Foto di Cristiano
Castaldi
La Sua scelta di diventare danzatore è avvenuta in modo spontaneo o è
stata condizionata da qualche persona ovvero da qualche evento? Può
raccontarci come è stato il Suo inizio?
L’inizio di questa
mia avventura è stato del tutto casuale, e risale a quando avevo circa
10 anni.
Affascinato da
alcuni popolarissimi shows televisivi (come, per esempio, “Fantastico”
con Alessandra Martines) e dai film d’animazione che spesso avevano come
soggetto storie di agonismo e di passione, chiesi ai miei genitori di
iscrivermi ad un corso di ginnastica, in una palestra nei pressi di
casa, a Roma.
Qui, fu
l’insegnante a propormi di frequentare anche le classi di danza che lei
stessa teneva e, non so bene come, a poco a poco si è fatta urgentissima
in me l’esigenza di scoprire quanto più possibile il mondo del balletto,
attraverso ogni suo aspetto ed ogni sua sfaccettatura, e di dedicarmi
con totale coinvolgimento allo studio approfondito della danza, che è
venuta così a rivelarsi come la più divorante passione della mia vita.
Dunque, più che di
scelta, penso si possa parlare di vocazione in quanto mi è un po’
“caduta nel piatto” in maniera inaspettata, aggrappandosi alle pareti
del mio cuore senza esitazione e senza alcun preavviso.
Nessuno infatti,
nella mia famiglia, proviene dal mondo del teatro. L’unico artista vero
e proprio era il mio nonno materno, professore di Storia dell’Arte e
sensibile pittore: conservo ancora molti dei suoi dipinti, tra cui una
Madonna con Bambino di rara bellezza, realizzata in rilievo su legno di
castagno e completamente ricoperta d’oro.
Da piccolo,
osservandolo, avevo imparato a disegnare bene e per un certo periodo
pensavo di seguirne i passi. Poco dopo, invece, la “chiamata” è stata
un’altra.
Il profumo, però,
di quel tipo di sensibilità artistica è rimasta di sicuro parte di me e
mi ha avviato alla ricerca della mia peculiare modalità espressiva.
La scelta
consapevole è avvenuta quando, all’età di 12 anni, manifestai la volontà
di studiare al massimo della serietà per una finalità professionale,
dopo aver assistito per la prima volta ad una rappresentazione de “Il
Lago dei Cigni” al Teatro dell’Opera di Roma, con la mia mamma che
teneva la mia manina congelata per l’emozione.
Tentai l’esame di
ammissione al secondo corso dell’Accademia Nazionale di Danza, ma venni
ammesso al primo: dunque, a 13 anni, un po’ in ritardo.
Determinatissimo,
mi rimboccai le maniche e cominciai.
Sacrificio, fatica, lavoro, studio. Per diventare un danzatore si deve
anche soffrire ma non tutti hanno la possibilità di affermarsi. In
Italia c’è poco lavoro nel campo della danza, tanta competitività e
molti giovani dotati sono costretti ad un certo punto della propria vita
a fare delle scelte e, molto spesso, ad arrendersi. L’unica via rimane
quella di emigrare. Fermo restando che l’esperienza all’estero è in ogni
caso un arricchimento per la carriera, quali sono stati i suoi
sentimenti rispetto alla lontananza dal Suo Paese? Ha avuto mai dei
ripensamenti?
Lo studio della
danza classica, come è noto, è estremamente esigente: da piccolino,
possedevo già facilità di “en dehors” ma piedi difficili; la mia
schiena, dopo un’operazione chirurgica alla gamba cui fui sottoposto
verso i 9 anni, risentì molto dell’immobilità della convalescenza e
dovetti recuperarla gradualmente. La pratica della danza generalmente
porta il bimbo a guardare i propri difetti e lo spinge a migliorarli, lo
induce a prendere coscienza dell’ostacolo con l’intenzione di superarlo
in maniera costruttiva, sollecita l’intelligenza per un lavoro pratico
di miglioramento individuale: per certi versi, pur rimanendo un mondo un
pochino a sé, il balletto accompagna passo per passo la maturazione
dell’individuo, spingendolo ad evolvere fisicamente e proponendo un
vitale processo di introspezione attraverso l’approfondimento artistico
dell’interpretazione.
