori benissimo dal film ed è stata proprio questa la firma d’autore. L’importanza di toccare l’altro, abbracciare un altro corpo penso sia stata capita anche dai meno sensibili. Nuovamente, mi è capitato di assistere da solo alla proiezione del film, anzi con la proprietaria alle mie spalle, e purtroppo non sono riuscito a vedere fino in fondo l’effetto sugli spettatori. L’interpretazione del con protagonista è stata discreta, ma i piccoli momenti offerti da attori indigeni sono stati la cosa meno recitata e costruita, quindi più reale. La cosa essenziale del film è stato il potere esercitato su le mie gambe. Le mie gambe hanno più volte cercato di alzarsi ed andare via. Ovviamente, non per un rifiuto, ma per la voglia di imitare gli attori nel loro viaggio e possibilmente seguirli fino dove neppure loro si sono spinti. Qualcun altro è responsabile di questo moto represso delle mie gambe, per ora non è importante specificare di chi o cosa si tratta. Meglio viaggiare.  Nunzio Festa

NON TI MUOVERE 

tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini

Mi è capitato, anzi ho scelto, di vedere questo film da solo senza l’aiuto delle parole di nessun amico e senza l’aiuto degli sguardi di nessuna ragazza. Forse anche questo mi è servito a leggere meglio i battiti del cuore che questo film ha prodotto in gran parte del pubblico presente alla proiezione, forse anche le lacrime che sono riuscito a custodire gelosamente nelle mie palpebre hanno consentito al mio cuore di emulare l’azione spasmodica dei tanti altri organi vitali seduti in sala. Le prime scene o le prime immagini che il regista ti fa cadere dal suo obiettivo attraverso una goccia di acqua che si getta in una tazzina, mostrano subito il tocco artistico - cinematografico che Castellitto ha dato a tutto il film ed a gran parte delle riprese di esso.

Forse da questo punto di vista la prosa delicata della Mazzantini hanno fatto detenere al romanzo il pregio della migliore qualità.

La prova di recitazione offerta dalle protagoniste femminili si sono ben accostate alla riuscita recitazione del protagonista, che è poi lo stesso Sergio Castellitto. Le espressioni giocate sul viso del grande attore sono state un tassello essenziale del puzzle dell’opera.

Fin quando l’amante del medico muore la necessità di sperare in una fuga ben riuscita, da parte dei due amanti, rimane viva nelle visioni degli spettatori e la loro immaginazione galleggia fino a quando ha la convinzione di farlo.

L’incidente in motorino su cui è impiantata tutta la trama del film, rimane quasi come un fatto secondario che va ad inciampare nella vita dei genitori della ragazzina a smuovere la quotidianità dei lavori del medico, appunto, e della giornalista, madre della ragazzina impersonata da Claudia Gerini. La bellezza fisica della Gerini è una caratteristica che ben si addice al personaggio che interpreta e che ne è uno degli elementi di distinguo.  Ovviamente, il tocco quasi balcanico ed un po’ zingaresco del corpo di Italia e le sua passiva passione e poi il suo trasporto dovevano, per forza, scuotere la mente del troppo rigido chirurgo.

IL colpo di scena che potrebbe scattare quando rimane incinta la moglie de medico scatta forse, nel momento in cui Italia abortisce e questo va a risolvere i problemi del marito traditore o ad accrescerli a seconda del punto di vista dal cui si osserva tutta la vicenda.

In conclusione, si può affermare che la cosa che è accaduta alla mia pelle per tutta la durata del film e solo la parte visibile delle emozioni che l’opera è capace di trasmettere.

Il regista, quindi, è stato in grado di realizzare un film degno di essere definito tale, oltre che, ovviamente, una Grande Opera. Nunzio Festa

NON TI MUOVERE

Italia, 2003   Regia: Sergio Castellitto Interpreti: Sergio Castellitto, Penelope Cruz, Claudia Gerini.

Non ti muovere è la storia di un amore.

Anzi, la storia di un tradimento.

La storia di una moglie. Di un marito. Di un'amante. Ma anche di una figlia.

Non ti muovere è un "riassunto di vita".

L'incipit del film mostra la scena di un incidente stradale in cui una giovane ragazza viene gravemente ferita e condotta in ospedale; mostra un padre, Timoteo (Sergio Castellitto), medico nello stesso ospedale, ed una madre, Elsa (Claudia Gerini) che, straziati dal dolore, assistono, uniti, alla lotta della figlia tra la vita e la morte.

Fin qui niente di strano: l'incidente della ragazza parrebbe rappresentare nel film lo sconquasso nella vita tranquilla di una famiglia agiata e senza troppi problemi.

Ma ecco che, attraverso i ricordi di Timoteo, il film solleva il velo sugli anni che precedono l'incidente e che sono stati, essi, il vero, primo terremoto nella vita dell'uomo.

E la tranquillità di ora non è che la quiete dopo una tempesta di eventi, sentimenti, e tormenti.

Ecco che allora, attraverso lunghi flashback, Castellitto, alla sua seconda prova da regista, racconta la storia dell'amore clandestino di Timoteo e Italia (Penelope Cruz), un amore che scaturisce da una violenza che l'uomo consuma sulla donna in una torrida giornata estiva di molti anni prima.

Un amore che si snoda nel tempo, sopravvivendo a separazioni, aborti, nascite, morti.

Ci sono immagini e sensazioni che rimangono impresse negli occhi e sulla pelle di chi ha visto Non ti muovere.

Si può quasi "annusare" l'odore acre del sudore misto a polvere e sporcizia della scena dell'incontro tra Timoteo e Italia.

Non si può dimenticare la scena del ballo pazzo di Italia davanti alla casa diroccata che è la sua dimora: gli occhi folli, i movimenti scoordinati delle gambe ossute e la risata amara di chi ha rinunciato ad un sogno.

Non si potrebbe immaginare altra attrice all'infuori della Cruz a dare vita ad Italia.

Perché in questo film Penelope ed Italia sono davvero la stessa persona.

E l'accento un po' stentato della Cruz nulla toglie al personaggio, anzi arricchisce Italia di nuove sfumature.

Un film colmo, traboccante di emozioni che non lasciano indifferenti. Che il film piaccia o meno.

Da sottolineare anche la scelta dei brani che compongono la colonna sonora: un mix inconsueto di musiche originali (firmate da Lucio Godoy); brani - non originali - di autori quali Leonard Cohen e Terence Trent D'Arby; una canzone inedita di Vasco Rossi che, dopo aver letto il libro di Margaret Mazzantini (moglie di Castellitto) da cui il film è tratto, ha voluto dare il suo contributo all'opera cinematografica; ed infine anche un autore talvolta bistrattato come Toto Cutugno, che trova, con la sua "Gli Amori", una perfetta collocazione in questa amalgama musicale che scandisce il ritmo del film. Intransito

 

Kill Bill Volume 1 e 2

Regia: Quentin Tarantino    Interpreti: Uma Thurman, Lucy Liu, Vivica A. Fox, Daryl Hannah, Sonny Chiba, Michael Madsen     Durata: 110 min. (vol. 1), 132 min. (vol. 2)   Paese: USA   Anno: 2003 Genere: Azione, Thriller

Pronto da sfornare in DVD, arriva a settembre la seconda parte della più riuscita saga dell’anno, dopo la chiusura delle trilogia de Il signore degli anelli, firmata Quentin Tarantino. Il regista del pulp sceglie come prima donna dello schermo ancora una volta una stupefacente e allenatissima Uma Thurman in tuta gialla. In due puntate per, in tutto, quattro ore e poco più. Il volume 1 era uscito in formato cd lo scorso mese e già era stato un successo. Il volume 2 ha fatto registrare al botteghino un buon incasso e intende replicare alla sua uscita nelle classifiche di vendita dei DVD. E' già annunciata un’edizione speciale di entrambi i volumi, quindi di fatto questa attuale della prima parte è una versione “light” destinata a chi non ha particolare interesse nei potenziali extra del film o che non resiste ad attendere le prossime evoluzioni. La trama: la Sposa è un’ex-killer che faceva parte dei “Deadly Viper Assassination Squad” assieme alla perfida Elle Driver (Darryl Hannah), Budd (Michael Madsen) e alla giapponese O-Ren Ishii (Lucy Liu). Aggredita e quasi uccisa il giorno delle nozze per ordine del suo padrino Bill, la Sposa entra in coma. Dopo cinque anni, però, si risveglia. Addestrata dai monaci Shaolin allo Zen e alle arti del Kung Fu, diventa una macchina di morte con una sola missione: uccidere Bill. Inizia allora a dar la caccia e ad uccidere uno ad uno i vari componenti della squadra, per arrivare poi al suo obiettivo finale ma... non senza la sorpresa. Dopo una lunga pausa Quentin Tarantino torna a far parlare di sé con questo film grottescamente divertente e prepotente. Una pellicola fuori dagli schemi, un appassionato omaggio del regista ai suoi generi preferiti: film anni '70 di arti marziali, manga, spaghetti western. Un susseguirsi di citazioni e rimandi musicali e visivi a pellicole del passato conditi da una violenza fuori dal comune, talmente esagerata da risultare volutamente ironica. Un film a metà, suddiviso per volere dei produttori (ma forse anche dello stesso Tarantino), che spiazza e divide anche i fan del geniale regista. La pellicola si dipana lungo una struttura non lineare, come accade sempre nei film di Tarantino: ma non solo, c'è addirittura un'intera parte di film che non propone attori e scenografie, bensì sequenze manga, per raccontare la storia di una delle protagoniste. Il tutto accompagnato da una colonna sonora eccellente, che oltre a brani anni '70 accoglie anche pezzi di Luis Bacalov e Bernard Herrmann.   Michela Manente

 

Together with you

Regia: Kaige Chen

Un ragazzino di provincia che suona il violino. Il padre, orgoglioso di lui, che lo porta a Pechino, ma sempre con un cappello da contadino in testa. Una ragazza un po’ frivola e pazzerella, ma col cuore d’oro. Un maestro di violino con i calzini di due colori diversi e decine di gatti nel suo appartamento. La Cina antica dei villaggi rurali e quella moderna delle grandi città. Una storia semplice su cui non dirò molto di più, per lasciare che lo spettatore se la goda fino in fondo. Una storia semplice e un segreto in fondo al cuore.

Tutto questo nell’ultimo film del regista di “Addio mia concubina”, che dimostra, ancora una volta, la sua incredibile capacità di descrivere i rapporti umani. Quello che più stupisce, in questo film, è la capacità di descrivere i sentimenti, come pochi film sono ancora in grado di raccontare, in modo credibile e genuino, senza paura ma anche senza retorica.

Un film da guardare, per piangere e gioire allo stesso tempo, per ricordare che, da qualche parte, in Cina ma non solo, i figli amano ancora i padri e che, dopo tutto, questa è una delle poche cose che contano.  (Silvia Merialdo)

 

L'ultimo samurai

Regia: Edward Zwick   Interpreti: Tom Cruise, Ken Watanabe, Shikinosuke Watamura   USA, 2004

I samurai che non muoiono mai. L’ultima pellicola di Edward Zwick con il sexy over 40 Tom Cruise, lascia tutti a bocca aperta. Prima di tutto per la sua durata eguagliata, per fare un facile paragone, dall’altrettanto interminabile Balla coi lupi (181' ma di cui esiste una versione anche più lunga). Secondariamente per la ricostruzione delle battaglie, la bellezza dei paesaggi orientali curati nella fotografia da John Toll e per la colonna sonora composta da Hans Zimmer, lo stesso de Il gladiatore. La storia: anno 1870. Il capitano Woodrow Algren (Tom Cruise) è un veterano della Guerra Civile, non più soddisfatto della politica del suo Paese nei confronti delle guerre, ora inutili e prive di significato ai suoi occhi. Una volta sarebbe stato disposto a morire per il suo Paese ma ora, durate gli anni della guerra civile, il mondo è cambiato. L’onore è andato perduto durante le campagne indiane, dove gli Stati Uniti sono diventati conquistatori senza scrupoli. Dall’altra parte del mondo c'è un uomo che vede il suo mondo cadere a pezzi sotto i colpi del progresso. E’ il guerriero samurai Katsumoto (Ken Watanabe), ultima guida di un’antica stirpe di guerrieri. Algren viene a contatto con questo mondo quando viene invitato dal giovane imperatore del Giappone Meiji per addestrare le sue truppe alle più avanzate tecniche di combattimento, tentando di fermare l’avanzata dei Samurai che non lo riconoscono come legittimo imperatore. Ma il capitano viene ferito in battaglia e condotto nel campo dei guerrieri giapponesi, dove rimane affascinato dal loro spirito e dall’immenso senso dell’onore che li guida. Le linee del telegrafo e le ferrovie stavano spazzando via i valori che hanno guidato i samurai per secoli. Se l'imperatore vorrà spazzare via ciò che resta di questi nobili guerrieri, il capitano morirà in loro difesa. Un film epico in cui il regista, non nuovo a questo tipo di pellicole fin da Glory, riesce a fondere il dramma del conflitto interiore con la lotta che si consuma in battaglia. La scelta di creare una pellicola senza artifici elettronici, per poter restituire emozioni forti agli spettatori recuperando un gusto antico, ha richiesto notevoli sforzi a cominciare dalle varie location tra Giappone, Nuova Zelanda e USA. La riuscita va ricercata nell'universalità dei temi come lottare per un ideale ed avere un senso dell'onore che porti a rispettare i propri nemici ma anche nel forte impatto emotivo e nella capacità di trascinare lo spettatore nella storia. Michela Manente

 

 

Master and Commander. 

The Far Side of the World Regia: Peter Weir Interpreti: Russell Crowe, Richard Stroh, Pal Bettany, Billy Boyd, Therry Segall USA 2003 Durata: 138'

Azione, dinamismo, sentimento sono le re componenti che fanno di Master&Commander, l'ultima fatica dell'australiano Peter Weir, già noto per L'attimo fuggente e The Truman Show, un grande film candidato a vincere qualche statuetta nella più lunga notte di Hollywood in programma nei prossimi mesi. Un cast importante che vede protagonista l'ex gladiatore Russell Crowe nei panni del capitano Jack Aubrey, per gli amici "Lucky". La sinossi parla delle battaglie in mare ai tempi di Napoleone, quando la nave rappresentava il microcosmo patria da difendere e salvaguardare fino alla morte. Nei mari davanti alla costa del Brasile il vascello di sua maestà britannica "Surprise" viene attaccata dalla Norfolk subendo gravi danni e numerose perdite tra i 197 uomini dell'equipaggio. La scelta da fare per l'impavido e autoritario capitano è tra rientrare in porto oppure inseguire il nemico e riavvalersi del torto. Nella prima ipotesi il film finirebbe in modo poco eroico, non rimane che riprendere la rotta e inseguire la Surprise. Il film è tratto dagli avventurosi ma anche storici romanzi di O' Ban di cui ne rispetta i contenuti senza tralasciare l'aspetto umano legato alle paure che da sempre fanno parte dell'animo umano. Battaglie, contrasti di gerarchie tra ciurma e capitani, orgoglio di potere si ridimensionano alla luce dell'umanità e del sentimento di grandi uomini, innamorati del mare ma a cui sanno rinunciare di fronte agli avvenimenti che vede l'equipaggio coinvolto.  Michela Manente

 

Elephant

Regia: Gus Van Sant

Elephant, uno dei pochi film americani in concorso lo scorso maggio a Cannes, è riuscito a battere tutti i favoriti per aggiudicarsi ben due premi, la Palma d’Oro e il premio per la migliore regia. Cosa non da poco, visto il budget ristretto, gli attori non professionisti e la produzione indipendente. 

Van Sant, regista di Will Hunting genio ribelle e Scoprendo Forrester, ha deciso di rivedere il suo modo di fare film, scegliendo questa volta di girare in modo veramente diverso e originale. Il film si ispira liberamente alla strage nella Columbine High School del 1999, in cui due studenti spararono sui compagni, uccidendo dodici persone fra ragazzi e insegnanti e poi togliendosi a loro volta la vita. Quello della violenza nelle scuole è un tema complesso e di cui difficilmente si vuole discutere, soprattutto negli Stati Uniti. Come afferma il regista, spesso le persone si rifiutano anche solo di ammettere l’esistenza dell’elefante (appunto l’elephant del titolo) che hanno nel loro salotto di casa.

