L’ineluttabile sconfitta a scacchi
tratto da
Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo di Fabrizio Marini
(Lindau, Torino 2002)

Block ha avuto modo di vedere la Morte giocare a scacchi nelle pitture e lo ha sentito nelle canzoni popolari, ma la scacchiera compare in scena prima della Morte, quando cioè il Cavaliere, dopo aver pregato in riva al mare, si incammina all’indirizzo del cavallo ed esce dall’inquadratura verso sinistra; in quel momento la macchina da presa si sposta leggermente per soffermarsi sulla scacchiera in primo piano appoggiata sugli scogli. Questo è il primo indizio indiretto per quanto riguarda le abitudini di Block: egli si diletta nel gioco che per eccellenza stimola la strategia e il ragionamento, ennesima metafora dell’esistenza, quando al contempo è attanagliato dal dubbio della propria vacillante fede.

Ma ecco che gli scacchi si elevano a pretesto grazie al quale ogni regola logico-esistenziale si sospende; il tempo della partita coincide così con il tempo, «circa mezz’ora», che trascorre tra la percezione di un innaturale silenzio e il suo epilogo nella distruzione apocalittica.

In questo senso si può concepire la scacchiera come sineddoche, luogo rappresentativo dell’insieme, il gioco come simbolo della vicenda narrata: la sconfitta è inevitabile come la morte, però si vuole concedere un margine temporale nel quale giocarsi le proprie possibilità.

Block gioca la sua partita sapendo di doverla perdere, come vive i suoi ultimi momenti consapevole dell’imminenza della morte. Nell’arco di queste frazioni temporali si propone due obiettivi: quello della ricerca interiore (che è anche ricerca di Dio o del significato dell’esistenza), e quello, direttamente correlato al primo, dell’atto ultimo che viene a coincidere con la mossa (per utilizzare termini scacchistici) della salvezza per gli unici rimasti puri nei confronti della corruzione del mondo.

Ci sono due momenti rappresentativi di tale punto di vista: nella sequenza del confessionale Block, dopo aver ammesso la sua impossibilità di sentire Dio dentro di sé, dichiara di avere una tattica con la quale poter sconfiggere la Morte a scacchi. Al di là dell’inganno che gli tende la Morte spacciandosi per il monaco, il Cavaliere crede ancora che la partita possa essere giocata ad armi pari, facendo riferimento alla sola abilità dei giocatori. La partita effettiva si sviluppa in tre momenti; l’approccio/apertura sulla spiaggia al primo incontro tra i due, lo scambio ai margini del bosco dopo il pasto a base di fragole e latte, e il finale nella foresta di notte poco prima del temporale. L’andamento della sfida segue quello dell’introspezione del Cavaliere, lo studio iniziale corrisponde alla fase in cui le domande restano sospese e il peregrinare di Block dubbioso; il confessionale assolve la funzione di preludio alla successiva svolta; Block esterna le proprie angosce e la propria tattica ma non ottiene risposte e paga l’ingenuità. In questo momento raggiunge il livello di inquietudine più estremo, ma la svolta avviene nel successivo incontro con Jof e Mia, i futuri destinatari dei suoi sforzi tattici ed esistenziali.

La memoria dei cinefili associa al ricordo del film l’immagine della sfida a scacchi con la Morte così come Bergman sfrutta l’espediente per appoggiarsi a tutta quella diffusa simbologia della superstizione medievale di cui Il settimo sigillo è infarcito; l’idea di potersi scontrare con la Morte e di sconfiggerla sposta la ricerca iconografica del regista da un piano storico-realistico (le pratiche di vita, i costumi, i luoghi e le credenze) a uno prettamente fantastico laddove la fisicità della Morte, e la metafisica partita, vengono messe in scena con le stesse modalità fìgurative della realtà ricreata.

Come si è già rilevato l’autore non ha nessun intento di carattere storico, lo dimostra la sua disinvoltura nei passaggi dalla narrazione lineare a quella dell’immaginario (o meglio della riflessione) di Block, per i quali non si avverte soluzione di continuità stilistico-narrativa; il fenomenico (la scacchiera) veicola l’astratto (la partita con la Morte) senza per questo tradire la verosimiglianza cinematografica.

