Cos'è l'agonismo non competitivo?

 

Amo correre in solitudine e nel silenzio, amo la corsa perché mi aiuta a pensare meglio; ma soprattutto amo la corsa perché mi fa sentire il contatto con il divino immanente nelle cose. Vorrei … fare proseliti tra chi è più desideroso di praticare forme di agonismo non competitivo.[i][1]

 

Una breve premessa

Questa la frase che ho formulato per completare la mia scheda personale, rinvenibile nel sito web della mia società podistica: un tentativo approssimativo di caratterizzare me stesso e ciò che mi anima nell’approccio alla corsa di lunga distanza.

Credo che questa mia frase e soprattutto la formulazione conclusiva con il riferimento alla categoria dell’ “agonismo non competitivo” abbia suscitato perplessità ed interrogativi tra gli altri soci del club, tanto che ho dovuto “battagliare” non poco perché la frase che io avevo costruito venisse inserita integralmente esattamente come io l’avevo pensata.

Alla fine, hanno prevalso le mie ragioni e la frase è stata inserita tale e quale.

Ciò nonostante, sono certo che molti continuano ad essere tormentati dagli interrogativi e dalla contraddizione in termini che sentono insita nella formulazione di “agonismo non competitivo”.

Voglio provare a spiegare a tutti i dubbiosi e ai perplessi cosa io voglia intendere per “agonismo non competitivo”, quando parlo dello spirito con cui mi accosto alle gare podistiche di lunga distanza.

In vista di questo scopo, mi avvarrò di osservazioni mutuate da un’altra attività sportiva che mio figlio ha cominciato a praticare circa due anni fa. Credo che le considerazioni che seguono possano interessare molto noi podisti amatori; infatti,  a volte,  fuorviati da una piena aderenza allo spirito gioioso che dovrebbe legarci alla corsa da pressioni e suggestioni di altro genere, siamo spinti ad importare in modo massivo nella nostro modo di fare sport tutte intere le nostre nevrosi quotidiane. E allora la corsa da buona pratica che dovrebbe servire ad evadere dallo stress della vita moderna e come strumento per costruire significati di vita più profondi, diventa soltanto una forma di  schiavitù di asservimento e fonte di ulteriore stress.

Un esempio significativo: la pratica dello sport come fonte d’insegnamenti di vita

L'altro giorno ho accompagnato Francesco, ad una gara di Karate-Do, organizzata nella palestra che frequenta.

Questa sarebbe stata la prima gara di Francesco, da quando ha iniziato a praticare questa disciplina sportiva: periodicamente, ha fatto gli esami per il passaggio da un livello all’altro, ma questa sarebbe stata un’occasione speciale: si tratta di un evento pubblico, alla presenza di tutti i genitori, mentre gli esami per il passaggio di livello si svolgono sempre a porte chiuse.

L'anno scorso, nello stesso periodo, Francesco non aveva potuto partecipare ad un’analoga gara, che cadeva dopo il primo anno di addestramento, perché proprio nell’imminenza di essa, all’improvviso, con suo grande rammarico, s’era ammalato.

Questa volta, anche a causa dell’imprevedibile defezione dell’anno prima, Francesco era ovviamente molto emozionato, ma – del resto – in maniera non diversa da tutti gli altri ragazzini di età diverse e con un diverso livello di abilità già acquisito in Karate-Do, per l’occasione convenuti in Palestra.

Il loro Maestro, Oscar Higa, una persona davvero eccezionale[ii][2], prima di dare inizio alla gara, che si svolge secondo un rituale piuttosto rigido, ha voluto indirizzare un discorso introduttivo, vorrei anche dire intensamente "formativo", ai bambini, alcuni dei quali si trovavano a gareggiare per la prima volta, ma soprattutto - ha tenuto a sottolineare - ai genitori.

Il Maestro ha detto:[iii][3]

“Fra poco daremo inizio alla gara.

“Ma prima voglio dire a tutti voi alcune semplici parole sul suo significato della gara e sul giusto atteggiamento da tenere nei suoi confronti.