Ad affrontare questo tema ci aveva già pensato Michael Moore con il documentario Bowling per Colombine. Mentre Moore però sceglieva di fornire più informazioni possibili per cercare di dare una spiegazione al fenomeno, Van Sant si limita invece a rappresentare la vita dei ragazzi all’interno della scuola, usando più silenzi che parole e senza neanche lontanamente pensare di fornire risposte o interpretazioni. Ecco allora la vita quotidiana degli studenti in una scuola dell’Oregon in una giornata d’autunno: chi scatta fotografie, chi va a riunioni sulle minoranze sessuali, chi segue le lezioni di fisica, chi discute a pranzo con le amiche. E chi decide di ordinare un fucile via internet per compiere una strage nella scuola.

La regia è sicuramente il punto di forza di un film minimalistico e dalla sceneggiatura essenziale. Pedinandoli alle spalle mentre si aggirano nella scuola, la telecamera segue gli studenti, scegliendo spesso di mettere a fuoco la nuca del ragazzo e di sfocare lo sfondo, quasi a ribadire l’estraneità del mondo in cui vivono. Allo stesso modo sono frequenti  le inquadrature con telecamere fisse degli spazi interni, palestre, aule, corridoi, enormi e vuoti, in cui sembra di perdersi. Le medesime situazioni tornano poi più volte, da differenti punti di vista. Si potrebbe rimproverare il fatto che con una regia tanto ricercata il film risulti un po’ freddo, anche a causa dei ritmi lenti, della sensazione di estraneità e della voluta mancanza di identificazione nei personaggi, poco approfonditi psicologicamente. Forse quel che conta è però il sentimento che rimane alla fine: mostrando l’inspiegabile senza azzardare a spiegarlo o tantomeno a giudicarlo, Elephant ci lascia in preda a inquietanti riflessioni e alla sensazione di avere visto, nella noiosa quotidianità della vita, niente di più che la banalità del male.

L'anima di un uomo

Regia: Wim Wenders  Interpreti: Chris Thomas King, Keith B. Brow  Genere: documentario musicale Usa, 2003

All'origine di tutto c'è l'affascinante mondo del blues. Già sperimentato il film musicale con "The Buena Vista Social Club", il regista di "Il cielo sopra Berlino" approva il progetto di Martin Scorsese di realizzare una serie di sette pellicole su un genere musicale dirette da nomi importanti quali se stesso, Mike Figgis o Clint Eastwood, in occasione della proclamazione dell'"Anno del blues" . Il cineasta tedesco ha scelto di offrire il proprio punto di vista e di presentarlo all'ultimo Festival di Cannes in rappresentanza dell'intero progetto di Scorsere. In "The soul of a man", in italiano "L'anima di un uomo", Wenders esplora la musica e la vita dei suoi artisti blues preferiti degli anni 30/50: Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir. Il tutto inizia con il viaggio dall'Africa al delta del Mississipi, dove la musica si è sviluppata dalle grida nei campi, tramite le canzoni di lavoro e i cori in chiesa, percorre il Mississipi nei locali con juke-box, le feste in casa e gli studi di registrazione di Memphis e Chicago e culmina col coinvolgimento e la fusione emotiva di questo ritmo afro-americano ad opera dei musicisti e della gente di tutto il mondo. Il lavoro del regista è in parte storia, in parte fiction recitata da attori, arricchito in più da rare immagini di repertorio, documentari attuali e cover, cioè reinterpretazioni delle canzoni dei bluesmen in questione eseguite da musicisti. Sono artisti che hanno toccato quel genere o lo interpretano tuttora, come Lou Reed, i Los lobos, Nick Cave, Eagle Eye Cherry, Marc Ribot, Cassandra Wilson, T-Bone Burnett e altri ancora. Vissuti in un'era inadatta a riceve il nuovo genere, i tre idoli del blues ricordati in "L'anima di un uomo" sono morti poveri e dimenticati e il pubblico di oggi ne ignora l'influenza esercitata sulle generazioni di artisti venuti dopo. Ma nel 1977, quando la NASA inviò nello spazio le migliori musiche prodotte sulla terra assieme ad un messaggio registrato in decine di lingue diverse, assieme a Bach e a Beethoven inserì anche "The soul of a man" di Blind Willie Johnson. Michela Manente

City of God (Cidade de Deus)

Regia: Fernando Meirelles   Interpreti: Alexandre Rodrigues, Leandro Firmino da Hora, Seu Jorge, Matheus Nachtergaele   Origine: Brasile, 2002

Un puzzle compatto di storie di violenza, lotte sanguinolente tra clan, spaccio di droga e vendette a Rio de Janeiro. Tratto dall'omonimo bestseller di Paulo Lins, City of God è uscito dal Festiva di Cannes dello scorso anno applaudito dal pubblico e apprezzato dalla critica internazionale. Un film scomodo e duro, però, difficile da guardare per la crudezza delle immagini eppure affascinante e realistico. L'ambientazione è una favela brasiliana, un inferno di delinquenza chiamata per ironia della sorte Cidade de Deus. I protagonisti sono tre generazioni di ragazzi di strada destinati a crescere nella malavita. Il filo conduttore che unisce i pezzi del puzzle è il racconto dell'aspirante fotoreporter Racket (Alexandre Rodrigues) che segue l'ascesa del piccolo trafficante di droga Li'l Zé (Leandro Firmino da Hora) e rivela come la vita nella favela diventa con facilità una vita intrisa di crimine. Si tratta di ragazzi che impugnano armi all'età di 10 anni e che sanno che moriranno non più tardi dei 20. I 200 attori del cast sono tutti non professionisti reclutati tra i migliaia abitanti della favela e "iniziati" al cinema da un corso-laboratorio di otto mesi (che significa improvvisazione, slang, attori che ripropongono se stessi davanti una cinepresa). Il film illustra dieci anni di episodi delle baby-gangs ed usa con intelligenza lo split screen per frammentare il caos della ragione, in una realtà in cui il commercio della droga resta l'unica voce attiva dei bilanci familiari. Nelle favelas non c'è mai possibilità di fuga ma Meirelles, reinterpretando i fatti, riesce a trasformarli in un percorso cosciente e verticale nell'autodistruzione, in cui tutti vivono con l'impulso di premere il grilletto, cercando alleanze che permettano di vedere la luce del sole. Città di Dio è un film senza equilibrio, una cartolina da un Brasile senza regola, senza attrazioni turistiche, senza spiaggia né musiche né carnevali ma vicino al degrado morale, alla decomposizione di una metropoli. Assistiamo a una riproposizione quasi giornalistica, pur se realizzata con tecniche cinematografiche suadenti, di una realtà sconvolgente. Il film è da un lato carico di elementi "tecnici" e dotato di un linguaggio vitale come i suoi colori e di ritmi incalzanti come le sue musiche, dall'altro è arricchito da una dose di indovinata ironia: una regia, insomma, originale e di carattere. Il gangster movie latino americano ha ottenuto un gran successo in Brasile ed è stato esportato in oltre sessanta Paesi dove sta riscuotendo approvazioni.    Michela Manente

LA FINESTRA DI FRONTE

Regia: Ferzan Ozpetek. Interpreti: Massimo Girotti, Giovanna Mezzogiorno, Roul Bova

Roma, sabato pomeriggio. Una coppia di sposi sta rientrando a casa dopo la spesa settimanale, sono giovani, ma non più giovanissimi, e discutono. Discutono animatamente per un episodio banale: ci appaiono subito precocemente logorati dal tempo. Sulla via del ritorno incontrano un uomo molto anziano: ha perso la memoria, non sa più dove si trova. Quest’uomo (Massimo Girotti) entrerà nella loro casa, come ospite sgraditissimo per la giovane moglie (Giovanna Mezzogiorno), ma saprà condurla verso un traguardo inaspettato.

La vita familiare non è affatto semplice, lei deve fare i conti con i 1.000 problemi della routine quotidiana: un lavoro che non ama, un marito buono e gentile, ma incapace di fare i conti con la realtà; i figli da accudire; il magro bilancio domestico da quadrare. Un’unica presenza le rende la vita meno insopportabile, quella del suo vicino di casa (Raoul Bova). Abita nel condominio di fronte, è scapolo, bellissimo, ha una vita brillante, non sembra avere preoccupazioni economiche. Lei non lo conosce, non sa nemmeno quale sia il suo nome, ma lo spia. Lo spia ogni giorno, mentre lui si veste, mente cammina per la casa, mentre fa l’amore. Ignora che lui fa altrettanto.

L’anziano ospite riuscirà a farli incontrare e con il suo esempio mostrerà loro qual è la via giusta da seguire.

Ozpetek usa ingredienti assolutamente tradizionali, ma il risultato che ottiene è molto convincente.

Ci ricorda innanzitutto una cosa banale, eppure sempre sconvolgente: dietro ad ogni vecchio si nasconde il giovane che fu, si nasconde un universo di passioni e di storie, lontane forse, ma non per questo meno vive.

Ed il passato dell’anziano sconosciuto senza memoria riaffiora pian piano, si dipana sotto gli occhi degli spettatori in un crescendo continuo e sapiente, che riesce a coinvolgere ed appassionare.

Passato che si intreccia col presente in un gioco sottile di corrispondenze. Un amore proibito, annientato dalla più grande tragedia del secolo, sepolto dalla coltre degli anni, eppure ancora vivo e sanguinante nella memoria di chi l’ha vissuto, saprà unire due persone che si cercano, saprà indicare loro la scelta più giusta da compiere. La lezione di vita di un vecchio giunto alla fine del suo viaggio cambierà l’esistenza di una giovane donna.

L’intensità drammatica del racconto è notevole, pochi sono i momenti di stanca. Il tono della narrazione non è incalzante, ma il trapasso continuo dal presente al passato è quanto mai azzeccato, e mantiene sempre elevata la tensione narrativa.

Peccato che Ozpetek non voglia lasciare nulla alla fantasia dello spettatore. Peccato che scelga di svelare ogni dettaglio della vicenda, negando a chi guarda il sottile piacere di ricomporre il puzzle che egli stesso ha così sapientemente costruito. Peccato che proprio alla fine si lasci prendere da una pedanteria fuori luogo, e voglia per forza rasserenarci con la solita, previdibilissima, nota di speranza: ognuno di noi è l’unico artefice della sua stessa felicità, basta che lo voglia e la sua vita può cambiare in qualsiasi momento.

Un film, si diceva, che non presenta soluzioni registiche particolarmente originali, ma ugualmente intenso e commovente; un film che sa appassionare e coinvolgere, sicuramente la prova più matura del talento di Ferzan Ozpetek. Quante volte al cinema abbiamo visto qualcuno correre a precipizio giù per le scale, accompagnato da una musica ricca di pathos? Grazie ad Ozpetek scopriamo che ciò può essere ancora emozionante. Davide 

LONTANO DAL PARADISO 

Regia: Todd Haynes Con: Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert.

Uno splendido personaggio femminile è al centro del film di Todd Haynes.

Siamo nel Connecticut, anno 1957. Cathy (Julianne Moore) è la moglie di un dirigente d’azienda; trascorre le sue giornate dividendosi tra la casa, i figli e le amiche, nell’agiatezza e nella mondanità domestica di una vita borghese spesa in una città di provincia.

Il suo mondo perfetto però comincia pian piano a sgretolarsi: dapprima la scoperta incredibile dell’omosessualità del marito (Dennis Quaid); poi il crescere di un rapporto nuovo fra lei ed il suo giardiniere di colore.

Man mano che il dramma dilaga nella sua vita, però, il fascino e la forza di Cathy non fanno che crescere.

I suoi splendidi abiti, scolorando dal viola al pervinca, dal rosa all’azzurro, diventano sempre più impeccabili. La sua disponibilità nell’aiutare e perdonare il marito che l’ha tradita è commovente; la sua nobiltà nel difendere la causa dell’integrazione razziale in un mondo di conservatori reazionari è ammirevole.

Cathy con la sua leggiadria, con la sua forza che non dimentica la gentilezza, svetta su tutti: sul marito, che si perde in un abisso di ignominia; sulle amiche, appagate da un’agiata quotidianità fatta di ipocrisia, maldicenza, grettezza. Forse soltanto il giardiniere nero sarà un compagno degno di stare al suo fianco.

Il tono scelto da Haynes per raccontarci la storia di Cathy è quello della malinconia: aiutato dalla struggente colonna musicale di Elmer Bernstein il regista ci narra una realtà in cui il dramma intimo di una donna (e forse ancor prima la sua stessa insoddisfazione per il ruolo sociale che le viene imposto) si consuma sottovoce, nascosto da un sorriso, in un autunno eterno, che si dipana sotto gli occhi dello spettatore in una pioggia continua di foglie morte; solo l’apparire di un ramo fiorito alla fine del film ci dirà che forse qualcosa nella vita di Cathy è realmente cambiato.

L’operazione complessiva però non convince fino in fondo.

Ciò che non si può perdonare a Todd Haynes è di aver usato due temi così impegnativi, l’omosessualità e l’integrazione razziale, unicamente per raccontare la parabola umana di una moglie borghese; la complessità è estranea a questo film: tematiche così vaste avrebbero meritato ben altri sviluppi.

Quantunque il regista riesca sempre a mantenere un rigore formale davvero ammirevole, l’omosessualità viene raffigurata con le immagini più scontate: un cinema equivoco, un incontro casuale con un giovanotto aitante durante una vacanza. Il travaglio interiore del marito di Cathy è appena abbozzato; si sente in colpa (ma non verso la moglie) e soffre: tutto qui. Nulla ci viene raccontato dei suoi desideri, nulla dei suoi tarli, nulla dei suoi dubbi, nulla delle sue ansie, nulla delle sue angosce, nulla dei suoi sentimenti.

Nella rappresentazione dell’odio razziale, poi, il manierismo di Haynes si fa ancor più marcato. Ci mostra in sequenza: signore bianche maldicenti, persone di colore povere ma allegre, una bambina di colore presa a sassate dai compagni, e alla fine il voltafaccia inaspettato di un’amica, irrecuperabilmente razzista.

Uno stile impeccabile, quindi, ma senza alcuno spunto di originalità.  Davide 

 

Bowling for Columbine

Grasso, cappellino da baseball in testa, Micheal Moore sembra proprio il tipico stereotipo americano. Eppure il suo Bowilng for Columbine, film documentario recentemente premiato con un Oscar, è tutto tranne che filoamericano.

Bowilng for Columbine si propone di spiegare come mai gli Stati Uniti siano il paese al mondo con più omicidi da arma da fuoco. Il titolo richiama la strage della scuola di Columbine nel 1999, quando due studenti, dopo una partita di bowling, spararono sui compagni, uccidendo 12 persone fra ragazzi e insegnanti e poi togliendosi a loro volta la vita.

Il documentario propone una serie di interviste a vari personaggi legati al mondo delle armi nei modi più diversi: gente comune armata fino ai denti, esponenti dei media, parenti delle vittime, Marilon Manson, forse fra tutti il più innocuo ed equilibrato, Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, difensore della libertà di possedere armi come prima libertà fondamentale.

Non ci sono solo interviste, ma una serie di materiale proveniente da fonti diverse cucito insieme dalla personalità di Moore come un patchwork con ritmi serrati e con una musica invadente, che descrive il fenomeno in maniera apertamente provocativa e a tratti esilarante (grandioso il cartone animato che ripercorre la storia degli Stati Uniti in versione South Park), spesso sfociando in giudizi sulla politica interna ed estera degli Stati Uniti, estremamente attuali in questi giorni di guerra.

Tutto questo tenendo alto il livello di intrattenimento, esempio di come argomenti seri possano essere trattati modo divertente, geniale e coinvolgente.

La tesi finale di questa analisi sembra essere che, più che l’impressionante facilità con cui le armi da fuoco sono disponibili, la responsabilità sia della cultura della paura che infonde il bisogno di un nemico a tutti i costi, sia esso Saddam, Bin Laden, il giovane di colore della periferia o il vicino della porta accanto.

