Ho corso la mia prima
maratona a New York nel 1989.
È stato questo il
“battesimo” che ha sancito il mio ingresso nel “popolo delle lunghe”.
Una sorta di
iniziazione e rito di passaggio, al tempo stesso.
Non poteva che essere così, vista la rilevanza mitica
e “mistica” di questo evento podistico.
Retroattivamente,
posso senz'altro dire che sono andato a New York non tanto perché fossi
interessato alla maratona in sé, quanto piuttosto perché ero affascinato dalla
possibilità di essere parte vivente di questo grande happening festoso
che, già da diverso tempo trovando sempre più spazio nei mass-media, era
entrato a far parte del grande immaginario collettivo, ma anche desideroso di
sottomettermi ad una “prova”, un cimento che assumeva un forte significato in
quel particolare momento della mia vita.
Partecipare alla
maratona della grande mela!
Un’idea che
accarezzavo dentro di me da diverso tempo, ma che esitavo ad tradurre in azioni
concrete: in realtà, allora non sapevo proprio nulla di corsa sulla grande
distanza, a parte il fatto che da sempre avevo utilizzato la corsa lenta nella
preparazione invernale del canottaggio e della canoa, i miei sport agonistici
giovanili.
Da quando avevo
sentito parlare per la prima volta della maratona di New York erano passati
diversi anni e sempre, di anno in anno, mi lasciavo sfuggire l’occasione, non
facevo nulla per pianificare.
Ma ovviamente, in
tempi in cui l’accesso ad internet non era ancora così sviluppato come adesso
mi mancavano gli elementi basilari del know how: a chi rivolgersi, quali
passi intraprendere, come iscriversi (per quanto riguardava gli aspetti
meramente organizzativi); come allenarsi per essere nelle condizioni più idonee
per correre i 42km195mt sino in fondo (per quelli che erano gli aspetti più
specificamente tecnici), quella che per me rappresentava una distanza
semplicemente titanica, quasi inconcepibile.
Nell’estate del 1988,
sono incorso in una malattia renale (fortunatamente a decorso benigno), a causa
della quale il luminare nefrologo cui mi ero rivolto mi prescrisse riposo
assoluto per almeno un anno, lasciandomi capire che anche dopo, ammesso e non
concesso che tutto si fosse rimesso a posto, certamente non sarebbe più stata
la stessa cosa e che avrei dovuto essere piuttosto cauto, limitando
drasticamente la ripresa di qualsiasi attività sportiva.
In realtà – e lo dico
da medico – i medici spesso e
volentieri sono timorosi e tendono ad
accentuare con i propri pazienti la necessità di un atteggiamento prudenziale,
creando – di fatto – attraverso la proposta di una sedentarietà mali peggiori
di quelli che intendono prevenire (la necessità di “prevenire” la malattia e la
morte, si traduce in iniziative che tendono a far “morire di paura”). Ma fortunatamente, a bilanciare il punto di
vista severo del primo neurologo, un altro collega medico, anche lui nefrologo,
ma sportivo praticante e reduce – come me – da un passato di canottaggio
agonistico, di fronte la mio sconforto, mi disse di non preoccuparmi
eccessivamente e di fare ciò che sentivo di fare, una volta trascorso un
necessario periodo di pausa.
Trascorsi dunque un
anno intero, quasi da “pensionato” dello sport, limitandomi a brevi passeggiate
in bici oppure a camminate – anch’esse brevi – con il mio cane.
Passato questo
periodo, mi sentivo ormai impaziente e recalcitrante: insomma non volevo più
essere un “paziente”, ma nello stesso tempo mi era duro liberarmi
dall’esortazione alla prudenza del primo nefrologo, che nella mia mente di
medico era stata profondamente interiorizzata come un monito…
I controlli che
effettuavo regolarmente una volta al mese indicavano che tutto era a posto…
E così passavano i
mesi.
Ad un certo punto a
metà circa del 1989, l’anno fatidico del compimento dei miei “primi” quaranta,
mi sono detto in un empito di ribellione: “Ora basta… basta con gli esami…
basta con il riposo forzato… basta con le visite mediche di controllo… adesso
sto bene e farò a modo mio!” E per dare un senso forte alla mia decisione
dissi a me stesso: “Questo è l’anno in cui andrò a correre la maratona di
New York. È deciso!” .
