CINEMA
Regia: Walter Salles
Dalle prime scene, ma anche dal titolo, è facile capire cosa sarà il film. La pellicola è stata una corsa del regista attraverso la mente e le parole di un personaggio leggendario del novecento, Ernesto Che Guevara. Per chi a letto molte biografie ed in particolar modo quella di Paco Ignacio Taibo II, risulta facile seguire l’autore dell’opera durante il racconto dell’amicizia fra il Che è Alberto Granado che si fortificò nel viaggio che li vide insieme, a percorrere il Sud America ed il suo popolo. Una solo dimenticanza o un omissione volontaria, la frase che Che Guevara pronunciò appena giunto a Matchu Piccu: “E’ l’unico posto al mondo dove non c’è l’insegna della Coca – Cola”. Bernal è stato pienamente in grado di impersonare il giovane Guevara e nel rappresentare le sue crisi d’asma e, quindi, tutto il suo lato umano ha dato una prova forte di tutte le sue capacità di recitazione. E’ quasi inutile, soffermarsi sulla bellezza affascinante delle riprese che sono solo il risultato della proposizione di incantevoli luoghi sudamericani. Dalla pampa alle Ande senza perdere un filo di purezza e castità espressiva che hanno aggiunto qualità all’opera. La scontata, ma opportuna carrellata di fotografie immesse nel finale del film a sigillare il valore dello stesso è stato il suggello che serviva per dire cosa fu che servì al Che per diventare il Che. L’importanza dei legami umani e delle relazioni interpersonali, come anche quello “particolare” fra uomo e donna viene fuori benissimo dal film ed è stata proprio questa la firma d’autore. L’importanza di toccare l’altro, abbracciare un altro corpo penso sia stata capita anche dai meno sensibili. Nuovamente, mi è capitato di assistere da solo alla proiezione del film, anzi con la proprietaria alle mie spalle, e purtroppo non sono riuscito a vedere fino in fondo l’effetto sugli spettatori. L’interpretazione del con protagonista è stata discreta, ma i piccoli momenti offerti da attori indigeni sono stati la cosa meno recitata e costruita, quindi più reale. La cosa essenziale del film è stato il potere esercitato su le mie gambe. Le mie gambe hanno più volte cercato di alzarsi ed andare via. Ovviamente, non per un rifiuto, ma per la voglia di imitare gli attori nel loro viaggio e possibilmente seguirli fino dove neppure loro si sono spinti. Qualcun altro è responsabile di questo moto represso delle mie gambe, per ora non è importante specificare di chi o cosa si tratta. Meglio viaggiare. Nunzio Festa
tratto
dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini
Mi è capitato, anzi ho scelto, di vedere questo film da solo senza l’aiuto delle parole di nessun amico e senza l’aiuto degli sguardi di nessuna ragazza. Forse anche questo mi è servito a leggere meglio i battiti del cuore che questo film ha prodotto in gran parte del pubblico presente alla proiezione, forse anche le lacrime che sono riuscito a custodire gelosamente nelle mie palpebre hanno consentito al mio cuore di emulare l’azione spasmodica dei tanti altri organi vitali seduti in sala. Le prime scene o le prime immagini che il regista ti fa cadere dal suo obiettivo attraverso una goccia di acqua che si getta in una tazzina, mostrano subito il tocco artistico - cinematografico che Castellitto ha dato a tutto il film ed a gran parte delle riprese di esso.
Forse da questo punto di vista la prosa delicata della Mazzantini hanno fatto detenere al romanzo il pregio della migliore qualità.
La prova di recitazione offerta dalle protagoniste femminili si sono ben accostate alla riuscita recitazione del protagonista, che è poi lo stesso Sergio Castellitto. Le espressioni giocate sul viso del grande attore sono state un tassello essenziale del puzzle dell’opera.
Fin quando l’amante del medico muore la necessità di sperare in una fuga ben riuscita, da parte dei due amanti, rimane viva nelle visioni degli spettatori e la loro immaginazione galleggia fino a quando ha la convinzione di farlo.
L’incidente in motorino su cui è impiantata tutta la trama del film, rimane quasi come un fatto secondario che va ad inciampare nella vita dei genitori della ragazzina a smuovere la quotidianità dei lavori del medico, appunto, e della giornalista, madre della ragazzina impersonata da Claudia Gerini. La bellezza fisica della Gerini è una caratteristica che ben si addice al personaggio che interpreta e che ne è uno degli elementi di distinguo. Ovviamente, il tocco quasi balcanico ed un po’ zingaresco del corpo di Italia e le sua passiva passione e poi il suo trasporto dovevano, per forza, scuotere la mente del troppo rigido chirurgo.
IL colpo di scena che potrebbe scattare quando rimane incinta la moglie de medico scatta forse, nel momento in cui Italia abortisce e questo va a risolvere i problemi del marito traditore o ad accrescerli a seconda del punto di vista dal cui si osserva tutta la vicenda.
In conclusione, si può affermare che la cosa che è accaduta alla mia pelle per tutta la durata del film e solo la parte visibile delle emozioni che l’opera è capace di trasmettere.
Il regista, quindi, è stato in grado di realizzare un film degno di essere definito tale, oltre che, ovviamente, una Grande Opera. Nunzio Festa
Italia,
2003
Non
ti muovere è la storia di un amore.
Anzi,
la storia di un tradimento.
La
storia di una moglie. Di un marito. Di un'amante. Ma anche di una figlia.
Non
ti muovere è un "riassunto di vita".
L'incipit
del film mostra la scena di un incidente stradale in cui una giovane
ragazza viene gravemente ferita e condotta in ospedale; mostra un padre,
Timoteo (Sergio Castellitto), medico nello stesso ospedale, ed una madre,
Elsa (Claudia Gerini) che, straziati dal dolore, assistono, uniti, alla
lotta della figlia tra la vita e la morte.
Fin
qui niente di strano: l'incidente della ragazza parrebbe rappresentare nel
film lo sconquasso nella vita tranquilla di una famiglia agiata e senza
troppi problemi.
Ma
ecco che, attraverso i ricordi di Timoteo, il film solleva il velo sugli
anni che precedono l'incidente e che sono stati, essi, il vero, primo
terremoto nella vita dell'uomo.
E
la tranquillità di ora non è che la quiete dopo una tempesta di eventi,
sentimenti, e tormenti.
Ecco
che allora, attraverso lunghi flashback, Castellitto, alla sua seconda
prova da regista, racconta la storia dell'amore clandestino di Timoteo e
Italia (Penelope Cruz), un amore che scaturisce da una violenza che l'uomo
consuma sulla donna in una torrida giornata estiva di molti anni prima.
Un
amore che si snoda nel tempo, sopravvivendo a separazioni, aborti,
nascite, morti.
Ci
sono immagini e sensazioni che rimangono impresse negli occhi e sulla
pelle di chi ha visto Non ti muovere.
Si
può quasi "annusare" l'odore acre del sudore misto a polvere e
sporcizia della scena dell'incontro tra Timoteo e Italia.
Non
si può dimenticare la scena del ballo pazzo di Italia davanti alla casa
diroccata che è la sua dimora: gli occhi folli, i movimenti scoordinati
delle gambe ossute e la risata amara di chi ha rinunciato ad un sogno.
Non
si potrebbe immaginare altra attrice all'infuori della Cruz a dare vita ad
Italia.
Perché
in questo film Penelope ed Italia sono davvero la stessa persona.
E
l'accento un po' stentato della Cruz nulla toglie al personaggio, anzi
arricchisce Italia di nuove sfumature.
Un
film colmo, traboccante di emozioni che non lasciano indifferenti. Che il
film piaccia o meno.
Da
sottolineare anche la scelta dei brani che compongono la colonna sonora:
un mix inconsueto di musiche originali (firmate da Lucio Godoy); brani -
non originali - di autori quali Leonard Cohen e Terence Trent D'Arby; una
canzone inedita di Vasco Rossi che, dopo aver letto il libro di Margaret
Mazzantini (moglie di Castellitto) da cui il film è tratto, ha voluto
dare il suo contributo all'opera cinematografica; ed infine anche un
autore talvolta bistrattato come Toto Cutugno, che trova, con la sua
"Gli Amori", una perfetta collocazione in questa amalgama
musicale che scandisce il ritmo del film. Intransito
Regia: Quentin
Tarantino
Pronto
da sfornare in DVD, arriva a settembre la seconda parte della più
riuscita saga dell’anno, dopo la chiusura delle trilogia de Il
signore degli anelli, firmata Quentin Tarantino. Il regista del pulp
sceglie come prima donna dello schermo ancora una volta una stupefacente e
allenatissima Uma Thurman in tuta gialla. In due puntate per, in tutto,
quattro ore e poco più. Il volume 1 era uscito in formato cd lo scorso
mese e già era stato un successo. Il volume 2 ha fatto registrare al
botteghino un buon incasso e intende replicare alla sua uscita nelle
classifiche di vendita dei DVD. E'
già annunciata un’edizione speciale di entrambi i volumi, quindi di
fatto questa attuale della prima parte è una versione “light”
destinata a chi non ha particolare interesse nei potenziali extra del film
o che non resiste ad attendere le prossime evoluzioni. La trama: la
Sposa è un’ex-killer che faceva parte dei “Deadly Viper Assassination
Squad” assieme alla
perfida Elle Driver (Darryl Hannah), Budd (Michael Madsen) e alla
giapponese O-Ren Ishii (Lucy Liu).
Aggredita e quasi uccisa il giorno delle nozze per ordine del suo padrino
Bill, la Sposa entra in coma. Dopo cinque anni, però, si risveglia.
Addestrata dai monaci Shaolin allo Zen e alle arti del Kung Fu, diventa
una macchina di morte con una sola missione: uccidere Bill. Inizia
allora a dar la caccia e ad uccidere uno ad uno i vari componenti della
squadra, per arrivare poi al suo obiettivo finale ma... non senza la
sorpresa. Dopo una lunga pausa Quentin Tarantino torna a far parlare di sé
con questo film grottescamente divertente e prepotente. Una pellicola
fuori dagli schemi, un appassionato omaggio del regista ai suoi generi
preferiti: film anni '70 di arti marziali, manga, spaghetti western. Un
susseguirsi di citazioni e rimandi musicali e visivi a pellicole del
passato conditi da una violenza fuori dal comune, talmente esagerata da
risultare volutamente ironica. Un film a metà, suddiviso per volere dei
produttori (ma forse anche dello stesso Tarantino), che spiazza e divide
anche i fan del geniale regista. La pellicola si dipana lungo una
struttura non lineare, come accade sempre nei film di Tarantino: ma non
solo, c'è addirittura un'intera parte di film che non propone attori e
scenografie, bensì sequenze manga, per raccontare la storia di una delle
protagoniste. Il tutto accompagnato da una colonna sonora eccellente, che
oltre a brani anni '70 accoglie anche pezzi di Luis Bacalov e Bernard
Herrmann.
Regia:
Kaige Chen
Un
ragazzino di provincia che suona il violino. Il padre, orgoglioso di lui,
che lo porta a Pechino, ma sempre con un cappello da contadino in testa.
Una ragazza un po’ frivola e pazzerella, ma col cuore d’oro. Un
maestro di violino con i calzini di due colori diversi e decine di gatti
nel suo appartamento. La Cina antica dei villaggi rurali e quella moderna
delle grandi città. Una storia semplice su cui non dirò molto di più,
per lasciare che lo spettatore se la goda fino in fondo. Una storia
semplice e un segreto in fondo al cuore.
Tutto
questo nell’ultimo film del regista di “Addio mia concubina”, che
dimostra, ancora una volta, la sua incredibile capacità di descrivere i
rapporti umani. Quello che più stupisce, in questo film, è la capacità
di descrivere i sentimenti, come pochi film sono ancora in grado di
raccontare, in modo credibile e genuino, senza paura ma anche senza
retorica.