“Bisogna che i bambini, innanzitutto, possano divertirsi; che partecipino per divertirsi; non è importante chi vince e chi perde; l'importante è avere partecipato ed essersi divertiti per questo; quindi, l'allenamento e le gare vanno sempre affrontate come un gioco; se per i vostri figli il Karate non è più un gioco [e ha detto queste parole, rivolgendosi a noi genitori] fate fare loro altro… non costringeteli a perseverare…

“In ogni caso, voi non dovete dare troppa importanza alla vittoria., intesa come il momento in cui uno più forte stabilisce il suo primato sull’altro.

“Fare il Karate è apprendere una disciplina e i vostri bambini, giocando, a poco a poco possono acquisire una maggiore sicurezza in sé stessi è questa è sicuramente una vittoria.

“Aver partecipato ed essersi confrontati con le difficoltà di una gara è già, di per sé, un'altra vittoria.

“Io ho formato alcuni che adesso sono diventati campioni del mondo, ma questo non è importante. La cosa importante è arrivare in fondo alle cose che si intraprendono. La vita è come una corsa, una lunga corsa… E che senso c'è nella corsa di uno che, all'inizio, parte come un forsennato e che, ad un certo punto, non reggendo alla distanza dovrà fermarsi...?

“E' più saggio andare piano all'inizio  per potere resistere a lungo. La vita è questo, è fatta in questo modo… Lo sport deve servire per formarsi a questo, perché i bambini a poco a poco possano acquistare sicurezza e crescere, sentendo una maggiore capacità di padroneggiarsi.

“Quindi voi [ nuovamente rivolgendosi ai genitori] non dovete fare pressioni sui vostri figli perché siano i più forti, i più veloci...

“Ma ora diamo inizio alla gara!"

Queste parole hanno conferito una solennità quasi rituale alla gara che si è dipanata subito dopo.

Una gara che non aveva nulla a che vedere con la concezione di gara a cui ci hanno abituato i mass-media.

Ogni allievo, infatti, si esibiva da solo di fronte a quattro giudici che, per quanto occidentali, manifestavano nei gesti e nelle posture una certa severità rituale: compito di ogni allievo era quello di mettere in atto il Kata (cioè una sequenza precisa di mosse) da lui stesso prescelto, quella sequenza che ritenesse di padroneggiare meglio.

All’esibizione di ciascuno, faceva seguito l’attribuzione di un punteggio che poi veniva utilizzato per collocare ciascuno dei concorrenti in una classifica.

Ma, a prescindere dal modo di svolgimento della gara, mi è sembrato che le  parole di grande saggezza e sapienza del maestro Higa gettassero, per estensione, su tutte le altre pratiche sportive un potenziale significato filosofico che sembra essersi perso irrimediabilmente in un universo di riferimenti culturali che valorizzano al massimo la capacità di prestazione, il livello "performativo", l’aggressività e la lotta, orientante al dominio e alla prevaricazione.

Le parole del maestro Higa rappresentano dunque una preziosa lezione di vita, anche perché egli in modo semplice, ma profondo, ha dato risalto all'aspetto intrinsecamente formativo di una pratica sportiva fondata su questi precetti.

La scuola di Karate, di cui il maestro Higa è un illustre rappresentante, qualificato e conosciuto a livello mondiale, rifugge dal considerare il Karate come una semplice tecnica di lotta.[iv][4]

Sì, indubbiamente, quest’aspetto è nelle origini  del Karate e di altri arti marziali orientali, essendone, nello stesso tempo,  una possibile applicazione, ma soprattutto l’intero corpus di precetti e di tecniche del Karate deve essere visto come un “processo” di addestramento che disciplina il corpo e la mente: attraverso l'esercizio e la crescente abilità nell'eseguire kata sempre più elaborati e complessi, l'allievo impara anche una disciplina della mente, apprendendo al tempo stesso un'estetica della corporeità e dei gesti atletici, in una profonda armonia di soma e di psiche.

Ma questa è comunque una comune caratteristica del pensiero orientale, del modo della mente orientale di accostarsi alla realtà: dietro la prassi, dietro l’esecuzione materiale di qualsiasi gesto, vi è una precisa filosofia di vita.

È bello constatare che una scintilla di pensiero orientale si sia potuta trapiantare dalle nostre parti e che mantenga intatta tutta la sua forza, non contaminata in alcun modo da uno stile di pensiero “unificato” proprio delle strategie della globalizzazione.