Fedele al voto,
cominciai a fare lunghi allenamenti di corsa lenta, raggiungendo nuovamente
l’autonomia di un’ora, poi di un’ora e trenta, per poi arrivare alle soglie
dell’estate a lunghi di due-tre ore. Semplicemente, in questa prima fase, senza
essermi confrontato con nessuno e muovendomi del tutto da outsider nel
mondo della corsa, immaginavo che, per arrivare a correre la distanza della
maratona, bisognasse correre tanto (a lungo in termini sia di tempo sia di
importi chilometrici coperti giornalmente).
Ovviamente, ho
cominciato a chiedere in giro quali passi si dovessero fare per andare a New
York, sono entrato in contatto con un club podistico di Palermo, al quale mi
sono iscritto dopo aver fatto la visita medica per le attività sportive
agonistiche; ho cominciato a partecipare ad una serie di gare brevi che, di
fatto, in questa prima fase hanno rappresentato i miei medi, ma non posso
dimenticare che l’esordio nelle gare podistiche competitive l’ho avuto con una
mezza maratona, valevole come Campionato Regionale di Maratonina.
Insomma, con l’inizio
dell’estate e avendo già accumulato almeno dieci esperienze di gare podistiche
su brevi distanze disputate, tra le quali il mitico giro podistico dell’Etna,
leggendo un numero di Correre, sono stato colpito dalla pubblicità del volume
di Arcelli, appena pubblicato, Correre la maratona: ho pensato, E’ il
libro che fa per me! e ho subito deciso di acquistarlo, direttamente per
posta; dopo averlo studiato, ho cominciato ad applicare – ovviamente, in
maniera imperfetta – alcuni dei consigli e degli schemi presentati per
l’ottimizzazione degli allenamenti.
Così è passata
l’estate.
Intanto, avevo già
perfezionato la mia iscrizione alla maratona della grande mela, stabilendo dei
contatti con un podista di Palermo che si occupava di raccogliere adesioni dei
siciliani, facendo da tramite con l’organizzazione di Baldisserotto.
Fu così che entrai a
far parte della comitiva (per quell’anno nutrita) dei palermitani che sarebbero
partiti per New York.
Già sentivo che,
ormai, il mio voto era prossimo al suo compimento, anche se, nello stesso
tempo, tante erano le apprensioni di fronte all’ignoto di una distanza che, in
ogni caso pur avendo sperimentato dei lunghi piuttosto cospicui, mai avevo
percorso per intero.
In più, ero sempre
più eccitato all’idea di andare per la prima volta a New York e di potermi
aggirare all’interno di scenari che, sino a quel momento, avevo potuto
osservare soltanto nei tanti film di ambientazione newyorkese.
Una
tragedia!
Subito
prima della partenza, mi prende un violento raffreddore, con faringite; per
scongiurare il peggio, comincio ad imbottirmi di antipiretici ed antibiotici.
Ma non si può non partire: il pensiero di una rinuncia non sfiora nemmeno per
un attimo l’anticamera del mio cervello.
Rimango
decisissimo e determinato.
Siamo
al giorno della partenza.
Il
viaggio si svolge in un clima di grande euforia collettiva.
E
l’euforia persiste anche al nostro arrivo a New York: anzi si potenzia a
dismisura.
Per
molti della comitiva è il primo viaggio in America.
Giriamo
per le strade di Manhattan, guardandoci attorno estasiati.
Soprattutto
stupiti, ci troviamo a guardare in alto le strette strisce di cielo, delimitate
da grattacieli di altezza vertiginose, sentendoci piccoli e minuscoli.
Una
città di proporzioni titaniche, eppure stranamente a misura d’uomo.
Inebriati
dalle novità, nei giorni che precedono la maratona, non mancano le corse di allenamento entusiastiche su e giù per
Central Park (ben più che semplici allenamenti defaticanti in vista della prova
di maratona che ci attende).
Ma
inaspettatamente, comincia a far freddo e a piovere: d’urgenza vado a visitare
un negozio di articoli sportivi e compro una serie di indumenti di cui ero del
tutto sprovvisto (articoli “tecnici”, mai avuti prima: fuseau da corsa, una
giacca impermeabile in leggero tessuto di goretex, delle nuove scarpe) spinto
dal timore di non aver di che per coprirmi bene il giorno della maratona.