Un
film da guardare, per piangere e gioire allo stesso tempo, per ricordare
che, da qualche parte, in Cina ma non solo, i figli amano ancora i padri e
che, dopo tutto, questa è una delle poche cose che contano. (Silvia
Merialdo)
Regia:
Edward Zwick
I
samurai che non muoiono mai. L’ultima pellicola di Edward Zwick con il
sexy over 40 Tom Cruise, lascia tutti a bocca aperta. Prima di tutto per
la sua durata eguagliata, per fare un facile paragone, dall’altrettanto
interminabile Balla coi lupi
(181' ma di cui esiste una versione anche più lunga). Secondariamente
per la ricostruzione delle battaglie, la bellezza dei paesaggi orientali
curati nella fotografia da John Toll e per la colonna sonora composta da
Hans Zimmer, lo stesso de Il gladiatore. La storia: anno 1870. Il capitano Woodrow Algren (Tom
Cruise) è un veterano della Guerra Civile, non più soddisfatto della
politica del suo Paese nei confronti delle guerre, ora inutili e prive di
significato ai suoi occhi. Una volta sarebbe stato disposto a morire per
il suo Paese ma ora, durate gli anni della guerra civile, il mondo è
cambiato. L’onore è andato perduto durante le campagne indiane, dove
gli Stati Uniti sono diventati conquistatori senza scrupoli. Dall’altra
parte del mondo c'è un uomo che vede il suo mondo cadere a pezzi sotto i
colpi del progresso. E’ il guerriero samurai Katsumoto (Ken Watanabe),
ultima guida di un’antica stirpe di guerrieri. Algren viene a contatto
con questo mondo quando viene invitato dal giovane imperatore del Giappone
Meiji per addestrare le sue truppe alle più avanzate tecniche di
combattimento, tentando di fermare l’avanzata dei Samurai che non lo
riconoscono come legittimo imperatore. Ma il capitano viene ferito in
battaglia e condotto nel campo dei guerrieri giapponesi, dove rimane
affascinato dal loro spirito e dall’immenso senso dell’onore che li
guida. Le linee del telegrafo e le ferrovie stavano spazzando via i valori
che hanno guidato i samurai per secoli. Se l'imperatore vorrà spazzare
via ciò che resta di questi nobili guerrieri, il capitano morirà in loro
difesa. Un film epico in cui il regista, non nuovo a questo tipo di
pellicole fin da Glory, riesce a
fondere il dramma del conflitto interiore con la lotta che si consuma in
battaglia. La scelta di creare una pellicola senza artifici elettronici,
per poter restituire emozioni forti agli spettatori recuperando un gusto
antico, ha richiesto notevoli sforzi a cominciare dalle varie location tra
Giappone, Nuova Zelanda e USA. La riuscita va ricercata nell'universalità
dei temi come lottare per un ideale ed avere un senso dell'onore che porti
a rispettare i propri nemici ma anche nel forte impatto emotivo e nella
capacità di trascinare lo spettatore nella storia. Michela
Manente
The Far Side of the World Regia: Peter Weir Interpreti: Russell Crowe, Richard Stroh, Pal Bettany, Billy Boyd, Therry Segall USA 2003 Durata: 138'
Azione, dinamismo, sentimento sono le re componenti che fanno di Master&Commander, l'ultima fatica dell'australiano Peter Weir, già noto per L'attimo fuggente e The Truman Show, un grande film candidato a vincere qualche statuetta nella più lunga notte di Hollywood in programma nei prossimi mesi. Un cast importante che vede protagonista l'ex gladiatore Russell Crowe nei panni del capitano Jack Aubrey, per gli amici "Lucky". La sinossi parla delle battaglie in mare ai tempi di Napoleone, quando la nave rappresentava il microcosmo patria da difendere e salvaguardare fino alla morte. Nei mari davanti alla costa del Brasile il vascello di sua maestà britannica "Surprise" viene attaccata dalla Norfolk subendo gravi danni e numerose perdite tra i 197 uomini dell'equipaggio. La scelta da fare per l'impavido e autoritario capitano è tra rientrare in porto oppure inseguire il nemico e riavvalersi del torto. Nella prima ipotesi il film finirebbe in modo poco eroico, non rimane che riprendere la rotta e inseguire la Surprise. Il film è tratto dagli avventurosi ma anche storici romanzi di O' Ban di cui ne rispetta i contenuti senza tralasciare l'aspetto umano legato alle paure che da sempre fanno parte dell'animo umano. Battaglie, contrasti di gerarchie tra ciurma e capitani, orgoglio di potere si ridimensionano alla luce dell'umanità e del sentimento di grandi uomini, innamorati del mare ma a cui sanno rinunciare di fronte agli avvenimenti che vede l'equipaggio coinvolto. Michela Manente
Regia:
Gus Van Sant
Elephant,
uno dei pochi film americani in concorso lo scorso maggio a Cannes, è
riuscito a battere tutti i favoriti per aggiudicarsi ben due premi, la
Palma d’Oro e il premio per la migliore regia. Cosa non da poco, visto
il budget ristretto, gli attori non professionisti e la produzione
indipendente.
Van Sant, regista di Will Hunting genio ribelle e Scoprendo Forrester, ha deciso di rivedere il suo modo di fare film, scegliendo questa volta di girare in modo veramente diverso e originale. Il film si ispira liberamente alla strage nella Columbine High School del 1999, in cui due studenti spararono sui compagni, uccidendo dodici persone fra ragazzi e insegnanti e poi togliendosi a loro volta la vita. Quello della violenza nelle scuole è un tema complesso e di cui difficilmente si vuole discutere, soprattutto negli Stati Uniti. Come afferma il regista, spesso le persone si rifiutano anche solo di ammettere l’esistenza dell’elefante (appunto l’elephant del titolo) che hanno nel loro salotto di casa.
Ad
affrontare questo tema ci aveva già pensato Michael Moore con il
documentario Bowling per Colombine. Mentre Moore però sceglieva di
fornire più informazioni possibili per cercare di dare una spiegazione al
fenomeno, Van Sant si limita invece a rappresentare la vita dei ragazzi
all’interno della scuola, usando più silenzi che parole e senza neanche
lontanamente pensare di fornire risposte o interpretazioni. Ecco allora la
vita quotidiana degli studenti in una scuola dell’Oregon in una giornata
d’autunno: chi scatta fotografie, chi va a riunioni sulle minoranze
sessuali, chi segue le lezioni di fisica, chi discute a pranzo con le
amiche. E chi decide di ordinare un fucile via internet per compiere una
strage nella scuola.
La
regia è sicuramente il punto di forza di un film minimalistico e dalla
sceneggiatura essenziale. Pedinandoli alle spalle mentre si aggirano nella
scuola, la telecamera segue gli studenti, scegliendo spesso di mettere a
fuoco la nuca del ragazzo e di sfocare lo sfondo, quasi a ribadire
l’estraneità del mondo in cui vivono. Allo stesso modo sono frequenti
le inquadrature con telecamere fisse degli spazi interni, palestre,
aule, corridoi, enormi e vuoti, in cui sembra di perdersi. Le medesime
situazioni tornano poi più volte, da differenti punti di vista. Si
potrebbe rimproverare il fatto che con una regia tanto ricercata il film
risulti un po’ freddo, anche a causa dei ritmi lenti, della sensazione
di estraneità e della voluta mancanza di identificazione nei personaggi,
poco approfonditi psicologicamente. Forse quel che conta è però il
sentimento che rimane alla fine: mostrando l’inspiegabile senza
azzardare a spiegarlo o tantomeno a giudicarlo, Elephant ci lascia in
preda a inquietanti riflessioni e alla sensazione di avere visto, nella
noiosa quotidianità della vita, niente di più che la banalità del male.
Regia:
Wim Wenders Interpreti:
Chris Thomas King, Keith B. Brow
Genere: documentario musicale
All'origine
di tutto c'è l'affascinante mondo del blues. Già sperimentato il film
musicale con "The Buena Vista Social Club", il regista di
"Il cielo sopra Berlino" approva il progetto di Martin Scorsese
di realizzare una serie di sette pellicole su un genere musicale dirette
da nomi importanti quali se stesso, Mike Figgis o Clint Eastwood, in
occasione della proclamazione dell'"Anno del blues" . Il
cineasta tedesco ha scelto di offrire il proprio punto di vista e di
presentarlo all'ultimo Festival di Cannes in rappresentanza dell'intero
progetto di Scorsere. In "The soul of a man", in italiano
"L'anima di un uomo", Wenders esplora la musica e la vita dei
suoi artisti blues preferiti degli anni 30/50: Skip James, Blind Willie
Johnson e J.B. Lenoir. Il tutto inizia con il viaggio dall'Africa al delta
del Mississipi, dove la musica si è sviluppata dalle grida nei campi,
tramite le canzoni di lavoro e i cori in chiesa, percorre il Mississipi
nei locali con juke-box, le feste in casa e gli studi di registrazione di
Memphis e Chicago e culmina col coinvolgimento e la fusione emotiva di
questo ritmo afro-americano ad opera dei musicisti e della gente di tutto
il mondo. Il lavoro del regista è in parte storia, in parte fiction
recitata da attori, arricchito in più da rare immagini di repertorio,
documentari attuali e cover, cioè reinterpretazioni delle canzoni dei
bluesmen in questione eseguite da musicisti. Sono artisti che hanno
toccato quel genere o lo interpretano tuttora, come Lou Reed, i Los lobos,
Nick Cave, Eagle Eye Cherry, Marc Ribot, Cassandra Wilson, T-Bone Burnett
e altri ancora. Vissuti in un'era inadatta a riceve il nuovo genere, i tre
idoli del blues ricordati in "L'anima di un uomo" sono morti
poveri e dimenticati e il pubblico di oggi ne ignora l'influenza
esercitata sulle generazioni di artisti venuti dopo. Ma nel 1977, quando
la NASA inviò nello spazio le migliori musiche prodotte sulla terra
assieme ad un messaggio registrato in decine di lingue diverse, assieme a
Bach e a Beethoven inserì anche "The soul of a man" di Blind
Willie Johnson. Michela Manente
Regia:
Fernando Meirelles
Un
puzzle compatto di storie di violenza, lotte sanguinolente tra clan,
spaccio di droga e vendette a Rio de Janeiro. Tratto dall'omonimo
bestseller di Paulo Lins, City of
God è uscito dal Festiva di Cannes dello scorso anno applaudito dal
pubblico e apprezzato dalla critica internazionale. Un film scomodo e
duro, però, difficile da guardare per la crudezza delle immagini eppure
affascinante e realistico. L'ambientazione è una favela
brasiliana, un inferno di delinquenza chiamata per ironia della sorte Cidade
de Deus. I protagonisti sono tre generazioni di ragazzi di strada
destinati a crescere nella malavita. Il filo conduttore che unisce i pezzi
del puzzle è il racconto dell'aspirante fotoreporter Racket (Alexandre
Rodrigues) che segue l'ascesa del piccolo trafficante di droga Li'l Zé
(Leandro Firmino da Hora) e rivela come la vita nella favela
diventa con facilità una vita intrisa di crimine. Si tratta di ragazzi
che impugnano armi all'età di 10 anni e che sanno che moriranno non più
tardi dei 20. I 200 attori del cast sono tutti non professionisti
reclutati tra i migliaia abitanti della favela
e "iniziati" al cinema da un corso-laboratorio di otto mesi (che
significa improvvisazione, slang, attori che ripropongono se stessi
davanti una cinepresa). Il film illustra dieci anni di episodi delle
baby-gangs ed usa con intelligenza lo split
screen per frammentare il caos della ragione, in una realtà in cui il
commercio della droga resta l'unica voce attiva dei bilanci familiari.
Nelle favelas non c'è mai
possibilità di fuga ma Meirelles, reinterpretando i fatti, riesce a
trasformarli in un percorso cosciente e verticale nell'autodistruzione, in
cui tutti vivono con l'impulso di premere il grilletto, cercando alleanze
che permettano di vedere la luce del sole. Città di Dio è un film senza
equilibrio, una cartolina da un Brasile senza regola, senza attrazioni
turistiche, senza spiaggia né musiche né carnevali ma vicino al degrado
morale, alla decomposizione di una metropoli. Assistiamo a una
riproposizione quasi giornalistica, pur se realizzata con tecniche
cinematografiche suadenti, di una realtà sconvolgente. Il film è da un
lato carico di elementi "tecnici" e dotato di un linguaggio
vitale come i suoi colori e di ritmi incalzanti come le sue musiche,
dall'altro è arricchito da una dose di indovinata ironia: una regia,
insomma, originale e di carattere. Il gangster
movie latino americano ha ottenuto un gran successo in Brasile ed è
stato esportato in oltre sessanta Paesi dove sta riscuotendo approvazioni.
Roma, sabato pomeriggio. Una coppia di sposi sta rientrando a casa dopo la spesa settimanale, sono giovani, ma non più giovanissimi, e discutono. Discutono animatamente per un episodio banale: ci appaiono subito precocemente logorati dal tempo. Sulla via del ritorno incontrano un uomo molto anziano: ha perso la memoria, non sa più dove si trova. Quest’uomo (Massimo Girotti) entrerà nella loro casa, come ospite sgraditissimo per la giovane moglie (Giovanna Mezzogiorno), ma saprà condurla verso un traguardo inaspettato.
La vita familiare non è affatto semplice, lei deve fare i conti con i 1.000 problemi della routine quotidiana: un lavoro che non ama, un marito buono e gentile, ma incapace di fare i conti con la realtà; i figli da accudire; il magro bilancio domestico da quadrare. Un’unica presenza le rende la vita meno insopportabile, quella del suo vicino di casa (Raoul Bova). Abita nel condominio di fronte, è scapolo, bellissimo, ha una vita brillante, non sembra avere preoccupazioni economiche. Lei non lo conosce, non sa nemmeno quale sia il suo nome, ma lo spia. Lo spia ogni giorno, mentre lui si veste, mente cammina per la casa, mentre fa l’amore. Ignora che lui fa altrettanto.
L’anziano ospite riuscirà a farli incontrare e con il suo esempio mostrerà loro qual è la via giusta da seguire.
Ozpetek usa ingredienti assolutamente tradizionali, ma il risultato che ottiene è molto convincente.
Ci ricorda innanzitutto una cosa banale, eppure sempre sconvolgente: dietro ad ogni vecchio si nasconde il giovane che fu, si nasconde un universo di passioni e di storie, lontane forse, ma non per questo meno vive.
Ed il passato dell’anziano sconosciuto senza memoria riaffiora pian piano, si dipana sotto gli occhi degli spettatori in un crescendo continuo e sapiente, che riesce a coinvolgere ed appassionare.
Passato che si intreccia col presente in un gioco sottile di corrispondenze. Un amore proibito, annientato dalla più grande tragedia del secolo, sepolto dalla coltre degli anni, eppure ancora vivo e sanguinante nella memoria di chi l’ha vissuto, saprà unire due persone che si cercano, saprà indicare loro la scelta più giusta da compiere. La lezione di vita di un vecchio giunto alla fine del suo viaggio cambierà l’esistenza di una giovane donna.
L’intensità drammatica del racconto è notevole, pochi sono i momenti di stanca. Il tono della narrazione non è incalzante, ma il trapasso continuo dal presente al passato è quanto mai azzeccato, e mantiene sempre elevata la tensione narrativa.
Peccato che Ozpetek non voglia lasciare nulla alla fantasia dello spettatore. Peccato che scelga di svelare ogni dettaglio della vicenda, negando a chi guarda il sottile piacere di ricomporre il puzzle che egli stesso ha così sapientemente costruito. Peccato che proprio alla fine si lasci prendere da una pedanteria fuori luogo, e voglia per forza rasserenarci con la solita, previdibilissima, nota di speranza: ognuno di noi è l’unico artefice della sua stessa felicità, basta che lo voglia e la sua vita può cambiare in qualsiasi momento.