I giovani allievi di Karate-Do, dunque, vengono addestrati soprattutto nell'esecuzione dei diversi kata, in esecuzione individuale o di gruppo, senza che quasi mai si passi all'applicazione marziale delle tecniche apprese, nel senso del confronto diretto con un avversario.

L’applicazione delle tecniche apprese in forme rituali di combattimento con un avversario, semmai, avverrà in una fase successiva, quando le tecniche del movimento e le filosofie sottese siano già state profondamente interiorizzate.

Secondo uno dei principi fondanti della filosofia, sottesa a questa disciplina, le tecniche del Karate non devono essere delle “armi” per offendere l’avversario, ma strumenti di  equilibrio del proprio essere, anzi mezzi che, attraverso un controllo sulla propria aggressività e sulla propria forza, consentano di integrare armonicamente questi elementi nella mente.

È  chiaro che, all'interno di questa cornice, è risibile pensare che ci possa essere qualcuno che vince e qualcuno che perde, e che abbia importanza puntualizzare chi sia il vincitore: in realtà, date queste premesse “filosofiche” tutti vincono, nessuno perde.

Perde soltanto chi, erroneamente, abbia messo al primo posto nella sua scala di valori la necessità della vittoria ad ogni costo.

I ragazzini sono naturalmente portati al gioco: se, nella mente giovane di qualcuno di loro, sfortunatamente, dovessero rinvenirsi l’ossessione per la vittoria e il bisogno di primeggiare ad ogni costo, ciò non è uno stato originario del bambino, ma è stato inculcato - purtroppo - dai genitori e da altri adulti significativi.

Oggi, sempre di più, si tende a disprezzare chi non eccelle nella pratica sportiva.

Secondo questo universo di significati bisogna essere sempre dei vincitori, mentre l'implicito sotteso a questo “must” è che non ci debba essere posto per i perdenti.

A supporto di quest’assetto di pensiero, vi è un forte disprezzo per chi non è in condizione di eccellere, per chi pratica un'attività sportiva soltanto perché vuole divertirsi oppure persegue il desiderio di star bene con sé stesso e con gli altri.

Quali le radici etimologiche della parola “agonismo”?

D'altra parte, la parola "agonismo" nelle sue origini etimologiche è correlata piuttosto all'accezione di divertimento, cioè di attività ludica che si svolge in un contesto pubblico (da questo punto di vista, visto che l’etimo della parola è il greco agwn vi è una certa comunanza di origine con la parola agorà, che significa piazza/spazio aperto) senza una specifica finalità o utilità, ma semplicemente con l'obiettivo di trarne un divertimento.

Quindi, l’agonismo implica il riferimento allo spazio aperto, il luogo per l’adunanza, la piazza davanti al tempio, il circo e, per traslato, la folla che va ai giochi, l’assemblea, l’adunanza.

Soltanto, in un passaggio successivo dello spettro di significati dell’etimo, è contenuto il riferimento ai significati di lotta, combattimento, gara, giochi, disputa giudiziaria etc.

Da questo punto di vista, non si può non ricordare che le parole “agonismo” e “agonia” sono strettamente correlate tra loro.

Ma ciò che mi preme sottolineare qui, senza scivolare in disquisizioni troppo sottili, è che il primo, originario, significato della parola in questione (agwn) è quello di spazio pubblico, in cui la folla si raduna e dove, secondo una codifica rituale, hanno luogo dei giochi.

La ritualità, e dunque la regolamentazione per mezzo di regole condivise, precise ed inderogabili, la delimitazione di un tempo e di uno spazio in cui debba avere luogo l’”agone”, hanno un’importanza fondamentale nella definizione di “agonismo”: la delimitazione di spazio e tempo, l’esistenza di regole precise ed inderogabili implicano un ordine, la cui violazione implica il fatto che si cessi di giocare il gioco e che si ritorni ad una sorta di stato di natura non regolamentato.