Le
mie sensazioni sono quelle di uno che si accinge a vivere un’avventura, anzi
che è proprio immesso in un’avventura… senza avere assolutamente idea di quello
che mi può aspettare!
Il
giorno della Maratona ancora sto piuttosto male: tosse e catarro, anche se il
mal di gola èun po’ regredito…. E
comunque vado lo stesso: sarebbe assurdo rinunciare dopo quasi un anno di
attesa e di preparazione!!
Alle
5.30 usciamo dall’albergo per essere trasportati con i bus sino all’area
predisposta a Staten Island per accogliere gli oltre ventimila partenti in
attesa del segnale dello start.
Le
ore di attesa passano lente… fa freddo, si fa fatica a riscaldarsi… andrà
meglio quando ci troveremo tutti assiepati dietro la linea di partenza, qui il
calore animale che si leva da tutti i nostri corpi stretti come sardine ci
proteggerà dall’aria pungente.
Intanto,
nell’attesa, tutto è anche fonte di sorpresa e di meraviglia: nell’area di
raduno c’è l’animazione che provvede a suggerire movimenti corali per
riscaldare i muscoli (per riscaldarsi), c’è la musica rockettara a tutto
volume, ci sono tipi che si accingono a correre la maratona vestiti (se non
addirittura mascherati) in modo pittoresco per attirare l’attenzione su di sé,
si scattano foto ricordo in posa (individuali o in gruppo); uno strano
personaggio vestito da diavoletto ci viene vicino e lo invitiamo a partecipare ad una foto ricordo della
nostra comitiva con lo sfondo del ponte, su cui correremo le prime due miglia
circa.
E
finalmente il via: è un’emozione indicibile percorrere per la prima volta il Verrazzano
Bridge, sentendo ad ogni passo, nelle gambe la vibrazione del ponte
determinata dalle migliaia e migliaia di passi che asincronicamente ne
percuotono la superficie.
Dal
mio fronte di partenza mi trovo ad essere immesso sul piano inferiore del
ponte, ma l’emozione non certamente inferiore.
Un’esaltazione
quasi febbrile cresce in me mentre muovo i primi passi, impacciato e stretto
nella folla, al pensiero di essere in migliaia e migliaia tutti accomunati
dall’esecuzione di un unico gesto, più di ventimila cuori che battono
all’unisono all’interno di questa gigantesca cattedrale dell’ingegno umano che
è questo gigantesco ponte.
Già
queste sensazioni sono tali da indurre uno stato di vera e propria ebbrezza.
Una
sorta di estasi selvaggia non indotta da droghe.
Procedo
piano e con regolarità, senza strappi né sorprese.
Arrivo
quasi senza accorgermene e senza avere sofferto al 25°km, cioè all’attraversamento
del Queensboro Bridge, il cui superamento equivale alla scalata e alla discesa
di una piccola collina….
Durante
tutto il tragitto, il percorso si è snodato attraverso due ali di folla
festanti, volti sorridenti, parole di incoraggiamento, forme di supporto
spontaneo, persino i bambini vogliono partecipare offrendoti caramelle e
dolciumi, qualcuno vuole manifestare in maniera più decisa il proprio
entusiasmo: Gimme five! dice esortativo un ragazzino esponendo il palmo
della sua mano perché tu lo percuota al passaggio con la tua.
Si
ha la netta percezione che, per la folla assiepata, ciascuno di noi è a tutti
gli effetti un eroe del mito che sta cimentandosi con la sua prova e che a lui
quindi è destinato il tributo che un tempo si riservava agli eroi e ai semidei
A
Manhattan continuo ad andare abbastanza bene: durante l’attraversamento di Central Park arriva una crisi ma non
eccessiva, tutto sommato controllabile.
Malgrado
tutto non comincio a camminare nemmeno per un attimo: ciò nondimeno, nel
momento del cedimento, vengo superato in pochi istanti da centinaia e centinaia
di maratoneti che viaggiavano dietro di me.
Il
mio risultato finale (4h03’12”) è abbastanza soddisfacente: insomma posso ben
dire, anche alla luce delle mie esperienze successive che ero ben preparato.
Subito
dopo, dolorante e tremante, mi sono trascinato in albergo: un lungo bagno caldo
e poi a letto al caldo.
E
soltanto dopo alcune ore mi passano i tremiti, lasciandomi decisamente
affamato, ma soddisfatto a rimirare con compiaciuto orgoglio la medaglia
ricordo di una manifestazione così unica al mondo, sentendo che l’ho proprio
ben meritata.