Prima di andare a vedere questo documentario mi chiedevo quanto mi potesse interessare veramente una questione che in fondo è un problema interno degli Stati Uniti. Avendolo visto, ho scoperto invece che mi interessa moltissimo, a tutti interessa, perché altro non è che un’immagine del paese che oggi si permette di decidere la sorte del mondo, un’ulteriore inquietante rappresentazione del sistema americano a tutti i livelli, dalle classi sociali più povere fino al presidente Bush. Per fortuna, insieme alla costernazione nel vedere certe cose, rimane anche una minima goccia di speranza nel sapere che ci sono personaggi come Moore ancora in grado di pensare criticamente. Silvia 

8 MILE

Regia: Curtis Hanson   Interpreti: Eminem, Kim Basinger

Vincitore di un premio alle ultime assegnazioni degli Academy Awards, “8 Mile” firma la sua permanenza e riproposizione nelle sale cinematografiche. Nomination: music, ovvero miglior canzone. “And the Oscar goes to”… “Lose Yourself”, Music by Eminem, Jeff Bass and Luis Resto; Lyric by Eminem. In TV durante la tarda diretta della 75esima edizione della notte delle stelle di Hollywood il 23 marzo scorso, si commentò che era un’assegnazione ardita. Ma il vincitore non esce dalle quinte, non si presenta nemmeno in teatro. Meglio così, avrebbe detto qualche parola di troppo sul conflitto in Iraq o si sarebbe esibito in freestyle con un testo inedito sull’“inestirpabilità” della violenza, sul mondo difficile di oggi. Come è stato il suo, del resto: una condizione di povertà ed estrema precarietà che fa da sfondo alle vicende autobiografiche del film firmato da Curtis Hanson. Per il cantante americano si tratta di un debutto sul grande schermo controverso ma, in fondo, convincente se ha sbaragliato gli altri candidati della serata a stelle e strisce: “Chicago”, “Frida”, “Gangs of New York” e “The wild thornberrys movie”. 

Sinopsi: un giovane rapper bianco combatte per cambiare la sua vita infelice scrivendo nuovi versi e  proponendo il mondo della musica come alternativo a quello della fabbrica. L’incompreso protagonista Jimmy Smith, Jr. (Eminem) desidera esser più di quel che è.  Il suo sogno è di  incidere un demo e di farsi conoscere ma l’unico palcoscenico che calca nel film è quello di un locale squallido per rapper di colore dove dimostra il suo genuino talento alla presenza d’un folto pubblico. La condizione degli amici di Jimmy è la stessa: povertà e desolazione. Ambientato in un quartiere povero di Detroit, l’aspirante rapper chiamato Rabbit preparerà giorno dopo giorno la sua parziale vittoria finale.

Eminem, il cui vero nome è Marshall Bruce Mathers III, di fronte alla telecamera appare credibile. Una performance che potrebbe avere un seguito cinematografico ma, soprattutto, che veicola in maniera positiva l’azione pubblicitaria sulla produzione musicale contenuta nel suo ultimo disco “8 Mile”.

Ci sono alcuni momenti genuini e brillanti nel film: una sequenza in cui Jimmy e l’amico Phifer soprannominato "Future" improntano un rap sull’assurdità della loro condizione di vita e un’altra in cui il protagonista manifesta l’amorevole relazione con la sorellina Lily, figlia di una madre alcolizzata (Kim Basinger) e sentimentalmente instabile. Tuttavia il materiale narrativo appare spesso ripetitivo, rendendo meno efficace il lato drammatico e realistico della vicenda.

C’è chi ha scritto che abbiamo già visto storie come queste in “Karate Kid”, in “Rocky”, ne “La febbre del sabato sera” o in “Flashdance”: qui in più c’è la colonna sonora.   Michela Manente

Lose Yourself

Look, if you had one shot, one opportunity
To seize everything you ever wanted-One moment
Would you capture it or just let it slip?

His palms are sweaty, knees weak, arms are heavy
There's vomit on his sweater already, mom's spaghetti
He's nervous, but on the surface he looks calm and ready
To drop bombs, but he keeps on forgettin
What he wrote down, the whole crowd goes so loud
He opens his mouth, but the words won't come out
He's chokin, how everybody's jokin now
The clock's run out, time's up over, bloah!
Snap back to reality, Oh there goes gravity
Oh, there goes Rabbit, he choked
He's so mad, but he won't give up that
Is he? No
He won't have it , he knows his whole back city's ropes
It don't matter, he's dope
He knows that, but he's broke
He's so stacked that he knows
When he goes back to his mobile home, that's when it's
Back to the lab again yo
This whole rap shit
He better go capture this moment and hope it don't pass him

[Hook:]
You better lose yourself in the music, the moment
You own it, you better never let it go
You only get one shot, do not miss your chance to blow
This opportunity comes once in a lifetime yo

The soul's escaping, through this hole that it's gaping
This world is mine for the taking
Make me king, as we move toward a, new world order
A normal life is borin, but superstardom's close to post mortar
It only grows harder, only grows hotter
He blows us all over these hoes is all on him
Coast to coast shows, he's know as the globetrotter
Lonely roads, God only knows
He's grown farther from home, he's no father
He goes home and barely knows his own daughter
But hold your nose cuz here goes the cold water
His hoes don't want him no mo, he's cold product
They moved on to the next schmoe who flows
He nose dove and sold nada
So the soap opera is told and unfolds
I suppose it's old potna, but the beat goes on
Da da dum da dum da da

[Hook]

No more games, I'ma change what you call rage
Tear this mothafuckin roof off like 2 dogs caged
I was playin in the beginnin, the mood all changed
I been chewed up and spit out and booed off stage
But I kept rhymin and stepwritin the next cypher
Best believe somebody's payin the pied piper
All the pain inside amplified by the fact
That I can't get by with my 9 to 5
And I can't provide the right type of life for my family
Cuz man, these goddam food stamps don't buy diapers
And it's no movie, there's no Mekhi Phifer, this is my life
And these times are so hard and it's getting even harder
Tryin to feed and water my seed, plus
See dishonor caught up bein a father and a prima donna
Baby mama drama's screamin on and
Too much for me to wanna
Stay in one spot, another jam or not
Has gotten me to the point, I'm like a snail
I've got to formulate a plot fore I end up in jail or shot
Success is my only mothafuckin option, failure's not
Mom, I love you, but this trail has got to go
I cannot grow old in Salem's lot
So here I go is my shot.
Feet fail me not cuz maybe the only opportunity that I got

[Hook]

You can do anything you set your mind to, man

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perderti

 Guarda,
se tu avessi una possibilità,
un'opportunità
Di afferrare tutto ciò
che hai sempre voluto…
un momento
Lo cattureresti
o lo lasceresti scivolare via?
[Verso 1 - Eminem]
Yo
Le sue palme sono sudate,
le ginocchia deboli, le braccia pesanti
C'è già del vomito sulla sua felpa,
gli spaghetti della mamma
È nervoso, ma in superficie
appare calmo e pronto
A sganciare bombe,
ma continua a dimenticare
Quello che ha scritto,
la folla grida così forte
Lui apre la bocca
ma le parole non vogliono uscire,
Soffoca,
come tutti lo prendono in giro adesso
Il tempo è scaduto,
finito, bloah!
Torna alla realtà,
oh ecco che se ne va la gravità
Oh ecco Rabbit , è sconvolto
È così arrabbiato, ma non rinuncerà
Vero? No
Non lo sopporta
Conosce tutti i segreti della sua città
Non importa, è bravo
Lui lo sa, ma è povero
E' così incasinato che
Quando ritorna alla sua roulotte
Gli vien voglia di tornare di nuovo
Allo studio di registrazione yo
Tutta questa roba rap
Farebbe meglio a catturare
questo momento
Sperando che non passi via

[Ritornello x 2 - Eminem]
Faresti meglio a perderti nella musica,
e quando la possiedi,
è meglio che non la lasci mai andare
Hai solo una possibilità,
non perdere l'occasione di far successo
Questa opportunità viene
una volta sola nella vita

[Verso 2 - Eminem]
L'anima sta scappando
da questo buco che si allarga
Questo mondo è mio perchè gli incassi
Fanno di me un re,
mentre ci muoviamo verso
un nuovo ordinamento del mondo
Una vita normale è noiosa,
ma la supercelebrità
è vicina all'autopsia
Diventa solo più difficile,
diventa solo più caldo
Lui ci placa tutti,
queste puttane gli sono tutte addosso
Spettacoli da una costa all'altra,
è conosciuto come il giramondo
Strade solitarie, Dio solo lo sa
È cresciuto lontano da casa,
non è un padre
Torna a casa
e riconosce a malapena sua figlia
Ma tappati il naso perché adesso
arriva la doccia fredda
I suoi capi non lo vogliono più,
è roba superata
Sono passati al prossimo che rappa
lui ha il faccino pulito e non ha venduto nulla
Così la telenovela è stata raccontata e svelata
Suppongo che sia vecchia, amico,
ma il ritmo continua
Da da dum da dum da da

[Ritornello x 2 - Eminem]

[Verso 3 - Eminem]
Niente più giochi,
cambierò quello che chiamate rabbia
Strapperò via questo fottuto tetto
come due cani in gabbia
Scherzavo all'inizio,
adesso l'umore è cambiato
Sono stato masticato, risputato
e cacciato a fischi dal palco
Ma ho continuato a rappare
ed a scrivere la prossima cifra
È meglio credere che qualcuno
stia pagando le spese
Tutto il dolore dentro
è amplificato dal fatto
Che non posso farcela
col mio lavoro dalle 9 alle 5
E non posso fornire il giusto
tipo di vita alla mia famiglia
Perché amico, questi maledetti
buoni pasto non comprano i pannolini
E non è un film,
non c'è nessun Mekhi Phifer ,
questa è la mia vita
E questi tempi sono così duri
e si fanno ancora più duri
Cerco di nutrire e
innaffiare il mio seme, in più
Vedo il disonore raggiunto essendo
Un padre e una prima donna
Il dramma di mamma
continua ad urlare e
Troppo per me per voler
Restare in un posto,
un altro concerto o no
Mi ha portato al punto
che sono come una lumaca
Devo escogitare un piano
prima di finire in prigione o ucciso
Il successo è la mia sola
fottuta opzione,
non il fallimento
Mamma, ti voglio bene,
ma questa traccia deve andare avanti
Non posso invecchiare a Salem's Lot
Perciò me ne vado, è la mia occasione
Piedi, non traditemi perché forse
È l'unica opportunità che ho

[Ritornello x 2 - Eminem]

[Outro - Eminem]
Puoi fare qualsiasi cosa
ti metti in testa, amico

Ricordati di me

Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Monica Bellucci

Sono affollate in questi giorni le sale cinematografiche per la visione di “Ricordati di me”, il film di costume post “Ultimo bacio” firmato Gabriele Muccino. Uno spaccato realistico sui nostri giorni in una grande città, una famiglia di media classe alle prese con i ritmi incalzanti della vita moderna: due ultraquarantenni Giulia e Carlo (Laura Morante e Fabrizio Bentivoglio) ancora sedotti dal loro passato giovanile fatto di sogni irrealizzati e, soprattutto, di amori non del tutto appagati. Hanno due figli Valentina e Paolo (Nicoletta Romanoff e Silvio Muccino), diciottenne lei e liceale lui, alle prese con la modernità spersonalizzante imposta dai modelli televisivi (lei dal fisico esile che sogna di diventare “velina”) mentre il ragazzo (è il fratello del regista) veste come “uno sfigato di sinistra mentre il mondo va da tutt'altra parte” come gli rimprovera la sorella. Il cast è ben assortito, completato dai cammei di attori che interpretano in parte se stessi, a partire da quelli diremmo colti, come Gabriele Lavia, Amanda Sandrelli e soprattutto Blas Roca Rey, mentre fra quelli di invenzione televisiva figurano Andrea Roncato (che si replica da decenni a “Domenica in”), Pietro Tarricone (il palestrato del “Grande fratello” 1) e Enrico Silvestrin che conduceva in tv “Taratatà”. Infine troviamo Monica Bellucci in un ruolo discreto da madre in carriera, insoddisfatta, che ritrova il vecchio amore di Carlo.

Fin qui la dovuta citazione dei personaggi che danno corpo alla quotidianità asfittica all'interno delle mura domestiche dominate dalla tv sempre accesa e dal telefono che squilla in continuazione. E l'amore? Quello è dentro di noi, nel profondo e ogni tanto riaffiora mutuato dall'amore per la letteratura o per il teatro, dall'ambizione a diventare visibili e riconosciuti, dall'amore per la compagna di liceo. Dal desiderio, insomma, di riappropriarsi di un io alle prese con un ritmo faticoso dell'esistenza che si trascina in giorni sempre uguali. E l'amore? La passione sarà quella di volare altrove credendo per un istante di far rivivere, nell'adulterio ad esempio, quel passato che irrimediabilmente non potrà ritornare. E ciò che resiste, nonostante tutto, è il perimetro della casa, quale ultimo baluardo nelle bufere di fughe e rientri: non tanto per scelta quanto per una imposizione da “trappola familiare” che la società borghese in qualche modo impone. In uno slancio di “buonismo” Muccino chiosa il film come diversamente non avrebbe potuto, lasciandone inalterato il ritmo e l'ispirazione: ognuno porta a termine ciò in cui crede. Ma è stata la consapevolezza che tutto poteva finire (con l'incidente del padre) a mettere in moto le proprie potenzialità?

Questo film chiude idealmente una trilogia di opere italiane appena uscite, legate dal filo rosso del sentimento, accomunate da parole simili e contesti diversi: anima, cuore e ricordo. Parliamo di “Prendimi l'anima” di Faenza, di “Il cuore altrove” di Avati e dell’ultimo film di Muccino. Un filo conduttore verso il ripensamento dei sentimenti che non fa mai male, a riprova che il cinema italiano può realizzare film buoni a partire dai rapporti più intimi.   Michela Manente

PANTALEON E LE VISITATRICI

Il film peruviano alla rassegna del Piccolo Teatro di Padova

A quanti hanno rinunciato alle ragioni del cuore, e sacrificano la vita alla carriera, a valori freddi e possibilmente ordinati, al gusto di assaporare la trasgressione ossia quel briciolo di natura che pulsa almeno una volta nella vita; a quanti pensano che il Sudamerica sappia esprimersi solo a telenovele clonate e importate a pane e carne di manzo, e che attrici mozzafiato non possano interpretare che la parte delle galline platinate, il cinema sudamericano offre un piccolo gioiello di ironia e freschezza che forse non ha paragoni perché è difficile trovare un precedente che non scada nella commediaccia nostrana (puntualmente rivalutata, nell’assoluta mancanza di idee nuove), e se lo confrontassimo con certo cinema occidentale non potremmo che vergognarcene.

Un film che sembra nascere da una costola di “Apocalypse now” ma che deraglia rapidamente e segue una sua strada, ironica e beffarda verso ogni serietà espressiva, che fugge l’antologia mediatica e si rifugia nel solare, accecante piacere di vivere. Un film che prevede tutto senza mai essere prevedibile; che esplora in maniera disincantata e ironica la vita e l’amore, la noia e la morte. Un viaggio in quella parte di mondo che non visiteremo mai, fra foreste vergini e altipiani sottozero, ai confini di una civiltà che fino a ieri era opposta alla nostra, e che oggi viaggia a suon di computer e radio indipendenti dispettose e telefoni cellulari su barche di legno e palafitte, inseguendo i meandri di un fiume sinuoso che è ritratto in natura di loro, le visitatrici. Immaginiamoci cosa avrebbe fatto un regista delle nostre parti con un soggetto del genere. Negli anni ’70 abbiamo riempito gli schermi anche di questo, consolazione a militari in libera uscita che cercavano la forma del loro piede, film piatti per le loro teste piatte. Abbiamo riso finché eravamo il sesso forte, ora ci guardiamo intorno e le donne e i paesi lontani ci insegnano un modo nuovo di guardare l’erotismo e la prostituzione, il bene e il male che è in ogni cosa, la gioia di vivere il momento, con un umorismo sincero, sottile fino in fondo, molto al di sopra dei cosiddetti onore e disciplina.

Un film da vedere e rivedere per capire che si può ridere di tutto, del concetto di patria come del sesso, del matrimonio e delle case chiuse, delle manie di estrema destra e di quelle di estrema sinistra, per tornare ad osservare il mondo con uno sguardo pagano, primigenio. Un inizio in rapida discesa verso l’ilarità, un procedere sempre più faticoso fra le mille pieghe della vita, fra i muscoli e la paternità, vittime comunque di un’autoimposta obbedienza che fa a pugni con l’istinto, e un finale straordinario che ci regala un ultimo sorriso su quanto sciocca è la vita, nel bene e nel male, nelle illusioni e nella realtà.