La definizione di agonismo/sport, come attività in cui si vince o si perde, e non come attività cui si partecipa pubblicamente sottomettendosi a delle regole, implica il fatto che, contrariamente a quanto oggi alcuni vogliano pensare alle gare di una disciplina sportiva non partecipino soltanto dei campioni ma anche tutti quelli che semplicemente desiderano “cimentarsi”, nello spazio e nel tempo rituale dell’agwn.[v][5]

Ma tutto ciò oggi sembra essersi perso. Come illustra con ampiezza di argomentazioni l’autore del saggio citato, oggi l’agonismo tende sempre di più a perdere quei caratteri – ritenuti indispensabili da Huizinga – di gioiosità, di ludicità e di puro godimento che, nelle loro origini, contraddistinguevano le pratiche sportive e che le facevano essere soprattutto degli strumenti efficaci per costruire un equilibrio del corpo e della mente nel mondo naturale.

Adesso, ai nostri giorni, la pratica sportiva, masticata e digerita, in definita interpretata come strumento consumistico,  dai mass-media serve piuttosto a chiudere il cerchio dell’asservimento ai valori propri di un sistema che predilige in ogni manifestazione la costruzione di rapporti di potere, fondati sulla violenza (più o meno manifesta) e sulla prevaricazione.

La forma moderna degli sport, con la generalizzata celebrazione del campione che corre più veloce, che salta più in alto, che colpisce più duro, sviluppatasi in coincidenza del “macchinismo industriale”, riflette in pieno in modo sempre più deteriore – grazie all’ulteriore inquinamento spettacolaristico determinato dallo stile comunicativo dei mass-media -  tutte le categorie del sistema capitalistico moderno e post-moderno: lo sport nella sua forma moderna riflette dunque

…la competizione, come concorrenza sociale generalizzata; la ricerca sistematica del rendimento; la sua costante misura e la continua tendenza al miglioramento, cioè al record.[vi][6]

Forse per questi motivi è utile parlare di agonismo “non competitivo”…

Per questo, a me piace parlare piuttosto di "agonismo non competitivo": è un modo per riportare l'agonismo alle sue radici etimologiche: chi pratica l'agonismo in una delle tante discipline sportive, secondo quest’accezione, è (dovrebbe essere) in gara innanzitutto con sé stesso, è in gara per vincere sé stesso, ma – soprattutto – è in gara per divertirsi, per sperimentare momenti ludici che lo allontanino dall’utilitarismo dominante nella vita quotidiana e nei rapporti di produzione.

Ma, secondo questa stessa accezione, si è anche in gara per potere sperimentare stupore e meraviglia, per potere apprendere dall’esperienza, in definitiva per “formarsi”: quando ci si mantiene capaci di raccogliere i minuti eventi della vita quotidiana, vedendone ogni volta aspetti nuovi, di percepire lo stupore e la meraviglia insiti nelle cose, di sperimentare turbamento; oppure quando si è in condizione di tornare ad uno stato duttile della mente, allora si è capaci di apprendere e di crescere in un infinito percorso formativo del proprio Sé.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma, allora, che bisogno c'è di partecipare ad una gara, ad un evento sportivo, se deve valere il principio che ciascuno è in gara con sé stesso, ognuno può gareggiare come e quando vuole: in realtà, l'evento sportivo, con il suo tipico assetto organizzativo, con il suo pubblico, fornisce il contesto in cui collocare la propria prestazione sportiva e soprattutto la dimensione rituale di questa partecipazione, ovviamente anche la codifica del proprio modo di partecipare nel rispetto di alcune specifiche regole.

Sbaglia chi pensa che la valorizzazione della partecipazione ad un dato evento sportivo dipenda dalla capacità di essere competitivo allo stremo in antagonismo con degli avversari; sbaglia chi disprezza gli ultimi; sbagliano quelli che, essendo ultimi, si rodono la mente con il pensiero ossessionante che non sono stati tra i primi e pensano di essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di arrivare tra i primi.

Secondo me, tutti quelli che praticano gli sport immersi in questi rete di riferimenti rischiano di diventare “vittime” inconsapevoli dello sport, vittime di una vera e propria “malattia”, una sorta di nevrosi ossessiva applicata alla pratica sportiva[vii][7]

Invece, è importante poter partecipare per esserci, partecipare per divertirsi, partecipare per fare esperienza e per "formarsi" con e attraverso la pratica sportiva, considerando che non c'è mai nulla che sia definito una volta per sempre e che ciascuno di noi è immesso in un percorso formativo del carattere che non dovrebbe mai avere fine.

