|
|||
Queste pagine sono tratte dalla mia tesi di laurea: "Filosofia del lontano: la teoria dell'umorismo in Luigi Pirandello"
I. L'umorismo tra estetica e filosofiaL'umorismo non si pone come compito di far
confermare e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica
1. Umorismo e filosofia É difficile trovare, nella storia del
pensiero occidentale, un concetto più sfuggente ed inafferrabile
di quello rappresentato dal riso. Imprendibile ed inafferrabile non
solo perché fondamentalmente contraddittorio, ambiguo, paradossale,
eccentrico, che non è mai costante. Ma anche perché lo
abbiamo sempre concepito, in connessione con le caratteristiche appena
elencate, come l'opposto di ciò che è "serio",
vale a dire di ciò che è univocamente accettato, stabile,
valido, importante. In un certo senso, potremmo dire che il contrasto
"serio/comico" sia stato quasi sempre pensato nei termini
di un'opposizione del tipo "positivo/negativo", razionale/irrazionale".
Questo pregiudizio ha giocato un ruolo decisamente
negativo in ordine alla nascita ed agli sviluppi di una teoria filosofica
del comico, il quale, tranne poche ma importanti eccezioni (Aristotele
soprattutto), non riuscì ad imporsi come 'serio' argomento di
riflessione, ma rimase sostanzialmente confinato nei sotterranei e nei
sottoscala dei filosofi. Costituiscono [...] dei morti filosofemi, e per di più esposti in una maniera così pesante che talvolta è addirittura impossibile capirle.5
Forse la ragione di questi fallimenti, o delle
incapacità di molte riflessioni sul comico, dipendono da una
circostanza a cui non si è prestata molta attenzione; e cioè
che esiste una marcata diversità fra gli strumenti di indagine
adoperati, che sono quelli della 'seria' tradizione della speculazione
occidentale, e la sua natura ritenuta affatto seria dell'oggetto comico
indagato. Il tono serio si è affermato come unica forma per esprimere la verità, il bene, e in generale, tutto ciò che è importante e significativo.6 La conseguenza più o meno esplicita di ciò fu che il comico è stato collocato in una zona insignificante, insensata; in una zona franca, festiva, in estasi in cui ci si riposa dalle fatiche e dalla serietà del lavoro di tutti i giorni, ma tuttavia con la consapevolezza che si tratta di una temporanea evasione, di un'effimera piacevolezza che dura solo lo spazio di una risata.
Hegel è forse, tra i grandi filosofi dell'età
moderna, quello nel quale l'opposizione serio/comico, intesa come opposizione
significante/ insignificante, e, più in generale, filosofia/non-filosofia,
si delinea con maggior nettezza di contorni. 6. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1995, p. 83. Se la serietà del conflitto tra positivo
e negativo, e inteso come rapporto assolutamente e irrimediabilmente
'altro' del negativo rispetto al positivo, viene disegnato da Hegel
in questi termini, non stupisce affatto poi che il comico sia inteso
come ciò che è frivolo, come legame ''superfluo'' tra
gli elementi in gioco. Ma questa superfluità è considerata
come "vacuità", ossia svalutata come pura universalità
astratta che ha perso il contenuto, coscienza "felice" che
sarà superata dalla coscienza "infelice", la quale
sarà tragicamente consapevole di quella perdita. Costituisce il rovescio ed il completamento della coscienza entro sé perfettamente felice, la coscienza comica.9 Quest'ultima ancora non sa di aver perso ogni
rapporto col sostanziale. In questo contesto, non si può che
registrare, nelle riflessioni, spesso marginali, dedicati al fenomeno
comico, una sostanziale svalutazione di esso, considerato una sorta
di rovesciamento parodistico della 'serietà' del lavoro filosofico.
