SOGNO DI BALLERINA



DEDICATO A.......

INTERVISTA A FABIO GROSSI

di Lillial2004

 

ESSERE UN ARTISTA OGGI

FABIO GROSSI:

ANCHE IN ITALIA NASCONO I TALENTI

"Devi dedicarti tutto all'arte tua e non a metà; altrimenti non servi né all'arte né alla vita" Julie Rettich

Foto di Cristiano Castaldi

Ballerino di grande versatilità interpretativa e di profonda sensibilità, Fabio Grossi è considerato uno dei maggiori talenti del panorama artistico italiano. Nella sua ancor breve carriera ha bruciato le tappe grazie alla consapevolezza che per diventare artista con la A maiuscola occorre sentire l’arte nel profondo del proprio cuore dedicandosi ad essa con tutte le proprie forze fisiche ed intellettive.  Il suo approccio con la danza, avvenuto per caso, si è immediatamente commutato in un amore e in una dedizione per quest’arte che ha temprato e trasformato, oltre il suo corpo, anche il suo spirito e la sua mente. La sua scelta di diventare danzatore, fermamente voluta, non è rimasta limitata all’approfondimento della tecnica ed all’autocompiacimento delle proprie doti naturali ma è diventata un mezzo importante per esplorare il proprio spirito e comprendere il proprio io. Danza, pertanto, come esperienza di vita, espressione del proprio intelletto, scoperta della propria umanità. Come il Minotauro, personaggio che a breve metterà in scena a Spoleto, Fabio Grossi non è rimasto, dunque, di fronte allo specchio per contemplarsi ma l’ha voluto rompere per esplorare nel profondo del suo cuore e trovare il modo per comunicare col mondo che lo circonda.

In quest’intervista, che Sogno di ballerina ha l’onore di ospitare, Fabio Grossi racconta le sue tappe, le sue battaglie, le sue scelte e dalle sue parole emerge viva la volontà di dare un significato alla sua vocazione di danzatore con la consapevolezza che l’arte, quale che sia, per poter essere trasmessa agli altri deve possedere la forza del linguaggio, della creatività e dell’espressione estetica e solo chi la possiede dentro può esserne il portatore e l’interprete.

 

L'INTERVISTA

A FABIO GROSSI

 

Foto di Cristiano Castaldi

 

La Sua scelta di diventare danzatore è avvenuta in modo spontaneo o è stata condizionata da qualche persona ovvero da qualche evento? Può raccontarci come è stato il Suo inizio? 

L’inizio di questa mia avventura è stato del tutto casuale, e risale a quando avevo circa 10 anni.

Affascinato da alcuni popolarissimi shows televisivi (come, per esempio, “Fantastico” con Alessandra Martines) e dai film d’animazione che spesso avevano come soggetto storie di agonismo e di passione, chiesi ai miei genitori di iscrivermi ad un corso di ginnastica, in una palestra nei pressi di casa, a Roma.

Qui, fu l’insegnante a propormi di frequentare anche le classi di danza che lei stessa teneva e, non so bene come, a poco a poco si è fatta urgentissima in me l’esigenza di scoprire quanto più possibile il mondo del balletto, attraverso ogni suo aspetto ed ogni sua sfaccettatura, e di dedicarmi con totale coinvolgimento allo studio approfondito della danza, che è venuta così a rivelarsi come la più divorante passione della mia vita.

Dunque, più che di scelta, penso si possa parlare di vocazione in quanto mi è un po’ “caduta nel piatto” in maniera inaspettata, aggrappandosi alle pareti del mio cuore senza esitazione e senza alcun preavviso.

Nessuno infatti, nella mia famiglia, proviene dal mondo del teatro. L’unico artista vero e proprio era il mio nonno materno, professore di Storia dell’Arte e sensibile pittore: conservo ancora molti dei suoi dipinti, tra cui una Madonna con Bambino di rara bellezza, realizzata in rilievo su legno di castagno e completamente ricoperta d’oro.

Da piccolo, osservandolo, avevo imparato a disegnare bene e per un certo periodo pensavo di seguirne i passi. Poco dopo, invece, la “chiamata” è stata un’altra.