Un film, si diceva, che non presenta soluzioni registiche particolarmente originali, ma ugualmente intenso e commovente; un film che sa appassionare e coinvolgere, sicuramente la prova più matura del talento di Ferzan Ozpetek. Quante volte al cinema abbiamo visto qualcuno correre a precipizio giù per le scale, accompagnato da una musica ricca di pathos? Grazie ad Ozpetek scopriamo che ciò può essere ancora emozionante. Davide
Regia: Todd Haynes Con: Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert.
Uno splendido personaggio femminile è al centro del film di Todd Haynes.
Siamo nel Connecticut, anno 1957. Cathy (Julianne Moore) è la moglie di un dirigente d’azienda; trascorre le sue giornate dividendosi tra la casa, i figli e le amiche, nell’agiatezza e nella mondanità domestica di una vita borghese spesa in una città di provincia.
Il suo mondo perfetto però comincia pian piano a sgretolarsi: dapprima la scoperta incredibile dell’omosessualità del marito (Dennis Quaid); poi il crescere di un rapporto nuovo fra lei ed il suo giardiniere di colore.
Man mano che il dramma dilaga nella sua vita, però, il fascino e la forza di Cathy non fanno che crescere.
I suoi splendidi abiti, scolorando dal viola al pervinca, dal rosa all’azzurro, diventano sempre più impeccabili. La sua disponibilità nell’aiutare e perdonare il marito che l’ha tradita è commovente; la sua nobiltà nel difendere la causa dell’integrazione razziale in un mondo di conservatori reazionari è ammirevole.
Cathy con la sua leggiadria, con la sua forza che non dimentica la gentilezza, svetta su tutti: sul marito, che si perde in un abisso di ignominia; sulle amiche, appagate da un’agiata quotidianità fatta di ipocrisia, maldicenza, grettezza. Forse soltanto il giardiniere nero sarà un compagno degno di stare al suo fianco.
Il tono scelto da Haynes per raccontarci la storia di Cathy è quello della malinconia: aiutato dalla struggente colonna musicale di Elmer Bernstein il regista ci narra una realtà in cui il dramma intimo di una donna (e forse ancor prima la sua stessa insoddisfazione per il ruolo sociale che le viene imposto) si consuma sottovoce, nascosto da un sorriso, in un autunno eterno, che si dipana sotto gli occhi dello spettatore in una pioggia continua di foglie morte; solo l’apparire di un ramo fiorito alla fine del film ci dirà che forse qualcosa nella vita di Cathy è realmente cambiato.
L’operazione complessiva però non convince fino in fondo.
Ciò che non si può perdonare a Todd Haynes è di aver usato due temi così impegnativi, l’omosessualità e l’integrazione razziale, unicamente per raccontare la parabola umana di una moglie borghese; la complessità è estranea a questo film: tematiche così vaste avrebbero meritato ben altri sviluppi.
Quantunque il regista riesca sempre a mantenere un rigore formale davvero ammirevole, l’omosessualità viene raffigurata con le immagini più scontate: un cinema equivoco, un incontro casuale con un giovanotto aitante durante una vacanza. Il travaglio interiore del marito di Cathy è appena abbozzato; si sente in colpa (ma non verso la moglie) e soffre: tutto qui. Nulla ci viene raccontato dei suoi desideri, nulla dei suoi tarli, nulla dei suoi dubbi, nulla delle sue ansie, nulla delle sue angosce, nulla dei suoi sentimenti.
Nella rappresentazione dell’odio razziale, poi, il manierismo di Haynes si fa ancor più marcato. Ci mostra in sequenza: signore bianche maldicenti, persone di colore povere ma allegre, una bambina di colore presa a sassate dai compagni, e alla fine il voltafaccia inaspettato di un’amica, irrecuperabilmente razzista.
Uno stile impeccabile, quindi, ma senza alcuno spunto di originalità. Davide
Grasso,
cappellino da baseball in testa, Micheal Moore sembra proprio il tipico
stereotipo americano. Eppure il suo Bowilng for Columbine, film
documentario recentemente premiato con un Oscar, è tutto tranne che
filoamericano.
Bowilng
for Columbine si propone di spiegare come mai gli Stati Uniti siano il
paese al mondo con più omicidi da arma da fuoco. Il titolo richiama la
strage della scuola di Columbine nel 1999, quando due studenti, dopo una
partita di bowling, spararono sui compagni, uccidendo 12 persone fra
ragazzi e insegnanti e poi togliendosi a loro volta la vita.
Il
documentario propone una serie di interviste a vari personaggi legati al
mondo delle armi nei modi più diversi: gente comune armata fino ai denti,
esponenti dei media, parenti delle vittime, Marilon Manson, forse fra
tutti il più innocuo ed equilibrato, Charlton Heston, presidente della
National Rifle Association, difensore della libertà di possedere armi
come prima libertà fondamentale.
Non
ci sono solo interviste, ma una serie di materiale proveniente da fonti
diverse cucito insieme dalla personalità di Moore come un patchwork con
ritmi serrati e con una musica invadente, che descrive il fenomeno in
maniera apertamente provocativa e a tratti esilarante (grandioso il
cartone animato che ripercorre la storia degli Stati Uniti in versione
South Park), spesso sfociando in giudizi sulla politica interna ed estera
degli Stati Uniti, estremamente attuali in questi giorni di guerra.
Tutto
questo tenendo alto il livello di intrattenimento, esempio di come
argomenti seri possano essere trattati modo divertente, geniale e
coinvolgente.
La
tesi finale di questa analisi sembra essere che, più che
l’impressionante facilità con cui le armi da fuoco sono disponibili, la
responsabilità sia della cultura della paura che infonde il bisogno di un
nemico a tutti i costi, sia esso Saddam, Bin Laden, il giovane di colore
della periferia o il vicino della porta accanto.
Prima di andare a vedere questo documentario mi chiedevo quanto mi potesse interessare veramente una questione che in fondo è un problema interno degli Stati Uniti. Avendolo visto, ho scoperto invece che mi interessa moltissimo, a tutti interessa, perché altro non è che un’immagine del paese che oggi si permette di decidere la sorte del mondo, un’ulteriore inquietante rappresentazione del sistema americano a tutti i livelli, dalle classi sociali più povere fino al presidente Bush. Per fortuna, insieme alla costernazione nel vedere certe cose, rimane anche una minima goccia di speranza nel sapere che ci sono personaggi come Moore ancora in grado di pensare criticamente. Silvia
Regia:
Curtis Hanson
Vincitore
di un premio alle ultime assegnazioni degli Academy Awards, “8 Mile”
firma la sua permanenza e riproposizione nelle sale cinematografiche.
Nomination: music, ovvero miglior canzone. “And
the Oscar goes to”… “Lose
Yourself”, Music by Eminem, Jeff Bass and Luis Resto; Lyric by Eminem. In
TV durante la tarda diretta della 75esima edizione della notte delle
stelle di Hollywood il 23 marzo scorso, si commentò che era
un’assegnazione ardita. Ma il vincitore non esce dalle quinte, non si
presenta nemmeno in teatro. Meglio così, avrebbe detto qualche parola di
troppo sul conflitto in Iraq o si sarebbe esibito in freestyle con
un testo inedito sull’“inestirpabilità” della violenza, sul mondo
difficile di oggi. Come è stato il suo, del resto: una condizione di
povertà ed estrema precarietà che fa da sfondo alle vicende
autobiografiche del film firmato da Curtis Hanson. Per il cantante
americano si tratta di un debutto sul grande schermo controverso ma, in
fondo, convincente se ha sbaragliato gli altri candidati della serata a
stelle e strisce: “Chicago”, “Frida”, “Gangs of New York” e
“The wild thornberrys movie”.
Sinopsi: un giovane rapper bianco combatte per cambiare la sua vita infelice scrivendo nuovi versi e proponendo il mondo della musica come alternativo a quello della fabbrica. L’incompreso protagonista Jimmy Smith, Jr. (Eminem) desidera esser più di quel che è. Il suo sogno è di incidere un demo e di farsi conoscere ma l’unico palcoscenico che calca nel film è quello di un locale squallido per rapper di colore dove dimostra il suo genuino talento alla presenza d’un folto pubblico. La condizione degli amici di Jimmy è la stessa: povertà e desolazione. Ambientato in un quartiere povero di Detroit, l’aspirante rapper chiamato Rabbit preparerà giorno dopo giorno la sua parziale vittoria finale.
Eminem, il cui vero nome è Marshall Bruce Mathers III, di fronte alla telecamera appare credibile. Una performance che potrebbe avere un seguito cinematografico ma, soprattutto, che veicola in maniera positiva l’azione pubblicitaria sulla produzione musicale contenuta nel suo ultimo disco “8 Mile”.
Ci sono alcuni momenti genuini e brillanti nel film: una sequenza in cui Jimmy e l’amico Phifer soprannominato "Future" improntano un rap sull’assurdità della loro condizione di vita e un’altra in cui il protagonista manifesta l’amorevole relazione con la sorellina Lily, figlia di una madre alcolizzata (Kim Basinger) e sentimentalmente instabile. Tuttavia il materiale narrativo appare spesso ripetitivo, rendendo meno efficace il lato drammatico e realistico della vicenda.
C’è chi ha scritto che abbiamo già visto storie come queste in “Karate Kid”, in “Rocky”, ne “La febbre del sabato sera” o in “Flashdance”: qui in più c’è la colonna sonora. Michela Manente
Lose
Yourself
|
Perderti Guarda, |
Interpreti:
Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Monica Bellucci
Sono
affollate in questi giorni le sale cinematografiche per la visione di
“Ricordati di me”, il film di costume post “Ultimo bacio” firmato
Gabriele Muccino. Uno spaccato realistico sui nostri giorni in una grande
città, una famiglia di media classe alle prese con i ritmi incalzanti
della vita moderna: due ultraquarantenni Giulia e Carlo (Laura Morante e
Fabrizio Bentivoglio) ancora sedotti dal loro passato giovanile fatto di
sogni irrealizzati e, soprattutto, di amori non del tutto appagati. Hanno
due figli Valentina e Paolo (Nicoletta Romanoff e Silvio Muccino),
diciottenne lei e liceale lui, alle prese con la modernità
spersonalizzante imposta dai modelli televisivi (lei dal fisico esile che
sogna di diventare “velina”) mentre il ragazzo (è il fratello del
regista) veste come “uno sfigato di sinistra mentre il mondo va da
tutt'altra parte” come gli rimprovera la sorella. Il cast è ben
assortito, completato dai cammei di attori che interpretano in parte se
stessi, a partire da quelli diremmo colti, come Gabriele Lavia, Amanda
Sandrelli e soprattutto Blas Roca Rey, mentre fra quelli di invenzione
televisiva figurano Andrea Roncato (che si replica da decenni a
“Domenica in”), Pietro Tarricone (il palestrato del “Grande
fratello” 1) e Enrico Silvestrin che conduceva in tv “Taratatà”.
Infine troviamo Monica Bellucci in un ruolo discreto da madre in carriera,
insoddisfatta, che ritrova il vecchio amore di Carlo.
Fin qui la dovuta citazione dei personaggi che danno corpo alla quotidianità asfittica all'interno delle mura domestiche dominate dalla tv sempre accesa e dal telefono che squilla in continuazione. E l'amore? Quello è dentro di noi, nel profondo e ogni tanto riaffiora mutuato dall'amore per la letteratura o per il teatro, dall'ambizione a diventare visibili e riconosciuti, dall'amore per la compagna di liceo. Dal desiderio, insomma, di riappropriarsi di un io alle prese con un ritmo faticoso dell'esistenza che si trascina in giorni sempre uguali. E l'amore? La passione sarà quella di volare altrove credendo per un istante di far rivivere, nell'adulterio ad esempio, quel passato che irrimediabilmente non potrà ritornare. E ciò che resiste, nonostante tutto, è il perimetro della casa, quale ultimo baluardo nelle bufere di fughe e rientri: non tanto per scelta quanto per una imposizione da “trappola familiare” che la società borghese in qualche modo impone. In uno slancio di “buonismo” Muccino chiosa il film come diversamente non avrebbe potuto, lasciandone inalterato il ritmo e l'ispirazione: ognuno porta a termine ciò in cui crede. Ma è stata la consapevolezza che tutto poteva finire (con l'incidente del padre) a mettere in moto le proprie potenzialità?
Questo
film chiude idealmente una trilogia di opere italiane appena uscite,
legate dal filo rosso del sentimento, accomunate da parole simili e
contesti diversi: anima, cuore e ricordo. Parliamo di “Prendimi
l'anima” di Faenza, di “Il cuore altrove” di Avati e dell’ultimo
film di Muccino. Un filo conduttore verso il ripensamento dei sentimenti
che non fa mai male, a riprova che il cinema italiano può realizzare film
buoni a partire dai rapporti più intimi.
Il
film peruviano alla rassegna del Piccolo Teatro di Padova
A
quanti hanno rinunciato alle ragioni del cuore, e sacrificano la vita alla
carriera, a valori freddi e possibilmente ordinati, al gusto di assaporare
la trasgressione ossia quel briciolo di natura che pulsa almeno una volta
nella vita; a quanti pensano che il Sudamerica sappia esprimersi solo a
telenovele clonate e importate a pane e carne di manzo, e che attrici
mozzafiato non possano interpretare che la parte delle galline platinate,
il cinema sudamericano offre un piccolo gioiello di ironia e freschezza
che forse non ha paragoni perché è difficile trovare un precedente che
non scada nella commediaccia nostrana (puntualmente rivalutata,
nell’assoluta mancanza di idee nuove), e se lo confrontassimo con certo
cinema occidentale non potremmo che vergognarcene.