7. G. W. F. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, Milano, Rusconi, 1999, p. 981. L'incongruenza comica è in altre parole determinata dal fatto che essi sono "individui eterni e belli", liberi da ogni accidentalità. Nello stesso tempo, però, agiscono come elementi determinati, ossia come divinità particolari. Sostiene Hegel: Questo rapporto costituisce un comico auto-oblio della loro natura eterna.10 E nelle pagine dedicate alla commedia, egli parla
del contrasto ridicolo tra l'universalità del démos e
la sua ordinaria particolarità, che diviene una situazione corrispondente
e rovesciata rispetto a quella degli dei. Quel contrasto è ridicolo
perché oppone all'opinione di sé degli individui, concepita
come universale e necessaria, l'esistenza immediata di ciascuno, che
è particolare e limitata. Lo spasso in balia dell'opinione e dell'arbitrio dell'individualità accidentale.11 Tracce di queste convinzioni, adeguata naturalmente
al nuovo quadro dentro il quale Hegel si muove, si ritrovano nelle Lezioni
di estetica. Per questo la sua attività principale consiste nel far in sé decomporre e dissolvere, ad opera della potenza di trovate soggettive, lampi di pensiero e sorprendenti modi di concepire, tutto ciò che pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa della realtà.13 10. Ivi, p. 961 Ma, coerentemente con la sua considerazione negativa dell'ironia, Hegel riduce la carica dissolvente dell'umorismo a semplice gioco virtuosistico- formale; ad un quasi insignificante: Incrociarsi di espressioni, modi di vedere e atteggiamenti soggettivi con cui l'autore porta allo sbaraglio se stesso e i suoi oggetti; ossia ad un comportamento poco serio!14 Tuttavia, anche se le trovate umoristiche, i
lampi, le arguzie sono un mescolare al modo più imprevisto oggetti
la cui relazione è qualcosa di interamente soggettivo; anche
se quella umoristica è una soggettività priva della sostanza
e del sostegno di un animo riempito di vera realtà, esiste, secondo
Hegel, un umorismo più vero, più ricco di animo che riesce
a far emergere l'essenziale della sua stessa casualità.15
Sappiamo che Pirandello, all'inizio della seconda parte de L'umorismo, muove proprio dall'unilateralità di posizioni come quella, che abbiamo appena vista, di Hegel per sostenere che l'umorismo non può essere definito guardando ad uno solo dei lati che compongono il fenomeno. Sulla scorta di Lipps,(come abbiamo potuto notare nel capitolo precedente), Pirandello sostiene: Che l'umorismo non è solo una disposizione d'animo, né, come vuole Hegel, un'attitudine speciale d'intelletto e di animo onde l'artista si pone lui stesso al posto delle cose, questa definizione che, a porsi bene a guardare da quel solo lato da cui Hegel lo guarda, ha tutta l'aria di un Rebus.16 La notissima definizione Pirandelliana dell'umorismo come sentimento del contrario significa che, nella composizione dell'opera d'arte umoristica, sentimento e riflessione stanno in un rapporto conflittuale. 14. Ivi, p. 672. Ma l'elemento 'contrario', il diverso, non dipende
da una sovrapposizione (per esempio istintiva) che dall'esterno sia
aggiunta al primo elemento, ossia il sentimento. Si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene infine ad assumere lo stesso valore del sì.18 Dentro il primo sentimento, se ne insinua un altro opposto che: Ne smorza il calore, ne smonta la serietà e induce a ridere.19 Oltre che il sentimento del contrario, l'umorismo
si risolve come una "comicità drammatica, dove drammatico
non significa la presenza alternativa, come nell'Ariosto (capitolo II,
Ironia e umorismo: l'Orlando furioso e Don Chisciotte), vuoi del comico,
vuoi del tragico, bensì la presenza simultanea così del
comico come del tragico".20 17. Ivi.
126. L'umorismo è, da questo punto di vista,
una teoria che cerca di catturare l'incessante mobilità degli
aspetti successivi della vita, più che l'immobile rigidità
dei suoi singoli momenti. Nel famoso libro Il mondo come volontà
e rappresentazione e nei Supplementi, il filosofo di Danzica, espone
un'interessante 'Teoria del ridicolo' che sembra andare nella direzione
sopra accennata. Il riso proviene sempre da un'incongruenza subitamente constatata fra un concetto e l'oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell'altro, ci fa pensare; e non è, appunto, se non l'espressione di questa incongruenza, la quale si verifica spesso quando due o più oggetti reali sono pensati sotto un solo concetto e sussunti nella sua identità; mentre poi la divergenza radicale, evidente per tutto il resto, ci fa capire che il concetto non conveniva che sotto un solo punto di vista.21 21. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mondadori, 1989, p. 108. Come chiarirà meglio il testo dei Supplementi su accennato, il comico per Schopenhauer è sempre determinato dalla sussunzione, assurda e perciò inattesa, improvvisa, che l'autore comico fa di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneo per tutti gli altri aspetti tranne, chiaramente, quello che consente la sussunzione stessa, che è la causa per cui ridiamo: L'origine del ridicolo è sempre la sussunzione, paradossale e perciò inaspettata, di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneo per tutti gli altri aspetti: pertanto, il fenomeno del riso indica sempre la percezione improvvisa di un'incongruenza tra quel concetto e l'oggetto reale che mediante esso viene pensato, quindi tra l'astratto e l'intuitivo.22 Quindi, possiamo asserire che, secondo Schopenhauer,
il riso è sempre generato, dal fatto che qualcuno introduce,
in maniera paradossale ed inattesa, un oggetto sotto un concetto che,
generalmente gli è estraneo. Il Re incontra un Guascone che, nel rigore dell'inverno, indossa un misero abito estivo. Ciò suscita un lieve riso nel re, adeguato all'esiguità comica della circostanza (contrasto tra il freddo dell'inverno e la leggerezza estiva dell'abito). Quando però chiede al Guascone se non senta freddo con addosso quel vestito leggero si sente rispondere: "Se Vostra Maestà avesse indosso tutto quello che ho io sentirebbe un gran caldo". " E cosa tu hai addosso?" gli chiede incuriosito il Re. E il Guascone: "Tutto il mio guardaroba, Sire!".23 Qui scoppia la risata, spiega il filosofo, a
causa della manifesta incongruenza fra l'esiguità dell'abito
del contadino ed il concetto di 'guardaroba' sotto il quale viene assunto
in maniera inattesa.(Inattesa perché generalmente il concetto
di 'guardaroba' comprende sotto di sé, sussume una 'molteplicità
di abiti', non uno solo). 22. Ivi, Supplementi
al primo libro, p.852.