Questo rilievo ci consente di dedurre come il concetto di ineluttabilità della morte (e nella fattispecie della sconfitta a scacchi) si proponga a mo’ di linea trasversale tesa a unire la diffusione delle comuni idee nel contesto storico medievale (gli atteggiamenti superstiziosi, la peste, i rapporti con il maligno, le leggende sull’Apocalisse), con una più alta e metastorica riflessione sul senso della vita e della morte che la scacchiera (fattasi simbolo) esemplifica grazie al ruolo di Block, Cavaliere medievale, ma anche modello di uomo contemporaneo.

Il pessimismo che il concetto di ineluttabilità porta necessariamente con sé viene in qualche modo smentito nell’ultima fase del film; nel bosco di notte la partita volge alla conclusione e Block involontariamente (anche se in quel gesto ci sembra di intuire un surrogato alla tattica svelata alla Morte nel confessionale) urta con il mantello alcuni pezzi posizionati sulla scacchiera. L’espediente distrae la Morte e consente a Jof e Mia di scappare dall’accampamento e raggiungere la salvezza nell’ottica di una dicotomica simbologia vita/morte attraverso la funzione del figlio Mikael.

Se l’interpretazione è quella dell’involontarietà del Cavaliere di spostare i pezzi, Bergman dimostra coerenza nel disegno etico del personaggio, ma se vogliamo spingerci nell’ottica della volontarietà siamo costretti a evidenziare in Block un comportamento eticamente scorretto, sebbene fondato su valori cristiani. Block intuisce, a un certo punto della partita, come anche del percorso esistenziale, che non esistono possibilità di sconfiggere la Morte; tuttavia il suo sconforto si tramuta in progetto umanista e la sfida ai bordi della scacchiera si carica di significati esterni alla stessa – la Morte si rivolge a Block: «Hai perso interesse alla nostra partita?», ed egli risponde con sguardo preoccupato mentre vede la coppia di girovaghi allontanarsi «Perso interesse? Al contrario».

Qui avviene l’attuazione del progetto, il secondo inganno (o inganno di ritorno) che rovescia le parti e mostra un lato ingenuo della Morte; ma anche la capacità di Block di non arrendersi inesorabilmente al destino o meglio alla mancata risposta di Dio. Nella contrapposizione vita/morte, a uno sguardo meramente religioso che vede in Dio il fine ultimo, Bergman contrappone – ed è questa una linea che si riscontra in tanta parte della sua opera – l’amore umano, nella fattispecie esemplificato nelle figure di Jof e Mia verso il figlio, come fonte certa di spiritualità tangibile e riconoscibile, laddove l’assenza di Dio ha creato un vuoto.

Per quanto riguarda la visione di Jof del Cavaliere intento a giocare con la Morte, Bergman propone una coincidenza del punto di vista del saltimbanco con quello dello spettatore (Mia infatti vede solo il Cavaliere), e rende la scena con la medesima impronta stilistica utilizzata per tutta la narrazione (abbiamo escluso solo la prima visione di Jof esplicitamente onirica); perciò si può notare come le tre visioni si differenzino tra loro: la prima onirica, la seconda realistica e la terza si pone a metà strada, perché, pur utilizzando l’impostazione visiva inalterata, coincide con il solo punto di vista di Jof (e dello spettatore) in quanto personaggio interno alla narrazione. Block non è visionario ma interagisce con la Morte perché in qualche modo già morto egli stesso; Jof, visionario, vede la Morte e si spaventa perché non è preparato all’idea della stessa; gli altri personaggi la incontrano solo nel momento in cui essa si impadronisce di loro.

Che poi, all’improvviso, io abbia preso il coraggio di raffigurare
la Morte come un clown bianco, come un personaggio conversante,
che giocava a scacchi e non deteneva alcun segreto,
questo fu il mio primo passo nella lotta contro la paura della morte

Ingmar Bergman

 

 

 

 

 

 


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