Tornando al mio
percorso, dopo 7 anni di studio riuscii comunque a bruciare le tappe
affermandomi come vincitore assoluto del Concorso di Rieti, sia per il
classico che per il contemporaneo, e come finalista (con “Diploma”, coma
si usa in Russia) del Concorso Internazionale di Mosca con l’invito a
ballare al Gala di chiusura al Palazzo del Cremlino.
Dopo un’esperienza
molto positiva con Mauro Bigonzetti all’Aterballetto (ed un Premio
Positano come talento emergente, vinto nel frattempo), decisi abbastanza
impulsivamente di lasciare l’Italia.
Avevo la necessità
di indagare ambiti più internazionali e di testare i più diversi stili:
la linea coreografica di Bigonzetti mi era -per la verità- ideale, con
la sua plasticità ed il suo dinamismo contemporaneo, ma a 20 anni non
volevo fermarmi in una compagnia d’autore precludendomi esperienze
diversificate.
In 5 anni, ho
danzato infatti per il Ballet du Grand-Théatre de Genève, il Balletto di
Lipsia di Uwe Scholz, la compagnia del Teatro alla Scala di Milano ed il
Ballet National de Marseille di Marie-Claude Pietragalla - effettuando
numerose tournées, conoscendo da vicino le più vivaci tendenze
coreutiche europee, testando i piedi nudi della danza contemporanea così
come il rigore del repertorio classico, e approfittando
dell’irrinunciabile opportunità di confronto sociale che il contatto con
altre culture può offrire.
Dunque, nel mio
caso, più che di una ricerca di maggiori opportunità lavorative (che
comunque scarseggiano, drammaticamente, nel nostro Paese), si è trattato
di curiosità e di viscerale necessità di conoscenza.
Naturalmente,
vivere all’estero –lontano dalle proprie radici- è molto faticoso,
talvolta doloroso: si soffre quando, al termine dello spettacolo, non ci
sono i propri affetti ad abbracciarti con quel caldo senso di “casa”
che credo sia fondamentale per chiunque di noi.
Tra l’altro,
essendo sempre stato privo di qualunque tipo di guida o di
raccomandazione, la difficoltà di lavorare lontano dal proprio ambito di
appartenenza è anche quella di riuscire a gestirsi acutamente, di
scegliere al meglio e di sfuggire ai tranelli di cui questo, come
qualunque altro contesto, è pieno da non credere.
Detto questo, non
ho mai avuto alcun ripensamento sulla mia decisione di emigrare: è stato
un periodo di crescita indispensabile alla ricchezza del mio bagaglio
artistico. Certo, a volte ripenso (con la malinconica dolcezza con cui
si è soliti ripensare ad un primo amore) a come sarebbe stata la mia
carriera se fossi rimasto all’Aterballetto, una compagnia speciale che
sento tuttora molto vicina al mio modo di “vivere” il movimento;
tuttavia, non credo proprio che, se avessi scelto di restare, oggi sarei
il danzatore completo che sono oggi e -ciò che è più importante- non
sarei probabilmente la persona che sono potuto diventare, attraverso il
mio percorso di verifica e di scoperta.
Lei è un danzatore speciale, oltre ad avere una preparazione eccellente
e essere intellettualmente colto, è consapevole del privilegio che ha di
potere e, soprattutto, di sapere danzare. Il fatto di credere fortemente
nella Sua professione, di aver approfondito la materia e l’essere
cosciente delle Sue doti la condiziona nel giudizio verso i Suoi
colleghi?