1."Non vi è nulla di comico al di
fuori di ciò che è propriamente umano".24 Questa
affermazione può lasciare di primo acchito perplessi: si può
ridere, infatti, anche di un cappello o di un burattino di legno. 2.Il riso scaturisce solo di fronte a ciò
che appartiene direttamente o indirettamente all'ambito propriamente
umano; perché possa tuttavia scaturire è necessario che
chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte.
3. Il riso, abbiamo osservato, chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che lega a colui di cui si ride. E tuttavia tutti sanno che il riso è un'esperienza corale: si ride meglio quando si è insieme ad altri, ed il riso è spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone.
Scrive Bergson: Il riso, cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano.26 Non è difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo allora, seguendo Bergson, far convergere i tre punti su cui abbiamo dinanzi richiamato l'attenzione in un'unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso: Il "comico" nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza.27 E se le cose stanno così, se il riso come comportamento umano sorge nella vita associata, allora possiamo supporre che esso risponda a determinate esigenze della vita sociale. 2.1. Il riso e su ciò di cui si ride Per far luce sul motivo che stimola a ridere
non basta indicare quando ridiamo: occorre riflettere anche su ciò
di cui ridiamo. E' il conflitto di due ostinazioni, di cui l'una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all'altra, che se ne prende gioco.29 Del diavolo ci fa ridere la cieca ostinazione, il suo "saltar su" come una molla: È dunque il comportamento rigidamente meccanico di ciò che pure nel gioco vale come un essere dotato di un'autonoma volontà a far ridere il bambino. 26. Ivi, p. 40. Un comportamento rigidamente meccanico applicato
a ciò che è (o immaginiamo che sia) vivente: su questa
tesi bisogna riflettere perché per Bergson circoscrive in modo
abbastanza preciso l'ambito del comico. Quando l'anima ci si mostrerà contrariata dai bisogni del corpo, da un lato la personalità morale con la sua energia intelligentemente variata, dall'altra il corpo stupidamente monotono interrompente sempre ogni cosa con la sua esigenza di macchina. Quanto più queste esigenze del corpo saranno meschine ed uniformemente ripetute, tanto più l'effetto sarà vivo.30 Non è dunque un caso, commenta Bergson, se i personaggi tragici debbono tenersi lontani da gesti che tradiscano le esigenze della corporeità, mentre il commediografo potrà senz'altro ottenere il riso del pubblico rappresentando i suoi personaggi comici in preda a un malanno o ad un fastidioso singhiozzo che interrompe ogni loro discorso. 30. Ivi, p. 63. Proprio come la vita dello spirito può
essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina
corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne
il senso. La lettera, le regole e le convenzioni sociali, si sovrappone
alla sostanza, la vita in comune, e dalla contemplazione di questo travestimento
della vita sorge la comicità: il deputato che interpellando il
ministro su di un assassinio famoso rammenta che il colpevole, dopo
aver ucciso la vittima, è sceso dal treno in senso contrario
alla sua direzione, violando così il regolamento, è, per
Bergson, comico perché in lui l'adesione alla regola ha soffocato
la comprensione della vita. 2.2. Il riso come castigo sociale. La comicità morale e la funzione sociale della commedia Le considerazioni che si sono sin qui svolte
ci permettono di formulare ora, senza ulteriori indugi, una risposta
alla domanda da cui avevamo preso le mosse, la domanda sul fine che
il riso persegue. Il riso, abbiamo osservato, deve avere una funzione
sociale, e sorge, diciamo ora, dalla constatazione di una sorta di contraddizione:
ciò che dovrebbe comportarsi in modo libero e vivo sembra assoggettare
i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo.
È comico qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno. [...]. Tutte le piccole società che si formano sulla grande sono portate, per un vago istinto, ad inventare una moda per correggere e per addolcire la rigidità delle abitudini contratte altrove, e che sono da modificare. La Società propriamente detta non procede diversamente: bisogna che ciascuno dei suoi membri stia attento a ciò che gli è intorno, si modelli su quello che lo circonda, eviti infine di rinchiudersi nel suo carattere come in una torre di avorio. Perciò essa fa dominare su ciascuno, se non la minaccia di una correzione, per lo meno la prospettiva di un'umiliazione che per quanto leggera non è meno temibile. Tale si presenta la funzione del riso. Sempre un po' umiliante per chi ne è l'oggetto, il riso è veramente una specie di castigo sociale.31 Di questa funzione sociale del riso, la commedia
è per Bergson un'espressione esemplare. Tra tutte le forme di
comicità una in particolare sembra stringere un rapporto strettissimo
con la sfera sociale: È la comicità morale. Le passioni
spesso si prendono gioco di noi e subordinano tutte le nostre azioni
ad un unico meccanismo. E' questo ciò che accade ai personaggi
comici di molte commedie: lo spettatore è chiamato a ridere di
un uomo, i cui gesti sembrano quelli di una marionetta, mossa da un
burattinaio, la gelosia, l'avarizia, la pavidità, ecc., che è
ben noto e di cui possiamo prevedere i movimenti. Di qui la forma di
tante commedie che hanno per protagonisti non già individualità
ben determinate, ma personaggi tipici, marionette dietro alle quali
traspare la passione che li domina. Ma di qui anche il fine che si prefiggono:
correggere, ridendo, i costumi. Alle forme propriamente artistiche,
caratterizzate dall'assoluta assenza di finalità pratiche dobbiamo
contrapporre dunque la commedia, che è, per Bergson, una forma
artistica spuria, proprio perché affonda le sue radici nella
vita e perché alla vita ritorna come ad un valore da salvaguardare
e cui sottomettere i propri sforzi.
