IL VALORE ETICO DELLA RESISTENZA
IN UN GRUPPO DI UOMINI:
LA BRIGATA “PIPPO”


 
 
 

 

 

LICEO SCIENTIFICO A.BARBIERI
ANNO SCOLASTICO 2003/2004
 

DOMITILLA SANTI

L’8 SETTEMBRE PISTOIESE

Un esempio di come i fatti politici dell’8 settembre sconvolsero le città italiane si può ritrovare a Pistoia, in cui i giorni 9 e 10 settembre si ricordano come scossi da vero caos ed agitazione. Le voci che immediatamente fecero il giro della città erano incerte e contraddittorie, e parlavano di reparti tedeschi che stavano giungendo dalla montagna e di un’esigua forma di resistenza di alcuni artiglieri italiani per ostacolarli. Molti cittadini, i più decisi e coraggiosi, si mostrarono subito pronti a difendere la città da un eventuale occupazione nemica, e si diedero da fare cercando di procurarsi delle armi o dai soldati che avevano abbandonato le caserme o dai magazzini del Distretto. Proprio durante uno di questi giorni alcuni uomini con delle armi rubate si portarono in piazza dello Spirito Santo sotto la caserma dei militi della difesa contraerea, chiedendo loro la resa. La risposta di quelli fu il lancio di una piccola bomba a mano, il che scatenò la violenta reazione armata degli uomini che alla fine portò all’espugnazione della caserma e ad un cospicuo bottino. Questo fatto però fu fine a se stesso, poiché nessuno degli alti ufficiali volle organizzare la difesa della città come avevano tentato quegli uomini nella piazza dello Spirito Santo, né distribuirono le armi alle forze popolari poiché diffidavano di esse. I tedeschi, dunque, di lì a pochi giorni entrarono prepotentemente a Pistoia, semplicemente sfondando una fragile ed improvvisata barricata in legno che sbarrava il quadrivio delle statali per l’Abetone e Bologna. Impossibilitati dalla mancanza di mezzi per agire ed abbandonata quindi l’idea di ostacolare l’entrata tedesca, quei cittadini pronti all’opposizione, dopo altri due tentativi falliti di approvvigionamento di armi, si riunirono allora in un gruppo compatto di anti-fascisti, il cosiddetto “Fronte unico”, che divenne poi il Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN), per costituire un organismo che gestisse tutti i nuclei resistenziali della zona, esercitando su di essi il controllo politico e militare e provvedendo al rifornimento di armi, viveri, etc.. In quel momento la città di Pistoia contava circa 200-300 uomini a disposizione, divisi in squadre, la maggior parte dei quali si trovava in montagna. La prima squadra di queste formatasi fu quella capeggiata dal giovane pistoiese Manrico Ducceschi.


 
MANRICO DUCCESCHI

Manrico Ducceschi era un pistoiese nato nel 1920. Quando dette vita al suo primo nucleo d’azione aveva 23 anni.

Diplomato al Liceo classico di Lucca, si iscrisse poi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, dove ebbe i primi contatti col movimento di Giustizia e Libertà, ed amava trascorrere il tempo in discorsi intellettuali assieme alla sua cerchia di amici.

Grande amante della montagna, fin da piccolo passava gli inverni a sciare sulle piste dell’Abetone. In questo paese quindi egli conosceva praticamente tutti e tutti conoscevano lui. Ivana Petrucci, dell’Abetone, era amica di Ducceschi dall’infanzia. Anche i loro padri infatti erano buoni conoscenti. Di lui ella ricorda la corporatura magra e non molto alta, gli occhi molto dolci, una calvizie un po’ precoce (a neanche vent’anni iniziò a perdere i primi capelli) e l’indole buona, onesta ed ipersensibile. Era un tipo molto tranquillo, talvolta dai comportamenti curiosi e fuori dal comune. Quando durante la guerra Ivana  sentiva parlare di questo “Pippo” e del buon contributo che stava dando alla lotta partigiana, di certo non pensava che quell’uomo potesse essere il suo amico Manrico. 

DALLE BANDE DI GIOVANI PATRIOTTICI AI GRUPPI D’AZIONE POLITICIZZATI TOSCANI

Dopo l’8 settembre in Toscana, il Comitato militare sotto anche le direttive del Partito d’Azione fiorentino (PdA), si mobilitò immediatamente per rintracciare tutti quei nuclei di giovani che si erano riuniti di loro iniziativa attorno ad un “capo” carismatico, per sceglierli in base alla loro linea politica, procedendo poi con una stima del loro fabbisogno e con la raccolta di tutte le informazioni necessarie a delineare approssimativamente la situazione politica e occupazionale della Toscana. In questo modo tutti i vari gruppi d’azione contattati sarebbero potuti essere riforniti di viveri, vestiario, vettovaglie, esplosivo, armi e anche di nuove reclute. Accadeva infatti che tutti quei giovani o ex-militari sfiduciati, affamati, disperati per ciò che avevano visto e vissuto, oppure combattivi e pronti ad un sentito impegno etico-politico per il riscatto del Paese, si presentavano ai vari partiti (in questo caso al PdA) e venivano così selezionati accuratamente ed inviati ai vari gruppi d’azione già esistenti (che si trovavano sempre in luoghi segreti e ben occultati) dal Comitato militare.