In assoluta
sincerità, ho la certezza che siano i miei colleghi, o quanto meno la
maggioranza meno intelligente di essi, ad essere fortemente condizionati
dalle mie qualità. La natura umana, da sempre, comprende anche i
sentimenti distruttivi di invidia, di tendenza al dominio, di falsità
nei rapporti interpersonali, di biechi opportunismi. Tutto questo, nella
mia professione, viene drasticamente amplificato dai meccanismi di
competizione che si innescano per arrivare a posizioni di preminenza
(competizione che, se non fosse malsana e se si basasse invece su
un’onestà di propositi, potrebbe risultare anche produttiva) e dalla
scarsità di talento.
Non nego che sono
stati proprio gli attriti cui ho dovuto fare fronte e gli attacchi di
ogni sorta da cui ho dovuto difendermi che mi hanno permesso di prendere
coscienza delle mie effettive possibilità.
Questo avviene,
naturalmente, nell’inevitabile incontro con persone avide e prive di
integrità -e cioè, ahimé, con quasi tutte- non con gli artisti
autentici, molto ma molto più rari, che brillando di luce propria sono
perfettamente coscienti del proprio valore e permettono fluidamente agli
altri di brillare a loro volta.
Cosa significa per lei essere un danzatore?
La danza è per me,
fondamentalmente, una maniera di comunicare: la più sincera, la più
diretta, la più vera. Probabilmente, anche la più completa: è una
possibilità per rendere visibile lo spirito, e per innalzare la materia
verso il sublime dello spirituale.
Al di là di
retoriche banali, io credo fortemente nell’immenso potere salvifico
dell’Arte che, ponendosi come tramite tra l’Assoluto ed il Relativo,
permette all’uomo di lasciarsi permeare dalla Verità per divenire
interprete del mondo, delle sue gioie e delle sue sofferenze, e di
parlare al cuore delle persone con l’invisibile linguaggio dell’anima,
che appare nella sua concretezza attraverso il movimento.
Se si sente l’Arte
nel profondo di sé, e se si sono vissute le magie che quello stranissimo
Luogo Altro che è il palcoscenico –tanto terribile quanto meraviglioso-
può donare, non credo sia difficile pensarla come me.
La danza offre
inoltre inestimabili opportunità di approfondimento culturale,
assemblando la preparazione musicale, le arti visive, la letteratura, la
filosofia, la storia ed gli altri ambiti dello scibile universale in un
“unicum” che poi è il Linguaggio del Mondo.
E ciò che è forse
più importante, è che il percorso di conoscenza della danza ha sempre
accompagnato la mia maturazione di essere umano: scoprendola, ho
scoperto me stesso ed attraverso il suo filtro, a me congeniale, ho
esplorato le altre persone.
Quali sono stati i momenti più importanti della sua carriera artistica?
Ricordo con affetto
particolare il mio debutto da professionista nell’ottobre 1997, al
Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, con l’Aterballetto nuovo di zecca
di Mauro Bigonzetti: la coreografia, in prima assoluta, era
“Perséphassa” su musica di Iannis Xenakis. Il fatto di trovarmi in prima
fila, al fianco di danzatori già affermati, fu motivo di grande emozione
per me.
Facendo un piccolo
passo indietro, al mese di giugno di quello stesso anno, vorrei
raccontare del mio Oscurantismo nel famoso ballo storico-allegorico
“Excelsior” (1881) nella versione di Ugo dell’Ara, in occasione del mio
saggio d’addio all’Accademia Nazionale di Danza.
Dalla direttrice
Margherita Parrilla, già Prima Ballerina dell’Opera di Roma, ero stato
inviato al Concorso di Mosca. Con la mia insegnante Clarissa Mucci
preparammo con cura le prime due variazioni classiche (“La Sylphide” di
Bournonville e “La Bayadère” di Petipa), già danzate al precedente
Concorso di Rieti, ma delle altre cinque variazioni avevo solo una
infarinatura superficiale: sia per questioni di tempo, sia perché
eravamo convinti di non superare assolutamente la prima selezione.