Ma d'altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l'abbiamo noi stessi; vi è sempre l'intenzione non confessata di umiliare e con ciò, è vero, di correggere, almeno esteriormente.32 Il riso sorge così come un gesto che per strappare la vita dalla sua negazione implica una momentanea sospensione della vita stessa: è dunque una contemplazione della vita volta a sanare i pericoli che la mettono in forse. 2.3. Il riso e la metafisica bergsoniana Nonostante la sua indubbia coerenza e la sua
capacità di far luce su di un aspetto importante del comico,
il saggio di Bergson sembra lasciare aperto più di un problema.
Ciò che in particolare colpisce il lettore è forse il
trovarsi di fronte ad un saggio che con tanto vigore sottolinea la funzione
sociale del riso, senza tuttavia sfociare in un'indagine di natura sociologica
che, tra le altre cose, mostri quali sono i processi di acquisizione
del riso. Perché almeno questo è chiaro: se il riso è
un gesto sociale che appartiene alla forma di vita propria dell'uomo,
allora deve esistere qualcosa come un addestramento al riso, un addestramento
che insegni al bambino quali sono i vizi e i difetti di cui ridere e
quando è opportuno riderne. 32. Ivi, p.119. E ancora una volta il cammino da seguire è
indicato dall'esperienza letteraria. Gli eroi tragici rivelano il loro
carattere nelle azioni, e con azioni Bergson intende i comportamenti
volontari della soggettività. Il personaggio comico invece si
rivela nei gesti, e cioè in quei movimenti e in quei discorsi
nei quali uno stato d'animo si manifesta senza scopo e senza alcuna
premeditazione. Non ha tempo di osservare sempre dove tocca [... e se] talvolta castiga certi difetti come la malattia castiga certi eccessi, colpendo gli innocenti, risparmiando i colpevoli, mirando verso un risultato generale, senza preoccuparsi del singolo.34 Così, accanto alla tesi secondo la quale
il riso sorge come prodotto di un'antica abitudine sociale, Bergson
viene sempre più chiaramente sostenendo che "il riso è
semplicemente l'effetto di un meccanismo datoci dalla natura".35
Ed in questa prospettiva, il problema di un addestramento al riso non
si pone, poiché il riso ci appare come una manifestazione diretta
della natura, come una difesa immediata della vita che è la vita
stessa a donare, munendo di una sorta d'istintiva reazione alla comicità.
33. Ivi, p. 48. Non è difficile scorgere in queste pagine (o in quelle in cui si deducono le leggi della comicità dalla diretta negazione della nozione metafisica di vita), il germe di quella filosofia che troverà poi nell'Evoluzione creatrice, la sua configurazione definitiva. La lotta tra l'ergere dinamico e multiforme della vita e la resistenza cieca e sorda che la materia le impone trova già qui, nella disamina sul comico, la sua prefigurazione. Così, non bisogna stupirsi se l'abitudine al riso è tanto antica da affondare le sue radici in un meccanismo della natura:37 il riso è sì un castigo sociale, ma le sue origini non appartengono alla società, ma alla vita stessa e debbono essere quindi viste sullo sfondo della lotta tra lo slancio vitale e l'inerzia della materia. 2.4. Comicità ed umorismo L'umorismo pirandelliano s'iscrive in un'area
culturale e difficile abbastanza vicina a quell'occupata dallo studio
di Bergson: e non per un diretto rapporto di comprensione o discussione,
ma piuttosto per la presenza di un nucleo ideologico molto simile a
quello del filosofo francese, riassumibile in uno stesso concetto di
"vita", come profondità, durata, coscienza e presenza
a sé, autenticità, superamento di ogni forma meccanica.