Il giovane “richiesto” doveva possibilmente essere padrone del proprio territorio, deciso nel suo intento e disposto ad unirsi insieme ad altri sotto ad un comandante.

Tali gruppi avevano dunque il compito di organizzare le operazioni di sabotaggio alle vie di comunicazioni, ai rifornimenti ed ai depositi tedeschi.

I gruppi invece che in base alle sperimentazioni si erano dimostrati più combattivi ed efficienti avevano anche il compito di passare talvolta alla guerriglia vera e propria.


ORIGINE DELL’ XI ZONA

IL NUCLEO D’AZIONE DI “PONTITO”…

L’origine di questa banda partigiana, la prima della montagna pistoiese, si colloca proprio nel settembre del ’43, quando un giovane studente pistoiese, sotto lo pseudonimo “Pontito”, si rivolse alla frangia azionista del Comitato Esecutivo della città assicurando di poter “organizzare un corpo” sulle montagne pistoiesi, che avesse la sua base appunto a Pontito, un piccolo paese dell’Appennino a cavallo tra la provincia di Pistoia e quella di Lucca. Egli stesso scelse, per preferenze personali, di porre la propria base in montagna, oltre che per il fatto che qui risultassero più facili le azioni di sabotaggio e di guerriglia e che queste ultime avrebbero evitato di esporre la popolazione alle rappresaglie. La zona scelta presentava boschi di faggio, costellati sporadicamente da piccole valli, gole ripide, stretti altipiani e modeste praterie a pastura, abitata da boscaioli e pastori; il clima di tipo alpino; le strade difficilmente percorribili. “Pontito”, il cui vero nome era Manrico Ducceschi, quando, in seguito alla sua richiesta, prese contatti direttamente col membro del PdA del Comitato militare responsabile delle zone di Pontito, Marliana, Gavinana e Pistoia, si espresse in modo molto esuberante riguardo alle sue intenzioni di organizzare una grossa pattuglia che sabotasse ed ostacolasse i movimenti delle truppe tedesche, che impedisse dove possibile la riorganizzazione dei fascisti e che salvaguardasse il territorio dalle demolizioni dei tedeschi in ritirata. Le sue richieste quindi, un po’ troppo esigenti, erano di uomini e mezzi adatti per organizzare una vera e propria guerriglia. Purtroppo infatti questo colloquio non soddisfece le aspettative di “Pontito” poiché al momento il PdA non disponeva dei mezzi per un tale equipaggiamento. Ciò di cui il comitato poté rifornire “Pontito” era un piccolo gruppo di uomini sommariamente equipaggiati, che pochi giorni dopo raggiunsero la montagna accompagnati dal loro nuovo capo. “Pontito” quindi durante il mese successivo si rivolse altre volte al Comitato militare richiedendo aiuti, soprattutto in termini di armamenti. Ma il Comitato ancora non era in grado di soddisfare queste esigenze, e continuò a mandare di volta in volta gruppi di uomini che esso stesso selezionava. Spesso però questi erano ragazzi sbandati, poveri, che si erano gettati in questa avventura dalla disperazione, sperando di poter trarre da essa i mezzi necessari a sfamare se stessi e le famiglie che avevano lasciato a casa. In una lettera al Comitato in cui Ducceschi lamentava la ristrettezza in cui lui e i suoi uomini stavano vivendo, anche in vista dell’inverno che si preannunciava molto rigido, egli si espresse in questo modo : “[…] Sarebbe bello -lo comprendo- per dei ragazzi che almeno nel brevissimo tempo che ho avuto sott’occhio ho visto così volenterosi, mantenere non solo loro, ma anche le loro famiglie, ma quando i mezzi necessari per farlo non ci sono, credo che la cosa migliore sarebbe poter cadere con la scelta su elementi che, ugualmente volenterosi e decisi, (e se ne trovano) abbiano per di più una certa possibilità e disponibilità propria, affinché anche le spese da parte vostra debbano risultare inferiori. […]”. L’idea di “Pontito” infatti era quella di gruppi non molto numerosi, autosufficienti, formate da elementi qualificati militarmente e moralmente consapevoli. Quando poi all’inizio dell’inverno ’43-’44 “Pontito” ricevette finalmente un discreto armamento, poté realizzare in maniera più compiuta le sue iniziative, e allo stesso tempo incominciò quel processo di ingrandimento e perfezionamento del suo nucleo primitivo che lo portò a diventare in seguito un efficientissimo comando.

In una relazione del 22 dicembre 1943 inviata al CLN di Firenze sono elencate queste azioni:

-          disarmo di quattro camicie nere

-          soppressione di un milite di sentinella ad un posto di controllo doganale (ciò ha permesso il passaggio di quattro bombe a mano)

-          distruzione delle liste delle reclute ’24 e ’25 del Comune di Bagni di Lucca

-          appoggio dato al Comitato comunista di Pistoia nella soppressione di uno squadrista pistoiese

…E LA BRIGATA DI “PIPPO”

Il duro inverno ’43-’44 portò “Pontito” a constatare che il suo nucleo andava perfezionato. L’avanzata alleata era ancora lontana dalla zona operativa di Ducceschi ed i suoi uomini si scoraggiavano all’idea di dover trascorrere tutto l’inverno in montagna. Molti di loro chiesero il congedo. Questa situazione precaria diede a “Pontito” lo stimolo per modificare e riassettare il gruppo. Punto focale di questa ripresa fu l’alleanza segreta che esso poté stipulare con i montanari del luogo: gli uomini di “Pontito” garantivano loro la protezione dalle rappresaglie mentre contadini, parroci e boscaioli contribuivano al loro occultamento. Inoltre la formazione di “Pontito” poté allargarsi, sia in termini di uomini che di territorio, grazie anche alla disgregazione di alcuni gruppi operanti in zone limitrofe, molti uomini dei quali furono accolti da Ducceschi.