Un
film che sembra nascere da una costola di “Apocalypse now” ma che
deraglia rapidamente e segue una sua strada, ironica e beffarda verso ogni
serietà espressiva, che fugge l’antologia mediatica e si rifugia nel
solare, accecante piacere di vivere. Un film che prevede tutto senza mai
essere prevedibile; che esplora in maniera disincantata e ironica la vita
e l’amore, la noia e la morte. Un viaggio in quella parte di mondo che
non visiteremo mai, fra foreste vergini e altipiani sottozero, ai confini
di una civiltà che fino a ieri era opposta alla nostra, e che oggi
viaggia a suon di computer e radio indipendenti dispettose e telefoni
cellulari su barche di legno e palafitte, inseguendo i meandri di un fiume
sinuoso che è ritratto in natura di loro, le visitatrici. Immaginiamoci
cosa avrebbe fatto un regista delle nostre parti con un soggetto del
genere. Negli anni ’70 abbiamo riempito gli schermi anche di questo,
consolazione a militari in libera uscita che cercavano la forma del loro
piede, film piatti per le loro teste piatte. Abbiamo riso finché eravamo
il sesso forte, ora ci guardiamo intorno e le donne e i paesi lontani ci
insegnano un modo nuovo di guardare l’erotismo e la prostituzione, il
bene e il male che è in ogni cosa, la gioia di vivere il momento, con un
umorismo sincero, sottile fino in fondo, molto al di sopra dei cosiddetti
onore e disciplina.
Un
film da vedere e rivedere per capire che si può ridere di tutto, del
concetto di patria come del sesso, del matrimonio e delle case chiuse,
delle manie di estrema destra e di quelle di estrema sinistra, per tornare
ad osservare il mondo con uno sguardo pagano, primigenio. Un inizio in
rapida discesa verso l’ilarità, un procedere sempre più faticoso fra
le mille pieghe della vita, fra i muscoli e la paternità, vittime
comunque di un’autoimposta obbedienza che fa a pugni con l’istinto, e
un finale straordinario che ci regala un ultimo sorriso su quanto sciocca
è la vita, nel bene e nel male, nelle illusioni e nella realtà.
So che non ho detto nulla del film. È per farvelo godere fino in fondo. Claudio
Il
film di Aldo Giovanni e Giacomo alla rassegna del Piccolo Teatro di Padova
Dopo
aver a lungo ammiccato all’America nei film precedenti, stavolta Aldo
Giovanni e Giacomo puntano in alto e raggiungono al cuore il loro sogno,
la fonte d’ispirazione di mille gags, la New York dei gangster degli
anni ’50 che tuttavia, quanto a tecnica registica, si ispira più
all’ironia criminale e cinica delle Iene di Tarentino. Ghette e gessato,
brillantina e riga in mezzo, il carattere delle tre maschere resta
tuttavia lo stesso: il furbo, l’ingenuo e l’imbranato alle prese con
un intreccio di cui si capisce lo svolgimento man mano nel tempo, e che
trova una spiegazione definitiva solo nelle ultime scene. Gran merito dei
tre autori che, con il consueto aiuto del co-sceneggiatore Massimo Venier,
confezionano una storia ricca di una suspance sempre ai limiti
dell’ilarità, elaboratissima, a continui flash-back la cui attendibilità
resta sempre in sospeso.
Attorno
a questo, un divertente modo di affrontare il problema dell’identità,
che stravolge tutte le certezze e può rendere un povero imbecille uno
pronto a tutto purché gli si faccia credere di aver avuto un certo
passato. Un film che inizia decisamente in salita, fra gags già viste
mille volte (la pistola difettosa, l’impasticcato folle, la mangiata
multipla al gioco della dama) e continue citazioni cinematografiche che
vanno dal “Vertigo” di Hitchcock all’immortale “Blade Runner”
(la fin troppo classica passeggiata sul cornicione, il traliccio che
lascia sospesi nel vuoto) al cerbiatto di Biancaneve, addirittura alla
lavanderia Jefferson. E nonostante questo inizio fiacco, come a sorpresa,
il film decolla e prende quota man mano che avanza, quando
l’elaboratissimo intreccio smette di farsi beffe dello spettatore e
accetta di palesarsi a noi poveri umani. Con la bella trovata finale dei
titoli di coda inframezzati all’ultimo capitolo della saga dello
smemorato, alle prese con una divertente parodia dei film di box in bianco
e nero, un po’ Jerry Lewis un po’ Rocky, tanto per non smentire la
voglia di pescare dappertutto.
Girato in una New York che dopo il crollo delle due torri ha drammaticamente riacquistato il suo profilo di un tempo, esplorata nel suo ventre, nei vicoli-cunicoli dove la malavita regna sovrana, con sagome e figure scelte alla perfezione per imitare i boss e i picciotti, la regia stessa per colori e inquadrature si ispira ai classici gangster-movies e ne sembra chiudere il lungo capitolo, esportandolo in Italia in chiave comica. Una leggenda che, come recita il titolo forse troppo altisonante (una trovata pubblicitaria?) dura in realtà solo lo spazio di un giorno, una prova stanca ma che carbura ancora comicità, anche se non sappiamo quanto a lungo potrà ancora funzionare. Ok Al John e Jack, adesso concedetevi una pausa di riflessione. Claudio www.piccolo-padova.it
Dopo un’attesa lunga un anno, è finalmente arrivato nelle nostre sale il secondo capitolo della trilogia “Il Signore degli Anelli. Chi considera questo film un sequel si sbaglia di grosso, il regista proprio per non lasciare dubbi ci immerge direttamente nella storia come se avessimo appena visto la prima parte: niente prologo! Giusto un piccolo flashback giusto per ricordarci dove eravamo rimasti, anche gli accenni al primo film sono minimi!
Lo
stile di narrazione del film segue quello originale del libro dando molto
spazio al dialogo ed allo sviluppo interpersonale dei protagonisti. Le due
torri sembra quasi rallentare e poi accelerare il ritmo degli eventi in
modo da farci conoscere meglio i nostri eroi. Peter Jackson, molto
astutamente ha scelto di narrare in contemporanea le storie dei tre gruppi
di personaggi, creando un notevole intreccio, piuttosto che seguire la
divisione in due parti scelta originariamente da Tolkien.
La
faccenda è drammatica, i fatti narrati riguardano il periodo più buio di
tutta la storia: Saruman vuole attaccare gli umani di Rohan, Sauron quelli
di Gondor, Merry e Pipino sono stati rapiti, Frodo è ormai succube
dell’anello, gli elfi hanno abbandonato gli uomini al loro destino… ma
nonostante tutto come dice anche Arwen, “C’è ancora speranza”,
perché c’è il vero protagonista del film: Aragorn disposto a morie pur
di proteggere re Theoden e tutta la sua gente.
L’atmosfera
si fa quindi tesa, il pathos cresce per sfociare nella più maestosa delle
battaglie viste sul grande schermo: l’assedio al Fosso di Helm!
Gli
effetti speciali, le armi, i costumi, le musiche…tutto rende questo film
un’esperienza unica da Oscar!
Un
applauso va riservato alle performances di Elijah Wood: un Frodo sempre più
sofferente e tormentato; Viggo Mortensen: Aragorn è forte, bello è
coraggioso, indimenticabile la scena con lui in cima alla fortezza a dare
ordini in elfico alle truppe; Ian McKellen: (già premio Oscar), un
Gandalf rinnovato è pieno di carisma come non mai; e per finire John
Rhys-Davies: Gimli, il nano che con le sue uscite ci fa morire dalle
risate!
Insomma,
un grande film da non perdere! Per ulteriori informazioni il sito
officiale della trilogia è www.lordoftherings.net.
Nerys
Spider , con Ralph Fiennes..
un
film altamente psicologico, una peregrinazione nel ricordo, una vita
vissuta due volte...
l'inizio lo vede scendere da un treno e la fine risalire su una nera
macchina che lo porterà dal luogo da cui era uscito...
Un film che è la visione di un tragico avvenimento che, fino la fine, e
poi oltre, non si saprà se reale o frutto della sua confusa mente o dei
suoi ricordi sfocati...
L'interpretazione di Fiennes rasenta il sublime, gesti, parole
sussurrate, scritte veloci su un quadernino che non sono altro che le
fasi della sua vita da bambino che risalgono dai meandri della sua mente
confusa per palesarsi lucide come fossero appena avvenute.
Lento cammina per le vie di Londra, una Londra immersa nello squallore
che viene calpestata dalla giovane figura del bambino e dalla stanca
figura di lui adulto...barriere temporali abilmente cancellate,
interazioni tra passato e presente, rielaborazioni mentali, ricordi,
dolore e, forse, senso di pace e protezione quando silente siede nel
sedile posteriore della vettura.
Un film degno di Cronenberg. Fede
Regia:
Aki Kaurismaki
“Molto
tempo fa ho dichiarato di voler fare dei film che anche una contadina
cinese potesse comprendere. Il cinema avrebbe dovuto essere l’esperanto
del mondo, ma il denaro ne ha distrutto la speranza”.
Con
questa affermazione Aki Kaurismaki, il regista finlandese di “L’uomo
senza passato”, riflette chiaramente un’idea del cinema molto estrema
e totalmente anticommerciale, tanto che pochi anni fa ebbe il coraggio di
girare un film muto e in bianco e nero (con ovvio insuccesso di pubblico).
Con
“L’uomo senza passato” e la vittoria del premio speciale della
giuria e per la miglior attrice a Cannes, sembra che i suoi sforzi siano
stati finalmente premiati.
Il
film parla di un uomo che a seguito di un’aggressione perde la memoria.
Dopo la fuga dall’ospedale, si ritrova a vivere in una comunità di
diseredati che abitano all’interno di containers vicino ad un porto,
trovando alloggio, cibo e cure grazie alla solidarietà di questa povera
gente e dell’Esercito della Salvezza. La storia di chi ha subito
un’amnesia è una costante di molti film, ma qui la perdita della
memoria è un particolare quasi insignificante: il protagonista non si
preoccupa più di tanto di ricercare la sua identità, pensando invece a
vivere il presente e a costruirsi un futuro, “uomo senza passato” a
tutti gli effetti.
Il
film gioca invece su un’ironia fredda, su dialoghi laconici, sui volti
degli attori che non ridono mai ma che fanno sorridere di tenerezza, su
situazioni paradossali trattate in modo assolutamente normale e sempre un
po’ sottotono, sulle minestre dell’Esercito della Salvezza, sulle
patate coltivate nell’orticello, sul poetico romanticismo remoto di una
storia d’amore che difficilmente definiremmo tale, sulla musica a metà
fra rock e motivi malinconici, sulle inquadrature quasi da film muto con
colori forti e freddi.
Finalmente
un film diretto con lucida semplicità,
che guarda alla quotidianità
di chi ancora crede nella parola “solidarietà”,
che descrive la vita di persone ai margini della società
senza trasformarla in accusa sociale. Finalmente un film con ancora
qualche speranza sulla dignità
umana. Silvia
Il
mio grosso grasso matrimonio greco
Regia:
Joel Zwick
La
favola di Cenerentola nuovamente sul grande schermo. Solo che questa volta
la protagonista della vicenda è una corpulenta ragazza greca e il setting
è tutto americano. Toula Portokalos (Nia Vardalos) ha trent'anni, è
nubile e vive con i genitori in un quartiere non troppo lussuoso di
Chicago. Lavora nel ristorante di famiglia "Dancing Zorba"
assieme al padre Gus che sogna per lei un matrimonio con un bravo ragazzo
greco, la madre Maria, ottima cuoca e conservatrice delle tradizioni e il
fratello, mentre la sorella minore, già sposata, continua a
"sfornare" bambini. Le giornata di Toula sono scialbe e noiose
come i suoi capelli, i suoi vestiti e il suo modo di fare. Rifiuta
l'offerta del padre di essere spedita in Grecia per trovare marito e
continua a sognare ad occhi aperti sperando di dare una svolta ad una vita
a cui fino a quel momento non ha fornito alcun apporto soggettivo. Dopo un
primo scontro con il padre, e grazie alla complicità della madre, ottiene
il consenso per seguire i corsi di computer all'università: presa da una
rinata vitalità adolescenziale, modifica il proprio look, si mette le
lenti a contatto, aggiusta l'acconciatura e si inserisce nella nuova realtà.
Il passo successivo sarà convincere la famiglia a farla lavorare
nell'agenzia di viaggi della zia. Ottenuto il posto, viene notata da un
giovane professore che aveva già incontrato la prima volta al ristorante,
rimanendo letteralmente paralizzata, simile ad una delle statue greche
poste nel giardino della villetta dei genitori. Il nome dell'uomo è Ian
Miller (John Corbett): i due cominciano a frequentarsi, a piacersi,
finendo per innamorarsi. Ma Ian è uno straniero e, per giunta,
vegetariano: come far accettare la situazione alla mentalità retrograda
del padre? Quale strategia usare per inserire il fidanzato nel clan
familiare di Toula, formato da zii e zie, la nonna e ventisette cugini di
primo grado, pettegoli e pronti a intervenire in ogni scelta personale?
Nell'happy end finale, i genitori un po' snob e sofisticati di Ian
incontrano la famiglia di Toula: Ian si fa battezzare acconsentendo a
celebrare il matrimonio con il rito greco-ortodosso e al matrimonio segue,
come nelle miglior tradizioni greche, con una festa dove il ballo e il
cibo sono le note dominanti.
In
America il film, prodotto da Tom Hanks e dalla moglie, è stato uno degli
"outsider" di maggior successo, grazie ad una buona campagna
pubblicitaria, al favore della critica e al passaparola tra spettatori.
