Mario Luzi

 

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Scelus: inedito di Luzi


Mario Luzi

Le poesie di Mario Luzi

Da "Un Brindisi"
-Già goccia la grigia rosa il suo fuoco -

Già goccia la grigia rosa il suo fuoco
il fuoco rapito fumido di pioggia,
sulla calce dei muri ciechi ove il fioco
tuo bagliore s'appoggia.

Già strepe sui grevi banchi di breccia
nei recinti angosciosi dissono attutito
il tuo piede cupo di cui l'eco s'intreccia
col fiume dal lento corso Cocito.

La mano ne rovi vizzi è una fiamma
crepitante di febbre vitrea semiviva,
nel tuo sguardo un autunno langue e s'infiamma,
sol che l'anno riviva.

Da "Bruciata la materia del ricordo"

Bruciata la materia del ricordo, ma non il ricordo.
Il ricordo impera ugualmente. E' lui
che oltre la storia e oltre la finita reminescenza
lungo tutta la lunga mattinata estiva osserva
la piazza prima in ombra inondata dalla trasparenza
tramutarsi in un vaso di fulgore offuscato dall'accecamento
con nient'altro tra ripa e ripa di pietra e marmo che la sua forza.
Lui solo e da sotto le tegole una buba
di colombi che quasi di troppa betitudine la scolma.
Ricordo senza limiti, ricordo senza corpi né ombre.

Fiume da fiume

  
Si pasce di se il fiume, bruca
                       serpeggiando
le sue
    quasi essiccate sgorature,
                       visita
le sue
          quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi già putridi ristagni
finche, poco più oltre
                   un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
                      ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
        si muove verso se stesso il fiume,
        si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera   e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
               lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.

-Natura-

  
La terra e a lei concorde il mare 
e sopra ovunque un mare più giocondo 
per la veloce fiamma dei passeri 
e la via 
della riposante luna e del sonno 
dei dolci corpi socchiusi alla vita 
e alla morte su un campo; 
e per quelle voci che scendono 
sfuggendo a misteriose porte e balzano 
sopra noi come uccelli folli di tornare 
sopra le isole originali cantando: 
qui si prepara 
un giaciglio di porpora e un canto che culla 
per chi non ha potuto dormire 
sì dura era la pietra, 
sì acuminato l'amore. 

Da "Avvento Notturno"

-Avorio -

  
Parla il cipresso equinoziale, oscuro 
e montuoso esulta il capriolo, 
dentro le fonti rosse le criniere 
dai baci adagio lavan le cavalle. 
Giù da foreste vaporose immensi 
alle eccelse città battono i fiumi 
lungamente, si muovono in un sogno 
affettuose vele verso Olimpia. 
Correranno le intense vie d'Oriente 
ventilate fanciulle e dai mercati 
salmastri guarderanno ilari il mondo. 
Ma dove attingerò io la mia vita 
ora che il tremebondo amore è morto? 
Violavano le rose l'orizzonte, 
esitanti città stavano in cielo 
asperse di giardini tormentosi, 
la sua voce nell'aria era una roccia 
deserta e incolmabile di fiori. 
  
  
(Se musica è la donna amata) 
  
Ma tu continua e perditi, mia vita, 
per le rosse città dei cani afosi 
convessi sopra i fiumi arsi dal vento. 
Le danzatrici scuotono l'oriente 
appassionato, effondono i metalli 
del sole le veementi baiadere. 
Un passero profondo si dispiuma 
sul golfo ov'io sognai la Georgia: 
dal mare (una viola trafelata 
nella memoria bianca di vestigia) 
un vento desolato s'appoggiava 
ai tuoi vetri con una piuma grigia 
e se volevi accoglierlo una bruna 
solitudine offesa la tua mano 
premeva nei suoi limbi odorosi 
d'inattuate rose di lontano. 

Da "Poesie sparse"

-Nulla di ciò che accade e non ha volto -

  
Nulla di ciò che accade e non ha volto 
e nulla che precipiti puro, immune da traccia, 
percettibile solo alla pietà 
come te mi significa la morte. 
Il vento ricco oscilla corrugato 
sui vetri, finge estatiche presenze 
e un oriente bianco s'esala 
nei quadrivi di febbre lastricati. 
Dalla pioggia alle candide schiarite 
si levano allo sguardo variopinto 
blocchi d'aria in festevoli distanze. 
Apparire e sparire è una chimera. 
E' questa l'ora tua, è l'ora di quei re 
sismici il cui trono è il movimento, 
insensibili se non al freddo di morte 
che lasciano nel sangue all'improvviso. 
Loro sede fulminea è qualche specchio 
assorto nella sera, ivi s'incontrano, 
ivi si riconoscono in un battito. 
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi, 
ti persegua di là dai fortilizi, 
dalle guglie riflesse negli asfalti, 
nei luoghi ove l'amore non può giungere 
né la dimenticanza di se stessi. 