Il comico è per lui un avvertimento del
contrario, mentre nell'umorismo è un sentimento del contrario:
entrambi sono dunque caratterizzati da un processo di scomposizione,
disfacimento, contrasto, di cui si situano in due gradi diversi, di
diversa intensità e di diverso interesse, ma comunque poggianti,
su di una base perfettamente omogenea. La contraddizione, la disintegrazione
di una norma, la spinta alla scomposizione sono dunque elementi comuni
al comico e all'umorismo. Prendendo l'esempio della vecchia signora
imbellettata in modo grottesco, qui scoppia una risata spontanea, come
avvertimento immediato del fatto che essa "è il contrario
di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere".38
2.5. La vita nuda Abbiamo osservato, come da un primo punto vista
tutti i fenomeni comici sono stati segnalati da Pirandello come scomposizione
degli inasprimenti e dei falsi equilibri costruiti dall'enfasi. Basta
portare avanti questo discorso per pervenire al nucleo della sua concezione
della vita e della società: l'intera vita sociale e per lui composta
appunto di una catena di illusioni che danno corpo a forme e a meccanismi
che n'arresta il flusso naturale. 38. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p. 126. La società ha perfino creato un imponente
congegno mentale che cattura le espressioni umane nell'inganno e nelle
falsificazioni: si tratta della logica, arma con cui impedisce che ragionamenti,
discorsi e pensieri si sottraggono alla maschera per eccellenza. Per
Pirandello, come per Bergson, la maschera, la finzione, la forma, rappresentano
il danno, l'annientamento della "vita" più originale,
della durata, della profondità, ecc. ma se per Bergson tendeva,
almeno nel momento "ottimistico" prevalente ne Il riso, a
riconoscere all'insieme della società del suo tempo una disposizione
e una tensione di fondo verso l'elasticità, la pienezza sempre
rinnovatesi, il flusso continuo dello slancio vitale, lo scrittore siciliano
ha invece un atteggiamento radicalmente negativo di fronte alla società
stessa: se per Bergson il meccanico è solo una dimensione irregolare
che la società più cosciente ha la possibilità
di reprimere e di reinserire nei processi vitali, proprio attraverso
il riso, per Pirandello esso, designato soprattutto col nome di "forma",
è il segno di riconoscimento di tutta la vita sociale, a cui
l'unica alternativa possibile è in un al di là dalla società,
in un'improvvisa sospensione di ogni maschera, in un fulminante ed istantaneo
rapporto con la "vita nuda". 39. Ivi, pp. 154-155. Se la riflessione è un momento speciale
dell'umorismo "in senso stretto", una certa dose n'è
però presente anche nel comico. A differenza di quanto avviene
nelle altre forme artistiche, in cui la riflessione si nasconde e sembra
quasi volersi cancellare dall'immagine definitivamente realizzata, nell'umorismo
e nelle forme comiche in genere la riflessione e la vigilanza critica
sono esplicitamente presenti. Nel comico esse si limitano però
soltanto a "svalutare" leggermente le maschere e le "metafore"
che l'illusione ha costruito; nell'umorismo arrivano a prendere coscienza
delle motivazioni più interne che hanno prodotto quelle maschere,
cercano di partecipare alla loro "origine", deridendole e
nel frattempo sentendole parte di sé. La "scomposizione"
dissolve ogni eccessività di forma, smonta ogni congegno ideale:
nel comico simili disfacimenti possono apparire gratuiti, lasciandosi
guidare dalle leggi di un superfluo piacere, in una adempiuta indifferenza
intellettuale; nell'umorismo essi fanno leva su di una tensione e su
un'apertura sentimentale da parte del soggetto.
Per dimostrare, dunque, quanto la “filosofia”
di Pirandello sia in corrispondenza con le tematiche delle filosofie
novecentesche, abbiamo scelto qui di confrontarla, sia pure soltanto
su alcuni punti decisivi, con il pensiero di un filosofo-scrittore che,
come lo scrittore siciliano, spaziò nella sua produzione dal
romanzo al teatro (e che quindi, già per questo solo fatto, potrebbe
essergli paragonato su un piano letterario): Jean Paul Sartre. 40. J. P. Sartre, L'essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1964. Difatti, secondo il filosofo francese, è
proprio del per-sé mancare di essere: la sua “sostanza”
non è un qualche tipo di essere (altrimenti il per-sé
sarebbe un in-sé, un oggetto, una cosa), ma proprio assenza di
essere, non-essere, allo stesso modo che l’eroe di Uno, nessuno
e centomila scopre se stesso, al di sotto delle centomila apparenze
che lo definiscono socialmente, proprio come un nessuno. Tuttavia, come
il “nessuno” pirandelliano deve crearsi un’immagine
e costituirsi una maschera, così quel non-essere che alla radice
è il per-sé sartriano aspira smaniosamente a raggiungere
un essere stabile, a rapprendersi in un in-sé. E’ il momento, secondo Sartre, della rivelazione
della libertà: libertà radicale e innata al per-sé,
il quale è pura libertà, in quanto pura apertura ad un
essere che non è ancora. Una rivelazione che s'identifica peraltro,
secondo Sartre, con il sentimento dell’angoscia. L’angoscia
è una sorta di vertigine di fronte all'improvvisa rivelazione
della libertà, cioè del radicale non-essere e insieme,
ed è lo stesso, dell'apertura ad una molteplicità d'esseri
possibili. Come tale l’angoscia non è considerata da Sartre
un sentimento negativo e paralizzante, ma come la consapevolezza, certamente
dolorosa ma potenzialmente feconda, della stessa condizione esistenziale.