Invece superai pure
la seconda e la terza, arrivando inaspettatamente in finale e scoprendo
solo al termine della manifestazione, facendomi tradurre un articoletto
dal mio interprete, che ero stato addirittura tra i ballerini favoriti!
Fatto sta che il
rientro in Italia fu posticipato e mi trovai in scena pochissimi giorni
prima del saggio, sul palco all’aperto dell’Accademia, a preparare il
ruolo dell’Oscurantismo conoscendone praticamente nulla. Mi buttai,
letteralmente, liberando il mio istinto: la risposta del pubblico fu
molto calorosa e quella della critica estremamente positiva, ma davvero
memorabile fu soprattutto l’affetto dei miei compagni di danza e la
straordinaria emozione che trassi da quel festoso saluto ai miei anni di
scuola.
Un’altra serata che
potrei ricordare è, in effetti, un altro addio: l’ultimo spettacolo con
il Balletto di Ginevra in tournée a Berna, in cui danzai il passo a due
centrale del secondo movimento dello scatenato “Axioma 7” di Ohad
Naharin con una danzatrice dalla toccante sensibilità, Karina Silverio,
canadese dai tratti orientali. Ricordo ancora la luce dei suoi occhi,
durante la danza, i palpiti del suo corpo e quella musica meravigliosa –
il Quarto Concerto Brandeburghese di Bach.
E ancora il mio
ritorno da protagonista a Roma, sulla scena del Teatro dell’Opera in cui
vidi da piccolo il mio primo balletto dal vivo, come Primo Ballerino in
“Giselle” (arrivando coraggiosamente in scena dopo sole tre prove), ne
“Il Lago dei Cigni” (in coppia con la cubana Sadaise Arencibia al suo
debutto in Italia), ne “Lo Schiaccianoci” e ne “La Bella Addormentata
nel Bosco”.
Vorrei anche
rammentare l’affermazione recente del Premio Positano “Léonide Massine”
al Valore, nel settembre del 2007, con cui ho festeggiato splendidamente
10 anni di carriera, sotto le stelle ed in riva al mare.
Infine, dedico un
pensiero affettuoso all’ultima rappresentazione del “Faust” di Luciano
Cannito, il 14 maggio del 2006 all’Opera di Roma, che fu un trionfo per
me e che coincise con l’ultimo compleanno della mia mamma che ricordo,
bellissima nella sua dolcezza e felice, ad aspettarmi sulle scalette
dell’entrata piena di fiori in grembo.
Pur avendo avuto l’occasione di essere stato l’interprete di lavori di
coreografi prestigiosi di ieri e di oggi, c’è un ruolo, che ancora non
fa parte del bagaglio della Sua carriera, ma che più di ogni altro
appartiene ai Suoi sogni di artista?
In passato ho
potuto testare alcune coreografie di William Forsythe, di Jiri Kylian e
di Uwe Scholz; ho lavorato con Robert North, con Amedeo Amodio e con
Marie-Claude Pietragalla, ho assaggiato alcuni capolavori di George
Balanchine; ho avuto il privilegio di affrontare molti dei grandi ruoli
classici e romantici e, all’Opera di Roma, ho potuto misurarmi con
numerosi personaggi interessanti creati appositamente sulla mia misura,
passando dal registro drammatico a quello ironico ed addirittura comico.
Dunque, oggi, non
c’è un ruolo in particolare, nel repertorio classico e contemporaneo,
che vorrei indagare. Ciò che davvero mi incuriosisce a questo punto
della mia carriera è tentare di espandere i margini tradizionali entro i
quali la mia professione è talvolta costretta, sorpassandone gli
stereotipi che vorrebbero incasellarla e abolendo i compartimenti stagni
che spesso ne ostacolano l’evoluzione.
Sto parlando di
contaminazioni con i linguaggi complementari della letteratura e del
teatro di prosa, per un arricchimento ulteriore e per verificare le più
affinate potenzialità espressive.