Questo cambiamento geografico ed antropologico fu netto nel marzo del 1944; “Pontito” convertì il suo nome di battaglia in “Pippo” e la nuova formazione prese a chiamarsi Esercito di Liberazione Nazionale - Comando XI Zona Patrioti “Pippo”. I cambiamenti sostanziali subiti da questa brigata consisterono anche nel fatto che proprio a partire dal marzo del ‘44 essa ebbe l’occasione di collaborare con l’intelligence americana, potendo anche, in conseguenza di ciò, fruire dei rifornimenti alleati.


CARATTERISTICHE  ED ORGANIZZAZIONE DELL’ XI ZONA

La sede della base del comando nell’estate del ‘44 si era spostata alla Rafanella (Siviglioli) sull’Alpe delle Tre Potenze, al confine delle province di Lucca e Pistoia, in un gruppo di capanne di un pastore amico che servirono da comando, da riparo e da magazzino. Più in alto, sui passi sopra i 1800 mt e per un vasto perimetro attorno, dalla Foce di Capolino alla Foce a Troghi, dal Poggione, alle Bacinelle, furono dislocati i primi distaccamenti e i punti di osservazione.

Sempre nell’estate del ’44, infatti, il Comando dell’XI Zona iniziò ad operare diviso in distaccamenti di circa 15 uomini ciascuno; ad essi venivano affidate determinate zone e si tenevano sempre in contatto con il Comando centrale, il quale provvedeva al loro rifornimento di armi, medicinali, indumenti, cibo e quando possibile il denaro. Quando accadeva che i vari distaccamenti effettuassero dei colpi, dal bottino essi tenevano la razione personale e davano il resto al Comando, che provvedeva così alla redistribuzione generale.

La vita di questi gruppi era scandita dai turni di guardia e di pattuglia, dai problemi del vettovagliamento e del vestiario, dalle incursioni e dai colpi di mano. In particolare il fabbisogno alimentare era il problema più grave.


ZONE OPERATIVE

Come già detto, il luogo d’azione di questo gruppo di partigiani fu la montagna pistoiese, e, in particolare, a partite dal marzo del ’44, la zona dell’alta Val di Nievole e del bacino della Lima, a quota 800-1000 mt. Nel territorio di San Marcello, nell’alta Val di Lima, convergono tre grandi vie di comunicazione, che collegano il Sud al Nord d’Italia. Esse sono la Traversa Mammianese (S.S.N. 633), che mette in comunicazione la Valdinievole occidentale con la Valle della Lima; la transappeninica “Modenese” (S.S.N. 66) che, innestandosi a La Lima nella S.S.N. 12 collega Firenze e Pistoia a Modena; e infine l’importantissima arteria stradale Livorno-Brennero (S.S.N. 12) che mette in comunicazione il litorale tirrenico, passando da Lucca, Bagni di Lucca e Abetone, al Nord Italia. Si capisce quindi che questa zona doveva essere ben controllata dal nemico. Presto infatti reparti tedeschi si insediarono a Fiumalbo, a Dogana e all’Abetone, dove tutti gli alberghi furono requisiti e messi a disposizione delle truppe. Era noto poi che il Passo dell’Abetone fosse un punto fondamentale nella lotta di resistenza dell’Appennino toscano, data anche la sua vicinanza alla Linea Gotica. Questa zona montuosa inoltre si prestava molto bene ad azioni di sabotaggio e di guerriglia.