Anche in Pirandello, del resto, la scoperta da parte del personaggio
della propria falsità si accompagna spesso con un sentimento
doloroso e angosciante, che in taluni casi estremi può addirittura
portare al suicidio. A contrastare davvero e a fondo il per-sé
non può essere dunque l’in-sé, ma soltanto un altro
per-sé. “Altrui”, l’altro per antonomasia,
è nell’Essere e il nulla appunto l’altro essere umano,
che si rivolge all'Io e lo contempla. 42. Ivi, p. 355. Scrive Sartre: Io sono posseduto dall’altro; lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce, come è, lo vede come io non lo vedrò mai. L’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono.43 La corporeità diventa insomma il tramite
del rapporto con l’altro: ciò che permette all’altro
di vedermi e di impormi un essere che io non sono, ma che all’inverso
permette a me di vederlo a mia volta e di definirlo. Su questa base
Sartre elaborerà, nella terza parte dell’Essere e il nulla,
una ricca fenomenologia esistenziale delle possibili relazioni intersoggettive,
dall’amore all’odio, dall'autolesionismo (la rinuncia a
vederci diversamente da come mi vede l’altro) alla perversità
(la pretesa di obbligare l’altro a vedersi come io lo vedo). Cominciamo da quella che l'illusione fa a ciascuno di noi, dalla costruzione cioè che ciascuno per opera dell'illusione si fa di se stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d'incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.44 L'origine di quest'inganno sta nella falsa costruzione del rapporto individuale con l'Altro, in base ai codici comportamentali previsti dalla società. 43. Ivi, p. 447. Di fatti: Si mentisce psicologicamente come si mentisce socialmente. E il mentire a noi stessi, vivendo coscientemente solo la superficie del nostro essere psichico, è un effetto del mentire sociale.45 La realtà profonda dell'individualità è insolita e molto più fitta e multiforme, all'insaputa della coscienza, dell'immagine che ella gli da esternamente; è una realtà in un infinito stato di confusione, soggetta a definizioni spesso inaspettate, che pur nascendo dall'Io sono prodotte e esortate dal rapporto con l'altro: Non soltanto noi, quale ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da lungo oblio oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto, a un tumulto improvviso dello spirito, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato.46 La maschera è la prigione, che rinchiude
l'essenza della persona e testimonia l'esistenza di un dramma che si
gioca sulla tensione dello svelamento. Calata sul volto essa fa sì
che l'azione del soggetto si risolva nella comicità di una marionetta
che si contorce in preda a passioni, impulsi, sentimenti inaccessibili
all'altro per l'ostacolo frapposto da quest'espressione immutabile che
non corrisponde al gesto. Il sentimento del contrario è la capacità
critica di intuire la maschera come prigione dell'individualità
e di superarne la negazione, che essa rappresenta, dell'essere reale.
La coscienza dolente dell'inevitabile angoscia
destinata dalla natura all'umanità e la nozione di arte come
"smascheratrice" delle false apparenze della vita non sono
che due motivi che accomunano Leopardi e Pirandello, le affinità
sono verificabili sia nel confronto dirette degli scritti letterari
dei due autori, sia nell'analisi dei saggi teorici, il labirinto speculativo
dello Zibaldone nel caso del primo, i due cardini de L'umorismo e Arte
e scienza per il secondo. L'accostamento fra i due scrittori è
ulteriormente suggerito e giustificato da Pirandello stesso con i suoi
riferimenti diretti al pensiero del Leopardi, nel primo dei due saggi
sopra ricordati. Quanto più difficile è la lotta per la vita e più sentita in questa lotta la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco inganno. La simulazione della forza, dell'onesta, della simpatia, della prudenza, insomma d'ogni virtù massima della veracità, è una forma di adattamento, un abile strumento di lotta. L'umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della vita: si diverte a smascherarle; non se n'indigna: - è cosi!47 Queste nozioni saranno poi ribadite qualche pagina più avanti: Maschere, maschere ... Un soffio e passano, per dar
posto ad altre.
47. L. Pirandello,
L'umorismo, cit., p. 150. Leopardi dal canto suo aveva dato voce a simili convinzioni in alcune pagine zibaldoniane del settembre 1823, quando parlando dello scopo primario del dramma, aveva affermato come esso fosse quello "d'ispirare odio verso il delitto", suscitando nello spettatore pietà per chi è ingiustamente infelice, e come tale scopo fosse raggiunto solo nei drammi con il finale triste, dato che: Cosi va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità sono ambedue di chi non le merita. Ma nel mondo il felice ha per lo più il nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condanna morale de' felici e degli infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio e il disprezzo originario dal dramma, verso i malvagi benché felici, e viceversa.49 Qualche mese più tardi giudizi simili verranno confermate attraverso il personaggio di Eleandro durante un suo dialogo con Timandro; interrogato sulle ragioni della "sostanza e intenzione" dei suoi scritti, "colui che ha pietà degli uomini" elenca "diverse cose": Prima, l'intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione: alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi da dire quel che non penso, non mi sarebbe un grande sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e pochi la intendono. Io non veggo come non si parimente ridicolo questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascun sa che ormai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti interamente per nulla e da chi gli nomina e da chi gli gode nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschera, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce fanciullaggine: Cavinsi le maschere, e rimangono con i loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e saranno più a loro agio.50Smascherate cosi dall'arte le finte sembianze dell'esistenza, l'uomo trova svelata dinanzi a sé l'angosciosa condizione del suo esserci, e il fato crudele assegnatoli. E tanto più è grave quest'afflizione per Leopardi quanto più è marcato il "sentimento vitale", cioè la vita interna, ossia l'attività dell'anima. Se il progressivo raffinamento dell'attività speculativa porta nel poeta di Recanati all'aumento della consapevolezza umana della propria infelicità, parallelamente il pirandelliano "triste privilegio di sentirsi vivere" è il prodotto di quella "macchina infernale" che, attingendo "i sentimenti dal cuore" li trasforma e fissa in idee e nozioni assolute.
Afferma Pirandello: In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori dalle forme dell'umana ragione.51 Quest'istante di rivelazione che porta Pirandello
a comprendere l'intrinseco significato e valore dell'esistenza e alla
base anche del pensiero leopardiano della "contraddizione spaventevole"
che caratterizza l'esserci dell'uomo nel mondo, ovvero lo scarto incolmabile
fra il desiderio di felicità e la sua inarrivabilità.