Il profumo, però, di quel tipo di sensibilità artistica è rimasta di sicuro parte di me e mi ha avviato alla ricerca della mia peculiare modalità espressiva.

La scelta consapevole è avvenuta quando, all’età di 12 anni, manifestai la volontà di studiare al massimo della serietà per una finalità professionale, dopo aver assistito per la prima volta ad una rappresentazione de “Il Lago dei Cigni” al Teatro dell’Opera di Roma, con la mia mamma che teneva la mia manina congelata per l’emozione.

Tentai l’esame di ammissione al secondo corso dell’Accademia Nazionale di Danza, ma venni ammesso al primo: dunque, a 13 anni, un po’ in ritardo.

Determinatissimo, mi rimboccai le maniche e cominciai. 

 

Sacrificio, fatica, lavoro, studio. Per diventare un danzatore si deve anche soffrire ma non tutti hanno la possibilità di affermarsi. In Italia c’è poco lavoro nel campo della danza, tanta competitività e molti giovani dotati sono costretti ad un certo punto della propria vita a fare delle scelte e, molto spesso, ad arrendersi. L’unica via rimane quella di emigrare. Fermo restando che l’esperienza all’estero è in ogni caso un arricchimento per la carriera, quali sono stati i suoi sentimenti rispetto alla lontananza dal Suo Paese? Ha avuto mai dei ripensamenti? 

Lo studio della danza classica, come è noto, è estremamente esigente: da piccolino, possedevo già facilità di “en dehors” ma piedi difficili; la mia schiena, dopo un’operazione chirurgica alla gamba cui fui sottoposto verso i 9 anni, risentì molto dell’immobilità della convalescenza e dovetti recuperarla gradualmente. La pratica della danza generalmente porta il bimbo a guardare i propri difetti e lo spinge a migliorarli, lo induce a prendere coscienza dell’ostacolo con l’intenzione di superarlo in maniera costruttiva, sollecita l’intelligenza per un lavoro pratico di miglioramento individuale: per certi versi, pur rimanendo un mondo un pochino a sé, il balletto accompagna passo per passo la maturazione dell’individuo, spingendolo ad evolvere fisicamente e proponendo un vitale processo di introspezione attraverso l’approfondimento artistico dell’interpretazione.

Tornando al mio percorso, dopo 7 anni di studio riuscii comunque a bruciare le tappe affermandomi come vincitore assoluto del Concorso di Rieti, sia per il classico che per il contemporaneo, e come finalista (con “Diploma”, coma si usa in Russia) del Concorso Internazionale di Mosca con l’invito a ballare al Gala di chiusura al Palazzo del Cremlino.

Dopo un’esperienza molto positiva con Mauro Bigonzetti all’Aterballetto (ed un Premio Positano come talento emergente, vinto nel frattempo), decisi abbastanza impulsivamente di lasciare l’Italia.

Avevo la necessità di indagare ambiti più internazionali e di testare i più diversi stili: la linea coreografica di Bigonzetti mi era -per la verità- ideale, con la sua plasticità ed il suo dinamismo contemporaneo, ma a 20 anni non volevo fermarmi in una compagnia d’autore precludendomi esperienze diversificate.

In 5 anni, ho danzato infatti per il Ballet du Grand-Théatre de Genève, il Balletto di Lipsia di Uwe Scholz, la compagnia del Teatro alla Scala di Milano ed il Ballet National de Marseille di Marie-Claude Pietragalla - effettuando numerose tournées, conoscendo da vicino le più vivaci tendenze coreutiche europee, testando i piedi nudi della danza contemporanea così come il rigore del repertorio classico, e approfittando dell’irrinunciabile opportunità di confronto sociale che il contatto con altre culture può offrire.

Dunque, nel mio caso, più che di una ricerca di maggiori opportunità lavorative (che comunque scarseggiano, drammaticamente, nel nostro Paese), si è trattato di curiosità e di viscerale necessità di conoscenza.

Naturalmente, vivere all’estero –lontano dalle proprie radici- è molto faticoso, talvolta doloroso: si soffre quando, al termine dello spettacolo, non ci sono i propri affetti ad abbracciarti con quel caldo senso di “casa”  che credo sia fondamentale per chiunque di noi.