Da "Monologo"

I

  
Vita che non osai chiedere e fu, 
mite, incredula d'essere sgorgata 
dal sasso impenetrabile del tempo, 
sorpresa, poi sicura della terra, 
tu vita ininterrotta nelle fibre 
vibranti, tese al vento della notte... 
  
Era, donde scendesse, un salto d'acque 
silenziose, frenetiche, affluenti 
da una febbrile trasparenza d'astri 
ove di giorno ero travolto in giorno, 
da me profondamente entro di me 
e l'angoscia d'esistere tra rocce 
perdevo e ritrovavo sempre intatta. 
  
Tempo di consentire sei venuto, 
giorno in cui mi maturo, ripetevo, 
e mormora la crescita del grano, 
ronza il miele futuro. Senza pausa 
una ventilazione oscura errava 
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande; 
correva, ove tendesse, vento astrale, 
deserto tra le prime fredde foglie, 
portava una germinazione oscura 
negli alberi, turbava pietre e stelle. 
  
Con lo sgomento d'una porta 
che s'apra sotto un peso ignoto, entrava 
nel cuore una vertigine d'eventi, 
moveva il delirio e la pietà. 
Le immagini possibili di me, 
passi uditi nel sogno ed inseguiti, 
svanivano, con che tremenda forza 
ti fu dato di cogliere, dicevo, 
tra le vane la forma destinata! 
Quest'ora ti edifica e ti schianta. 
L'uno ancora implacato, l'altro urgeva - 
con insulto di linfa chiusa i giorni 
vorticosi nascevano da me, 
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi, 
senza riparo n'ero trascinato. 
Fosti, quanto puoi chiedere, reale, 
la contesa col nulla era finita, 
spirava un tempo lucido e furente, 
senza fine perivi e rinascevi, 
ne sentivi la forza e la paura. 
Una disperazione antica usciva 
dagli alberi, passava sulle tempie. 
Vita, ne misuravi la pienezza, 

-Notizie a Giuseppina dopo tanti anni-

  
Che speri, che ti riprometti, amica, 
se torni per così cupo viaggio 
fin qua dove nel sole le burrasche 
hanno una voce altissima abbrunata, 
di gelsomino odorano e di frane? 
  
Mi trovo qui a questa età che sai, 
né giovane né vecchio, attendo, guardo 
questa vicissitudine sospesa; 
non so più quel che volli o mi fu imposto, 
entri nei miei pensieri e n'esci illesa. 
  
Tutto l'altro che deve essere è ancora, 
il fiume scorre, la campagna varia, 
grandina, spiove, qualche cane latra 
esce la luna, niente si riscuote, 
niente dal lungo sonno avventuroso. 

Da "Onore del vero"
-Uccelli-

  
il vento è un'aspra voce che ammonisce 
per noi stuolo che a volte trova pace 
e asilo sopra questi rami secchi. 
E la schiera ripiglia il triste volo, 
migra nel cuore dei monti, viola 
scavato nel viola inesauribile, 
miniera senza fondo dello spazio. 
Il volo è lento, penetra a fatica 
nell'azzurro che s'apre oltre l'azzurro, 
nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni 
mandano grida acute che precipitano 
e nessuna parete ripercuote. 
Che ci somiglia è il moto delle cime 
nell'ora - quasi non si può pensare 
né dire - quando su steli invisibili 
tutt'intorno una primavera strana 
fiorisce in nuvole rade che il vento 
pasce in un cielo o umido o bruciato 
e la sorte della giornata è varia, 
la grandine, la pioggia, la schiarita. 

-Questa felicità-

Questa felicità promessa o data m'è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell'unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro. Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.

-A mia madre dalla sua casa-

  
M'accoglie la tua vecchia, grigia casa 
steso supino sopra un letto angusto, 
forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto, 
conto le ore lentissime a passare, 
più lente per le nuvole che solcano 
queste notti d'agosto in terre avare. 
  
Uno che torna a notte alta dai campi 
scambia un cenno a fatica con i simili, 
infila l'erta, il vicolo, scompare 
dietro la porta del tugurio. L'afa 
dello scirocco agita i riposi, 
fa smaniare gli infermi ed i reclusi. 
  