So che non ho detto nulla del film. È per farvelo godere fino in fondo.  Claudio    

www.piccolo-padova.it

LA LEGGENDA DI AL JOHN & JACK

Il film di Aldo Giovanni e Giacomo alla rassegna del Piccolo Teatro di Padova

 

Dopo aver a lungo ammiccato all’America nei film precedenti, stavolta Aldo Giovanni e Giacomo puntano in alto e raggiungono al cuore il loro sogno, la fonte d’ispirazione di mille gags, la New York dei gangster degli anni ’50 che tuttavia, quanto a tecnica registica, si ispira più all’ironia criminale e cinica delle Iene di Tarentino. Ghette e gessato, brillantina e riga in mezzo, il carattere delle tre maschere resta tuttavia lo stesso: il furbo, l’ingenuo e l’imbranato alle prese con un intreccio di cui si capisce lo svolgimento man mano nel tempo, e che trova una spiegazione definitiva solo nelle ultime scene. Gran merito dei tre autori che, con il consueto aiuto del co-sceneggiatore Massimo Venier, confezionano una storia ricca di una suspance sempre ai limiti dell’ilarità, elaboratissima, a continui flash-back la cui attendibilità resta sempre in sospeso.

Attorno a questo, un divertente modo di affrontare il problema dell’identità, che stravolge tutte le certezze e può rendere un povero imbecille uno pronto a tutto purché gli si faccia credere di aver avuto un certo passato. Un film che inizia decisamente in salita, fra gags già viste mille volte (la pistola difettosa, l’impasticcato folle, la mangiata multipla al gioco della dama) e continue citazioni cinematografiche che vanno dal “Vertigo” di Hitchcock all’immortale “Blade Runner” (la fin troppo classica passeggiata sul cornicione, il traliccio che lascia sospesi nel vuoto) al cerbiatto di Biancaneve, addirittura alla lavanderia Jefferson. E nonostante questo inizio fiacco, come a sorpresa, il film decolla e prende quota man mano che avanza, quando l’elaboratissimo intreccio smette di farsi beffe dello spettatore e accetta di palesarsi a noi poveri umani. Con la bella trovata finale dei titoli di coda inframezzati all’ultimo capitolo della saga dello smemorato, alle prese con una divertente parodia dei film di box in bianco e nero, un po’ Jerry Lewis un po’ Rocky, tanto per non smentire la voglia di pescare dappertutto.

Girato in una New York che dopo il crollo delle due torri ha drammaticamente riacquistato il suo profilo di un tempo, esplorata nel suo ventre, nei vicoli-cunicoli dove la malavita regna sovrana, con sagome e figure scelte alla perfezione per imitare i boss e i picciotti, la regia stessa per colori e inquadrature si ispira ai classici gangster-movies e ne sembra chiudere il lungo capitolo, esportandolo in Italia in chiave comica. Una leggenda che, come recita il titolo forse troppo altisonante (una trovata pubblicitaria?) dura in realtà solo lo spazio di un giorno, una prova stanca ma che carbura ancora comicità, anche se non sappiamo quanto a lungo potrà ancora funzionare. Ok Al John e Jack, adesso concedetevi una pausa di riflessione.  Claudio   www.piccolo-padova.it

Le due torri 

Dopo un’attesa lunga un anno, è finalmente arrivato nelle nostre sale il secondo capitolo della trilogia “Il Signore degli Anelli. Chi considera questo film un sequel si sbaglia di grosso, il regista proprio per non lasciare dubbi ci immerge direttamente nella storia come se avessimo appena visto la prima parte: niente prologo! Giusto un piccolo flashback giusto per ricordarci dove eravamo rimasti, anche gli accenni al primo film sono minimi!

Lo stile di narrazione del film segue quello originale del libro dando molto spazio al dialogo ed allo sviluppo interpersonale dei protagonisti. Le due torri sembra quasi rallentare e poi accelerare il ritmo degli eventi in modo da farci conoscere meglio i nostri eroi. Peter Jackson, molto astutamente ha scelto di narrare in contemporanea le storie dei tre gruppi di personaggi, creando un notevole intreccio, piuttosto che seguire la divisione in due parti scelta originariamente da Tolkien.

La faccenda è drammatica, i fatti narrati riguardano il periodo più buio di tutta la storia: Saruman vuole attaccare gli umani di Rohan, Sauron quelli di Gondor, Merry e Pipino sono stati rapiti, Frodo è ormai succube dell’anello, gli elfi hanno abbandonato gli uomini al loro destino… ma nonostante tutto come dice anche Arwen, “C’è ancora speranza”, perché c’è il vero protagonista del film: Aragorn disposto a morie pur di proteggere re Theoden e tutta la sua gente.

L’atmosfera si fa quindi tesa, il pathos cresce per sfociare nella più maestosa delle battaglie viste sul grande schermo: l’assedio al Fosso di Helm!

Gli effetti speciali, le armi, i costumi, le musiche…tutto rende questo film un’esperienza unica da Oscar!

Un applauso va riservato alle performances di Elijah Wood: un Frodo sempre più sofferente e tormentato; Viggo Mortensen: Aragorn è forte, bello è coraggioso, indimenticabile la scena con lui in cima alla fortezza a dare ordini in elfico alle truppe; Ian McKellen: (già premio Oscar), un Gandalf rinnovato è pieno di carisma come non mai; e per finire John Rhys-Davies: Gimli, il nano che con le sue uscite ci fa morire dalle risate!

Insomma, un grande film da non perdere! Per ulteriori informazioni il sito officiale della trilogia è www.lordoftherings.net. Nerys

SPIDER

Spider , con Ralph Fiennes..

un film altamente psicologico, una peregrinazione nel ricordo, una vita vissuta due volte...
l'inizio lo vede scendere da un treno e la fine risalire su una nera macchina che lo porterà dal luogo da cui era uscito...
Un film che è la visione di un tragico avvenimento che, fino la fine, e poi oltre, non si saprà se reale o frutto della sua confusa mente o dei suoi ricordi sfocati...
L'interpretazione di Fiennes rasenta il sublime, gesti, parole sussurrate, scritte veloci su un quadernino che non sono altro che le fasi della sua vita da bambino che risalgono dai meandri della sua mente confusa per palesarsi lucide come fossero appena avvenute.
Lento cammina per le vie di Londra, una Londra immersa nello squallore che viene calpestata dalla giovane figura del bambino e dalla stanca figura di lui adulto...barriere temporali abilmente cancellate, interazioni tra passato e presente, rielaborazioni mentali, ricordi, dolore e, forse, senso di pace e protezione quando silente siede nel sedile posteriore della vettura.

Un film degno di Cronenberg. Fede

L’uomo senza passato

Regia: Aki Kaurismaki

“Molto tempo fa ho dichiarato di voler fare dei film che anche una contadina cinese potesse comprendere. Il cinema avrebbe dovuto essere l’esperanto del mondo, ma il denaro ne ha distrutto la speranza”.

Con questa affermazione Aki Kaurismaki, il regista finlandese di “L’uomo senza passato”, riflette chiaramente un’idea del cinema molto estrema e totalmente anticommerciale, tanto che pochi anni fa ebbe il coraggio di girare un film muto e in bianco e nero (con ovvio insuccesso di pubblico).

Con “L’uomo senza passato” e la vittoria del premio speciale della giuria e per la miglior attrice a Cannes, sembra che i suoi sforzi siano stati finalmente premiati.

Il film parla di un uomo che a seguito di un’aggressione perde la memoria. Dopo la fuga dall’ospedale, si ritrova a vivere in una comunità di diseredati che abitano all’interno di containers vicino ad un porto, trovando alloggio, cibo e cure grazie alla solidarietà di questa povera gente e dell’Esercito della Salvezza. La storia di chi ha subito un’amnesia è una costante di molti film, ma qui la perdita della memoria è un particolare quasi insignificante: il protagonista non si preoccupa più di tanto di ricercare la sua identità, pensando invece a vivere il presente e a costruirsi un futuro, “uomo senza passato” a tutti gli effetti.

Il film gioca invece su un’ironia fredda, su dialoghi laconici, sui volti degli attori che non ridono mai ma che fanno sorridere di tenerezza, su situazioni paradossali trattate in modo assolutamente normale e sempre un po’ sottotono, sulle minestre dell’Esercito della Salvezza, sulle patate coltivate nell’orticello, sul poetico romanticismo remoto di una storia d’amore che difficilmente definiremmo tale, sulla musica a metà fra rock e motivi malinconici, sulle inquadrature quasi da film muto con colori forti e freddi.

Finalmente un film diretto con lucida semplicità, che guarda alla quotidianità di chi ancora crede nella parola “solidarietà”, che descrive la vita di persone ai margini della società senza trasformarla in accusa sociale. Finalmente un film con ancora qualche speranza sulla dignità umana.  Silvia 

 

Il mio grosso grasso matrimonio greco

Regia: Joel Zwick   Interpreti: Nia Vardalos, John Corbett, Lainie Kazan, Michael Constantine, Gia Carides  

La favola di Cenerentola nuovamente sul grande schermo. Solo che questa volta la protagonista della vicenda è una corpulenta ragazza greca e il setting è tutto americano. Toula Portokalos (Nia Vardalos) ha trent'anni, è nubile e vive con i genitori in un quartiere non troppo lussuoso di Chicago. Lavora nel ristorante di famiglia "Dancing Zorba" assieme al padre Gus che sogna per lei un matrimonio con un bravo ragazzo greco, la madre Maria, ottima cuoca e conservatrice delle tradizioni e il fratello, mentre la sorella minore, già sposata, continua a "sfornare" bambini. Le giornata di Toula sono scialbe e noiose come i suoi capelli, i suoi vestiti e il suo modo di fare. Rifiuta l'offerta del padre di essere spedita in Grecia per trovare marito e continua a sognare ad occhi aperti sperando di dare una svolta ad una vita a cui fino a quel momento non ha fornito alcun apporto soggettivo. Dopo un primo scontro con il padre, e grazie alla complicità della madre, ottiene il consenso per seguire i corsi di computer all'università: presa da una rinata vitalità adolescenziale, modifica il proprio look, si mette le lenti a contatto, aggiusta l'acconciatura e si inserisce nella nuova realtà. Il passo successivo sarà convincere la famiglia a farla lavorare nell'agenzia di viaggi della zia. Ottenuto il posto, viene notata da un giovane professore che aveva già incontrato la prima volta al ristorante, rimanendo letteralmente paralizzata, simile ad una delle statue greche poste nel giardino della villetta dei genitori. Il nome dell'uomo è Ian Miller (John Corbett): i due cominciano a frequentarsi, a piacersi, finendo per innamorarsi. Ma Ian è uno straniero e, per giunta, vegetariano: come far accettare la situazione alla mentalità retrograda del padre? Quale strategia usare per inserire il fidanzato nel clan familiare di Toula, formato da zii e zie, la nonna e ventisette cugini di primo grado, pettegoli e pronti a intervenire in ogni scelta personale? Nell'happy end finale, i genitori un po' snob e sofisticati di Ian incontrano la famiglia di Toula: Ian si fa battezzare acconsentendo a celebrare il matrimonio con il rito greco-ortodosso e al matrimonio segue, come nelle miglior tradizioni greche, con una festa dove il ballo e il cibo sono le note dominanti.

In America il film, prodotto da Tom Hanks e dalla moglie, è stato uno degli "outsider" di maggior successo, grazie ad una buona campagna pubblicitaria, al favore della critica e al passaparola tra spettatori. Ritmato e divertente, forse in alcuni punti scontato e non sempre felice nei dialoghi per le difficoltà di traduzione dall'americano all'italiano, soprattutto quando il padre fornisce spiegazioni etimologie sulle parole considerandole tutte derivanti dalla lingua greca, il film si basa sulla brillante pièce teatrale scritta da Nia Vardalos, allieva della compagnia teatrale "Second City". Il tema di fondo è l'integrazione razziale, non originale nei termini ma proposto con estrema cura nei dettagli e un apporto musicale originale. Michela Manente

Baciate chi vi pare (Embrassez Qui Vous Voudrez)

Regia: Michel Blanc Interpreti: Charlotte Ramplig, Jacques Dutronc, Carole Bouquet, Michel Blanc

Una commedia degli equivoci… alla francese. Il genere in questione protende, nelle ultime produzioni, verso una rappresentazione alquanto vivace della società d'oggi, mettendo in scena soprattutto le difficoltà nel relazionarsi con l'altro, sia nei rapporti di coppia che in quelli familiari o nei gruppi di amici.

In Baciate chi vi pare si intersecano le vicende personali di una serie numerosa di personaggi alle prese con i loro problemi esistenziali. Le tipologie ci sono tutte: l'adolescente confuso, la moglie tradita e consapevole, l'amante del marito della sua migliore amica, il cinquantenne alle prese con una rinata vitalità anche ambiguamente omosessuale, il fratello geloso, la ragazzina impertinente e viziata, la ragazza-madre alla disperata e non proficua ricerca di una relazione fissa, la moglie insoddisfatta e il marito suicida, entrambi sull'orlo del tracollo finanziario, il marito geloso e la moglie insofferente e isterica, l'infedele cronico collezionista di storie. I nomi dei personaggi, in questo caso, poco importerebbero. Interessa piuttosto l'ambientazione della vicenda: una ricca casa signorile alle porte di Parigi con tanto di giardino e barbecue e una località balneare in Normandia dove il gruppo si ritrova per trascorrere le vacanze. Il carosello si presenta confuso e, allo stesso tempo, divertente, intelligente e graffiante nella sua mediocrità borghese che pure trae spunto dalla vita di tutti i giorni.    Michela Manente  

Il pianista

Regia: Roman Polanski    Interpreti: Adrien Brody, Thomas Kretschmann

Incancellabile. Fissa nella nostra memoria la tragedia compiuta dalle truppe naziste ai danni degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale non finisce di stimolare i registi e produrre decine di pellicole. Il regista Roman Polanski ha un motivo in più, dal momento che ha vissuto in prima persona la deportazione nei campi di lavoro dopo l'invasione tedesca del settembre '39. Sullo schermo ha voluto raccontare una vicenda simile alla sua, facendo vedere i dolori di una tragedia di proporzioni immani, con i gerarchi terribili, la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia nel cosiddetto "Distretto ebraico", le uccisioni sommarie, la deportazione di oltre 300.00 ebrei a Treblinka ma dando anche un messaggio di speranza finale. Il protagonista, Wladyslaw Szpilman (Adrien Brody già visto in Bread and Roses di Kean Loach e in La sottile linea rossa), ebreo di Polonia, grazie all'aiuto di amici e alla sua fama di compositore e musicista, a differenza della sua famiglia alla fine si salva e torna a lavorare per la radio di Stato. Fino ad oggi Polanski non aveva mai voluto affrontare i ricordi drammatici d'infanzia, rifiutando persino l'offerta di dirigere Schindler's List, capolavoro in bianco e nero di Spielberg. Aveva però parlato di follia, di persecuzione e di oppressione in film come Repulsione e soprattutto in L'inquilino del terzo piano: per il regista polacco si diventa pazzi quando si smarriscono le certezze della quotidianità e tutto viene sconvolto.

Il pianista, vincitore della Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes, si ispira all'autobiografia di Szpilman in cui il regista riflette la sua sensibilità di artista. Lo stile del film è impeccabilmente classico, totalmente al servizio della trama, e lineare. La fotografia che ne esce appare limpida, così il suono a differenza di una trama per forza di cose dai toni forti, troppo forti per spettatori sensibili, poiché ci mostra senza omertà e in primo piano le atrocità di uno dei momenti più bui della storia di tutti i tempi.   Michela Manente

Hollywood Ending

Interpreti: Woody Allen, Tea Leoni . Gene Wilder, Peter Falck, Jack Lemmon, Robin Williams e i grandi Stan Laurel e Charlie Chaplin. E’ solo una parte della prestigiosa galleria di star del cinema doppiati da Oreste Lionello. Impeccabile, maestrale, perfetto, calato nella parte come sempre, il Giulio Andreotti del Bagaglino presta da una vita la sua voce anche a Woody Allen, il celebre artista newyorkese che con il suo ultimo film Hollywood Ending ha inaugurato l’ultima mostra di Cannes, dove al suo autore è stata concessa la più importante delle onorificenze: la “Palma delle Palme”, andata in passato anche a Charlie Chaplin. Lo stesso regista americano aveva precedentemente annunciato che la sua trentatreesima pellicola sarebbe stata perfetta per la rassegna francese. Così è stato.