Tra l’altro, essendo sempre stato privo di qualunque tipo di guida o di raccomandazione, la difficoltà di lavorare lontano dal proprio ambito di appartenenza è anche quella di riuscire a gestirsi acutamente, di scegliere al meglio e di sfuggire ai tranelli di cui questo, come qualunque altro contesto, è pieno da non credere.

Detto questo, non ho mai avuto alcun ripensamento sulla mia decisione di emigrare: è stato un periodo di crescita indispensabile alla ricchezza del mio bagaglio artistico. Certo, a volte ripenso (con la malinconica dolcezza con cui si è soliti ripensare ad un primo amore) a come sarebbe stata la mia carriera se fossi rimasto all’Aterballetto, una compagnia speciale che sento tuttora molto vicina al mio modo di “vivere” il movimento; tuttavia, non credo proprio che, se avessi scelto di restare, oggi sarei il danzatore completo che sono oggi e -ciò che è più importante- non sarei probabilmente la persona che sono potuto diventare, attraverso il mio percorso di verifica e di scoperta. 

 

Lei è un danzatore speciale, oltre ad avere una preparazione eccellente e essere intellettualmente colto, è consapevole del privilegio che ha di potere e, soprattutto, di sapere danzare. Il fatto di credere fortemente nella Sua professione, di aver approfondito la materia e l’essere cosciente delle Sue doti la condiziona nel giudizio verso i Suoi colleghi? 

In assoluta sincerità, ho la certezza che siano i miei colleghi, o quanto meno la maggioranza meno intelligente di essi, ad essere fortemente condizionati dalle mie qualità. La natura umana, da sempre, comprende anche i sentimenti distruttivi di invidia, di tendenza al dominio, di falsità nei rapporti interpersonali, di biechi opportunismi. Tutto questo, nella mia professione, viene drasticamente amplificato dai meccanismi di competizione che si innescano per arrivare a posizioni di preminenza (competizione che, se non fosse malsana e se si basasse invece su un’onestà di propositi, potrebbe risultare anche produttiva) e dalla scarsità di talento.

Non nego che sono stati proprio gli attriti cui ho dovuto fare fronte e gli attacchi di ogni sorta da cui ho dovuto difendermi che mi hanno permesso di prendere coscienza delle mie effettive possibilità.

Questo avviene, naturalmente, nell’inevitabile incontro con persone avide e prive di integrità -e cioè, ahimé, con quasi tutte- non con gli artisti autentici, molto ma molto più rari, che brillando di luce propria sono perfettamente coscienti del proprio valore e permettono fluidamente agli altri di brillare a loro volta. 

 

Cosa significa per lei essere un danzatore? 

La danza è per me, fondamentalmente, una maniera di comunicare: la più sincera, la più diretta, la più vera. Probabilmente, anche la più completa: è una possibilità per rendere visibile lo spirito, e per innalzare la materia verso il sublime dello spirituale.

Al di là di retoriche banali, io credo fortemente nell’immenso potere salvifico dell’Arte che, ponendosi come tramite tra l’Assoluto ed il Relativo, permette all’uomo di lasciarsi permeare dalla Verità per divenire interprete del mondo, delle sue gioie e delle sue sofferenze, e di parlare al cuore delle persone con l’invisibile linguaggio dell’anima, che appare nella sua concretezza attraverso il movimento.

Se si sente l’Arte nel profondo di sé, e se si sono vissute le magie che quello stranissimo Luogo Altro che è il palcoscenico –tanto terribile quanto meraviglioso- può donare, non credo sia difficile pensarla come me.

La danza offre inoltre inestimabili opportunità di approfondimento culturale, assemblando la preparazione musicale, le arti visive, la letteratura, la filosofia, la storia ed gli altri ambiti dello scibile universale in un “unicum” che poi è il Linguaggio del Mondo.

E ciò che è forse più importante, è che il percorso di conoscenza della danza ha sempre accompagnato la mia maturazione di essere umano: scoprendola, ho scoperto me stesso ed attraverso il suo filtro, a me congeniale, ho esplorato le altre persone. 

 

Quali sono stati i momenti più importanti della sua carriera artistica? 