LA MORTE DELL’AMMIRAGLIO MITSUNOBU ALL’ABETONE

Proprio a circa 5 km dall’Abetone, sulla S.S.N. 12,  in un tratto di strada chiamato gli “Fosso degli Affrichi”, tra l’Abetone e Piano Sinatico, si svolse un agguato da parte di alcuni partigiani di “Pippo” (tra cui l’abetonese Ivo Fivizzani) ad un auto trasportante tre o forse quattro persone. Di sicuro fra queste vi erano il contrammiraglio Toyo Mitsunobu, addetto navale presso il governo di Salò, il suo aiutante cap. di vascello Yamanaka e l’autista italiano di Porretta Terme. Era l’8 giugno del’44. Questo assalto, che comportò la morte di Mitsunobu in seguito ad una sparatoria, portò comunque al sequestro di un’importante documentazione appartenente al contrammiraglio, che era in realtà il vicecomandante del dipartimento informazioni del ministero degli Esteri per il bacino del Mediterraneo, che consisteva in appunti dello stesso riguardo ad errori strategici della guerra e al crollo dell’Italia da un punto di vista militare e psicologico. Sulla dinamica dell’accaduto ci sono invece delle controversie: in particolare non sappiamo con precisione se nel momento dell’assalto all’auto questa si stesse dirigendo dall’Abetone verso Pistoia o da Pistoia verso l’Abetone. Carlo Maestripieri (“Baffo”), il cap. Yamanaka ed altri appunti ritrovati fra i bagagli dei due ufficiali giapponesi sulle varie tappe del loro viaggio sembrano voler confermare la seconda delle due ipotesi (sul documento è segnato infatti che il giorno 7 giugno essi partivano per Montecatini, e il giorno dopo avrebbero dovuto raggiungere Gardone che però non raggiunsero mai perché il loro viaggio fu interrotto tra Piano Sinatico e l’Abetone). Tuttavia ci sono testimoni che confermano di aver visto i due ufficiali all’Abetone, il che darebbe credito alla prima ipotesi. Un certo Rodolfo Geddes da Filicaia infatti ricorda di aver avuto davanti alla propria auto, mentre si stava recando dall’Abetone a Pistoia, la Fiat 1500 dei due giapponesi, e di aver assistito da lontano all’agguato partigiano, dopo che, all’Abetone, egli aveva incontrato gli stessi ufficiali giapponesi a prendere il caffè ad un bar in piazza. Ivana Petrucci ricorda invece quando la “piccola” salma dell’ammiraglio venne portata nell’albergo di sua zia, l’hotel “Regina”, anch’esso situato nella piazza dell’Abetone.

Ciò comunque che sembra certo è che il viaggio dell’ammiraglio Mitsunobu in Toscana fosse stato programmato allo scopo di entrare in possesso dei progetti delle “armi segrete” tedesche. La segnalazione a “Pippo” del probabile arrivo dei due ufficiali arrivò da Montecatini. Fu così che “Pippo” impartì l’ordine ad un gruppo di partigiani guidati da “Baffo” di interrompere il traffico della statale n. 12 con lo spargimento di chiodi a tre punte. Essi si piazzarono appunto al Fosso degli Affrichi, dove la macchina, passando, ebbe una forte sbandata e poi si arrestò. L’autista italiano uscì immediatamente  a mani alzate; gli altri rimasero in macchina; poi, quando il gruppo di partigiani si avvicinò ad essa videro la canna di un mitra che sporgeva dall’abitacolo, ed iniziò la sparatoria, che costò la vita all’ammiraglio Mitsunobu ma che permise a Yamanaka, benché ferito, di fuggire giù per la scarpata che fiancheggiava la strada.


SOSTENTAMENTO E RADICAMENTO SUL TERRITORIO

Per poter godere degli aiuti anglo-americani in quanto a rifornimenti di armi, cibo e altro la brigata di “Pippo”, come molte altre, necessitava di apparecchi radio. Tramite questi infatti i partigiani potevano recepire e decifrare i messaggi in codice (es. “le castagne sono cotte”, “la Berta fila”, “La chiesa è piccola” etc…) degli alleati per essere poi pronti nel giorno dei rifornimenti via aerea. Le armi, i viveri, gli indumenti, le informazioni, le stesse radio e talvolta gli uomini venivano così paracadutati nei luoghi in cui i partigiani accendevano dei fuochi appositamente per farsi identificare. Dopo qualche difficoltà nel comunicare via radio e due tentativi di lancio falliti, il radiotelegrafista Giovanni Fabbri (“Barba”), aiutato spesso o da Tiziano Palandri (“Tiziano”), o da Ivo Capocchi (“Ivo”) o da Gianni La Loggia (“Vanni”), riuscì ad ottenere buoni risultati con “Radio Nada”. Il 27 marzo un aereo sorvolò finalmente la zona in cui gli uomini di “Pippo” avevano acceso cinque falò a forma di V e facevano segnali intermittenti con una torcia. Con enorme gioia si videro piovere sulla testa un buon numero di armi (mitra Sten, munizioni, gelatina esplosiva) e viveri (scatole di fagioli, di formaggio e di carne affumicata). Era il loro primo rifornimento riuscito. Nel lancio successivo invece furono paracadutati, fra l’altro, il radiotelegrafista Mario Robello (“Santa”)  e 2 milioni di Lire. L’abetonese Ivana Petrucci, allora una giovane ragazza, ricorda ancora quegli stessi messaggi che di tanto in tanto ascoltava alla radio e di cui non riusciva a capire il senso.

Gli alloggi dei distaccamenti erano di solito costituiti da capanne di boscaioli, e si nutrivano con gallette, scatolette americane e frutta o altro che spesso acquistavano dalla popolazione in cambio di moneta o dei “buoni di prelevamento”. Questi ultimi erano spesso utilizzati nei mesi in cui erano più rari i rifornimenti americani, ma i partigiani sapevano bene che per non perdere la fiducia della popolazione non dovevano abusare di questi buoni. A guerra finita poi “Pippo” provvide subito a sensibilizzare i poteri civili delle varie località per avviare le pratiche di rimborso.