Schizofrenico, ipocondriaco, nostalgico un po', geniale… si presenta così Val Waxmax, regista giunto al tramonto della sua carriera  e alla ricerca del trampolino per la ribalta. L'ultimo lavoro di Allen è una grande metafora sulla cecità: non apprezziamo abbastanza quello che vediamo con i nostri occhi fin tanto che perdiamo la vista e, riacquistatala, tutto ci appare migliore scoprendo l'enorme dono di cui godiamo. Val Waxmax era un famoso cineasta costretto a girare spot televisivi (ma ha rifiutato quello sui pannoloni per l'incontinenza) per campare. La "grande" occasione arriva su proposta dell’ex-moglie (Tea Leoni) e, soprattutto, grazie all’influenza di quest’ultima sul fidanzato proprietario di una casa di distribuzione cinematografica. Tutto procede quasi per il meglio finché Waxmax perde la vista per ragioni psicosomatiche. A nulla servono le visite mediche (Walmax crede di avere un tumore al cervello grosso quanto un'arancia) e i colloqui con lo "strizzacervelli" di fiducia: le ragioni stanno nella mente del regista che cerca di affrontare con disinvoltura la tragedia, coperto dalla complicità dell'agente, del traduttore cinese e dall'ex-moglie. Alla fine il film sfocia in un happy end che accontenta i gusti degli spettatori per essere inaspettato e desiderato: il film viene stroncato in America ma osannato a Cannes, il regista torna con l’ex-moglie e si trasferisce in gloria a Parigi. La storia, allo stesso tempo intricata e intrigante, leggera e ironica, godibile nella sua meta cinematograficità, è lo stimolo giusto per far capire il mondo dietro la macchina da presa, i meccanismi del cinema commerciale hollywoodiano con tutto ciò che ci gira attorno, le raccomandazioni, i provini, il set, i litigi tra tecnici, il montaggio…   Michela Manente

Signs

Regia: M.Night Shyamalan

Con: Mel Gibson, Joaquin Phoenix, Cherry Jones, Rory Culkin

Il regista del “Sesto senso” questa volta si occupa dei "crop circles", gli enormi cerchi tracciati nei campi di origine e significato misteriosi. Ma tanto misteriosi non sono, visto che è subito chiaro a tutti da dove vengono, lasciando ogni possibile dubbio subito risolto e soddisfatto. Quindi non penso che rovinerò il film a nessuno raccontando certi aspetti della storia.

Mel Gibson è un padre di due bambini da poco rimasto vedovo, che in seguito alla morte della moglie ha abbandonato la sua fede e la sua attività dipastore episcopale. La sua famiglia si trova alle prese prima con gli enormi segni circolari nella propria piantagione e successivamente con gli alieni che assediano la casa, ovviamente enorme e isolatissima. Questi avvenimentiuesti  portano il padre a ripensare alla sua fede abbandonata.

Non mancano gli aspetti originali, per esempio gli alieni cattivi che ricordano quelli della fantascienza anni cinquanta (forse a dirci che il mondo attuale è minacciato dal male e che dovremmo leggerne i segni?), l’invasione degli alieni vissuta nel salotto di casa e senza effetti speciali, così come sono presenti alcuni momenti di autentica paura e di tensione, grazie ad una regia che a tratti richiama i film di Hitchcock.

Quanto alla storia e all’idea in sè, mi sento invece di affermare che Night Shyamalan è passato dal Sesto senso ad un film senza senso (per esempio, perché gli alieni hanno deciso di invadere un pianeta su cui piove, vista la loro incompatibilità con l’acqua?). Se poi ci venisse in mente di perdonarlo comunque, grazie ad alcuni momenti di thriller ben riusciti, c’è sempre un finale patetico e banale pronto a farci ritirare ogni lontano pensiero di perdono. Silvia

Pinocchio

Girato nel tempo record di ventotto settimane a Papigno, ridente e collinare località umbra nei pressi di Terni, l’atteso e pubblicizzato Pinocchio di Roberto Benigni vanta una scenografia di tutto rispetto firmata Danilo Donati. Per la bellezza degli scorci panoramici, per la ricostruzione dei luoghi tra la fiaba (sembra di essere costantemente nel Paese dei balocchi) e la vita reale di un caratteristico borgo rurale con i suoi mercati e i suoi mestieri antichi: il falegname, il contadino e il pescatore.

Un po’ meno convincente il protagonista Benigni nel ruolo del burattino di legno, anche se la faccia incorniciata da un cappellino appuntito di mollica calza a pennello, che interpreta un Pinocchio irrequieto e iperattivo, piagnone e sgrammaticato nel suo accento toscano. Sullo schermo la storia, dal ritmo eccessivamente veloce e condensata in soli 111 minuti, salta a piè pari alcuni momenti più riusciti del libro di Carlo Collodi, pur non dimenticandone i fondamentali. Stampati nella nostra memoria di piccoli lettori, rimangono l’incontro con il mangiafuoco (Franco Javarone) che, commosso dal racconto amplificato delle sventure familiari del burattino decide di saltare la succulenta cena, gl’inganni della coppia gatto e volpe (I Fichi d’India) che convincono l’ingenuo burattino a seppellire per moltiplicarli quattro zecchini d’oro nel campo dei “finti” miracoli, l’incontro in prigione con Lucignolo (Kim Rossi Stuart) e le avventure nella pancia della balena (qui un pescecane che, sebbene costato centinaia di euro ha le sembianze del fratello brutto dello Squalo 3). Tutta questa fatica per diventare un bambino in carne e ossa! E quanta ce n’è voluta nonostante i buoni consigli un po’ troppo ripetitivi del grillo parlante (Peppe Barra) e gli ammonimenti della Fata Turchina interpretata dalla insostituibile e Nicoletta Braschi, produttrice del film. Babbo Geppetto (Carlo Giuffré), invece, vaga sconsolato in cerca del figliolo per ricondurlo nella retta via, quella dell’impegno scolastico (vende la giacca per comprare un abbecedario) e dell’onestà di vita.

Per quel che è costato, la tecnologia tutta italiana sperimentatrice del digitale non ha permesso l’atteso salto di qualità negli effetti speciali, che raggiungono il loro meglio nell’animazione dei topini trainanti la carrozza di Medoro (Mino Bellei), nell’allungamento del naso del bugiardo Pinocchio e in tutte le metamorfosi animalesche.

Doveroso vederlo, perlomeno per confrontare la gloria in patria con quella che otterrà alla sua uscita nelle sale d’oltreoceano a dicembre…   Michela Manente

 

MINORITY REPORT

Tre menti in simbiosi possono riuscire a prevedere il male perpetrato dall'uomo contro un altro uomo? Apparentemente sì, ma c'è di mezzo il libero arbitrio. E' aperto lo scontro infinito fra i due poli che caratterizzano l'esistenza umana: la vita è predeterminata dal fato o possiamo cambiare gli eventi con la nostra libertà di scelta? Il confine è sottile, per un attimo sembra non esista una sola verità. E colui che credeva di aver trovato la risposta vive sulla propria pelle tutto il dramma di dover mutare le sue idee. Radicalmente. Un film ibrido fra BLADE RUNNER, TOTAL RECALL e SEVEN (fantastica la sequenza dei ragni poliziotto), mantiene comunque sempre la propria identità, fino in fondo, fino a dimostrare con forza come la scelta di assecondare di volta in volta gli istinti o l'etica dell'uomo possa dare alla vita direzioni inevitabilmente opposte. FEDERICO DELLA ROCCA

Magdalene

Regia: Peter Mullan

Irlanda, 1964.

Margaret. Durante un matrimonio, sotto il suono degli strumenti di festa irlandesi, viene stuprata da un cugino. Una volta a conoscenza del fatto, non sappiamo cosa si bisbigliano i parenti, ma riusciamo a seguire il suo destino sugli sguardi passati di volto in volto.

Bernadette. Occhi grandi, bel volto, una bella ragazza. Durante l’intervallo parla, da lontano, attraverso la ringhiera, con dei ragazzi, arrivati apposta per farsi vedere dalle ragazze dell’orfanotrofio femminile.

Rose. In ospedale, ha appena avuto un bambino. Sua madre siede accanto a lei, non la guarda e non le parla, nonostante i suoi inviti a guardare il neonato. Suo padre e un prete la costringono a firmare un documento per l’affidamento del figlio.

Magdlene. Le tre ragazze vengono rinchiuse in un istituto delle Sorelle della Misericordia e qui la loro storia si fonde con quella di tante altre “magdalene”, giovani donne “peccatrici”, ragazze madri, vittime di stupri o semplicemente colpevoli di comportamenti giudicati in qualche modo disonorevoli.

All’interno dell’istituto, più che la parola di Dio prevalgono il divieto di parlare o di diventare amiche, la violenza psicologica, lo sfruttamento, la negazione di ogni diritto, le punizioni corporali, il duro lavoro in lavanderia grazie al quale le suore si arricchiscono. La parola schiavitù non è forse sufficiente a descrivere tutto questo. C’è chi ce la fa a sopravvivere per tutta la vita, chi dopo quattro anni viene riscattata dal fratello, chi riesce a scappare, come si evade da una prigione. E c’è chi non ce la fa.

La denuncia e’ lo scopo principale del film e infatti “Magdalene” sembra un documentario, con il suo stile duro, asciutto ed essenziale, decisamente realista, ad eccezione di alcune scelte più originali ed espressionistiche in un pugno scene brevissime e incisive.

Fa pensare il fatto che, alla premiazione di “Magdalene” con il Leone d’oro a Venezia, molti membri della Chiesa cattolica si siano indignati di fronte al film. Mentre l’unica indignazione possibile è proprio quella nei confronti di una Chiesa che ha permesso tutto questo e che ancora oggi non vuole riconoscere le sue colpe. Silvia 

11'09''01 - September 11

Regia di Youssef Chahaine, Amos Gitai, Shohei Imamura, Alejandro Inarritu, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn e Danis Tanovic.

Chi lo potrà mai dimenticare l'11 settembre dell'anno trascorso? Pregnanti immagini di distruzione, panico e follia, come se si trattasse dell'ultimo dei numerosi film sugli attentati agli Stati Uniti, sono impresse, più o meno direttamente, nell'immaginario collettivo dell'umanità intera. Quel filmato, mediaticamente vincente, si è trasformato in una vera pellicola firmata da undici registi famosi che presentiamo in ordine alfabetico: Youssef Chaine, Amos Gitai, Shohei Imamura, Alejandro Inarritu, Claude Lelouch, Ken Loach Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn e Danis Tanovic. Colpita dall'evento, la prestigiosa squadra dietro le telecamere del film propone versioni differenti per tema, tecnica, sensibilità artistica in cui i cineasti evocano il loro, personale 11 settembre, non sempre coincidente, però, con quello del 2001. Undici punti di vista cinematografici (nessun regista sapeva che cosa avrebbe girato il collega) nella più totale libertà espressiva per meglio accompagnare la dimensione umana della tragedia e per aggiungere una riflessione all'emozione. Undici storie per una Storia, un tributo che sottolinea la responsabilità dell'Occidente in tutto il mondo, un filmato di undici grandi cineasti che soprattutto fa riflettere, tentando di andare oltre l'immagine e i significati globalizzati dell'implosione delle Twin towers.

La particolarità della pellicola, presentata fuori concorso alla 59. Mostra del cinema di Venezia come evento speciale, è innanzi tutto tecnica: ogni racconto dura esattamente 11 minuti, 9 secondi e 1 fotogramma. 11'09''01 è un film che dice la verità su molte cose, soprattutto su come paesi e culture diverse hanno recepito i fatti newyorchesi. Ken Loach ricorda l'11 settembre 1973 quando l'allora segretario di Stato Henry Kissinger si congratulò con il dittatore chileno Pinochet per l'avventi colpo di Stato. L'unico americano a partecipare al film/evento è Sean Penn. Il suo corto è interamente ambientato in una stanza, dove un vedovo ricorda con nostalgia la moglie. Ogni giorno il vecchio controlla meticolosamente la fioritura di una pianta che rinascerà con i raggi del sole di nuovo a baciare la finestra dopo il crollo delle torri gemelle. Tra i più riusciti, il cortometraggio francese di Lelouch abbandona il sonoro per mettere in scena la storia di una giovane turista sordo-muta e la relazione con una guida newyorchese. Prevedendo in un delirio da sensitiva la tragedia imminente, la donna scrive una lettera al computer sperando nel miracolo… al termine degli undici minuti del corto suona il campanello, il cane abbaia… lui è vivo. Michela Manente

  Un viaggio chiamato amore

Regia: Michele Placido Interpreti: Stefano Accorso, Laura Morante

Una coppa (la Volpi, 59. Mostra internazionale d'arte cinematografica) per celebrare un talento in crescita per professionalità e riconoscimenti esterni. Stefano Accorsi (L'ultimo bacio, Le fate ignoranti, Santa Maradona) classe 1971, si è formato alla scuola di teatro di Bologna ma la notorietà è arrivata con la pubblicità della Maxibon, diretta da Daniele Lucchetti. Il suo ultimo film s'intitola Un viaggio chiamato amore diretto da Michele Placido tornato alla regia dopo Del perduto amore del 1998, in cui Stefano interpreta ruolo del poeta Dino Campana. Attualmente il film, già nelle sale italiane, è già campione d'incassi rispetto agli altri film della mostra di Venezia, superando anche il Leone d'oro The Magdalene sister's. Letto il copione del film, l'attore bolognese è stato colto dalla volontà di proteggere il ricordo di un'esistenza tanto fragile e unica. A 16 anni in manicomio, Dino Campana era innanzitutto un poeta, autore di versi impressi nella memoria letteraria degli italiani ("E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera" da Canti orfici). Tra il 1916-18 avvenne l'incontro con la narratrice e poetessa Sibilla Aleramo (Laura Morante), donna colta e affascinante che alle sua spalle cela un passato di grande sofferenza e frustrazione, dal tentativo di suicidio della madre, al matrimonio fallito con un uomo piuttosto gretto e violento. Quando Rina (il vero nome della Aleramo) prende la difficile decisone di abbandonare tutto, compreso il figlio Walter avuto a sedici anni che adora e che il marito non le farà rivedere mai più. E' così che una lunga serie di relazioni, tutte con scrittori più o meno noti, si susseguono nella vita della donna, fino al momento in cui la figura del "poeta visionario" per eccellenza non si erge ad adombrare tutti gli altri, impostando una relazione burrascosa e fatale a metà via tra eros e thanatos. L'ambientazione della storia d'amore è la Firenze primo novecentesca dove, in principio, i due fanno la reciproca conoscenza attraverso un carteggio ora in libreria pubblicato recentemente da Feltrinelli (Un viaggio chiamato amore, 128 pagg., 9,30 euro). Quando Nora si reca nel piccolo paese della campagna toscana per trovare lo scrittore, in cuor suo sa già quello che sta per succedere… Michela Manente

RESIDENT EVIL

Regia: Paul Anderson Interpreti. Milla Jovovich, Michelle Rodriguez

Meno male che dura poco. Sconsigliato agli stomaci deboli, ai cinefili facilmente impressionabili e alle persone con patologie cardiache, Resident Evil si colloca a metà strada tra l'azione, il thriller e l'horror. Succede di tutto nella gigantesca e segretissima base sotterranea denominata "l'alveare": un virus sfugge di mano alla controversa multinazionale farmaceutica Umbrella e trasforma i ricercatori in zombie alla ricerca di cibo, le cavie utilizzate per i test e gli animali da laboratorio in mostri rabbiosi. Il governo invia una task force di militari scelti comandati da Alice (Milla Jovovich già vista negli scenari futuristici de Il quinto elemento) e Rain (Michelle Rodriguez) per contenere il virus in tre ore prima che riesca ad infettare il resto del mondo. Happy end o catastrofe finale? Diciamo subito che i rischi all'interno della labirintica base sono innumerevoli e la truppe non sembra essere sempre adeguatamente preparata ad affrontare i pericoli della missione. Senza contare gli ammutinamenti, i tradimenti interni e i consigli ingannevoli della Regina rossa, il supercomputer che coordina i sistemi di sicurezza apparendo sotto forma di luce.

Una particolarità. I protagonisti vivono come fuori dalla realtà, senza passato e senza una storia, con un unico scopo: la missione. La sequenza è da manuale e per questo funziona: inquadratura da vicino, musica che sale, suspense. Poi all'improvviso, doppio colpo: musica impazzita e colpo di scena. E colpo al cuore. Si aggiunga che la colonna sonora è di Marilyn Manson, uno che di pulsioni dal profondo se ne intende.