Ricordo con affetto particolare il mio debutto da professionista nell’ottobre 1997, al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, con l’Aterballetto nuovo di zecca di Mauro Bigonzetti: la coreografia, in prima assoluta, era “Perséphassa” su musica di Iannis Xenakis. Il fatto di trovarmi in prima fila, al fianco di danzatori già affermati, fu motivo di grande emozione per me.

Facendo un piccolo passo indietro, al mese di giugno di quello stesso anno, vorrei raccontare del mio Oscurantismo nel famoso ballo storico-allegorico “Excelsior” (1881) nella versione di Ugo dell’Ara, in occasione del mio saggio d’addio all’Accademia Nazionale di Danza.

Dalla direttrice Margherita Parrilla, già Prima Ballerina dell’Opera di Roma, ero stato inviato al Concorso di Mosca. Con la mia insegnante Clarissa Mucci preparammo con cura le prime due variazioni classiche (“La Sylphide” di Bournonville e “La Bayadère” di Petipa), già danzate al precedente Concorso di Rieti, ma delle altre cinque variazioni avevo solo una infarinatura superficiale: sia per questioni di tempo, sia perché eravamo convinti di non superare assolutamente la prima selezione.

Invece superai pure la seconda e la terza, arrivando inaspettatamente in finale e scoprendo solo al termine della manifestazione, facendomi tradurre un articoletto dal mio interprete, che ero stato addirittura tra i ballerini favoriti!

Fatto sta che il rientro in Italia fu posticipato e mi trovai in scena pochissimi giorni prima del saggio, sul palco all’aperto dell’Accademia, a preparare il ruolo dell’Oscurantismo conoscendone praticamente nulla. Mi buttai, letteralmente, liberando il mio istinto: la risposta del pubblico fu molto calorosa e quella della critica estremamente positiva, ma davvero memorabile fu soprattutto l’affetto dei miei compagni di danza e la straordinaria emozione che trassi da quel festoso saluto ai miei anni di scuola.

Un’altra serata che potrei ricordare è, in effetti, un altro addio: l’ultimo spettacolo con il Balletto di Ginevra in tournée a Berna, in cui danzai il passo a due centrale del secondo movimento dello scatenato “Axioma 7” di Ohad Naharin con una danzatrice dalla toccante sensibilità, Karina Silverio, canadese dai tratti orientali. Ricordo ancora la luce dei suoi occhi, durante la danza, i palpiti del suo corpo e quella musica meravigliosa – il Quarto Concerto Brandeburghese di Bach.

E ancora il mio ritorno da protagonista a Roma, sulla scena del Teatro dell’Opera in cui vidi da piccolo il mio primo balletto dal vivo, come Primo Ballerino in “Giselle” (arrivando coraggiosamente in scena dopo sole tre prove), ne “Il Lago dei Cigni” (in coppia con la cubana Sadaise Arencibia al suo debutto in Italia), ne “Lo Schiaccianoci” e ne “La Bella Addormentata nel Bosco”.

Vorrei anche rammentare l’affermazione recente del Premio Positano “Léonide Massine” al Valore, nel settembre del 2007, con cui ho festeggiato splendidamente 10 anni di carriera, sotto le stelle ed in riva al mare.

Infine, dedico un pensiero affettuoso all’ultima rappresentazione del “Faust” di Luciano Cannito, il 14 maggio del 2006 all’Opera di Roma, che fu un trionfo per me e che coincise con l’ultimo compleanno della mia mamma che ricordo, bellissima nella sua dolcezza e felice, ad aspettarmi sulle scalette dell’entrata piena di fiori in grembo. 

 

Pur avendo avuto l’occasione di essere stato l’interprete di  lavori di coreografi prestigiosi di ieri e di oggi, c’è un ruolo, che ancora non fa parte del bagaglio della Sua carriera, ma che più di ogni altro appartiene ai  Suoi sogni di artista?

In passato ho potuto testare alcune coreografie di William Forsythe, di Jiri Kylian e di Uwe Scholz; ho lavorato con Robert North, con Amedeo Amodio e con Marie-Claude Pietragalla, ho assaggiato alcuni capolavori di George Balanchine; ho avuto il privilegio di affrontare molti dei grandi ruoli classici e romantici e, all’Opera di Roma, ho potuto misurarmi con numerosi personaggi interessanti creati appositamente sulla mia misura, passando dal registro drammatico a quello ironico ed addirittura comico.