Per esempio,
nell’intenzione di presentare una novità al Gala di chiusura
dell’imminente Settimana Internazionale della Danza di Spoleto, che si
svolge nel suggestivo Chiostro di San Niccolò, mi sono affidato alle
notevoli doti di una vera e propria “equipe” di artisti incline alla
ricerca, profonda e nient’affatto scontata: Laura Martorana, coreografa
(che in passato ha creato, tra l’altro, un interessante assolo per
Giuseppe Picone) proveniente dall’ ”entourage” di Gigi Caciuleanu,
Massimiliano Siccardi per la creatività multimediale e Marco Melìa (tra
i premiati, con me, del recente Premio Anita Bucchi per le arti dello
spettacolo) per l’assistenza musicale.
Una collaborazione
eclettica per offrire una personalissima e sfaccettata lettura del
fascinoso mito del Minotauro. Appartenente alla mitologia ellenica,
questa inquietante creatura dal corpo umano e la testa di toro (era
figlio di un toro divino, inviato da Poseidone, e di Parsifae regina di
Creta) rappresenta la parte istintiva dell’essere umano e può essere
interpretata e rivissuta, come ogni mito, in innumerevoli maniere. In
questa occasione si è scelto il riferimento al racconto dello svizzero
Friedrich Durrenmatt, scrittore, drammaturgo e pittore del Novecento,
che inserisce il Minotauro –attraverso una prosa di sobrio lirismo- in
un labirinto di specchi, in cui la sua immagine, come quella di Teseo e
di Arianna, è moltiplicata all’infinto riproducendo un microcosmo che è
illusorio ma che induce il Minotauro al confronto con l’altro,
all’esperienza dell’emozionalità e della carnalità, all’atto
dell’esperire come ultimo e fondamentale obbiettivo del proprio
percorso: evolvendo attraverso le sensazioni e non attraverso i concetti
(dei quali, come creatura animalesca e reclusa, è privo), effettua una
crescita con la pratica della conoscenza.
Il lettore è
decisamente schierato dalla parte del Minotauro ed alla fine, con un
riferimento diretto anche al racconto “La casa di Asterione”
dell’argentino Jorge Luis Borges, viene da chiedersi chi sia davvero il
cosiddetto vincitore di questa vicenda conclusasi nel sangue: Teseo,
l’eroe distruttivo che uccide il Minotauro portando a termine una cieca
missione che rifiuta qualunque opportunità di verifica individuale, o la
creatura a metà tra un uomo ed un animale che trova la morte ma che
arriva a quel tragico momento dopo aver perseguito un’esperienza di
consapevolezza?
Che è, in fondo, la
bestia e chi l’essere umano?
Questo, reso
teatralmente con l’alternanza di un accompagnamento percussivo con una
sublime aria di Bach e, ciò che rappresenta la novità più intrigante per
me, l’utilizzo della mia stessa voce recitante per alcuni emblematici
passaggi del testo di Durrenmatt: il mondo della parola è la naturale
estensione di quello del movimento e padroneggiarli entrambi mi appare
come una sfida che può aprire numerosissime possibilità espressive.
Dunque, piuttosto
che un ruolo, ciò che mi stimola attualmente è ampliare, scavalcandoli,
i confini di comunicazione ed esplorare un ventaglio più ricco di
creatività artistica.
La danza nelle compagnie dei nostri teatri è purtroppo condizionata
dalla burocrazia, dalle gerarchie precostituite, dalle norme
contrattuali, dai sindacati, dai privilegi e dalle precarietà ma anche
dalla mancanza di incentivazione da parte delle istituzioni. Dalle
esperienze che Lei ha avuto, cosa potrebbe svincolarla da una situazione
che sembra senza ritorno?