Il film, diretto dal regista Paul Anderson, prende molti spunti dalla saga di Resident Evil sulla scia delle riduzioni cinematografiche dei videogiochi Mortal Kombat e Tomb Rider. La storia nei dettagli è totalmente diversa e imprevedibile, lasciando le cose in sospeso tanto da far sospettare una possibile continuazione sul grande schermo. Michela Manente

Parla con lei

Interpreti e personaggi: Javier Cámara (Benigno), Leonor Watling (Alicia), Dario Grandinetti (Marco), Rosario Flores (Lydia), Gerardine Chaplin (Caterina)   Un'opera della maturità, dalla tematica forte (il mistero del coma) e dalla pienezza registica di un notevole Pedro Almodóvar che filma le parti migliori e peggiori della sua Madrid. Hable con ella è l'invito a dialogare con le persone in coma, a vegliare giorno e notte su di loro come fa Benigno, un giovane infermiere, ossessionato dalla passione per Alicia, una bella ballerina in fin di vita. In ospedale Benigno conosce Marco, giornalista e scrittore di guide turistiche, innamorato di Lydia, donna torera che entra anche lei in coma dopo essere stata incornata durante una corrida.

Gli affetti, la malattia e la morte (il traffico e un paio di corna - quelle vere - sono i colpevoli), Pina Bausch alle coreografie e due uomini sono i protagonisti del dramma di Almodóvar che si permette pochissimi tocchi alla commedia. Una delle poche invenzioni comiche del regista è quella del film muto che a un certo punto i protagonisti vanno a vedere nella sala della Filmoteca di Madrid. Il cortometraggio all'interno del film racconta la storia di un uomo che diventa molto piccolo e s'introduce nella vagina della sua donna, in un delizioso omaggio al film fantastico Radiazioni B X: distruzione uomo a cui si ispira.   Nelle sale italiane dal 28 marzo, Parla con lei completa la filmografia di Almodóvar che comprende, attualmente, 14 lungometraggi, tra cui alcuni capolavori quali Donne sull'orlo di una crisi di nervi e il recente Tutto su mia madre, un indimenticabile successo di critica e pubblico premiato con l'Oscar nel 2000. Incontriamo con Parla con lei il nuovo Almodóvar, passione, amari e tori, diverso ma in fondo sempre fedele a se stesso. Il film ha già suscitato polemiche per le denuncie di associazioni di difesa degli animali nei confronti del regista per aver torturato fino alla morte sei tori in fase di lavorazione. Michela Manente

I Tenenbaum

Regia: Wes Anderson   Con: Gene Hackman, Gwyneth Paltrow, Anjelica Houston, Ben Stiller, Luke Wilson, Owen Wilson .  

Potrebbero essere usciti da un libro di Salinger, i personaggi della famiglia Tenenbaum. In effetti escono proprio da un libro, il libro che, capitolo dopo capitolo, viene sfogliato per raccontare la storia di questa bizzarra famiglia. Tre figli, tre piccoli bambini prodigio: Chas, spiccato talento per la finanza interazionale, Margot, drammaturga di successo, Richie, super-campione di tennis. Un padre, che si separa dalla madre, a cui lascia l’educazione dei figli, e che scompare per anni. La vicenda racconta con ironia cosa succede quando, a distanza di anni, si ritrovano tutti sotto lo stesso tetto. I figli, ormai trentenni, non hanno mantenuto le loro promesse e al contrario sono sprofondati nella noia, nella depressione, nell’ossesione, nei loro inutili segreti.   Geniale, ironico, infarcito di trovate originali, di humor nero, cinismo e tenerezza, “I Tenenbaum” non risparmia niente e nessuno. Descrive  personaggi estremi, stravaganti, cosí strani da sembrare, nella loro logica e nel loro ambiente, perfettamente normali. Personaggi tutto fuorché ordinari, in cui sará difficile identificarsi, ma che potranno invece essere eletti ad allegoria delle nostre comuni ansie e idiosincrasie, con il pregio di farci riflettere, inconsapevolmente, sui rapporti familiari, sulla sofferenza e sul dolore.

Curatissimo tutto film: l’interpretazione degli attori, la colonna sonora a base di musica classica e rock nostalgico, i titoli e le didascalie, l’ambientazione e i dettagli, ma soprattutto i costumi, che caratterizzano ogni  personaggio in modo univoco e  sempre azzeccato. Silvia 

Gosford Park

Regia: Robert Altman   Interpreti: Jeremy Northan, Emily Watson, Kristin Scott Thomas

Presentiamo l'ultima fatica del regista di I protagonisti e America oggi: Gosford Park. L'ambientazione è, forse, la parte più pregevole e originale del film; la fotografia ha puntato l'attenzione sui dettagli scenografici giocando molto sugli interni di una signorile residenza di campagna nell'Inghilterra dei primi anni Trenta e appartenente al ricco Lord McCordle e all'attraente moglie: le sontuose cene, i salotti dorati, le decorate stanze degli ospiti in opposizione agli alloggi spogli della servitù, alla cucina e alla stireria interrate ma anche l'esterno "verde" della villa, i campi e i boschetti dove si passeggia. La società, opulenta e riverita da un numero esagerato di servitori e valletti che vivono di riflesso le vite dei loro padroni a volte complicandole, s'incontra qui per una partita di caccia e riposanti ozi, dal bridge ai pettegolezzi mondani. Nulla succede per quasi un'ora di proiezione, finché si cominciano ad intravedere i segreti di quella casa, le prime screpolature del perfetto quadretto. Il gioco tra i personaggi, le storie non chiuse, il passato che ritorna porteranno all'omicidio di Sir Williams, due volte assassinato, la prima col veleno e la seconda, quand'era già morto, con un coltello da cucina. L'intervento della polizia impedirà agli abitanti di lasciare la residenza finché non si saranno svolte le prime indagini e i colloqui di rito che, in realtà, non porteranno a nessuna soluzione. Sarà la giovane cameriera della più anziana e nobile invitata, coinvolta inaspettatamente, a mettere insieme i pezzi per risolvere il caso prima della polizia e chiarendo, così, allo spettatore le dinamiche che hanno portato a quel gesto: una storia solo in parte seppellita, di paternità negata e di sfruttamento operaio, conti ora chiusi tra prepotenti e deboli in cerca di vendetta. Gosford Park ha vinto il premio per la Miglior Sceneggiatura nell'ultima assegnazione hollywoodiana degli Oscar. Michela Manente

A Beautiful mind

di Ron Howard   Interpreti: Russel Crowe, Jennifer Connelly   . L'attore neozelandese Russel Crowe nel ruolo di uno schizofrenico ma geniale, a suo modo, professore di matematica John F. Nash Jr. La vicenda è una true story e Nash è ancora in vita, sebbene di antisemitismo e omosessualità che fanno parte di quell'esistenza, non si parli per nulla nel film di Ron Howard. Innegabilmente una grande interpretazione dell'ex Gladiatore nell'omonimo film girato da Ridley Scott e con cui si è aggiudicato l'Oscar, mancato quest'anno, nella notte più attesa di Hollywood. La storia sembra essere quella di sempre nella cinematografia a stelle e strisce che ricorda di frequente il conflitto freddo con la Russia negli anni successivi la seconda guerra: cospirazioni, russi cattivi sempre alle spalle e missioni segrete di cui nemmeno i coniugi possono sapere nulla. Invece è tutto nella mente del professore, ossessionato dalla mania per formule, codici e numeri che ritrova sparsi anche nelle pagine dei giornali. Finché un brutto giorno lo prendono per portarlo in ospedale psichiatrico dove sarà sottoposto a diverse sedute di elettroshock. Sottoposto ad una fastidiosa terapia, il protagonista si convincerà che le sue allucinazioni non sono reali essendo il prodotto solo della sua mente. Infatti la bambina che vede, nipote adottiva del suo immaginario compagno di stanza alla specializzazione post lauream in matematica a Princeton, non cresce mai come fa, invece, suo figlio. Solo l'amore, solo il convincimento che non tutto può essere razionalizzato ma che le ragioni del cuore, spesso, possono avere la meglio, aiuteranno il professore a ritrovare un'esistenza "normale" con il reimpiego proprio nell'università che aveva frequentato. Dopo una lunga e drammatica colluttazione con la creazione della sua mente, Nash tornerà ad insegnare e a stupire fino all'ambito conferimento del Premio Nobel in anni recenti

Vincitore di 4 Golden Globe e di 3 statuette (Miglior Film, Miglior Regia e Migliore attrice non protagonista), A beautiful mind (il titolo non è stato tradotto in italiano) ci mostra i limiti della mente umana che si appanna nella ricerca di idee veramente originali e la forza risanatrice dell'amore.   Michela Manente

Kate e Leopold

Kate ( Meg Ryan) è una donna in carriera che col tempo ha imparato ,mantenendo una sensibilità femminile , a comportarsi e ad essere razionale e inquadrata come un uomo. Nella settimana che cambierà la sua vita si gioca il ruolo di direttore per una grossa azienda e per riuscirci  dovrà  andare oltre i suoi ideali e comportarsi egoisticamente in una Manhattan frenetica.   Il suo ex fidanzato è invece uno studioso che è riuscito a trovare una porta spazio temporale che lo manderà nel 1850 circa per qualche ora. Seguirà così il famoso inventore degli ascensori, Leopold(impersonato da Hugh Jackman) che però incuriosito da quest'uomo sconosciuto nel tentativo di seguirlo tornerà con lui nel 2001. L'ex di Kate sarà preso per matto e verrà rinchiuso in un ospedale, mentre Kate, suo fratello e Leopold impareranno a conoscersi ed apprezzarsi e verranno a scontrarsi con una cultura in cui la donna è femminile, rispettata e amata, il tempo non è frenetico ma anzi, viene gustato istante per istante  e assaporato lentamente. Commedia davvero semplice, divertente e gustosa con interpreti svegli e bravi che scorre via veloce senza troppe sdolcinatezze e con grande garbo.  Tungaska

Iris

Regia: Richard Eyre . Con: Judi Dench, Kate Winslet, Juliet Aubrey, Jim Broadbent, Hugh Bonneville

Questo film é la biografia cinematografica della scrittice e filosofa Iris Murdoch (1919-1999), figura di spicco sulla scena letteraria britannica. Ispirandosi al libro “Elegia per Iris” scritto dal marito John Bayley, la biografia parte dalla fine, dagli ultimi anni, ed é incentrata su quello che in genere viene liquidato in poche parole, cioé la vecchiaia, la progressiva degenerazione, la malattia mentale. Iris Murdoch rivive cosí sullo schermo i suoi ultimi anni, segnati dal morbo di Alzameir, con frequenti flash back all’epoca della sua giovinezza e agli inizi della sua inusuale storia d’amore con John Bayley, impacciato professore di Oxford. L’effetto risulta quello di due storie diverse narrate contemporaneamente, ma strettamente legate, anche grazie alle scelte di regia e montaggio. Tanto piú la malattia avanza nella mente di Iris anziana, tanto piú il paragone con la giovane, intelligente e spregiudicata Iris di cinquantanni prima ci fa soffrire. Le due storie peró non risultano mai in contrasto, sembrano giustificarsi e completarsi a vicenda. Ne sono un esempio le scene in cui Iris e John anziani nuotano nello stesso fiume di Iris e John giovani, confondendosi quasi gli uni con gli altri, annullando il tempo, amplificando lo spazio. In realtá per chi non conosce bene Iris Murdoch, questo film non dirá molto di piú su di lei. La sua carriera letteraria e l’importanza del suo pensiero vengono dati per scontati e forse anche un po’ sminuiti e trascurati. Quello che il film riesce a comunicare é invece una storia umana, ricca di intelligenza senza arroganza e di amore senza sentimentalismo. Ottima interpretazione di Judi Dench nel ruolo di Iris anziana. Silvia

  Il favoloso mondo di Amélie

  di Jean-Pierre Jeunet, con Audrey Tautou e Mathieu Kassovitz :Amélie Poulain è una ragazza sfortunata che non si è mai saputa innamorare. Il padre Raphaël, ha la fissa per il nano da giardino che ha posto come ultimo ornamento al mausoleo della moglie accidentalmente deceduta quando Amélie era bambina. In seguito accuserà la figlia di non avergli permesso di viaggiare perché affetta da un'anomalia cardiaca diagnosticata erroneamente dal suo stetoscopio di dottore. Amélie vive in un mondo tutto suo, fatto di piccoli piaceri insignificanti ai più. Le piace far rimbalzare sassolini sull'acqua del Canal Saint Martin, affondare la mano in un sacco di legumi freschi, spaccare la crosticina della crème brulée con la punta del cucchiaino. Le piace, inoltre, fare del bene e castigare i cattivi ma chi penserà a lei? Amélie, da quando aveva diciotto anni, lavora come cameriera nel café Les deux moulins, compiacendosi a riparare le vite altrui. Si diverte anche a rendere felici i singolari condomini: il vecchio pittore dalle fragili ossa amante di Renoir, la portiera Madeleine cornificata in vita che piange il marito oramai deceduto ma scappato con un'altra, il giovane fruttivendolo monco e bastonato dal perfido titolare del negozio, Georgette la tabaccaia ipocondriaca che ha un incontro ravvicinato con Joseph, il frequentatore del café affetto da una gelosia patologica per le donne. Finché un bel giorno, Amélie s'innamora.

Intramontabile trama su variazione della favola di Cenerentola, Amélie troverà il coraggio di dichiarare il suo amore per Nino, un collezionista di fototessere abbandonate dagli avventori delle macchinette self-service poste agli angoli della sala d'ingresso del metro, dipendente di un sex-shop e spettro che sussurra nelle orecchie dei passeggeri del Treno Fantasma alle giostre. Invitatolo nel suo appartamento a Montmartre, lo bacerà dolcemente fino a portarselo a letto, come nei miglior finali delle favole del nostro tempo. Michela Manente

  I perfetti innamorati

Commedia, divertente quanto basta di cui  si conosce ovviamente  il finale. Ma i 4 attori (che non sono altro che J.Roberts, B.Cristal, C. Zeta Jones e J.Cusack) la rendono gradevole e sanno prendersi in giro e prendere in giro il mondo che diciamocelo pure, li sfama. 