Dunque, oggi, non c’è un ruolo in particolare, nel repertorio classico e contemporaneo, che vorrei indagare. Ciò che davvero mi incuriosisce a questo punto della mia carriera è tentare di espandere i margini tradizionali entro i quali la mia professione è talvolta costretta, sorpassandone gli stereotipi che vorrebbero incasellarla e abolendo i compartimenti stagni che spesso ne ostacolano l’evoluzione.

Sto parlando di contaminazioni con i linguaggi complementari della letteratura e del teatro di prosa, per un arricchimento ulteriore e per verificare le più affinate potenzialità espressive.

Per esempio, nell’intenzione di presentare una novità al Gala di chiusura dell’imminente Settimana Internazionale della Danza di Spoleto, che si svolge nel suggestivo Chiostro di San Niccolò, mi sono affidato alle notevoli doti di una vera e propria “equipe” di artisti incline alla ricerca, profonda e nient’affatto scontata: Laura Martorana, coreografa (che in passato ha creato, tra l’altro, un interessante assolo per Giuseppe Picone) proveniente dall’ ”entourage” di Gigi Caciuleanu, Massimiliano Siccardi per la creatività multimediale e Marco Melìa (tra i premiati, con me, del recente Premio Anita Bucchi per le arti dello spettacolo) per l’assistenza musicale.

Una collaborazione eclettica per offrire una personalissima e sfaccettata lettura del fascinoso mito del Minotauro. Appartenente alla mitologia ellenica, questa inquietante creatura dal corpo umano e la testa di toro (era figlio di un toro divino, inviato da Poseidone, e di Parsifae regina di Creta) rappresenta la parte istintiva dell’essere umano e può essere interpretata e rivissuta, come ogni mito, in innumerevoli maniere. In questa occasione si è scelto il riferimento al racconto dello svizzero Friedrich Durrenmatt, scrittore, drammaturgo e pittore del Novecento, che inserisce il Minotauro –attraverso una prosa di sobrio lirismo- in un labirinto di specchi, in cui la sua immagine, come quella di Teseo e di Arianna, è moltiplicata all’infinto riproducendo un microcosmo che è illusorio ma che induce il Minotauro al confronto con l’altro, all’esperienza dell’emozionalità e della carnalità, all’atto dell’esperire come ultimo e fondamentale obbiettivo del proprio percorso: evolvendo attraverso le sensazioni e non attraverso i concetti (dei quali, come creatura animalesca e reclusa, è privo),  effettua una crescita con la pratica della conoscenza.

Il lettore è decisamente schierato dalla parte del Minotauro ed alla fine, con un riferimento diretto anche al racconto “La casa di Asterione” dell’argentino Jorge Luis Borges, viene da chiedersi chi sia davvero il cosiddetto vincitore di questa vicenda conclusasi nel sangue: Teseo, l’eroe distruttivo che uccide il Minotauro portando a termine una cieca missione che rifiuta qualunque opportunità di verifica individuale, o la creatura a metà tra un uomo ed un animale che trova la morte ma che arriva a quel tragico momento dopo aver perseguito un’esperienza di consapevolezza?

Che è, in fondo, la bestia e chi l’essere umano?

Questo, reso teatralmente con l’alternanza di un accompagnamento percussivo con una sublime aria di Bach e, ciò che rappresenta la novità più intrigante per me, l’utilizzo della mia stessa voce recitante per alcuni emblematici passaggi del testo di Durrenmatt: il mondo della parola è la naturale estensione di quello del movimento e padroneggiarli entrambi mi appare come una sfida che può aprire numerosissime possibilità espressive.

Dunque, piuttosto che un ruolo, ciò che mi stimola attualmente è ampliare, scavalcandoli, i confini di comunicazione ed esplorare un ventaglio più ricco di creatività artistica. 