Ritmato e divertente, forse in alcuni punti scontato e non sempre felice
nei dialoghi per le difficoltà di traduzione dall'americano all'italiano,
soprattutto quando il padre fornisce spiegazioni etimologie sulle parole
considerandole tutte derivanti dalla lingua greca, il film si basa sulla
brillante pièce teatrale scritta da Nia Vardalos, allieva della compagnia
teatrale "Second City". Il tema di fondo è l'integrazione
razziale, non originale nei termini ma proposto con estrema cura nei
dettagli e un apporto musicale originale. Michela
Manente
Baciate
chi vi pare (Embrassez
Qui Vous Voudrez)
Regia:
Michel Blanc
Una
commedia degli equivoci… alla francese. Il genere in questione protende,
nelle ultime produzioni, verso una rappresentazione alquanto vivace della
società d'oggi, mettendo in scena soprattutto le difficoltà nel
relazionarsi con l'altro, sia nei rapporti di coppia che in quelli
familiari o nei gruppi di amici.
In
Baciate chi vi pare si
intersecano le vicende personali di una serie numerosa di personaggi alle
prese con i loro problemi esistenziali. Le tipologie ci sono tutte:
l'adolescente confuso, la moglie tradita e consapevole, l'amante del
marito della sua migliore amica, il cinquantenne alle prese con una rinata
vitalità anche ambiguamente omosessuale, il fratello geloso, la ragazzina
impertinente e viziata, la ragazza-madre alla disperata e non proficua
ricerca di una relazione fissa, la moglie insoddisfatta e il marito
suicida, entrambi sull'orlo del tracollo finanziario, il marito geloso e
la moglie insofferente e isterica, l'infedele cronico collezionista di
storie. I nomi dei personaggi, in questo caso, poco importerebbero.
Interessa piuttosto l'ambientazione della vicenda: una ricca casa
signorile alle porte di Parigi con tanto di giardino e barbecue e una
località balneare in Normandia dove il gruppo si ritrova per trascorrere
le vacanze. Il carosello si presenta confuso e, allo stesso tempo,
divertente, intelligente e graffiante nella sua mediocrità borghese che
pure trae spunto dalla vita di tutti i giorni.
Regia:
Roman Polanski
Incancellabile.
Fissa nella nostra memoria la tragedia compiuta dalle truppe naziste ai
danni degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale non finisce di
stimolare i registi e produrre decine di pellicole. Il regista Roman
Polanski ha un motivo in più, dal momento che ha vissuto in prima persona
la deportazione nei campi di lavoro dopo l'invasione tedesca del settembre
'39. Sullo schermo ha voluto raccontare una vicenda simile alla sua,
facendo vedere i dolori di una tragedia di proporzioni immani, con i
gerarchi terribili, la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia nel
cosiddetto "Distretto ebraico", le uccisioni sommarie, la
deportazione di oltre 300.00 ebrei a Treblinka ma dando anche un messaggio
di speranza finale. Il protagonista, Wladyslaw Szpilman (Adrien Brody già
visto in Bread and
Roses di Kean Loach e in La
sottile linea rossa), ebreo di Polonia, grazie all'aiuto di amici e
alla sua fama di compositore e musicista, a differenza della sua famiglia
alla fine si salva e torna a lavorare per la radio di Stato. Fino ad oggi
Polanski non aveva mai voluto affrontare i ricordi drammatici d'infanzia,
rifiutando persino l'offerta di dirigere Schindler's
List, capolavoro in bianco e nero di Spielberg. Aveva però parlato di
follia, di persecuzione e di oppressione in film come Repulsione
e soprattutto in L'inquilino del
terzo piano: per il regista polacco si diventa pazzi quando si
smarriscono le certezze della quotidianità e tutto viene sconvolto.
Il
pianista, vincitore
della Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes, si ispira
all'autobiografia di Szpilman in cui il regista riflette la sua sensibilità
di artista. Lo stile del film è impeccabilmente classico, totalmente al
servizio della trama, e lineare. La fotografia che ne esce appare limpida,
così il suono a differenza di una trama per forza di cose dai toni forti,
troppo forti per spettatori sensibili, poiché ci mostra senza omertà e
in primo piano le atrocità di uno dei momenti più bui della storia di
tutti i tempi.
Interpreti:
Woody Allen, Tea Leoni
Schizofrenico, ipocondriaco, nostalgico un po', geniale… si presenta così Val Waxmax, regista giunto al tramonto della sua carriera e alla ricerca del trampolino per la ribalta. L'ultimo lavoro di Allen è una grande metafora sulla cecità: non apprezziamo abbastanza quello che vediamo con i nostri occhi fin tanto che perdiamo la vista e, riacquistatala, tutto ci appare migliore scoprendo l'enorme dono di cui godiamo. Val Waxmax era un famoso cineasta costretto a girare spot televisivi (ma ha rifiutato quello sui pannoloni per l'incontinenza) per campare. La "grande" occasione arriva su proposta dell’ex-moglie (Tea Leoni) e, soprattutto, grazie all’influenza di quest’ultima sul fidanzato proprietario di una casa di distribuzione cinematografica. Tutto procede quasi per il meglio finché Waxmax perde la vista per ragioni psicosomatiche. A nulla servono le visite mediche (Walmax crede di avere un tumore al cervello grosso quanto un'arancia) e i colloqui con lo "strizzacervelli" di fiducia: le ragioni stanno nella mente del regista che cerca di affrontare con disinvoltura la tragedia, coperto dalla complicità dell'agente, del traduttore cinese e dall'ex-moglie. Alla fine il film sfocia in un happy end che accontenta i gusti degli spettatori per essere inaspettato e desiderato: il film viene stroncato in America ma osannato a Cannes, il regista torna con l’ex-moglie e si trasferisce in gloria a Parigi. La storia, allo stesso tempo intricata e intrigante, leggera e ironica, godibile nella sua meta cinematograficità, è lo stimolo giusto per far capire il mondo dietro la macchina da presa, i meccanismi del cinema commerciale hollywoodiano con tutto ciò che ci gira attorno, le raccomandazioni, i provini, il set, i litigi tra tecnici, il montaggio… Michela Manente
Regia:
M.Night Shyamalan
Con:
Mel Gibson, Joaquin Phoenix, Cherry Jones, Rory Culkin
Il
regista del “Sesto senso” questa volta si occupa dei "crop
circles", gli enormi cerchi tracciati nei campi di origine e
significato misteriosi. Ma tanto misteriosi non sono, visto che è subito
chiaro a tutti da dove vengono, lasciando ogni possibile dubbio subito
risolto e soddisfatto. Quindi non penso che rovinerò il film a nessuno
raccontando certi aspetti della storia.
Mel
Gibson è un padre di due bambini da poco rimasto vedovo, che in seguito
alla morte della moglie ha abbandonato la sua fede e la sua attività
dipastore episcopale. La sua famiglia si trova alle prese prima con gli
enormi segni circolari nella propria piantagione e successivamente con gli
alieni che assediano la casa, ovviamente enorme e isolatissima. Questi
avvenimentiuesti portano
il padre a ripensare alla sua fede abbandonata.
Non
mancano gli aspetti originali, per esempio gli alieni cattivi che
ricordano quelli della fantascienza anni cinquanta (forse a dirci che il
mondo attuale è minacciato dal male e che dovremmo leggerne i segni?),
l’invasione degli alieni vissuta nel salotto di casa e senza effetti
speciali, così come sono presenti alcuni momenti di autentica paura e di
tensione, grazie ad una regia che a tratti richiama i film di Hitchcock.
Quanto
alla storia e all’idea in sè, mi sento invece di affermare che Night
Shyamalan è passato dal Sesto senso ad un film senza senso (per esempio,
perché gli alieni hanno deciso di invadere un pianeta su cui piove, vista
la loro incompatibilità con l’acqua?). Se poi ci venisse in mente di
perdonarlo comunque, grazie ad alcuni momenti di thriller ben riusciti,
c’è sempre un finale patetico e banale pronto a farci ritirare ogni
lontano pensiero di perdono.
Girato nel tempo record di ventotto settimane a Papigno, ridente e collinare località umbra nei pressi di Terni, l’atteso e pubblicizzato Pinocchio di Roberto Benigni vanta una scenografia di tutto rispetto firmata Danilo Donati. Per la bellezza degli scorci panoramici, per la ricostruzione dei luoghi tra la fiaba (sembra di essere costantemente nel Paese dei balocchi) e la vita reale di un caratteristico borgo rurale con i suoi mercati e i suoi mestieri antichi: il falegname, il contadino e il pescatore.
Un po’ meno convincente il protagonista Benigni nel ruolo del burattino di legno, anche se la faccia incorniciata da un cappellino appuntito di mollica calza a pennello, che interpreta un Pinocchio irrequieto e iperattivo, piagnone e sgrammaticato nel suo accento toscano. Sullo schermo la storia, dal ritmo eccessivamente veloce e condensata in soli 111 minuti, salta a piè pari alcuni momenti più riusciti del libro di Carlo Collodi, pur non dimenticandone i fondamentali. Stampati nella nostra memoria di piccoli lettori, rimangono l’incontro con il mangiafuoco (Franco Javarone) che, commosso dal racconto amplificato delle sventure familiari del burattino decide di saltare la succulenta cena, gl’inganni della coppia gatto e volpe (I Fichi d’India) che convincono l’ingenuo burattino a seppellire per moltiplicarli quattro zecchini d’oro nel campo dei “finti” miracoli, l’incontro in prigione con Lucignolo (Kim Rossi Stuart) e le avventure nella pancia della balena (qui un pescecane che, sebbene costato centinaia di euro ha le sembianze del fratello brutto dello Squalo 3). Tutta questa fatica per diventare un bambino in carne e ossa! E quanta ce n’è voluta nonostante i buoni consigli un po’ troppo ripetitivi del grillo parlante (Peppe Barra) e gli ammonimenti della Fata Turchina interpretata dalla insostituibile e Nicoletta Braschi, produttrice del film. Babbo Geppetto (Carlo Giuffré), invece, vaga sconsolato in cerca del figliolo per ricondurlo nella retta via, quella dell’impegno scolastico (vende la giacca per comprare un abbecedario) e dell’onestà di vita.
Per quel che è costato, la tecnologia tutta italiana sperimentatrice del digitale non ha permesso l’atteso salto di qualità negli effetti speciali, che raggiungono il loro meglio nell’animazione dei topini trainanti la carrozza di Medoro (Mino Bellei), nell’allungamento del naso del bugiardo Pinocchio e in tutte le metamorfosi animalesche.
Doveroso vederlo, perlomeno per confrontare la gloria in patria con quella che otterrà alla sua uscita nelle sale d’oltreoceano a dicembre… Michela Manente
Tre menti in simbiosi possono riuscire a prevedere il male perpetrato dall'uomo contro un altro uomo? Apparentemente sì, ma c'è di mezzo il libero arbitrio. E' aperto lo scontro infinito fra i due poli che caratterizzano l'esistenza umana: la vita è predeterminata dal fato o possiamo cambiare gli eventi con la nostra libertà di scelta? Il confine è sottile, per un attimo sembra non esista una sola verità. E colui che credeva di aver trovato la risposta vive sulla propria pelle tutto il dramma di dover mutare le sue idee. Radicalmente. Un film ibrido fra BLADE RUNNER, TOTAL RECALL e SEVEN (fantastica la sequenza dei ragni poliziotto), mantiene comunque sempre la propria identità, fino in fondo, fino a dimostrare con forza come la scelta di assecondare di volta in volta gli istinti o l'etica dell'uomo possa dare alla vita direzioni inevitabilmente opposte. FEDERICO DELLA ROCCA
Regia:
Peter Mullan
Irlanda,
1964.
Margaret.
Durante un matrimonio, sotto il suono degli strumenti di festa irlandesi,
viene stuprata da un cugino. Una volta a conoscenza del fatto, non
sappiamo cosa si bisbigliano i parenti, ma riusciamo a seguire il suo
destino sugli sguardi passati di volto in volto.
Bernadette.
Occhi grandi, bel volto, una bella ragazza. Durante l’intervallo parla,
da lontano, attraverso la ringhiera, con dei ragazzi, arrivati apposta per
farsi vedere dalle ragazze dell’orfanotrofio femminile.
Rose.
In ospedale, ha appena avuto un bambino. Sua madre siede accanto a lei,
non la guarda e non le parla, nonostante i suoi inviti a guardare il
neonato. Suo padre e un prete la costringono a firmare un documento per
l’affidamento del figlio.
Magdlene.
Le tre ragazze vengono rinchiuse in un istituto delle Sorelle della
Misericordia e qui la loro storia si fonde con quella di tante altre “magdalene”,
giovani donne “peccatrici”, ragazze madri, vittime di stupri o
semplicemente colpevoli di comportamenti giudicati in qualche modo
disonorevoli.
All’interno dell’istituto, più che la parola di Dio prevalgono il divieto di parlare o di diventare amiche, la violenza psicologica, lo sfruttamento, la negazione di ogni diritto, le punizioni corporali, il duro lavoro in lavanderia grazie al quale le suore si arricchiscono. La parola schiavitù non è forse sufficiente a descrivere tutto questo. C’è chi ce la fa a sopravvivere per tutta la vita, chi dopo quattro anni viene riscattata dal fratello, chi riesce a scappare, come si evade da una prigione. E c’è chi non ce la fa.
La
denuncia e’ lo scopo principale del film e infatti “Magdalene”
sembra un documentario, con il suo stile duro, asciutto ed essenziale,
decisamente realista, ad eccezione di alcune scelte più
originali ed espressionistiche in un pugno scene brevissime e incisive.