Ottimo poi era il modo in cui gli uomini di “Pippo” si muovevano sul territorio. Aldo Battaglini (“Pelo”), uno dei tanti giovani lucchesi che nel maggio del ’44, a causa della tragica piega che stava prendendo la lotta civile, abbandonò la città per recarsi in montagna, si unì al Comando di “Pippo”. Battaglini ancora oggi racconta l’ammirazione da lui provata per quei comandanti di plotone: uomini con un grande amore per la montagna, di cui conoscevano ogni piega e sentiero, dotati di senso dell’orientamento, di resistenza fisica, di tenacia e costanza, tutte le virtù insomma che permettevano loro di portare a destinazione gli uomini in ogni tempo e condizione, di notte, con la nebbia, con la neve. Erano insomma dei veri comandanti naturali, e rispecchiavano in pieno le qualità ideali richieste fin dall’inizio da Manrico Ducceschi.


“AUTODISCIPLINA, UGUAGLIANZA, ONESTA’”

In totale gli uomini che presero parte alla brigata “Pippo” affluirono da 125 Comuni d’Italia. Essi erano intellettuali, contadini, studenti, militari, operai, e anche alcuni stranieri (ad esempio un ufficiale sudafricano, John Wahl, che divenne anche vicecomandante, un inglese, tre tedeschi disertori). Ciò che teneva unito un gruppo così variegato era innanzitutto la liberazione nazionale e l’idea di un profondo rinnovamento etico prima che politico. Una sorta di motto utilizzato da Ducceschi che riassumeva in sostanza l’etica del suo gruppo era “autodisciplina, uguaglianza e onestà”. Sempre Battaglini ricorda che il giorno in cui egli arrivò fu immediatamente ripreso da “Pippo” perché chiamò quest’ultimo “comandante” e gli diede del lei. “Pippo” infatti voleva che i suoi uomini si sentissero alla pari l’uno con l’altro, comandanti compresi, dandosi del tu e chiamandosi per nome vero o per nome di battaglia. Ciò che per lui contava infatti era la disciplina. Lo stesso “Pippo” voleva che anche su di lui si eseguissero le punizioni stabilite. Quando ad esempio durante l’estate del ’44 il comando si divise in distaccamenti, ai vari uomini fu dato l’ordine di non lasciare assolutamente tracce e di evitare rumori per non essere localizzati, e in particolare  di non sparare colpi. Chi infatti ne avesse fatto partire uno sarebbe stato esposto ad un palo per due ore. Casualmente un colpo partì proprio dalla pistola di “Pippo” ed egli volle allora scontare la punizione che lui stesso aveva stabilito.


GIUSTIZIA

Accadeva talvolta che alcuni partigiani sottraessero illegalmente viveri o soldi alla popolazione per se stessi o per i propri compagni. “Pippo” era totalmente intransigente di fronte a questi atti ed estrema era la severità dei suoi provvedimenti nei riguardi dei partigiani colpevoli. Di solito in questi casi si provvedeva immediatamente al risarcimento dei danni e alla destituzione del comandante se a compiere l’atto era stato un comandante di distaccamento. Nei casi più gravi però il furto o il danno alla popolazione molto spesso costava ai partigiani colpevoli la fucilazione immediata, che lo stesso “Pippo” voleva eseguire. Il procedimento era molto rapido: davanti a tutti gli altri “Pippo” esibiva le prove che accusavano il partigiano, il quale poi aveva la possibilità di difendersi o di essere difeso, poi veniva stabilita la “sentenza” e infine l’eventuale fucilazione. Anche quest’ultima, eseguita con una raffica di mitra, veniva effettuata sotto gli occhi di tutti. Impressionante era la rigidità e la freddezza dell’idea di “Pippo” a riguardo: egli era convinto che transigere ed essere magnanimi di fronte a questi atti dannosi  poteva innescare un meccanismo imitativo e poi incontenibile all’interno del gruppo; intervenire poteva sì essere crudele, ma avrebbe secondo lui scoraggiato le tentazioni di farsi giustizia sommaria.

Questo genere di giustizia veniva anche estesa, quando possibile, all’esterno del gruppo, ossia ogni qualvolta ci si imbatteva in casi di partigiani sedicenti che compivano ruberie, saccheggiamenti e terrorizzavano la popolazione. Anche in questi casi i colpevoli venivano passati per le armi. La giustizia che “Pippo” applicava all’interno del suo gruppo si rivelò spesso assai più rigida di quella nei confronti dei fascisti.

 Un episodio in cui la giustizia fu malamente applicata dai partigiani di “Pippo” colpì proprio alcuni civili abetonesi. Nell’estate del ’44 l’atmosfera all’Abetone era molto tesa; i tedeschi stavano effettuando molti rastrellamenti di partigiani, e si sapeva molto bene che l’individuazione di questi era quasi sempre dovuta alla “soffiata” di qualche spia del luogo. In questa atmosfera per l’appunto di tensione la notte del 14 giugno alcuni uomini di “Pippo” catturarono sei fascisti tra cui gli abetonesi Giuseppe Fontana e Ciacci e l’ispettore federale della Federazione Fascista di Pistoia Giovanni Arcangeli. Essi furono portati alla Rafanella ed immediatamente processati, e, accusati della collaborazione con il nemico, vennero condannati a morte. La condanna non fu eseguita subito; alcuni vennero fucilati due giorni dopo, gli altri un mese dopo. Solo uno di essi, Giovanni Arcangeli, fu rilasciato. Secondo quanto sostiene anche Ivana Petrucci, sembra che sia stato lo stesso “Pippo” a graziarlo in quanto Arcangeli era all’epoca unito con due figli a Marcella Petrucci, grande amica sin dall’infanzia di Manrico Ducceschi, non che sorella di Ivana. Le stesse sostengono, riferendosi al racconto di “Pippo”, che egli consegnò ad Arcangeli 5000 Lire da portare alla vedova di Fontana, rimasta sola con tre figli ed un nascituro, e che però questi non arrivarono mai a destinazione.