Non dormo, seguo il passo del nottambulo 
sia demente sia giovane tarato 
mentre risuona sopra pietre e ciottoli; 
lascio e prendo il mio carico servile 
e scendo, scendo più che già non sia 
profondo in questo tempo, in questo popolo. 

-La notte lava la mente-

La notte lava la mente. Poco dopo si è qui come sai bene, file d'anime lungo la cornice, chi pronto al balzo, chi quasi in catene. Qualcuno sulla pagina del mare traccia un segno di vita, figge un punto. Raramente qualche gabbiano appare.

-Il Giudice-

  
"Credi che il tuo sia vero amore? Esamina 
a fondo il tuo passato" insiste lui 
saettando ben addentro 
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana. 
E aspetta. Mentre io guardo lontano 
ed altro non mi viene in mente 
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani 
sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola, 
dove una terra nuda si fa ombra 
con le sue gobbe o un'altra preparata a semina 
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili. 
"Certo, posso aver molto peccato" 
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa, 
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera. 
"Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso" 
riprende la sua voce con un fischio 
di raffica sopra quella landa passando alta. 
L'ascolto e neppure mi domando 
perché sia lui e non io di là da questo banco 
occupato a giudicare i mali del mondo. 
"Può darsi" replico io mentre già penso ad altro, 
mentre la via s'accende scaglia a scaglia 
e qui nel bar il giorno ancora pieno 
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio 
per le ore di libertà e l'uomo che le ha dato il cambio 
indossa la gabbana bianca e viene 
verso di noi con due bicchieri colmi, 
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo. 

-L'India-

  
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma, 
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso) 
mentre mostra a lungo lo schermo 
sul selciato una moltitudine 
stecchita in una posa tra sonno e morte 
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba. 
Né forse la colpisce il primo aspetto 
ma un altro più recondito, e vede 
una giustizia di diverso stampo 
in quella sofferenza di paria 
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso. 
  
"Avere o non avere la sua parte in questa vita" 
riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo. 
E io ne tiro a me quella frangia 
ansioso mi confidi tutto l'altro, 
attento non mi rubi niente 
di lei, neppure l'amarezza, ed attendo. 
S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India 
e nel loro riverbero le colgo 
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba 
quasi mi lasci quella grazia in pegno 
di lei mentre si eclissa nella sua pena 
e l'idea di se stessa le muore dentro. 
  
"Perché porti quel giogo, perché non insorgi" 
mi trattengo appena dal gridarle, 
soffrendo perché soffre, certo, 
ma più ancora perché lascia la presa 
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo; 
"Ascoltami" comincio a mormorarle 
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor 
e a lei che sul punto di partire 
mi guarda da dietro la lampada 
della sua solitudine tenuta alzata di fronte. 
  
"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora 
levi come una spada, buona a che?, 
lo sdegno per le cose che ti resistono. 
Uomo chiuso all'intelligenza del diverso, 
negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque" 
e indulge a una smorfia fine di scherno 
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla. 
  
"Davvero vorrei tu avessi vinto" 
le dico con affetto incontenibile, più tardi, 
mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India. 

-Per mare-

  
Nel più alto punto 
dove scienza è oblìo d'ogni sapere 
e certezza, mi dicono, 
certezza irrefutabile venuta incontro 
  
o nel tempo appeso a un filo 
d'un riacquisto d'infanzia, 
  
tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa, 
  
dove c'è e non c'è opera nostra voluta e scelta. 
  
"La salute della mente 
è là" dice una voce 
con cui contendo da anni, 
una voce che ora è di sirena. 
  
Si naviga tra Sardegna e Corsica. 
C'è un po' di mare 
e la barca appruata scarricchia. 
L'equipaggio dorme. Ma due 
vegliano nella mezzaluce della plancia. 
E' passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi. 
E' una notte viva. 
Viva più di questa notte, 
viva tanto da serrarmi la gola 
è la muta confidenza 
di quelli che riposano 
si curi in mano d'altri 
e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo 
  
mentre pregano per i loro uomini in mare 
da un punto oscuro della costa, mentre arriva 
dalla parte del Rodano qualche raffica. 

Da "Al fuoco della controversia"
-Ridotto a me stesso?-

  
Ridotto a me stesso? 
Morto l'interlocutore? 
O morto io, 
l'altro su di me 
padrone del campo, l'altro, 
universo, parificatore... 
o no, 
niente di questo: 
il silenzio raggiante 
dell'amore pieno, 
della piena incarnazione 
anticipato da un lampo? - 
penso 
se è pensare questo 
e non opera di sonno 
nella pausa solare 
del tumulto di adesso...

Mario Luzi