Tale scarto fra il desiderio, e il dolore della felicità mancata,
diviene per Leopardi la conferma ultima della falsità del principio
di non contraddizione secondo cui, non potest idem simul esse et non
esse. Il valore negativo e autodistruttivo dell'attività razionale
e conoscitiva, conduce alla scoperta della succinta contraddizione,
viene ribadito anche da Pirandello nell'aforistico "accrescimento
di scienza, accrescimento di dolore". La concezione sfavorevole
della conoscenza trova spazio anche nelle ampie discussioni leopardiane,
che identificano nel divino "interdir chiaramente all'uomo il sapere"
un "ostacolo agl'incrementi della ragione, come quella di Dio conosceva
essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità.
e l’intersecarsi cooperante fra queste
due facoltà possono garantire una forma di sapere in cui la ragione
riconosca, paradossalmente, l’impossibilità di giungere
ad una conoscenza oggettiva della realtà circostante se non è
assistita dalla componente soggettiva di tale processo. Dato che una separazione possa farsi, parrebbe a tutti che l’arte dovesse piuttosto consistere nella seconda forma o attività, che implica la mutazione delle cose e la creazione, non la semplice comprensione di esse.52 Pirandello considera un “arbitrio” l’aver separato l’arte stessa, come conoscenza “intuitiva”, dalla conoscenza “intellettuale” propria della scienza: L’arbitrio consiste appunto nell’avere fin da principio staccato con un taglio netto le varie attività e funzioni dello spirito, che sono in intimo inscindibile legame in continua azione reciproca.53 Nella visione pirandelliana, l’esclusione degli “elementi soggettivi dello spirito” contribuisce a porre l’arte sullo stesso livello del meccanicismo; nella pratica artistica, insiste Pirandello, pensieri, volontà e sentimenti s’intrecciano continuamente, mentre l'affermata divergenza, fantasia e ragione non sarebbe altro che un rapporto prettamente dialettico di compenetrazione e rafforzamento reciproco: Funzioni e potenze antitetiche, insomma, son fantasia e logica, non fantasia e intelletto: antitetiche, ma non cosi nettamente separate (…) il suo piacere è uno strumento di precisione che calcola senza saperlo.54
Tali idee, sono molto vicine alle convinzioni
ricordate in precedenza, hanno in entrambi gli autori, una simile conseguenza
immediata: per Leopardi il far parte “di quest'università
che esaminiamo” impedisce all’uomo un totale distacco; il
suo essere condizionato, irrimediabilmente, da sentimenti, desideri,
bisogni “naturali”, nega la possibilità di ridurre
la realtà naturale ad un sistema di principi e di regole fisse
e immutabili. È un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate, forme che si muovono che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che pero possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità.55 4.1. Maledetto sia Copernico Questa visione comune della natura e della vita non richiudibili entro schemi esatti, e dell’impossibilità, per entrambi, di giungere a certezze stabili e incontrovertibili sono anch’esse il risultato della concezione, leopardiana e pirandelliana, del carattere negativo della conoscenza umana, il cui esempio forse più evidente è la concezione della rivoluzione copernicana, per Leopardi produttrice d’infelicità in quanto appunto frutto di quell’albero della scienza il contatto con il quale era stato vietato da Dio all’umanità. Introdotta all’inizio del quarto capitolo della Storia dell'astronomia e presentata poi umoristicamente nell’operetta morale intitolata al canonico polacco, la figura di Copernico ricopre già in Leopardi un ruolo che non è più di semplice astronomo, ma è già diventato filosofo; il canonico polacco, infatti, afferma: Primariamente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia tanto grande da persuadere alla terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; a darsi ad affaticare, invece di stare in ozio.56 55. L. Pirandello,
L'umorismo, cit., p 153. Tale dignità filosofica gli verrà poi riconosciuta anche dal sole a conclusione dell’operetta; egli stesso, infatti, ammette di essersi “voltato alla filosofia” e di cercare “in ogni cosa l’utilità”, per cui, non vedendo ragione alcuna di “anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva”, se vuole fare in modo che la Terra cominci a muoversi sarà necessario ricorrere “a un filosofo”, dato che i filosofi “sono cominciati a stare al di sopra” e godono ora di quel seguito di cui godevano un tempo i poeti. La nuova teoria eliocentrica era, infatti, destinata ad avere ripercussioni non solo in campo fisico e astronomico, ma anche, e soprattutto, sui sistemi intellettuali e metafisici, dato che la nuova teoria copernicana: Al pensatore rinnova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analogo al nostro, e quelli che saranno benché non ci appariscono intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima.57 In altre parole, come afferma Copernico stesso: Ma ora se vogliamo che la Terra si parta da quel suo
luogo di mezzo; se facciamo che ella corre, che essa si voltoli, che
essa si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più
né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi;
in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porta seco
che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno
sgombrare il trono, e lasciare l’impero, restandosene però