All’Abetone nessuno ha mai conosciuto i reali capi d’accusa sollevati contro quei sei civili, di cui si sa solo che erano fascisti. Ivana Petrucci ad esempio conosceva, oltre a Giovanni Arcangeli, Giuseppe Fontana, che ricorda essere una brava persona, e non crede assolutamente che egli fosse implicato in qualche azione di spia a favore del nemico. Purtroppo però nel piccolo centro dell’Abetone tutti conoscevano la loro inclinazione politica, ed i partigiani, tenuto conto di ciò, per evitare altre spiate a loro svantaggio, catturarono coloro che erano tra i più probabili colpevoli.


IL RAPPORTO CON LA POLITICA

LA COLLABORAZIONE CON GLI ALLEATI …

La brigata “Pippo”, dal piccolo nucleo di “Pontito” fino all’allargamento ad XI Zona Patrioti, fu legata al Partito d’Azione. Ciò permise al primitivo gruppo di Ducceschi di accogliere dentro di sé i primi volontari e di godere talvolta di qualche rifornimento. Ma il Partito d’Azione era comunque anche il partito più compatibile con le idee di “Pippo”, un partito cioè di intellettuali, antifascista e piuttosto moderato. Ma la profonda metamorfosi subita dalla brigata di “Pippo” di cui si è precedentemente parlato fu possibile grazie all’adesione di questa ad un progetto politico in linea monarchica. In seguito ai rastrellamenti, agli arresti e alle dispersioni dell’inverno ’43-’44, quella di “Pippo” era l’unica formazione che al Comando regionale del PdA risultasse sopravvissuta nella zona. Fu per questo motivo allora che nel mese di marzo Gianni La Loggia volle contattare proprio il comando di “Pippo” per la realizzazione di un piano politico. Gianni La Loggia (“Vanni”) era un cosiddetto “comunista libertario” (ossia un anarchico), non che ferreo antifascista pistoiese, che a sua volta era stato contattato dagli ideatori del sopraccitato piano, ossia i monarchici antifascisti Filippo Naldi e il pesciatino Tullio Benedetti (“Berta”). Nel caos politico che si era generato in Italia dall’8 settembre, entrambi vedevano le basi per un possibile ritorno alla vecchia classe politica prefascista. In particolare il progetto, già esposto da Naldi allo stesso re, il quale poi lo riferì a Badoglio, era quello di instaurare in Italia un governo sul modello del laburismo monarchico inglese. In questo piano Naldi avrebbe mantenuto i contatti tra gli Alleati e il governo Badoglio, mentre Benedetti avrebbe fatto da garante dell’operazione con i partigiani assicurando loro il contatto con l’OSS (Office of Strategic Services, il Servizio Segreto dell’esercito americano). Nella pratica infatti ciò sarebbe stato possibile, secondo loro, contattando il partigianato dell’Appennino tosco- emiliano, esercitando su di esso un’influenza politica ed indirizzando così l’azione resistenziale verso l’attuazione del loro progetto politico; tutto ciò in cambio della sicurezza dell’appoggio degli alleati verso le formazioni che avessero aderito. Dopo l’elaborazione teorica dunque Naldi e Benedetti si rivolsero al rappresentante partigiano Gianni La Loggia, garantendo subito di poter stabilire un contatto permanente tra partigiani e Alleati. La Loggia fu da subito propenso alla proposta che gli era stata fatta, anche a costo di correre il rischio dell’intesa coi badogliani. D’altra parte però quel progetto avrebbe anche permesso ai “comunisti libertari” come La Loggia di distinguersi e rendersi autonomi dai comunisti. E poi una notevole spinta alla Resistenza pistoiese sarebbe giunta dalla collaborazione degli alleati. Una volta che La Loggia ed i compagni si furono entusiasmati del progetto, vollero comunicarlo al “Fronte unico” di Pistoia, dove però incontrarono un forte dissenso da parte dei comunisti, che vedevano nei monarchici un nemico tanto quanto nei fascisti, e con loro si schierò anche il CPLN. Nonostante ciò i libertari non vollero abbandonare la loro idea originaria e La Loggia confermò l’adesione a Benedetti. Fu a questo punto che nel marzo del ’44 “Vanni” si diresse personalmente verso quello che era l’unico gruppo superstite della montagna pistoiese: egli stava andando finalmente a conoscere “Pippo”. Quando gli fu dichiarata l’identità di “Berta”, “Pippo” non fu molto propenso nel collaborare con un monarchico quale Benedetti era. Ma “Vanni”, dopo aver dichiarato che egli stesso era addirittura un anarchico, riuscì poi a convincerlo del fatto che in quella situazione fosse più importante provvedere ad una buona organizzazione delle formazioni piuttosto che alla conformità politica all’interno delle stesse. “Pippo” infatti conosceva benissimo il problema della penuria delle armi e la necessità di un gruppo forte e ben equipaggiato; gli si stava presentando un’occasione unica per costituire una grande formazione e bastò poco perché egli si rendesse conto della preziosità del supporto americano, senza il quale era impossibile organizzare una vera zona militare con i soli mezzi che ordinariamente potevano essere rastrellati ai tedeschi e ai fascisti. “Pippo” accettò, ed il 15 di marzo comunicò al PdA di Firenze la svolta della sua formazione ribadendo però comunque la sua indipendenza politica dal programma dei badogliani.