La storia è semplice: Julia e Cathrine son due sorelle: la prima bruttina( si, ma quando mai la Roberts è bruttina?) e fondamentalmente devota alla seconda , bella ,viziata, egocentrica, famosa e da poco divorziata da Cusack( che a causa del divorzio si è esaurito) . Da quando la coppia è scoppiata  il pubblico non li ama più e i film son dei veri flop. Così, perchè l'ultimo lavoro fatto insieme valga davvero qualcosa e il pubblico torni ad amarli,devono, per finta, tornare insieme per la stampa. Ad aiutarli nell'impresa titanica arriva B. Cristal, simpatico, sveglio, intelligente che conosce sia le regole dell'amore sia le regole del cinema .Qualcuno a fine film cambierà, qualcun'altro rimarrà uguale . Nessuna morale, solo la dimostrazione che Hollywood è uno specchio per allodole .Ma qualche risata davvero autentica fanno di questo film un luogo immaginario dove trascorrere  2 ore spensierate. Tungaska

La compagnia dell'anello 

Dopo una lunga attesa, finalmente è arrivato anche in Italia il nuovo film di Peter Jackson tratto dal primo volume della trilogia “Il signore degli anelli” di J.R.R. Tolkien. Chi non conosce il libro potrebbe pensare alla classica fiaba per bambini o ritenere il film un banale insieme di effetti speciali: nulla di più sbagliato. Tolkien iniziò la scrittura del Signore degli anelli nel 1936 e impiegò ben 16 anni per terminarlo, il genere letterario in cui rientra è il romanzo d’evasione: una specie di fiaba in cui l’autore ci guida oltre la realtà quotidiana, in una terra fantastica popolata da elfi, maghi, nani ed orchi. Si tratta di una fiaba a ampio respiro, nata da un grande studioso di mitologia medievale che nell’inedita veste di scrittore descrive ogni personaggio, non solo con gli occhi del narratore omniscente, ma anche con le parole degli altri personaggi e tratta minuziosamente ogni evento. Il regista, con grande maestria, è riuscito a trasferire in immagini il mondo incantato della “Terra di mezzo” tanto da farla sembrare quasi reale, pur dovendo adattare la storia al ritmo di un film (alcune parti della storia sono state necessariamente tagliate onde evitare di avere un film della durata di 5 ore). Incontriamo gli Hobbit, piccoli uomini (da non confondersi con i nani), nati dalla penna di Tolkien, che vivono del lavoro nei campi nella verdeggiante “Contea”, all’oscuro di tutto ciò che accade al di fuori di essa. A questa razza appartiene Frodo, il protagonista di tutta la trilogia, è il nipote di Bilbo Baggins (protagonista del libro “Lo Hobbit”), grande viaggiatore, che gli ha lasciato in eredità tutti i suoi averi compreso un misterioso anello d’oro. Frodo, seppur invidioso delle avventure dello zio, vorrebbe vivere tranquillo nella sua bella casa nella sicurezza del suo mondo; ma un giorno riceve la visita del suo amico, il mago Gandalf, che lo avvisa che l’anello in suo possesso è “L’unico”, l’anello forgiato da Sauron (l’incarnazione del male). “Tre anelli ai re degli elfi, sette ai principi dei nani, nove ai re degli uomini, uno all’oscuro signore di Mordor. Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli”. Sauron sa dove si trova il suo anello e farà di tutto per impossessarsene, l’anello stesso anela di tornare al dito del suo creatore. Frodo, suo malgrado, si trova catapultato nel pericolo: non è un eroe, ha paura, ma ha un cuore grande è generoso: lascia la sua casa e la sua terra per proteggere la Contea, si incammina verso un cammino incerto che potrebbe portarlo alla morte, ma non è solo, i suoi amici più cari lo aiuteranno nel suo compito formando così la compagnia dell’anello. Una lode va all’attore Elijan Wood, la sua interpretazione è grandiosa perché è riuscito ad incarnare tutto l’essere di Frodo: ci commuove, ci emoziona, in lui ci immedesimiamo inseguiti dai cavalieri neri, nella perenne lotta tra il bene ed il male. Le musiche ci suggestionano, incalzano il ritmo, arricchiscono le immagini di suspance e la dolcissima voce di Enya ci commuove toccandoci il cuore con “May it be”. Un film grandioso assolutamente da non perdere, le tre ore volano via tra inseguimenti mozzafiato e i paesaggi fiabeschi della Nuova Zelanda. Per appassionati del genere e non. Nerys

Cuori in Atlantide di Scott Hicks

tratto da “Hearts in Atlantis” di Stephen King ; Principali protagonisti: Antony Hopkins, Hope Davis .

In questo film  il mondo del sogno, vivo sia nel protagonista bambino che nell’adulto che racconta, si scontra con quello della contingenza, che regola inesorabilmente le dinamiche della realtà. Orfano di padre, e con una madre che pensa più alla propria apparenza che alle esigenze del figlio, Bobby trova nel nuovo inquilino uno strano amico, che gli insegnerà che, anche se da ragazzi ci sembra di vivere in un mondo ideale simile ad Atlantide, nella vita “i desideri non cambiano le cose”. Il mondo del protagonista sarà infatti fortemente intaccato dal corso degli eventi: Bobby dovrà salvare l’amica del cuore dopo l’aggressione di un adolescente problematico e prepotente ed infine si troverà costretto a  rinunciare all’amico Ted, braccato dalla “gente bassa”. Lo spettatore trova in questo film la rappresentazione di un’infanzia semplice e vissuta liberamente, ma anche di un’infanzia caratterizzata dalla povertà e da un rapporto inesistente con la madre.   Bobby, nonostante tutto, riuscirà alla fine a stabilire un rapporto con la madre e a ritrovare l’amica del cuore, morta da tempo a sua insaputa, nella figlia di lei, incontrata per caso fuori dalla sua vecchia casa.   Dal punto di vista strutturale il film propone una sintesi tra mondo dei sogni, il mondo di Atlantide, ed il mondo reale, fatto di mille contrasti. La sintesi finale può essere considerata una sorta di iniziazione del protagonista, e precisamente il comprendere che entrambi i mondi collaborano a definire il corso della vita. A volte i desideri non possono essere realizzati, e Bobby si troverà costretto a perdere l’amico Ted, anche se “è valsa la pena di conoscerti”. Ma altre volte i desideri si realizzano, e Bobby riuscirà infatti alla fine ad ottenere la bicicletta dei suoi sogni. Laura

OCEAN’S ELEVEN – FATE IL VOSTRO GIOCO  di Steven Soderbergh 

Con George Clooney, Brad Pitt, Andy Garcia, Julia Roberts, Matt Damon, Elliott Gould, Carl Reiner, Scott Caan, Casey Affleck, Shaobo Qin. 

.Appena uscito di prigione, il rapinatore Daniel Ocean raggruppa undici geni del crimine (in campi diversi) per tentare il furto del caveau dei tre casinò più redditizi di Las Vegas, appartenenti all’uomo che sta con la sua ex moglie. È una questione di soldi o di cuore? Un po’ giallorosa vecchio stile (la storia proviene da una serie degli anni ’60) e un po’ furto con scasso high-tech alla Entrapment questo remake di Colpo grosso (1960) con Sinatra: al sempre più trendy Soderbergh, viste le numerose fesserie della sceneggiatura cronometrica (di Ted Griffin), stavolta interessa solo divertire lo spettatore con un ritmo indiavolato che mescola stili diversi (sua prerogativa) e una galleria di personaggi riusciti nella loro ironia ed eterogeneità, ma tra le righe dinamita dall’interno il luccicante mondo di Las Vegas dove una serata può portare la fortuna eterna o la rovina. Uno dei film più riusciti, perché meno presuntuosi (tranne nel personaggio debole della Roberts), del regista, la cui firma d’autore si vede nel finale dove tra i titoli di coda si legge la frase falsa e vera insieme “e per la prima volta sullo schermo Julia Roberts nel ruolo di Tess”. C’è chi ha visto nell’idea della banda di ricostruire il set del caveau e di filmarlo (con tutta una serie di annessi e connessi successivi) una riflessione di Soderbergh sul “farsi del cinema”: troppa grazia!  Scontata insipienza del sottotitolo italiano. Roberto

Rat Race di Jerry Zucker  

Ci sono andata per caso a vedere questo film e devo essere sincera:ero anche scettica. Eppure ho iniziato a ridere già con la sigla di apertura, simpatica, semplice, con musica ritmata e accattivante.

La trama è semplice: un plurimiliardario,proprietario di un casinò,un po' annoiato e  anche viziato,decide di regalare l'opportunità a 6 persone di vincere la bellezza di 2 milioni di dollari.  Scelti casualmente tra i giocatori del suo casinò tutti e sei i concorrenti accettano ovviamente la sfida , che consiste nel raggiungere un armadietto di sicurezza situato ben fuori Las Vegas ... La comicità di questo film non è mai volgare, ma ritrae situazioni che , sicuramente meno accentuate, qualche volta son capitate a tutti noi. Non c'è il passato di queste persone che ci fa tifare per l'una piuttosto che per l'altra, non c'è possibilità di scelta. Tutti questi personaggi assolutamente impacciati, imprevedibili ( ricordo qualche attore: Rowan Atkinsin, Whoopy Goldberg, Cuba Gooding Jr..) e divertenti vivranno 6 percorsi diversi e si incontreranno solo alla fine... con gli smashmouth di sottofondo, tantissima allegria , buoni propositi( non sdolcinati) e anche una rivincita con chi li voleva marionette di un gioco poco 'legale'. Un film semplice, non troppo demenziale, che fa sorridere tutti . Tungaska

Apocalypse now (Redux) - di F. Ford Coppola


Un viaggio all' inferno per scontare una colpa, per ritrovare se stessi, per comprendere l' assurdità di una guerra, per rispondere a domande fin troppo contraddittorie: da che parte è la ragione? e chi è il più selvaggio? chi difende la propria terra o chi scarica quintali di napalm sulle foreste, e poi vieta di scrivere parolacce sulle mitragliatrici perché "non sta bene"?
"The children are insane" canta la voce di Jim Morrison, ancora una volta profeta maledetto di una guerra maledetta, condotta da eserciti tanto armati quanto rammolliti, la tecnologia che fa strage su villaggi di legno e su catapecchie, e poi lo chiamano progresso. Chi sono gli insani? E il generale Kurtz, è poi così "insano" ad aver voluto abbandonare la causa della superpotenza per creare una sua "causa", una nuova vita in mezzo alla foresta? e il protagonista, non cerca forse di fare altrettanto?
Come in un moderno Inferno dantesco, la telecamera ci racconta di un anti-eroe, vittima di allucinazioni lisergiche, che sente una necessità, l' apparentemente assurda attrazione del Vietnam, e si fa affidare una missione, la più pericolosa, per essere condotto a un bivio esistenziale, che gli spieghi una volta per tutte le ragioni della vita. Combatte alla foce del fiume, su elicotteri che volteggiano come mosche, agli ordini di un capitano mitomane che ancora indossa il berretto della guerra di secessione, sopra un mare azzurrissimo e solare sovrastato da bombe minacciose, accarezzate dalla mano dei marines pronti all' attacco. Poi c'è un lungo fiume da attraversare, e si ripercorre in barca la propria vita: la natura incontaminata, la complicità, il sesso, il tradimento, il pericolo, la morte. Ovunque, bagliori di fuoco e tracce di distruzione. Man mano che si scende in questi gironi infernali, la luce diventa sempre più fioca, si intravedono solo profili e ombre; si arriva alla sorgente e si respira un atmosfera di buio irreale che avvolge il tempio pagano dove finalmente avviene il sacrificio.
Ma non si torna alla luce, non è un nuovo inizio. E' la fine. "This is the end" canta Jim Morrison. La nuova Apocalisse è consumata. Claudio

The man who wasn’t there (Joel e Ethan Coen)

(Premio per la migliore regia, Cannes 2001) La scelta del bianco e nero in questo noir che sembra essere un omaggio al cinema degli anni 50 è sicuramente più che azzeccata per ricreare una patinata atmosfera d’epoca, anche grazie ad una fotografia e regia molto curate e di alto livello. Ma non è solo una scelta tecnica o estetica, è una metafora della vita, senza colori ma dalle molte tonalità di grigio, del protagonista Ed, barbiere di poche parole in una tranquilla città di provincia della California fine anni 40. Sembra che la vita non gli interessi, ma è proprio lui a mettersi in una situazione complicata a scapito della sua stessa apatia e indifferenza, quando decide di ricattare in incognita l’amante di sua moglie per procurarsi i soldi per finanziare un progetto di lavanderie a secco. Seguirà così una serie di disavventure tragicomiche, tra cui un omicidio, con l’ironia e la misura tipiche dei fratelli Coen. Nonostante le molteplici svolte e i continui colpi di scena, la sceneggiatura procede volutamente lenta, spesso portata avanti dalla voce del narratore (lo stesso Ed) o dalle sonate per piano di Beethoven della colonna sonora. Lo spettatore rimane sempre distaccato, come a condividere l’indifferenza del protagonista, che pure queste situazioni le vive, in una fatalistica accettazione di un destino spesso assurdo e paradossale, che accusa le persone sbagliate di colpe sbagliate. Ma d’altra parte è inutile tanta fatica per conoscere le cose, perché, chiamando in causa il principio di indeterminazione, quando osserviamo qualcosa, lo modifichiamo e quindi è impossibile sapere “come sarebbe stato”. Ma allora vale la pena vivere? Forse no, o forse sì. Forse ne vale la pena per le sonate di Beethoven o per una ragazzina che suona il piano, ma questo è solo un forse e alla fine, senza paure o rimpianti, non rimane molto di più.

LA TIGRE E IL DRAGONE  Regia: Ang Lee

E' arrivata anche in Cina. Strisciando per non farsi sentire, o via satellite più probabilmente, Hollywood è sbarcata nell'antica Pechino degli Imperatori, fra il deserto di Gobi e le rocce dello Xi'an, sulle lunghe trecce annodate di guerrieri dalle lunghe spade. E fa strage.
Si comincia con un ex maestro d'armi stile Yul Brinner, che stanco del sangue versato si converte sulla via del Tibet, lui sì vero Brad Pitt. Calmi, è solo l'inizio.
A mezzanotte, l' ora in cui da noi ululano i licantropi, lì sui tetti e fra le pagode si combatte stile Matrix, con salti da circo Togni e lunghi voli a rimbalzo sul muro, e siccome a quei tempi l' aereo non esisteva, si vola a piedi nudi sulle fronde dei salici in fiore così poetiche, ottima idea per un finale altrimenti scialbo.
Nel frattempo, una giovane nobile è destinata al matrimonio ma la vita casa-e-marito non fa per lei che ha visto Mulan della Disney in televisione e vuole vivere d' avventure, fare la guerriera come gli uomini, è nobile e per lei si farà certamente un' eccezione. Sbadigli del pubblico e prime risatine indiscrete.
E così la giovane sveste i panni della brava ragazzina predestinata, veste alla samurai e parte alla ventura, cavalca meglio di John Waine un infocato destriero, nel deserto incontra un bel brigante e indovina indovinello, sveste i panni di cui sopra, ma li sveste proprio tutti, ennesimo contentino al pubblico occidentale. Amore nel deserto sotto le stelle (e anche questo stereotipo è sistemato) ma decide di tornare a casa, e che diamine! lui ormai è stracotto; fermo dove corri? devi aspettarla sul monte incantato e imbiancato da nevi perenni. Paramount Picture.
Ciak si cambia scena, duello finale le lame luccicano come a Guerre Stellari, ma neanche le vedi perché girano vorticosamente come un frullatore. Porca miseria, ma dove hanno imparato? meno male che la scena è velocizzata senò potrei credere a un miracolo. E stivaletti a punta acuminata già visti in James Bond, freccette avvelenate afferrate al volo tipo Tango e Cash ma... ops! una sfugge ebbe' nessuno è perfetto, il nostro Yul Brinner doveva pur finire i suoi giorni ma consoliamoci, spira fra le braccia di colei che tutto seppe e nulla disse. Orribile. Da Oscar.
Ma non chiamatela Hollywood. Chiamatela Ho-li-woo.
P.S.: C' è anche Braccio di Ferro. Guardare per credere.  Claudio

AI (intelligenza artificiale) Regia: S. Spielberg

Un progetto di Kubrick ,sul quale il famosissimo regista aveva lavorato per 10 lunghi anni, in attesa che la tecnologia fosse pronta a realizzare un film come questo. Una regia come quella di Spielberg sensibile a tutto e più affine a realizzare un racconto di tale portata .Un attore eccezionale , che potete ricordare nel bambino de IL sesto senso e che ora, a soli 13 anni, è riuscito a sdoppiarsi, farsi amare e  porre, con la sua gestualità , il suo carattere , il suo sguardo, degli interrogativi che assillano dalla prima scena del film ma che non si chiudono con l'ultima. Uscirà in ottobre ma alla Mostra del Cinema di Venezia è stata un'anteprima che ha lasciato paralizzati tutti sulle poltroncine del cinema. Chi lo vuole ridurre alla favola di Pinocchio sbaglia di grosso, perchè vi è molto di più in questo film dove in un futuro lontano il mondo si divide in Mecca (macchine dalle sembianze umane e che sono perfettamente create ad uso e consumo dell'uomo )e Orga( gli esseri umani). La sfida successiva alla macchina perfetta ( simpatico e bravo davvero J.Love che impersona il mecca  amante)è la creazione di un mecca bambino che ami sua madre e si faccia amare da lei. Ma se un bambino amerà sua madre, se anche sarà possibile crearlo, la madre orga potrà a sua volta provare un vero sentimento per lui!? David (il mecca bambino) , se non fosse per i circuiti interni che lo rendono vivo ,sarebbe davvero un bambino vero, in tutto e per tutto, perchè nato per amare arriverà molto oltre, là dove il mondo dei sogni ,la notte, avvolge gli orga  e là dove una fantasia va inseguita a costo di morire perchè è l'unica nostra speranza quando tutto è perduto. Tungaska