La volontà di vittoria ad ogni costo inquina ogni pratica sportiva e provoca una serie di effetti deleteri...

Innanzitutto, inquina la mente dello sportivo e del tifoso.

In secondo luogo, guasta il godimento del gesto atletico e lo svilisce.

In terzo luogo, alimenta in modo incontrollabile forme di aggressività nei confronti di colui/quelli che è/sono identificati come avversario/i da battere.

In quarto luogo, impedisce di provare genuina "ammirazione" nei confronti di chi si impegna in armonia con le sue forze in una prestazione sportiva di rilievo, pur non potendo eccellere in termini di prestazione "oggettiva".

In quinto luogo, apre la strada ai trucchi, alle menzogne e alle falsificazioni...

Soltanto così al giorno d'oggi si può spiegare la diffusione delle pratiche dopanti, che tendono a migliorare le prestazioni oppure, in alcune tipologie di eventi sportivi, la pratica dell'inganno (come, ad esempio, quelli che nella Centochilometri del Passatore si fanno trasportare in auto da amici compiacenti oppure quelli che, in gare più brevi, sfruttando le disattenzioni di chi presidia il percorso e dell'assenza di giudici di gara “tagliano” allegramente, facendosi sconti significativi sui chilometri da percorrere).

Lo sport, immesso in questa dimensione, rischia di diventare un affare davvero squallido...

Ma, per fortuna, ci sono persone come Oscar Higa che tentano di trasmettere ai ragazzini un profondo messaggio formativo e che, per questo, prima ancora che maestri “tecnici” di discipline sportive meritano di essere considerati come dei veri Maestri di vita..

 

Palermo, il 23 Aprile 2003

 

 

 



[i][1] http://space.tin.it/sport/yrdinata/atleti.html

[ii][2] Per un imperscrutabile disegno del destino il Maestro Oscar Higa, erede di un’antica progenie di karateki, e il più giovane 8° Dan della storia della Federazione di Karate-Do di Okinawa, si è fermato a Palermo, dove insegna, assieme ai suoi istruttori, il Karate-Do Kyudokan (dal pieghevole dell’Associazione Sportiva Culturale Okinawa). Ma, a parte queste doti e aldi là dell’illustre tradizione che egli rappresenta, Il Maestro Higa è una persona di grande affabilità, capace di utilizzare indubbie doti carismatiche per trasmettere il suo insegnamento.

[iii][3] Le parole del Maestro Higa, di seguito riportate – spero abbastanza letteralmente - rispecchiano fedelmente l’obiettivo fondamentale della scuola che, al di là dell’aspetto tecnico e del successo sportivo “competitivo”, è dato dal progetto di contribuire alla formazione integrale della persona (ib.).

[iv][4] Si vedano a questo riguardo le note su Il karate-Do e il bambino, sempre nel pieghevole già menzionato dell’Associazione Sportiva Culturale Okinawa.Qui si può leggere:

 “Contrariamente a quanto la gente possa credere, la pratica del Karate-Do nei bambini non provoca in loro violenza né lesioni di nessuna natura. Il bambino impara dall’inizio a controllare l’aspetto tecnico-muscolare e la fase aggressiva e le lezioni si sviluppano in un ambiente che favorisce la socializzazione e il rispetto reciproco. Inoltre la pratica di questa disciplina agisce nel bambino come un efficace e naturale sistema per sviluppare una sana personalità. (…) Il bambino acquisendo una buona forma fisica, psichica e spirituale sarà agevolato ad affrontare il futuro con più serenità” (ib.).

[v][5] Questi aspetti sono ampiamente esaminati in Ghirelli A., Agonismo, Enciclopedia Einaudi, Vol. I, Einaudi, Torino, 1977, pp.215-242., ma anche nei testi cui questo fondamentale saggio fa riferimento (Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino, 1973; Caillois R., I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 1981)

[vi][6] Agonismo, cit.

[vii][7] Individuabile sia negli atleti, vittime di “una coazione a compiere sforzi e a ripetere” sia nei “tifosi” e nei “supporter” in termini di “spostamento dell’affetto su rappresentazioni lontane dal conflitto originario” (cifr., Agonismo, cit., p.241).