...E L’APOLITICITA’ DEL “BATTAGLIONE AUTONOMO”

A lungo andare la politicità di “Pippo” andò pian piano affievolendosi e demotivandosi. Manrico Ducceschi, anche prima di dare origine al suo gruppo d’azione, era sempre stato innanzitutto un antifascista, e in secondo luogo anche un simpatizzante del Partito d’Azione.

Il comportamento da lui tenuto nei confronti del progetto di Naldi e Benedetti rivela molto bene il suo concetto di Resistenza: la causa prima che stava alla base di essa era per “Pippo” puramente morale, non politica, ossia doveva essere mossa da un forte desiderio di rinnovamento, e quindi di miglioramento, della società italiana; un rinnovamento secondo “Pippo” ideologico, morale appunto, sgombrandola e liberandola dall’ideologia fascista (ed ora anche nazista) che per anni l’aveva “sporcata”. La causa politica era in lui del tutto assente, perché la liberazione dell’uomo in quanto tale aveva la priorità su tutto. Dall’inizio della collaborazione con gli alleati infatti “Pippo” badò sempre più prima di ogni altro all’aspetto militare della sua formazione, dato che il loro compito era dare un contributo utile e concreto agli anglo-americani nella guerra contro i tedeschi. Già nel maggio del ’44 Ducceschi cominciò quel suo graduale allontanamento dalla politica che lo avrebbe condotto, circa all’inizio dell’anno successivo, alla completa autonomizzazione della sua formazione anche dal PdA. Nelle ultime fasi della guerra infatti il suo divenne un battaglione autonomo, totalmente slegato dalla politica, che collaborava direttamente con gli americani col solo intento di salvare l’Italia dal nemico.

Questo suo rifiuto alla politica fu manifestato apertamente nell’”Ordine del giorno” di Mutigliano l’8 marzo del ‘45, in cui Ducceschi denunciava esplicitamente i limiti della politicizzazione integrale della Resistenza ed esprimeva chiaramente la sua posizione apolitica.

In esso “Pippo”, “allo scopo di evitare falsi giudizi” da parte di chiunque sulla sua posizione politica e militare, precisava: […] 1^= Siamo rimasti e rimarremo armati solo per il periodo in cui sarà richiesta la nostra opera e solo ed esclusivamente con l’intenzione di poter dare il nostro contributo alla lotta anti-nazista. Abbiamo ritenuto che l’attività militare sia in questo momento la forza migliore con la quale si possa dare da parte nostra questo contributo; […] questo reparto usando della sua posizione di reparto armato, non ha e non prevede di avere nessun altro compito di quello sopra accennato.

2^= Non abbiamo e non dobbiamo avere, né al presente né al futuro, alcun obbiettivo politico in seno ad alcun partito costituito o da costituirsi sia in Italia che all’estero.”

Di seguito “Pippo” metteva in evidenza le ostilità coltivate all’unanimità all’interno del suo gruppo: innanzitutto verso i partiti in atto nel senso di “ non solo assenza di ogni indirizzo politico” ma anche “ostilità intesa non contro i principi ma contro gli uomini nella loro insufficienza morale e politica, che attualmente formano la massa di questi partiti.”; verso il C.L.N. italiano, “non perché la nostra posizione sia contraria all’istituzione in se stessa ma perché il presente C.L.N. […] si è dimostrato assolutamente impotente e parziale di fronte alle necessità del periodo di dominazione passata e presente.” ; verso il governo italiano in atto, nel senso di “non riconoscimento dell’attuale governo italiano quale emanazione del C.L.N. e quindi sottoposto a tutte le deficienze del precedente.”. Veniva inoltre sottolineato che il battaglione era favorevole alla “collaborazione con qualsiasi nazione […] esclusivamente nella misura  che ciò possa recare vantaggio al popolo ialiano ed ai principi morali umani” e che lo stesso popolo italiano nel sottoporsi allo sforzo per risolvere la sua situazione presente “non deve in alcun modo essere vincolato e sottoposto ad interesse economici e politici di altri stati.” . Ducceschi continuava: “il nostro lavoro deve operare esclusivamente su di un piano di valori morali. L’uomo prima di raggiungere una maturità politica deve avere raggiunto prima una maturità morale. Prima di conoscere le Leggi con cui poter governare la società, deve acquistare la conoscenza di come governare se stesso: l’uomo deve essere prima uomo e poi cittadino.” Il programma di “Pippo” era quindi una “ricostruzione morale del popolo italiano se vogliamo iniziare domani una ricostruzione politica ed economica dell’Italia.”. L’apoliticità di Manrico Ducceschi derivava infatti dal fatto che i partiti “non sono momentaneamente all’altezza di svolgere il loro compito sociale, ma anzi ostacolano la funzione e la collaborazione di tutte le classi come in questo momento si mostra sommamente necessario.” . infine la lettera si chiudeva in questo modo: “Ricordatevi che tutti noi dal primo all’ultimo siamo ammalati ancora come lo è e lo sarà ancora per molto tempo tutto il nostro disgraziato popolo del male fascista che si chiama: prepotenza, disonestà, ambizione, gerarchismo, strafottenza. Dobbiamo dunque prima ancora di combattere questo male negli altri, cercare nei limiti del possibile estirparlo in mezzo a noi. Prima di allora nessuno di noi si dovrà sentire in nessun modo all’altezza né di eleggersi a giudice né di stimarsi partecipe delle forze sane della nazione.”.