BEFORE NIGHT FALLS (Prima che sia notte) Regia: Julian Schnabel

Gran premio della giuria a Venezia 2000 :Ambientato in parte in una Cuba povera, tropicale e lussureggiante, in parte nella moderna e fredda New York, questo bellissimo film dipinge la vita di luce ed ombra del poeta cubano Reinaldo Arenas, perseguitato dal governo cubano per i suoi libri e per la sua aperta omosessualità. Dipingere e’ veramente il termine giusto: il regista e pittore Julian Schnabel racconta la vita di Reinaldo Arenas con una tavolozza di colori contrastanti. Il verde della Cuba rurale della sua infanzia vissuta in povertà. Il blu del mare di Cuba e l’oro delle sue spiagge, sfondo di periodi sereni durante i quali viene riconosciuto il suo innato talento letterario. L’oscurita’ del carcere scorco e squallido in cui e’ imprigionato e umiliato, il bianco e il nero della carta rimediata in prigione su cui scrive di nascosto le sue poesie. Il rosso dell’amore, della passione, dei sogni, del telone della mongolfiera con cui vorrebbe volare via, verso la liberta’. Arenas non riuscira’ a volare via in questo modo. Dovra’ imbarcarsi per New York in esilio volontario. E se il sogno di chi ha provato a volare via con la mongolfiera si infrange poco dopo sul lungomare dell’Avana, ma ha perlomeno avuto il suo momento di bellezza, di grandezza, di poesia, il sogno di Arenas si infrangerà invece contro il “todo cerrado” di una città moderna e nuova che gli chiude tutte le porte. C’e’ sicuramente della denuncia in questo film, denuncia di un regime che impedisce l’espressione dell’individuo. Ma la denuncia spesso passa in secondo piano rispetto alla poesia, poesia che sembra avere le stesse caratteristiche di quella di Arenas: il sapere trasformare la sofferenza in bellezza, il dolore in poesia. Silvia

BROTHER

Regia: Takeshi Kitano

Morti. Tanti, in continuazione, quasi non si riescono a contare. Violenza. Volutamente esasperata, al punto che non sappiamo se sorridere o indignarci. Ma non e’ un film sulla violenza, ne’ uno dei tanti film di mafia. E’ un film complesso e intelligente, di quella intelligenza giapponese sottile e quasi al limite con la pazzia. Kitano narra e interpreta la storia di un gangster della yakuza giapponese costretto a riparare negli Stati Uniti per questioni di attriti interni. Qui, grazie alla sua intelligenza e al rispetto guadagnatosi, riesce ad acquisire potere nell’ambito mafioso, fino a quando si rende conto per primo che il destino di tutti sara’ la morte. Il tutto in una logica decisamente giapponese, in cui la vita non ha alcun valore (non solo la vita degli altri, ma anche la propria), in cui non si indugia a sacrificare un pezzo del proprio corpo o la vita intera, senza che ci sia una grande differenza, per chiedere perdono, per dignita’ personale o semplicemente per fare un favore ad un amico. Questa fredda logica ci comunica in realta’ forti emozioni, un profondo coinvolgimento e anche sentimenti di grande amicizia e lealta’. Kitano mescola tristezza, violenza, dolcezza e morte, come nel suo precedente capolavoro Hana-bi (Fiori di fuoco), con una regia da grande maestro. Come attore, poi, domina lo schermo con un’ottima interpretazione, col il suo volto enigmatico e la sua espressione misteriosa, di chi non dice ma ha capito tutto. Silvia 

Shrek (Animazione)

Shrek è un dolcissimo orco verde che si nasconde dietro una facciata di cattivo che più che voluta è affibiata dagli esseri umani che non sono abituati al diverso. Un giorno il cattivo lord che vive nel castello del luogo  decide che tutti i protagonisti delle fiabe devono esser esiliati nella palude dove vive tranquillamente (e in solitudine)il nostro orco: questa così  si popola di meravigliosi ed esilaranti personaggi che  ci tornano alla mente e che  forse pensavamo di esserci  dimenticati dalle fiabe di bambini:i sette nani, i topini ciechi, i tre porcellini e via dicendo. E poi c'è Ciuchino, l'asino logorroico e comicissimo  che non vede in Shrek un diverso, bensì una persona che ha bisogno d'amore e amicizia. Insieme a lui andrà a salvare(per poi darla in sposa al Lord) la bellissima principessa Fiona che vive nella torre di un castello tenuta prigioniera sia  da una draghessa dal facile rossore sia  da una magia che verrà alla fine svelata. Inutile dire che tra Shrek e la Principessa ... Perchè andare a vederlo? Per la colonna sonora attuale e molto originale, per la grafica che è a dir poco ottima, per la storia che non vi lascerà per un istante senza il sorriso sulle labbra e per un ritorno all'infanzia che male non fa mai. Per un assaggio: www.shrek.com .  (Tungaska)

TRAIN DE VIE di R. Mihaileanu

Un film sull' olocausto, in cui l' olocausto quasi non compare, in cui non compaiono campi di concentramento, né deportazioni o uccisioni di ebrei.
Il protagonista del film è il popolo ebraico, con la sua autoironia, con la sua fede, le sue tradizioni da seguire e contestare, con il suo ingegno e la sua operosità, con le sue pulsioni vitali in una rigida struttura sociale, i suoi colpi di genio e la sua sottile vena di follia.
Ma soprattutto con i suoi sogni, costruiti per continuare a vivere nonostante tutto, per sfuggire al dolore e al male, proprio come si costruisce dal nulla un "treno per vivere" per sfuggire ai nazisti.
Guardando il film si ride per la quasi totalità del tempo, ma ciò che rimane alla fine è un senso di tristezza profonda e senza lacrime. Perché raramente i sogni si avverano. Silvia

Billi Elliot

E' la potenza del balzo finale a spiegare l'essenza di questo film che inizia con la stessa leggerezza di una foglia che cade sulla terra.

Il fuoco dell'arte, dapprima tenue fiammella di candela, si tramuta in un rogo, in crescendo, seguendo la maturazione del personaggio, e guida gli eventi, che hanno la bellezza della semplicità.

In un mondo dominato da stereotipi di cui certi uomini sono incolpevoli custodi, il piccolo Billi Elliot è uno dei pochi a lasciarsi illuminare dalla verità, senza opporsi ad essa. E seguirà il suo istinto fino in fondo, cambiando persone pietrificate nella loro immobilità. Un film struggente, dove speranze, rimpianti, rabbia e voglia di riscatto si fondono alimentando quel fuoco che ti porta dritto a quel balzo finale. E che ti leva il fiato. (federico)

Le Verità Nascoste

Cosa si nasconde dietro un matrimonio all'apparenza invulnerabile? Fantasmi,oscure presenze,scheletri nell'armadio.

è trascorso un anno da quando un apparente perfetto marito ha tradito l'incantevole,moglie ignara di tutto. Il matrimonio fila nel migliore dei modi fintanto che i nodi non vengono al pettine,e quelli che sembrano solo sospetti ed inverosimili sensazioni si trasformano in una terribile realtà. L'uomo fino a quel punto insospettabile un po' alla volta getta la maschera e rivela la sua vera identità di malvagio e opportunista. Ma giustamente alla fine prevarrà il Bene ed il Male annegherà nella stessa acqua dove aveva cercato di cancellare l'ingombrante presenza di un'altra e ormai inutile donna.Sottovalutando però i poteri della vendetta..reali o meno essi siano.

Le verità nascoste è un film di impianto classico, sicuramente hitchcockiano, tutto giocato sulla suspance e sull'inquietudine del "non ancora visto" e del "non ancora accaduto,a cui il regista Zemeckis ha voluto aggiungere elementi paranormali, per  giocare ancora di più  con ansia e terrore,realtà e fantasia,psicologia ed aldilà.

Il tutto risulta efficace,ben confezionato e recitato.La coppia Pfeiffer-Ford funziona e finalmente si riesce a gustare un thriller per  eccellenza e non uno dei tanti tentativi mal riusciti in circolazione.(Nausicaa)

Il predestinato-unbreakble

Un treno con più  di 100 passeggeri a bordo subisce un violentissimo incidente per  il cui impatto muoiono tutti.  Tranne uno .Un uomo qualsiasi,malinconico,taciturno,una persona infelice che suo malgrado è protagonista di un vero ed inspiegabile miracolo.Nemmeno un graffio nel suo corpo,dato scientificamente inspiegabile che fa andare sulle sue tracce l'ambigua figura di un amante dei fumetti,alla ricerca di un super eroe inconsapevole dei suoi poteri...il predestinato appunto.

Un Bruce Willis abbastanza appannato (gli sono sicuramente + congeniali i ruoli d'azione come in "pulp fiction "ed il "quinto elemento")  ed un più  convincente Samuel Jackson,sono i protagonisti di questo film dal soggetto intrigante ed originale,che offrirebbe spunti interessantissimi. La contrapposizione Bene -Male,l'idea portante dei fumetti che si rapportano alla realtà è sicuramente apprezzabile ma poco sfruttata,confezionando un film più ad effetto e giocato sulle aspettative che sui risultati.

Povero di dialoghi,finale frettoloso rispetto ai tempi lunghissimi della storia e sviluppi poco avvincenti lasciano un po'  di amaro in bocca e sicuramente delusione,confidando di un livello pari a quello del "Sesto senso",film precedente e decisamente riuscito del regista Shyamalan.

Peccato.(nausicaa)

criminali da strapazzo

Uno squattrinato, neanche troppo furbo (Woody allen) idealizza il piano più "geniale" del secolo per rapinare una banca insieme ad  altri due suoi complici. Prendere un negozio in affitto di pizze, adiacente la banca, scavare un tunnel ed arrivare al bottino.

ll primo problema è la moglie che si rifiuta di dargli tutti i suoi risparmi per affittare il negozio ed attuare il piano "geniale", ma poi convinta da lui cede e per copertura inizia a produrre biscotti, unico dolce che lei sa cucinare, mentre gli altri scavano.

Il tunnel fallisce, un vero disastro, in compenso la produzione di dolci va a gonfie vele, con tanto di TV ad intervistare la cuoca "novella". Tutto ciò porta soldi, tanti e la voglia della moglie di far parte dell'elite di New York, a differenza di Woody, amante della birra e del mare di California. Come finisce? come tutte le belle favole, si ritorna alle origini del loro piano con un po' più di esperienza nella vita quotidiana. Per essere Woody Allen mi aspettavo qualcosa in più, ma nel complesso è divertente, soprattutto la fotografia e la casa kich!( trainspotting)

I cento passi                             

candidato all'oscar come miglior film straniero. E' una storia vera, ambientata a Cinisi, un paesino della sicilia negli anni '70 .In verità non  so bene che dire di un film di mafia, senza sparatorie, dove il coraggio di un ragazzo appartenente alla famiglia mafiosa Impastato, vicina a Tano Badalamenti, si espresse in quegli anni; dove il fondare una radio in cui parlava del suo paese, Mafiopoli, gli è costata la vita. Mi permetto solo di "chiedere" la Vostra visione, perchè si tenti di riflettere su cosa ha spinto Peppino (il protagonista) in quella direzione, dove si riparla della vita di un uomo, per quello che fa, non per cosa è, o peggio per cosa "ha". Buona visione. ( trainspotting)

Fargo

E' una storia vera ambientata nel nord america. Un uomo, piccolo e frustrato, decide di far rapire la moglie per chiedere un riscatto al suocero, il capo dell'azienda dove lavora, spartire il denaro con i due complici mercenari e comprare un lotto dove costruire dei parcheggi: il suo affare del secolo.

I rapitori, uno biondo, silenzioso e visibilmente schizofrenico ed un piccoletto nervoso e rigido, portano in atto il brutale piano in maniera poco ortodossa, seminando morti sul loro cammino, e tirandosi addosso le attenzioni di uno sheriffo, donna, incinta di 7 mesi.

Crudo, cinico, violento, mostra il lato più meschino di un america che raramente s'incontra nei loro stessi film "polizieschi", dando una visione forse più reale, che insieme alla fotografia ci mostra una parte degli U.S.A. sconosciuta a molti, desolata e fredda.

Il finale può sembrar scontato, ma ricondotto alle scene iniziali, chiude il cerchio del pensiero, pessimista o estremamente realista, dei fratelli Coehn. Trainspotting

La cena dei Cretini

La cena dei cretini è un appuntamento fisso del mercoledi, dove un gruppo di amici porta un ospite considerato "cretino". Vince chi trova il personaggio più singolare in ciò.

Il protagonista è un ricco uomo di Parigi che in treno conosce "il cretino" che sicuramente gli farà vincere la prossima cena, monsier Pignon, appassionato in riproduzioni di strutture architettoniche con fiammiferi.

Sembra tutto facile, ma un colpo della strega costringe il probabile vincitore a casa, proprio il mercoledi della cena e per di più con il suo "amico" ignaro del motivo dell'invito.

Inizia così una travolgente serata dove si susseguono incomprensioni, battute, equivoci che rendono il film estremamente divertente, comico fino allo spasso, quasi da sembrare uno spettacolo teatrale, grazie anche ad una ambientazione unica.

I personaggi che si susseguono nel film sono richiamati involontariamente da monsier Pignon e contribuiscono a vivacizzare il film ed a creare scene equivoche sempre più assurde e spassose.

Alla fine il "cretino" scopre il motivo del suo invito e la sua reazione è... da vedere. (Trainspotting)

Il dottor T e le donne  regia di R.Altman 

Richard Gere è l'uomo perfetto, l'uomo che le donne le ama, le capisce, le comprende  e forse non a caso, in una realtà un po' nevrotica e al limite del verosimile, ne è circondato. Una moglie, impazzita per troppo amore ricevuto, una zia con tre figlie piccole addobbate come bambole, due figlie piene di problemi, di cui una in procinto di sposarsi e molto vicina "all'amica" Marylin (L.Tyler), un'amante( il premio oscar Helen Hunt), e infine le infermiere e le pazienti tormentate, avvilite, bisognose di attenzioni, nevrotiche, gelose, pettegole che passano il tempo nel suo famoso studio ginecologico. A cosa porterà tutto questo?  (Tungaska)

Sud Side Stori  di R. Torre

Genere musical, come al suo esordio con "Tano da morire", ma senza la stessa originalità; posso dire che le musiche e l'utilizzo di scenografie colorate, con cartelloni, nonchè le riprese sono del tutto copiate. Cambia l'argomento : la tratta delle africane, costrette a prostituirsi in italia.

Il film è ambientato a Palermo ed è sulla falsa riga di "Romeo e Giulietta". In questo caso il protagonista maschile è un cantante in arme (giulietto), con il mito di Elvis e il più nostrano Little Toni, mentre Romea è un'africana, giovane prostituta.

Gli attori sono sconosciuti, forse l'unico merito del film, con due comparse di eccezione che danno un tocco di vivacità alla storia. Il contorno dei personaggi che ruota intorno ai due protagonisti è una esasperazione negativa e critica della vita nel sud d'Italia : esasperazione nella credenza religiosa nei santi, visione gerarchica della famiglia, contrasto tra religione e credenze nell'occulto.

In fondo i temi trattati sono ben studiati con dei parallelismi degni di nota (il rivolgersi a santoni da parte delle "suocere" del luogo, così come delle africane amiche di Romea) ma la colonna sonora a volta risulta troppo sovrastante sulle scene. Il finale è da ricollegarsi alla storia di "Romeo e Giulietta"   ( Trainspotting)

Pane e tulipani 

Rosalba,una donna sulla quarantina in Sicilia con marito e figli,viene lasciata per errore in un autogrill...da qui inizierà il suo improvviso e stravagante viaggio alla ricerca di una vita mai vissuta,che forse nemmeno lei,semplice e svagata,pensava consciamente di desiderare.La troverà a Venezia,una Venezia soave e romantica,in grado di riportarla alle piccole cose,ai piccoli gesti,in grado di farla esprimere e vivere davvero. Rosalba incontrerà qui anche l'amore,un'amore dolce,timido,soffuso,taciuto forse per troppo rispetto e sensibilità,amore che troverà espressione,quando Rosalba deciderà di viverlo,di lasciare tutto per tornare in quell'atmosfera d'altri tempi,tra pane,tulipani,poesia e balli gioiosi su piattaforme girevoli.Finalmente trova la sua dimensione,senza dolori o traumi ed il tutto viene raccontato con la maggior delicatezza possibile.

Soldini,il regista ,mette nuovamente alla prova in questo film così lieve e profondo,il suo talento registico e propone storie e personaggi semplici delineandoli con grande purezza e poeticità,rendendo trame apparentemente banali sottilmente originali e personali.Gli attori sono decisamente all'altezza,Licia Miglietta, già vista ne "le acrobate"dello stesso Soldini è affascinante e intensa ,Bruno Ganz si cala perfettamente nel ruolo di uomo d'altri tempi venato dalla tristezza del passato.

Vi consiglio di vedere questo film,piccolo,ma dai grandi contenuti,per non pensare che il cinema italiano sia definitivamente morto. (nausicaa)