 

La danza nelle compagnie dei nostri teatri è purtroppo condizionata dalla burocrazia, dalle gerarchie precostituite, dalle norme contrattuali, dai sindacati, dai privilegi e dalle precarietà ma anche dalla mancanza di incentivazione da parte delle istituzioni. Dalle esperienze che Lei ha avuto, cosa potrebbe svincolarla da una situazione che sembra senza ritorno? 

Su questo scottante, annoso argomento potrei scrivere un libro…

Le problematiche sono innumerevoli, ed insieme vanno a costituirsi in un meccanismo malato che abolisce il riconoscimento del merito artistico individuale e che confonde inopinatamente l’oro con il piombo.

In base alla mia esperienza, per molti aspetti negativa, alla Scala di Milano ed a quella molto più approfondita e gratificante all’Opera di Roma, posso affermare che gli interessi economici ed i favoritismi politici imperano in maniera devastante in contesti già in sé rallentati da strutture burocratiche che sembrano frutto di un’allucinazione di massa, e da norme contrattuali anacronistiche che nulla hanno a che vedere con le più usuali esigenze artistiche.

Si è soggetti a ben tre audizioni annuali, con graduatorie che non garantiscono un periodo minimo di lavoro effettivo; si è chiamati con un solo giorno di preavviso, dunque si è vincolati e si è impediti in un minimo di progettualità professionale; è possibile essere utilizzati con mansioni superiori ma, anche dopo molti ruoli affrontati, non si può rivendicare alcuna posizione artistica o contrattuale che possa tutelare; inoltre, si è soggetti ad infinite strane manovre interne di pettegolezzi e calunnie (in un ambiente che è perdutamente provinciale), specie se –evidentemente- si vale.

Poi, al di là dello scalino anagrafico che divide i cosiddetti aggiunti dai cosiddetti stabili, si trovano questi ultimi che, sviliti da scelte artistiche che chiaramente non li favoriscono e forti della loro inattaccabile poltrona, gravano loro malgrado su un ricambio generazionale tanto auspicabile quanto, ad oggi, utopistico.

Ai vertici del teatro della capitale, in più, dilaga un evidente conflitto di interessi che non giova affatto alla salute di una compagine artistica già pericolosamente indebolita. La scandalosa tendenza è all’omologazione e alla precisa intenzione di circondarsi di ballerine e ballerini artisticamente costipati. Il livello generale sale indiscutibilmente, ma altrettanto indiscutibile è l’incontrollabile avidità con cui si tagliano di netto le potenziali vette individuali.

Ad esempio, se una Monica Mason monopolizzasse il repertorio del Royal Ballet di Londra con sue presunte coreografie, con una sua costante ed opprimente presenza in palcoscenico (e la Mason, oltre ad aver abbandonato le scene da tempo, non arriva comunque ai settant’anni) e con un’agenzia personale di gestione di artisti ospiti, ebbene, credo fortemente che la vivace stampa inglese si divertirebbe non poco.

Nel nostro Paese questo non avviene. La critica di settore è prevalentemente acritica; ragiona per partito preso soffocando evidenze e competenze; è troppo spesso priva di senso, di interesse, di propositi autentici e quindi costruttivi.

Non saprei quale soluzione proporre, in un’Italia in cui si alternano governi in perenne competizione che risultano immancabilmente ed uniformemente disastrosi.

Certo è che l’Arte, con tutto questo, non ha nulla a che fare. 

 

C’è una persona in particolare che vuole ringraziare per essere diventato il danzatore che è oggi? 

Quelle appartenenti al cerchio familiare dei miei più intimi affetti, che mi hanno offerto un’educazione improntata alla forza e alla dolcezza. Queste sono, per me, le energie che costituiscono il vero Potere - quello della sensibilità, della trasparenza, della profondità e della grinta. Non quello, più comunemente “venduto” come assoluto, dei tanti disperati mostri sacri da copertina che regnano con la finzione azzerando, o credendo di azzerare, il prossimo.

E tornerei al Minotauro che, incastrato tra gli specchi rilucenti, infine vince perché conosce. E che, dunque, vive veramente.

 

Video a cura di Nassimiliano Siccardi de' Il Minotauro con Fabio Grossi girato all'Accademia Nazionale di Danza di Roma e al Chiostro di San Nicolò di Spoleto

 

 



Marzo 2008
 

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