Per questo suo atteggiamento intransigente ed “impolitico” “Pippo” nella sua attività di partigiano cominciò ad essere avversato e mal visto da più parti politiche. Ma oggi sicuramente nessuno oserebbe dire che le sue idee riguardo alla politica italiana di allora ed riguardo ad una impostazione della Resistenza in senso ideologico e morale piuttosto che politico siano sbagliate. Quell’”insufficienza morale e politica” di cui Ducceschi parlava nel suo “Ordine del giorno” la possiamo infatti riscontrare in molti dei partiti italiani dell’epoca. Prendiamo ad esempio il caso  eclatante dei comunisti: la loro insufficienza morale e politica si può forse tradurre nel fatto ben noto che essi impostassero palesemente la Resistenza come una lotta di classe, ossia tra proletariato e capitalismo, piuttosto che tra fascisti ed antifascisti. Già questo quindi preventivava una rottura netta all’interno dello stesso popolo italiano,  che già peraltro era spezzato e travagliato da quel male enorme che era la guerra civile in atto. Inoltre i comunisti attuarono sì un’ottima impresa di difesa contro nazisti e fascisti sul territorio nazionale, ma vedevano anche nella guerriglia che essi stessi stavano combattendo un mezzo per far scaturire poi una rivoluzione proletaria, che portasse al sovvertimento dello Stato italiano e quindi all’instaurazione di un governo comunista sul modello sovietico. A questo proposito basti anche ricordare la reazione dei comunisti pistoiesi quando Gianni La Loggia propose loro di partecipare al piano di “Berta” (si veda “LA COLLABORAZIONE CON GLI ALLEATI”).

Sconcertante poi è questa lettera attribuita a Palmiro Togliatti, conservata nei National Archives a Suitland. Egli, che nel ’44 era tornato in Italia da Mosca per contribuire alla “svolta di Salerno”, ossia un piano politico che univa tutti i partiti del Paese nella lotta italiana contro il nazismo e il fascismo, alla quale sarebbe stata data la preminenza rispetto alle questioni politiche ed istituzionali, in una lettera indirizzata “alle Federazioni Provinciali Comuniste”, scriveva:

“Mi viene segnalato che gli uomini della Formazione “Pippo”, operanti a fianco della V° Armata, sul fronte della Garfagnana, nutrono, contrariamente a quanto mi avete riferito, sentimenti anticomunisti. Sono informato, altresì, che lo stesso “Pippo” è legato anima e corpo agli interessi anglo-americani ed alla monarchia dalla quale è largamente sovvenzionato. La fedeltà della Formazione “Pippo” agli ordini anglo-americani è nociva alla nostra causa perché cattivandosi le loro simpatie ed il loro appoggio non  giova alla naturale inclinazione del partito verso l’Unione Sovietica. È necessario stroncare qualsiasi tentativo da parte della Banda “Pippo” che sia contrario ai nostri interessi. È opportuno prendere adeguate misure perché la nostra propaganda s’infiltri nelle file degli uomini di “Pippo” e ne disgreghi l’organizzazione. Riterrò gli esecutori provinciali del Partito direttamente responsabili dei miei desideri e dei miei ordini.” .


LA MORTE DI “PIPPO”

Il 26 agosto 1948 fu ritrovato Manrico Ducceschi impiccato nel suo appartamento di Lucca. Egli lasciò la moglie Renata e una figlia di pochi mesi. Dal cadavere già in putrefazione venne stabilito che egli era morto da circa due giorni. Il caso venne chiuso confermando che si trattava probabilmente di suicidio dovuto a ragioni di carattere familiare e ristrettezze economiche. Non si è mai stati certi che questa sia stata la vera causa di morte; il cadavere fu inoltre trovato con una contusione in testa e con indosso ancora le scarpe (invece è noto che nei morti impiccati le scarpe si sfilino dai piedi per una causa naturale) e ciò potrebbe far pensare ad un omicidio piuttosto che ad un suicidio.


BIBLIOGRAFIA

-   Giorgio Petracchi, “Al tempo che Berta filava”, Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A., Milano, 1995.

-   Gianni Gentile, Luigi Ronga, Aldo Salassa, “Nuove prospettive storiche 3”, Editrice La Scuola, Brescia, 1999.

-   Claudio Pavone, “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
 


 

 


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