Su questo
scottante, annoso argomento potrei scrivere un libro…
Le problematiche
sono innumerevoli, ed insieme vanno a costituirsi in un meccanismo
malato che abolisce il riconoscimento del merito artistico individuale e
che confonde inopinatamente l’oro con il piombo.
In base alla mia
esperienza, per molti aspetti negativa, alla Scala di Milano ed a quella
molto più approfondita e gratificante all’Opera di Roma, posso affermare
che gli interessi economici ed i favoritismi politici imperano in
maniera devastante in contesti già in sé rallentati da strutture
burocratiche che sembrano frutto di un’allucinazione di massa, e da
norme contrattuali anacronistiche che nulla hanno a che vedere con le
più usuali esigenze artistiche.
Si è soggetti a ben
tre audizioni annuali, con graduatorie che non garantiscono un periodo
minimo di lavoro effettivo; si è chiamati con un solo giorno di
preavviso, dunque si è vincolati e si è impediti in un minimo di
progettualità professionale; è possibile essere utilizzati con mansioni
superiori ma, anche dopo molti ruoli affrontati, non si può rivendicare
alcuna posizione artistica o contrattuale che possa tutelare; inoltre,
si è soggetti ad infinite strane manovre interne di pettegolezzi e
calunnie (in un ambiente che è perdutamente provinciale), specie se
–evidentemente- si vale.
Poi, al di là dello
scalino anagrafico che divide i cosiddetti aggiunti dai cosiddetti
stabili, si trovano questi ultimi che, sviliti da scelte artistiche che
chiaramente non li favoriscono e forti della loro inattaccabile
poltrona, gravano loro malgrado su un ricambio generazionale tanto
auspicabile quanto, ad oggi, utopistico.
Ai vertici del
teatro della capitale, in più, dilaga un evidente conflitto di interessi
che non giova affatto alla salute di una compagine artistica già
pericolosamente indebolita. La scandalosa tendenza è all’omologazione e
alla precisa intenzione di circondarsi di ballerine e ballerini
artisticamente costipati. Il livello generale sale indiscutibilmente, ma
altrettanto indiscutibile è l’incontrollabile avidità con cui si
tagliano di netto le potenziali vette individuali.
Ad esempio, se una
Monica Mason monopolizzasse il repertorio del Royal Ballet di Londra con
sue presunte coreografie, con una sua costante ed opprimente presenza in
palcoscenico (e la Mason, oltre ad aver abbandonato le scene da tempo,
non arriva comunque ai settant’anni) e con un’agenzia personale di
gestione di artisti ospiti, ebbene, credo fortemente che la vivace
stampa inglese si divertirebbe non poco.
Nel nostro Paese
questo non avviene. La critica di settore è prevalentemente acritica;
ragiona per partito preso soffocando evidenze e competenze; è troppo
spesso priva di senso, di interesse, di propositi autentici e quindi
costruttivi.
Non saprei quale
soluzione proporre, in un’Italia in cui si alternano governi in perenne
competizione che risultano immancabilmente ed uniformemente disastrosi.
Certo è che l’Arte,
con tutto questo, non ha nulla a che fare.
C’è una persona in particolare che
vuole ringraziare per essere diventato il danzatore che è oggi?
Quelle appartenenti al cerchio
familiare dei miei più intimi affetti, che mi hanno offerto
un’educazione improntata alla forza e alla dolcezza. Queste sono, per
me, le energie che costituiscono il vero Potere - quello della
sensibilità, della trasparenza, della profondità e della grinta. Non
quello, più comunemente “venduto” come assoluto, dei tanti disperati
mostri sacri da copertina che regnano con la finzione azzerando, o
credendo di azzerare, il prossimo.
E tornerei al Minotauro che,
incastrato tra gli specchi rilucenti, infine vince perché conosce. E
che, dunque, vive veramente.
Video a cura di Nassimiliano Siccardi de' Il
Minotauro con Fabio Grossi girato all'Accademia Nazionale di Danza di
Roma e al Chiostro di San Nicolò di Spoleto
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