Fa
pensare il fatto che, alla premiazione di “Magdalene” con il Leone
d’oro a Venezia, molti membri della Chiesa cattolica si siano indignati
di fronte al film. Mentre l’unica indignazione possibile è
proprio quella nei confronti di una Chiesa che ha permesso tutto questo e
che ancora oggi non vuole riconoscere le sue colpe.
Regia
di Youssef Chahaine,
Amos Gitai, Shohei Imamura, Alejandro Inarritu, Claude Lelouch, Ken Loach,
Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn e Danis Tanovic.
Chi
lo potrà mai dimenticare l'11 settembre dell'anno trascorso? Pregnanti
immagini di distruzione, panico e follia, come se si trattasse dell'ultimo
dei numerosi film sugli attentati agli Stati Uniti, sono impresse, più o
meno direttamente, nell'immaginario collettivo dell'umanità intera. Quel
filmato, mediaticamente vincente, si è trasformato in una vera pellicola
firmata da undici registi famosi che presentiamo in ordine alfabetico:
Youssef Chaine, Amos Gitai, Shohei Imamura, Alejandro Inarritu, Claude
Lelouch, Ken Loach Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean
Penn e Danis Tanovic. Colpita dall'evento, la prestigiosa squadra dietro
le telecamere del film propone versioni differenti per tema, tecnica,
sensibilità artistica in cui i cineasti evocano il loro, personale 11
settembre, non sempre coincidente, però, con quello del 2001. Undici
punti di vista cinematografici (nessun regista sapeva che cosa avrebbe
girato il collega) nella più totale libertà espressiva per meglio
accompagnare la dimensione umana della tragedia e per aggiungere una
riflessione all'emozione. Undici storie per una Storia, un tributo che
sottolinea la responsabilità dell'Occidente in tutto il mondo, un filmato
di undici grandi cineasti che soprattutto fa riflettere, tentando di
andare oltre l'immagine e i significati globalizzati dell'implosione delle
Twin towers.
La
particolarità della pellicola, presentata fuori concorso alla 59. Mostra
del cinema di Venezia come evento speciale, è innanzi tutto tecnica: ogni
racconto dura esattamente 11 minuti, 9 secondi e 1 fotogramma. 11'09''01
è un film che dice la verità su molte cose, soprattutto su come paesi e
culture diverse hanno recepito i fatti newyorchesi. Ken Loach ricorda l'11
settembre 1973 quando l'allora segretario di Stato Henry Kissinger si
congratulò con il dittatore chileno Pinochet per l'avventi colpo di
Stato. L'unico americano a partecipare al film/evento è Sean Penn. Il suo
corto è interamente ambientato in una stanza, dove un vedovo ricorda con
nostalgia la moglie. Ogni giorno il vecchio controlla meticolosamente la
fioritura di una pianta che rinascerà con i raggi del sole di nuovo a
baciare la finestra dopo il crollo delle torri gemelle. Tra i più
riusciti, il cortometraggio francese di Lelouch abbandona il sonoro per
mettere in scena la storia di una giovane turista sordo-muta e la
relazione con una guida newyorchese. Prevedendo in un delirio da sensitiva
la tragedia imminente, la donna scrive una lettera al computer sperando
nel miracolo… al termine degli undici minuti del corto suona il
campanello, il cane abbaia… lui è vivo. Michela
Manente
Regia:
Michele Placido
Una
coppa (la Volpi, 59. Mostra internazionale d'arte cinematografica) per
celebrare un talento in crescita per professionalità e riconoscimenti
esterni. Stefano Accorsi (L'ultimo
bacio, Le fate ignoranti, Santa
Maradona) classe 1971, si è formato alla scuola di teatro di Bologna
ma la notorietà è arrivata con la pubblicità della Maxibon, diretta da
Daniele Lucchetti. Il suo ultimo film s'intitola Un
viaggio chiamato amore diretto da Michele Placido tornato alla regia
dopo Del perduto amore del
1998, in cui Stefano interpreta ruolo del poeta Dino Campana. Attualmente
il film, già nelle sale italiane, è già campione d'incassi rispetto
agli altri film della mostra di Venezia, superando anche il Leone d'oro The
Magdalene sister's. Letto il copione del film, l'attore bolognese è
stato colto dalla volontà di proteggere il ricordo di un'esistenza tanto
fragile e unica. A 16 anni in manicomio, Dino Campana era innanzitutto un
poeta, autore di versi impressi nella memoria letteraria degli italiani
("E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera" da Canti
orfici). Tra il 1916-18 avvenne
l'incontro con la narratrice e poetessa Sibilla Aleramo (Laura Morante),
donna colta e affascinante che alle sua spalle cela un passato di grande
sofferenza e frustrazione, dal tentativo di suicidio della madre, al
matrimonio fallito con un uomo piuttosto gretto e violento. Quando Rina
(il vero nome della Aleramo) prende la difficile decisone di abbandonare
tutto, compreso il figlio Walter avuto a sedici anni che adora e che il
marito non le farà rivedere mai più. E' così che una lunga serie di
relazioni, tutte con scrittori più o meno noti, si susseguono nella vita
della donna, fino al momento in cui la figura del "poeta
visionario" per eccellenza non si erge ad adombrare tutti gli altri,
impostando una relazione burrascosa e fatale a metà via tra eros
e thanatos. L'ambientazione
della storia d'amore è la Firenze primo novecentesca dove, in principio,
i due fanno la reciproca conoscenza attraverso un carteggio ora in
libreria pubblicato recentemente da Feltrinelli (Un
viaggio chiamato amore, 128 pagg., 9,30 euro). Quando Nora si reca nel
piccolo paese della campagna toscana per trovare lo scrittore, in cuor suo
sa già quello che sta per succedere… Michela
Manente
Regia:
Paul Anderson
Meno
male che dura poco. Sconsigliato agli stomaci deboli, ai cinefili
facilmente impressionabili e alle persone con patologie cardiache, Resident
Evil si colloca a metà strada tra l'azione, il thriller e l'horror.
Succede di tutto nella gigantesca e segretissima base sotterranea
denominata "l'alveare": un virus sfugge di mano alla controversa
multinazionale farmaceutica Umbrella e trasforma i ricercatori in zombie
alla ricerca di cibo, le cavie utilizzate per i test e gli animali da
laboratorio in mostri rabbiosi. Il governo invia una task force di
militari scelti comandati da Alice (Milla Jovovich già vista negli
scenari futuristici de Il quinto
elemento) e Rain (Michelle Rodriguez) per contenere il virus in tre
ore prima che riesca ad infettare il resto del mondo. Happy end o
catastrofe finale? Diciamo subito che i rischi all'interno della
labirintica base sono innumerevoli e la truppe non sembra essere sempre
adeguatamente preparata ad affrontare i pericoli della missione. Senza
contare gli ammutinamenti, i tradimenti interni e i consigli ingannevoli
della Regina rossa, il supercomputer che coordina i sistemi di sicurezza
apparendo sotto forma di luce.
Una
particolarità. I protagonisti vivono come fuori dalla realtà, senza
passato e senza una storia, con un unico scopo: la missione. La sequenza
è da manuale e per questo funziona: inquadratura da vicino, musica che
sale, suspense. Poi all'improvviso, doppio colpo: musica impazzita e colpo
di scena. E colpo al cuore. Si aggiunga che la colonna sonora è di
Marilyn Manson, uno che di pulsioni dal profondo se ne intende.
Il film, diretto dal regista Paul Anderson, prende molti spunti dalla saga di Resident Evil sulla scia delle riduzioni cinematografiche dei videogiochi Mortal Kombat e Tomb Rider. La storia nei dettagli è totalmente diversa e imprevedibile, lasciando le cose in sospeso tanto da far sospettare una possibile continuazione sul grande schermo. Michela Manente
Interpreti
e personaggi: Javier Cámara (Benigno), Leonor Watling (Alicia), Dario
Grandinetti (Marco), Rosario Flores (Lydia), Gerardine Chaplin (Caterina)
Gli
affetti, la malattia e la morte (il traffico e un paio di corna - quelle
vere - sono i colpevoli), Pina Bausch alle coreografie e due uomini sono i
protagonisti del dramma di Almodóvar che si permette pochissimi tocchi
alla commedia. Una delle poche invenzioni comiche del regista è quella
del film muto che a un certo punto i protagonisti vanno a vedere nella
sala della Filmoteca di Madrid. Il cortometraggio all'interno del film
racconta la storia di un uomo che diventa molto piccolo e s'introduce
nella vagina della sua donna, in un delizioso omaggio al film fantastico Radiazioni
B X: distruzione uomo a cui si ispira.
Regia:
Wes Anderson
Potrebbero
essere usciti da un libro di Salinger, i personaggi della famiglia
Tenenbaum. In effetti escono proprio da un libro, il libro che, capitolo
dopo capitolo, viene sfogliato per raccontare la storia di questa bizzarra
famiglia. Tre figli, tre piccoli bambini prodigio: Chas, spiccato talento
per la finanza interazionale, Margot, drammaturga di successo, Richie,
super-campione di tennis. Un padre, che si separa dalla madre, a cui
lascia l’educazione dei figli, e che scompare per anni. La vicenda
racconta con ironia cosa succede quando, a distanza di anni, si ritrovano
tutti sotto lo stesso tetto. I figli, ormai trentenni, non hanno mantenuto
le loro promesse e al contrario sono sprofondati nella noia, nella
depressione, nell’ossesione, nei loro inutili segreti.
Curatissimo tutto film: l’interpretazione degli attori, la colonna sonora a base di musica classica e rock nostalgico, i titoli e le didascalie, l’ambientazione e i dettagli, ma soprattutto i costumi, che caratterizzano ogni personaggio in modo univoco e sempre azzeccato. Silvia
Regia:
Robert Altman
Presentiamo
l'ultima fatica del regista di I
protagonisti e America oggi:
Gosford Park. L'ambientazione
è, forse, la parte più pregevole e originale del film; la fotografia ha
puntato l'attenzione sui dettagli scenografici giocando molto sugli
interni di una signorile residenza di campagna nell'Inghilterra dei primi
anni Trenta e appartenente al ricco Lord McCordle e all'attraente moglie:
le sontuose cene, i salotti dorati, le decorate stanze degli ospiti in
opposizione agli alloggi spogli della servitù, alla cucina e alla
stireria interrate ma anche l'esterno "verde" della villa, i
campi e i boschetti dove si passeggia. La società, opulenta e riverita da
un numero esagerato di servitori e valletti che vivono di riflesso le vite
dei loro padroni a volte complicandole, s'incontra qui per una partita di
caccia e riposanti ozi, dal bridge
ai pettegolezzi mondani. Nulla succede per quasi un'ora di proiezione,
finché si cominciano ad intravedere i segreti di quella casa, le prime
screpolature del perfetto quadretto. Il gioco tra i personaggi, le storie
non chiuse, il passato che ritorna porteranno all'omicidio di Sir
Williams, due volte assassinato, la prima col veleno e la seconda,
quand'era già morto, con un coltello da cucina. L'intervento della
polizia impedirà agli abitanti di lasciare la residenza finché non si
saranno svolte le prime indagini e i colloqui di rito che, in realtà, non
porteranno a nessuna soluzione. Sarà la giovane cameriera della più
anziana e nobile invitata, coinvolta inaspettatamente, a mettere insieme i
pezzi per risolvere il caso prima della polizia e chiarendo, così, allo
spettatore le dinamiche che hanno portato a quel gesto: una storia solo in
parte seppellita, di paternità negata e di sfruttamento operaio, conti
ora chiusi tra prepotenti e deboli in cerca di vendetta.
di
Ron Howard
Vincitore
di 4 Golden Globe e di 3
statuette (Miglior Film, Miglior Regia e Migliore attrice non
protagonista), A beautiful mind
(il titolo non è stato tradotto in italiano) ci mostra i limiti della
mente umana che si appanna nella ricerca di idee veramente originali e la
forza risanatrice dell'amore.
Kate ( Meg Ryan) è una donna in carriera che col tempo ha imparato ,mantenendo una sensibilità femminile , a comportarsi e ad essere razionale e inquadrata come un uomo. Nella settimana che cambierà la sua vita si gioca il ruolo di direttore per una grossa azienda e per riuscirci dovrà andare oltre i suoi ideali e comportarsi egoisticamente in una Manhattan frenetica. Il suo ex fidanzato è invece uno studioso che è riuscito a trovare una porta spazio temporale che lo manderà nel 1850 circa per qualche ora. Seguirà così il famoso inventore degli ascensori, Leopold(impersonato da Hugh Jackman) che però incuriosito da quest'uomo sconosciuto nel tentativo di seguirlo tornerà con lui nel 2001. L'ex di Kate sarà preso per matto e verrà rinchiuso in un ospedale, mentre Kate, suo fratello e Leopold impareranno a conoscersi ed apprezzarsi e verranno a scontrarsi con una cultura in cui la donna è femminile, rispettata e amata, il tempo non è frenetico ma anzi, viene gustato istante per istante e assaporato lentamente. Commedia davvero semplice, divertente e gustosa con interpreti svegli e bravi che scorre via veloce senza troppe sdolcinatezze e con grande garbo. Tungaska
Questo
film é la biografia cinematografica della scrittice e filosofa Iris
Murdoch (1919-1999), figura di spicco sulla scena letteraria britannica.
Ispirandosi al libro “Elegia per Iris” scritto dal marito John Bayley,
la biografia parte dalla fine, dagli ultimi anni, ed é incentrata su
quello che in genere viene liquidato in poche parole, cioé la vecchiaia,
la progressiva degenerazione, la malattia mentale.