Nei giorni
successivi, grande entusiasmo, grande eccitazione.
Il giorno dopo, per
quanto provati, usciamo tutti in gruppo
per andare a correre a Central Park: ancora una volta sembra di rivivere
scenari da film, tante volte visti.
Presi
dall’entusiasmo, ci diamo sotto, con ritmi elevati, non esattamente da
recupero: ma a chi importa? Il pensiero tacito è quello che siamo a New York
per la prima volta.
E così tra la corsa
mattutina (sempre impegnativa) e i giri turistici per Manhattan trascorrono
velocemente (troppo!) i giorni del nostro viaggio.
Al ritorno a Palermo,
sotto il profilo sportivo, niente recuperi: ho ripreso ad allenarmi con
intensità; anzi, entusiasta del
risultato conseguito a New York, ho deciso di rivolgermi al prof Totò Liga che
allora, allo Stadio delle Palme, seguiva volentieri un gruppo di podisti
amatori. Gli ho chiesto quindi dei suggerimenti per migliorare la mia performance,
partendo dalla base ormai acquisita e lavorando sul tempo che ho realizzato ( e
che, a tutti gli effetti, adesso era il mio riferimento). C’era ben poco tempo
a disposizione: di lì a poco, ai primi di Dicembre, c’era l’appuntamento con la maratona di Palermo, cui non
intendevo rinunciare.
Quindi, seguendo i consigli del prof. Liga, mi sono limitato a fare qualche lavoro in pista (niente di che, ma comunque significativi, perché erano per me una novità assoluta) tra cui, in particolare, alcune ripetute sui quattrocento e poi anche qualche medio (anche in questo caso universo tutto da scoprire); a metà dell’intervallo di tempo tra New York e Palermo, ho avuto modo di partecipare ad una gara di 10km che è valsa come un altro medio.
Sempre gasatissimo,
sono andato avanti con impegno, a volte allenandomi anche due volte in un
giorno.
Alla vigilia della
mia seconda maratona, il 7 Dicembre, di Sabato pomeriggio, fregandomene alla
grande di qualsiasi restrizione prudenziale, ho corso assieme ad alcuni
irriducibili, allo stadio di Atletica,
per oltre un ora nella pista esterna in terra battuta.
Poi, a casa, una
gigantesca porzione di pastasciutta e quindi a nanna, in attesa, tranquilla e
desiderante, della mia seconda esperienza di maratona.
Anche se Palermo non
è New York, anche se il mio entusiasmo di neofita mi ha indotto a minimizzare
su alcune clamorose defaillance dell’apparato organizzativo (ma,
d’altronde, allora il mio occhio non era ancora allenato a coglierle), riesco
benissimo e concludo la distanza sotto le quattro ore (in 3h46’44”), con la
previsione quindi di ulteriori margini di miglioramento in future maratone.
È stato così che ho
iniziato a correre le maratone: a queste prime due che hanno avuto per me il
carattere e il fascino forte
dell’avventura ce ne sono state molteplici altre sino ad oggi.
Ma devo dire che,
benché le mie esperienze di maratoneta nel corso degli anni si siano
accresciute a dismisura rispetto a quel vuoto iniziale, non sono più riuscito a
cogliere né alla partenza di una maratona né – soprattutto – al suo arrivo quel
complesso di sensazioni e di emozioni sperimentate durante la mia prima
“mitica” maratona di New York.
Ho avuto voglia di
scrivere dei miei inizi di maratoneta, leggendo una lettera su “Quattro
chiacchiere tra amici” dove uno ( di cui – scusandomi – non riesco a ricordare
il nome) alla sua prima esperienza di New York che descriveva appunto con
l’entusiasmo del neofita chiedeva – si chiedeva – se gli sarebbe stato
possibile correre a distanza di circa un mese una seconda maratona, cercando
consigli da chiunque fosse in grado di dargliene.
Certo che si può,
rispondo io.
E si può, aggiungo,
mantenendo intatto un certo margine di miglioramento.
L’importante è
affrontare le cose – le imprese – con
entusiasmo, pensandole soprattutto come piccoli, grandi, eventi di cui noi stessi siamo artefici e
che ci servono per star bene con noi stessi.
Palermo,
il 6.1.2004