Intramontabile
trama su variazione della favola di Cenerentola, Amélie troverà il
coraggio di dichiarare il suo amore per Nino, un collezionista di
fototessere abbandonate dagli avventori delle macchinette self-service
poste agli angoli della sala d'ingresso del metro,
dipendente di un sex-shop e
spettro che sussurra nelle orecchie dei passeggeri del Treno Fantasma alle
giostre. Invitatolo nel suo appartamento a Montmartre, lo bacerà
dolcemente fino a portarselo a letto, come nei miglior finali delle favole
del nostro tempo. Michela Manente
Commedia, divertente quanto basta di cui si conosce ovviamente il finale. Ma i 4 attori (che non sono altro che J.Roberts, B.Cristal, C. Zeta Jones e J.Cusack) la rendono gradevole e sanno prendersi in giro e prendere in giro il mondo che diciamocelo pure, li sfama.
La storia è semplice: Julia e Cathrine son due sorelle: la prima bruttina( si, ma quando mai la Roberts è bruttina?) e fondamentalmente devota alla seconda , bella ,viziata, egocentrica, famosa e da poco divorziata da Cusack( che a causa del divorzio si è esaurito) . Da quando la coppia è scoppiata il pubblico non li ama più e i film son dei veri flop. Così, perchè l'ultimo lavoro fatto insieme valga davvero qualcosa e il pubblico torni ad amarli,devono, per finta, tornare insieme per la stampa. Ad aiutarli nell'impresa titanica arriva B. Cristal, simpatico, sveglio, intelligente che conosce sia le regole dell'amore sia le regole del cinema .Qualcuno a fine film cambierà, qualcun'altro rimarrà uguale . Nessuna morale, solo la dimostrazione che Hollywood è uno specchio per allodole .Ma qualche risata davvero autentica fanno di questo film un luogo immaginario dove trascorrere 2 ore spensierate. Tungaska
Dopo
una lunga attesa, finalmente è arrivato anche in Italia il nuovo film di
Peter Jackson tratto dal primo volume della trilogia “Il signore degli
anelli” di J.R.R. Tolkien. Chi non conosce il libro potrebbe pensare
alla classica fiaba per bambini o ritenere il film un banale insieme di
effetti speciali: nulla di più sbagliato.
Cuori in Atlantide di Scott Hicks
tratto da “Hearts in Atlantis” di Stephen King ; Principali protagonisti: Antony Hopkins, Hope Davis .
In
questo film il mondo del
sogno, vivo sia nel protagonista bambino che nell’adulto che racconta,
si scontra con quello della contingenza, che regola inesorabilmente le
dinamiche della realtà.
OCEAN’S ELEVEN – FATE IL VOSTRO GIOCO di Steven Soderbergh
Con George Clooney, Brad Pitt, Andy Garcia, Julia Roberts, Matt Damon, Elliott Gould, Carl Reiner, Scott Caan, Casey Affleck, Shaobo Qin.
.Appena
uscito di prigione, il rapinatore Daniel Ocean raggruppa undici geni del
crimine (in campi diversi) per tentare il furto del caveau dei tre casinò
più redditizi di Las Vegas, appartenenti all’uomo che sta con la sua ex
moglie. È una questione di soldi o di cuore? Un po’ giallorosa vecchio
stile (la storia proviene da una serie degli anni ’60) e un po’ furto
con scasso high-tech alla Entrapment
questo remake di Colpo grosso
(1960) con Sinatra: al sempre più trendy
Soderbergh, viste le numerose fesserie della sceneggiatura cronometrica
(di Ted Griffin), stavolta interessa solo divertire lo spettatore con un
ritmo indiavolato che mescola stili diversi (sua prerogativa) e una
galleria di personaggi riusciti nella loro ironia ed eterogeneità, ma tra
le righe dinamita dall’interno il luccicante mondo di Las Vegas dove una
serata può portare la fortuna eterna o la rovina. Uno dei film più
riusciti, perché meno presuntuosi (tranne nel personaggio debole della
Roberts), del regista, la cui firma d’autore si vede nel finale dove tra
i titoli di coda si legge la frase falsa e vera insieme “e per la prima
volta sullo schermo Julia Roberts nel ruolo di Tess”. C’è chi ha
visto nell’idea della banda di ricostruire il set del caveau e di
filmarlo (con tutta una serie di annessi e connessi successivi) una
riflessione di Soderbergh sul “farsi del cinema”: troppa grazia! Scontata
insipienza del sottotitolo italiano. Roberto
Rat Race di Jerry Zucker
Ci sono andata per caso a vedere questo film e devo essere sincera:ero anche scettica. Eppure ho iniziato a ridere già con la sigla di apertura, simpatica, semplice, con musica ritmata e accattivante.
La trama è semplice: un plurimiliardario,proprietario di un casinò,un po' annoiato e anche viziato,decide di regalare l'opportunità a 6 persone di vincere la bellezza di 2 milioni di dollari. Scelti casualmente tra i giocatori del suo casinò tutti e sei i concorrenti accettano ovviamente la sfida , che consiste nel raggiungere un armadietto di sicurezza situato ben fuori Las Vegas ... La comicità di questo film non è mai volgare, ma ritrae situazioni che , sicuramente meno accentuate, qualche volta son capitate a tutti noi. Non c'è il passato di queste persone che ci fa tifare per l'una piuttosto che per l'altra, non c'è possibilità di scelta. Tutti questi personaggi assolutamente impacciati, imprevedibili ( ricordo qualche attore: Rowan Atkinsin, Whoopy Goldberg, Cuba Gooding Jr..) e divertenti vivranno 6 percorsi diversi e si incontreranno solo alla fine... con gli smashmouth di sottofondo, tantissima allegria , buoni propositi( non sdolcinati) e anche una rivincita con chi li voleva marionette di un gioco poco 'legale'. Un film semplice, non troppo demenziale, che fa sorridere tutti . Tungaska
Apocalypse
now (Redux) - di F. Ford Coppola
Un viaggio all' inferno per scontare una colpa, per ritrovare se stessi,
per comprendere l' assurdità di una guerra, per rispondere a domande fin
troppo contraddittorie: da che parte è la ragione? e chi è il più
selvaggio? chi difende la propria terra o chi scarica quintali di napalm
sulle foreste, e poi vieta di scrivere parolacce sulle mitragliatrici
perché "non sta bene"?
"The children are insane" canta la voce di Jim Morrison, ancora
una volta profeta maledetto di una guerra maledetta, condotta da eserciti
tanto armati quanto rammolliti, la tecnologia che fa strage su villaggi di
legno e su catapecchie, e poi lo chiamano progresso. Chi sono gli insani?
E il generale Kurtz, è poi così "insano" ad aver voluto
abbandonare la causa della superpotenza per creare una sua
"causa", una nuova vita in mezzo alla foresta? e il
protagonista, non cerca forse di fare altrettanto?
Come in un moderno Inferno dantesco, la telecamera ci racconta di un
anti-eroe, vittima di allucinazioni lisergiche, che sente una necessità,
l' apparentemente assurda attrazione del Vietnam, e si fa affidare una
missione, la più pericolosa, per essere condotto a un bivio esistenziale,
che gli spieghi una volta per tutte le ragioni della vita. Combatte alla
foce del fiume, su elicotteri che volteggiano come mosche, agli ordini di
un capitano mitomane che ancora indossa il berretto della guerra di
secessione, sopra un mare azzurrissimo e solare sovrastato da bombe
minacciose, accarezzate dalla mano dei marines pronti all' attacco. Poi c'è
un lungo fiume da attraversare, e si ripercorre in barca la propria vita:
la natura incontaminata, la complicità, il sesso, il tradimento, il
pericolo, la morte. Ovunque, bagliori di fuoco e tracce di distruzione.
Man mano che si scende in questi gironi infernali, la luce diventa sempre
più fioca, si intravedono solo profili e ombre; si arriva alla sorgente e
si respira un atmosfera di buio irreale che avvolge il tempio pagano dove
finalmente avviene il sacrificio.
Ma non si torna alla luce, non è un nuovo inizio. E' la fine. "This
is the end" canta Jim Morrison. La nuova Apocalisse è consumata. Claudio
(Premio
per la migliore regia, Cannes 2001)
LA
TIGRE E IL DRAGONE Regia: Ang Lee
E' arrivata anche in Cina. Strisciando per non farsi sentire, o via
satellite più probabilmente, Hollywood è sbarcata nell'antica Pechino
degli Imperatori, fra il deserto di Gobi e le rocce dello Xi'an, sulle
lunghe trecce annodate di guerrieri dalle lunghe spade. E fa strage.
Si comincia con un ex maestro d'armi stile Yul Brinner, che stanco del
sangue versato si converte sulla via del Tibet, lui sì vero Brad Pitt.
Calmi, è solo l'inizio.
A mezzanotte, l' ora in cui da noi ululano i licantropi, lì sui tetti e
fra le pagode si combatte stile Matrix, con salti da circo Togni e lunghi
voli a rimbalzo sul muro, e siccome a quei tempi l' aereo non esisteva, si
vola a piedi nudi sulle fronde dei salici in fiore così poetiche, ottima
idea per un finale altrimenti scialbo.
Nel frattempo, una giovane nobile è destinata al matrimonio ma la vita
casa-e-marito non fa per lei che ha visto Mulan della Disney in
televisione e vuole vivere d' avventure, fare la guerriera come gli
uomini, è nobile e per lei si farà certamente un' eccezione. Sbadigli
del pubblico e prime risatine indiscrete.
E così la giovane sveste i panni della brava ragazzina predestinata,
veste alla samurai e parte alla ventura, cavalca meglio di John Waine un
infocato destriero, nel deserto incontra un bel brigante e indovina
indovinello, sveste i panni di cui sopra, ma li sveste proprio tutti,
ennesimo contentino al pubblico occidentale. Amore nel deserto sotto le
stelle (e anche questo stereotipo è sistemato) ma decide di tornare a
casa, e che diamine! lui ormai è stracotto; fermo dove corri? devi
aspettarla sul monte incantato e imbiancato da nevi perenni. Paramount
Picture.
Ciak si cambia scena, duello finale le lame luccicano come a Guerre
Stellari, ma neanche le vedi perché girano vorticosamente come un
frullatore. Porca miseria, ma dove hanno imparato? meno male che la scena
è velocizzata senò potrei credere a un miracolo. E stivaletti a punta
acuminata già visti in James Bond, freccette avvelenate afferrate al volo
tipo Tango e Cash ma... ops! una sfugge ebbe' nessuno è perfetto, il
nostro Yul Brinner doveva pur finire i suoi giorni ma consoliamoci, spira
fra le braccia di colei che tutto seppe e nulla disse. Orribile. Da Oscar.
Ma non chiamatela Hollywood. Chiamatela Ho-li-woo.
P.S.: C' è anche Braccio di Ferro. Guardare per credere. Claudio
AI (intelligenza artificiale) Regia: S. Spielberg
BEFORE
NIGHT FALLS (Prima che sia notte)
Gran premio della giuria a Venezia 2000 :Ambientato in parte in una Cuba povera, tropicale e lussureggiante, in parte nella moderna e fredda New York, questo bellissimo film dipinge la vita di luce ed ombra del poeta cubano Reinaldo Arenas, perseguitato dal governo cubano per i suoi libri e per la sua aperta omosessualità. Dipingere e’ veramente il termine giusto: il regista e pittore Julian Schnabel racconta la vita di Reinaldo Arenas con una tavolozza di colori contrastanti. Il verde della Cuba rurale della sua infanzia vissuta in povertà. Il blu del mare di Cuba e l’oro delle sue spiagge, sfondo di periodi sereni durante i quali viene riconosciuto il suo innato talento letterario. L’oscurita’ del carcere scorco e squallido in cui e’ imprigionato e umiliato, il bianco e il nero della carta rimediata in prigione su cui scrive di nascosto le sue poesie. Il rosso dell’amore, della passione, dei sogni, del telone della mongolfiera con cui vorrebbe volare via, verso la liberta’. Arenas non riuscira’ a volare via in questo modo. Dovra’ imbarcarsi per New York in esilio volontario. E se il sogno di chi ha provato a volare via con la mongolfiera si infrange poco dopo sul lungomare dell’Avana, ma ha perlomeno avuto il suo momento di bellezza, di grandezza, di poesia, il sogno di Arenas si infrangerà invece contro il “todo cerrado” di una città moderna e nuova che gli chiude tutte le porte. C’e’ sicuramente della denuncia in questo film, denuncia di un regime che impedisce l’espressione dell’individuo. Ma la denuncia spesso passa in secondo piano rispetto alla poesia, poesia che sembra avere le stesse caratteristiche di quella di Arenas: il sapere trasformare la sofferenza in bellezza, il dolore in poesia. Silvia
Regia: Takeshi Kitano
Morti. Tanti, in continuazione, quasi non si riescono a contare. Violenza. Volutamente esasperata, al punto che non sappiamo se sorridere o indignarci. Ma non e’ un film sulla violenza, ne’ uno dei tanti film di mafia. E’ un film complesso e intelligente, di quella intelligenza giapponese sottile e quasi al limite con la pazzia. Kitano narra e interpreta la storia di un gangster della yakuza giapponese costretto a riparare negli Stati Uniti per questioni di attriti interni. Qui, grazie alla sua intelligenza e al rispetto guadagnatosi, riesce ad acquisire potere nell’ambito mafioso, fino a quando si rende conto per primo che il destino di tutti sara’ la morte. Il tutto in una logica decisamente giapponese, in cui la vita non ha alcun valore (non solo la vita degli altri, ma anche la propria), in cui non si indugia a sacrificare un pezzo del proprio corpo o la vita intera, senza che ci sia una grande differenza, per chiedere perdono, per dignita’ personale o semplicemente per fare un favore ad un amico. Questa fredda logica ci comunica in realta’ forti emozioni, un profondo coinvolgimento e anche sentimenti di grande amicizia e lealta’. Kitano mescola tristezza, violenza, dolcezza e morte, come nel suo precedente capolavoro Hana-bi (Fiori di fuoco), con una regia da grande maestro. Come attore, poi, domina lo schermo con un’ottima interpretazione, col il suo volto enigmatico e la sua espressione misteriosa, di chi non dice ma ha capito tutto. Silvia
Shrek (Animazione)
Shrek è un dolcissimo orco verde che si nasconde dietro una facciata di cattivo che più che voluta è affibiata dagli esseri umani che non sono abituati al diverso. Un giorno il cattivo lord che vive nel castello del luogo decide che tutti i protagonisti delle fiabe devono esser esiliati nella palude dove vive tranquillamente (e in solitudine)il nostro orco: questa così si popola di meravigliosi ed esilaranti personaggi che ci tornano alla mente e che forse pensavamo di esserci dimenticati dalle fiabe di bambini:i sette nani, i topini ciechi, i tre porcellini e via dicendo. E poi c'è Ciuchino, l'asino logorroico e comicissimo che non vede in Shrek un diverso, bensì una persona che ha bisogno d'amore e amicizia. Insieme a lui andrà a salvare(per poi darla in sposa al Lord) la bellissima principessa Fiona che vive nella torre di un castello tenuta prigioniera sia da una draghessa dal facile rossore sia da una magia che verrà alla fine svelata. Inutile dire che tra Shrek e la Principessa ... Perchè andare a vederlo? Per la colonna sonora attuale e molto originale, per la grafica che è a dir poco ottima, per la storia che non vi lascerà per un istante senza il sorriso sulle labbra e per un ritorno all'infanzia che male non fa mai. Per un assaggio: www.shrek.com . (Tungaska)
TRAIN
DE VIE di R. Mihaileanu
Un film sull' olocausto, in cui l' olocausto quasi non compare, in cui non
compaiono campi di concentramento, né deportazioni o uccisioni di ebrei.
Il protagonista del film è il popolo ebraico, con la sua autoironia, con
la sua fede, le sue tradizioni da seguire e contestare, con il suo ingegno
e la sua operosità, con le sue pulsioni vitali in una rigida struttura
sociale, i suoi colpi di genio e la sua sottile vena di follia.
Ma soprattutto con i suoi sogni, costruiti per continuare a vivere
nonostante tutto, per sfuggire al dolore e al male, proprio come si
costruisce dal nulla un "treno per vivere" per sfuggire ai
nazisti.
Guardando il film si ride per la quasi totalità del tempo, ma ciò che
rimane alla fine è un senso di tristezza profonda e senza lacrime. Perché
raramente i sogni si avverano.
Silvia
E' la potenza del balzo finale a spiegare l'essenza di questo film che inizia con la stessa leggerezza di una foglia che cade sulla terra.
Il fuoco dell'arte, dapprima tenue fiammella di candela, si tramuta in un rogo, in crescendo, seguendo la maturazione del personaggio, e guida gli eventi, che hanno la bellezza della semplicità.
In un mondo dominato da stereotipi di cui certi uomini sono incolpevoli custodi, il piccolo Billi Elliot è uno dei pochi a lasciarsi illuminare dalla verità, senza opporsi ad essa. E seguirà il suo istinto fino in fondo, cambiando persone pietrificate nella loro immobilità. Un film struggente, dove speranze, rimpianti, rabbia e voglia di riscatto si fondono alimentando quel fuoco che ti porta dritto a quel balzo finale. E che ti leva il fiato. (federico)
Cosa si nasconde dietro un matrimonio all'apparenza invulnerabile? Fantasmi,oscure presenze,scheletri nell'armadio.
è trascorso un anno da quando un apparente perfetto marito ha tradito l'incantevole,moglie ignara di tutto. Il matrimonio fila nel migliore dei modi fintanto che i nodi non vengono al pettine,e quelli che sembrano solo sospetti ed inverosimili sensazioni si trasformano in una terribile realtà. L'uomo fino a quel punto insospettabile un po' alla volta getta la maschera e rivela la sua vera identità di malvagio e opportunista. Ma giustamente alla fine prevarrà il Bene ed il Male annegherà nella stessa acqua dove aveva cercato di cancellare l'ingombrante presenza di un'altra e ormai inutile donna.Sottovalutando però i poteri della vendetta..reali o meno essi siano.
Le verità nascoste è un film di impianto classico, sicuramente hitchcockiano, tutto giocato sulla suspance e sull'inquietudine del "non ancora visto" e del "non ancora accaduto,a cui il regista Zemeckis ha voluto aggiungere elementi paranormali, per giocare ancora di più con ansia e terrore,realtà e fantasia,psicologia ed aldilà.
Il tutto risulta efficace,ben confezionato e recitato.La coppia Pfeiffer-Ford funziona e finalmente si riesce a gustare un thriller per eccellenza e non uno dei tanti tentativi mal riusciti in circolazione.(Nausicaa)
Un treno con più di 100 passeggeri a bordo subisce un violentissimo incidente per il cui impatto muoiono tutti. Tranne uno .Un uomo qualsiasi,malinconico,taciturno,una persona infelice che suo malgrado è protagonista di un vero ed inspiegabile miracolo.Nemmeno un graffio nel suo corpo,dato scientificamente inspiegabile che fa andare sulle sue tracce l'ambigua figura di un amante dei fumetti,alla ricerca di un super eroe inconsapevole dei suoi poteri...il predestinato appunto.
Un Bruce Willis abbastanza appannato (gli sono sicuramente + congeniali i ruoli d'azione come in "pulp fiction "ed il "quinto elemento") ed un più convincente Samuel Jackson,sono i protagonisti di questo film dal soggetto intrigante ed originale,che offrirebbe spunti interessantissimi. La contrapposizione Bene -Male,l'idea portante dei fumetti che si rapportano alla realtà è sicuramente apprezzabile ma poco sfruttata,confezionando un film più ad effetto e giocato sulle aspettative che sui risultati.
Povero di dialoghi,finale frettoloso rispetto ai tempi lunghissimi della storia e sviluppi poco avvincenti lasciano un po' di amaro in bocca e sicuramente delusione,confidando di un livello pari a quello del "Sesto senso",film precedente e decisamente riuscito del regista Shyamalan.
Peccato.(nausicaa)
Uno squattrinato, neanche troppo furbo (Woody allen) idealizza il piano più "geniale" del secolo per rapinare una banca insieme ad altri due suoi complici. Prendere un negozio in affitto di pizze, adiacente la banca, scavare un tunnel ed arrivare al bottino.
ll primo problema è la moglie che si rifiuta di dargli tutti i suoi risparmi per affittare il negozio ed attuare il piano "geniale", ma poi convinta da lui cede e per copertura inizia a produrre biscotti, unico dolce che lei sa cucinare, mentre gli altri scavano.
Il tunnel fallisce, un vero disastro, in compenso la produzione di dolci va a gonfie vele, con tanto di TV ad intervistare la cuoca "novella". Tutto ciò porta soldi, tanti e la voglia della moglie di far parte dell'elite di New York, a differenza di Woody, amante della birra e del mare di California. Come finisce? come tutte le belle favole, si ritorna alle origini del loro piano con un po' più di esperienza nella vita quotidiana. Per essere Woody Allen mi aspettavo qualcosa in più, ma nel complesso è divertente, soprattutto la fotografia e la casa kich!( trainspotting)
candidato all'oscar come miglior film straniero. E' una storia vera, ambientata a Cinisi, un paesino della sicilia negli anni '70 .In verità non so bene che dire di un film di mafia, senza sparatorie, dove il coraggio di un ragazzo appartenente alla famiglia mafiosa Impastato, vicina a Tano Badalamenti, si espresse in quegli anni; dove il fondare una radio in cui parlava del suo paese, Mafiopoli, gli è costata la vita. Mi permetto solo di "chiedere" la Vostra visione, perchè si tenti di riflettere su cosa ha spinto Peppino (il protagonista) in quella direzione, dove si riparla della vita di un uomo, per quello che fa, non per cosa è, o peggio per cosa "ha". Buona visione. ( trainspotting)
E' una storia vera ambientata nel nord america. Un uomo, piccolo e frustrato, decide di far rapire la moglie per chiedere un riscatto al suocero, il capo dell'azienda dove lavora, spartire il denaro con i due complici mercenari e comprare un lotto dove costruire dei parcheggi: il suo affare del secolo.
I rapitori, uno biondo, silenzioso e visibilmente schizofrenico ed un piccoletto nervoso e rigido, portano in atto il brutale piano in maniera poco ortodossa, seminando morti sul loro cammino, e tirandosi addosso le attenzioni di uno sheriffo, donna, incinta di 7 mesi.
Crudo, cinico, violento, mostra il lato più meschino di un america che raramente s'incontra nei loro stessi film "polizieschi", dando una visione forse più reale, che insieme alla fotografia ci mostra una parte degli U.S.A. sconosciuta a molti, desolata e fredda.
Il finale può sembrar scontato, ma ricondotto alle scene iniziali, chiude il cerchio del pensiero, pessimista o estremamente realista, dei fratelli Coehn. Trainspotting
La cena dei cretini è un appuntamento fisso del mercoledi, dove un gruppo di amici porta un ospite considerato "cretino". Vince chi trova il personaggio più singolare in ciò.
Il protagonista è un ricco uomo di Parigi che in treno conosce "il cretino" che sicuramente gli farà vincere la prossima cena, monsier Pignon, appassionato in riproduzioni di strutture architettoniche con fiammiferi.
Sembra tutto facile, ma un colpo della strega costringe il probabile vincitore a casa, proprio il mercoledi della cena e per di più con il suo "amico" ignaro del motivo dell'invito.
Inizia così una travolgente serata dove si susseguono incomprensioni, battute, equivoci che rendono il film estremamente divertente, comico fino allo spasso, quasi da sembrare uno spettacolo teatrale, grazie anche ad una ambientazione unica.
I personaggi che si susseguono nel film sono richiamati involontariamente da monsier Pignon e contribuiscono a vivacizzare il film ed a creare scene equivoche sempre più assurde e spassose.
Alla fine il "cretino" scopre il motivo del suo invito e la sua reazione è... da vedere. (Trainspotting)
Il dottor T e le donne regia di R.Altman
Richard Gere è l'uomo perfetto, l'uomo che le donne le ama, le capisce, le comprende e forse non a caso, in una realtà un po' nevrotica e al limite del verosimile, ne è circondato. Una moglie, impazzita per troppo amore ricevuto, una zia con tre figlie piccole addobbate come bambole, due figlie piene di problemi, di cui una in procinto di sposarsi e molto vicina "all'amica" Marylin (L.Tyler), un'amante( il premio oscar Helen Hunt), e infine le infermiere e le pazienti tormentate, avvilite, bisognose di attenzioni, nevrotiche, gelose, pettegole che passano il tempo nel suo famoso studio ginecologico. A cosa porterà tutto questo? (Tungaska)
Sud Side Stori di R. Torre
Genere musical, come al suo esordio con "Tano da morire", ma senza la stessa originalità; posso dire che le musiche e l'utilizzo di scenografie colorate, con cartelloni, nonchè le riprese sono del tutto copiate. Cambia l'argomento : la tratta delle africane, costrette a prostituirsi in italia.
Il film è ambientato a Palermo ed è sulla falsa riga di "Romeo e Giulietta". In questo caso il protagonista maschile è un cantante in arme (giulietto), con il mito di Elvis e il più nostrano Little Toni, mentre Romea è un'africana, giovane prostituta.
Gli attori sono sconosciuti, forse l'unico merito del film, con due comparse di eccezione che danno un tocco di vivacità alla storia. Il contorno dei personaggi che ruota intorno ai due protagonisti è una esasperazione negativa e critica della vita nel sud d'Italia : esasperazione nella credenza religiosa nei santi, visione gerarchica della famiglia, contrasto tra religione e credenze nell'occulto.
In fondo i temi trattati sono ben studiati con dei parallelismi degni di nota (il rivolgersi a santoni da parte delle "suocere" del luogo, così come delle africane amiche di Romea) ma la colonna sonora a volta risulta troppo sovrastante sulle scene. Il finale è da ricollegarsi alla storia di "Romeo e Giulietta" ( Trainspotting)
Rosalba,una donna sulla quarantina in Sicilia con marito e figli,viene lasciata per errore in un autogrill...da qui inizierà il suo improvviso e stravagante viaggio alla ricerca di una vita mai vissuta,che forse nemmeno lei,semplice e svagata,pensava consciamente di desiderare.La troverà a Venezia,una Venezia soave e romantica,in grado di riportarla alle piccole cose,ai piccoli gesti,in grado di farla esprimere e vivere davvero. Rosalba incontrerà qui anche l'amore,un'amore dolce,timido,soffuso,taciuto forse per troppo rispetto e sensibilità,amore che troverà espressione,quando Rosalba deciderà di viverlo,di lasciare tutto per tornare in quell'atmosfera d'altri tempi,tra pane,tulipani,poesia e balli gioiosi su piattaforme girevoli.Finalmente trova la sua dimensione,senza dolori o traumi ed il tutto viene raccontato con la maggior delicatezza possibile.
Soldini,il regista ,mette nuovamente alla prova in questo film così lieve e profondo,il suo talento registico e propone storie e personaggi semplici delineandoli con grande purezza e poeticità,rendendo trame apparentemente banali sottilmente originali e personali.Gli attori sono decisamente all'altezza,Licia Miglietta, già vista ne "le acrobate"dello stesso Soldini è affascinante e intensa ,Bruno Ganz si cala perfettamente nel ruolo di uomo d'altri tempi venato dalla tristezza del passato.
Vi consiglio di vedere questo film,piccolo,ma dai grandi contenuti,per non pensare che il cinema italiano sia definitivamente morto. (nausicaa)