tuttavia Non ci sorprenderà se, alla luce di quest'affermazione, Mattia Pascal lancerà contro l’astronomo–filosofo quel “Maledetto sia Copernico” che apre l’omonimo romanzo pirandelliano dato che, quando ancora non si pensava che la Terra girasse “l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva cosi bella figura e cosi altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità”. Ma questo non è più possibile da quando si sa che la Terra non è immobile al centro dell’universo, tanto che Mattia giunge ad affermare che: Copernico, Copernico, Don Egilio mio, ha rovinato l’umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a consideraci anzi men che niente nell’Universo.59
Questo rovesciamento di prospettiva che la scoperta copernicana produce o, meglio, dovrebbe produrre, non basta tuttavia a togliere l’umanità l’illusione antropocentrica che l’anima: E gli uomini si contenteranno di essere quello che non sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto dell’ evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano.60 È cosi che essa persisterà nel proprio errore e il “mondo rovesciato” si rivela essere quello in cui gli esseri umani credono e in cui continuano a recitare i propri ruoli. E al sole non interessa che gli esseri umani continuano a credersi signori dell’universo, dato che questa recita, che dura da secoli, continuerà ancora grazie alla loro arroganza nel non arrendersi all’evidenza delle cose. È in quanto strappa all’essere umano la sua dignità che la rivoluzione copernicana, nella concezione di Mattia Pascal e di Don Eligio, è destinata a fallire: “ per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare le illusioni che la provvida natura ci aveva creato a fin di bene, non ci riusciamo”.61 La boria antropocentrica perduta se, come afferma Mattia: Anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle fornirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali.62 Ciononostante, Mattia si dimostrerà persuaso della necessità delle illusioni geo – e antropocentriche; e Pirandello, citando proprio Leopardi, dopo aver ricordato la scoperta copernicana che abbatte tali illusioni, coadiuvata dalla scoperta di “quel terribile strumento” che “ci diede il colpo di grazia”, che subissò la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze, sembra concludere che, per fortuna: E’ proprio della riflessione umoristica provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: - Ma è poi veramente cosi piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’inifinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?63 60. G. Leopardi,
Operette morali, cit., p. 454. Questa domanda retorica, che sembra snobilitare
l’essere umano, nello stesso modo in cui, leopardianamente, il
sistema copernicano “ abbassa l’idea dell’uomo e la
sublima”, mostra in realtà come tale concezione venga relativizzata,
dato che "è anche vero che poi egli si sente grande e un
umorista viene a saperlo, gli può capitare come a Gulliver, gigante
a Lilliput e balocco tra le mani dei giganti di Brobdingnag".64
Si dice con ragione, massime delle cose umane, e terrene, che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando cioè relativamente, come ancora parlano quelli che chiamano tutto piccolo, perché né piccola né grande è cosa niuna assolutamente.65 Il cannocchiale, la "macchinetta infernale"
viene pertanto ad assolvere a una duplice funzione: quella letterale,
appunto dello strumento scientifico, che serve ad osservare i movimenti
dei corpi celesti, insieme ad un'altra, che ne fa una metafora dell'umorismo
rendendolo una sorta di congegno/dispositivo artistico attraverso cui
si può interpretare il mondo non prima di averne osservata e
riconfermata l'irrilevanza. Da questo contrasto tra l'ideale e la realtà
l'umorista, riflettendo sulla costruzione illusoria che l'essere umano
fa di se stesso, vedrà "il lato serio e doloroso; smonterà
questa costruzione, ma non per riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene,
magari ridendo, comparirà".66 Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono. Il povere, l'ignorante, il rustico, il malato, il vecchio, non sono mai ridicoli mentre si contentano di parere tali, e si tengono nei limiti voluti da queste loro qualità, ma si bene quando il vecchio vuol parere giovane, il malato sano, il povero ricco, l'ignorante vuol fare dell'istruito, il rustico del cittadino [...] non per altra causa riesce insopportabile una quantità di persone, che sarebbero amabilissime solo che si contentassero dell'esser loro.67
Ricalcando la massima di La Rochefoucauld secondo
cui le qualità che si affetta di avere a renderci ridicoli, Leopardi
ribadisce come il "voler essere ciò che non siamo, guasta
ogni cosa al mondo". La potenza del riso pirandelliano, dal "riso
maligno" di Mattia Pascal a quello distruttore delle novelle Sua
maestà e L'imbecille, a quello minaccioso perché incontenibile
e inarrestabile di C'è qualcuno che ride è parallela alla
concezione leopardiana della potenza terribile del riso, dato che per
leopardi "chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri,
come chi ha il coraggio di morire".68 4.2. La favilla di Prometeo Come già Copernico è stato presentato,
da Leopardi e Pirandello, come umorista, cosi pure Prometeo, simbolo
dell'intelligenza e intraprendenza umana, viene introdotto come personaggio
umoristico dai due autori. Ma l'uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale, non però dovea mettersi in un altro ordine di cose, e considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre dignità non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori dalla loro sfera, e regolarsi con leggi appartate, e indipendenti dalle leggi universali.69 L'orgoglio del titano, convinto che la propria
invenzione degli esseri umani meritasse il riconoscimento degli altri
dei, sarà destinato a crollare in seguito agli incontri con vari
esempi di umanità e i loro comportamenti. 68. Ivi, p. 439. Il Prometeo pirandelliano, dal canto suo, è
responsabile di aver donato all'umanità la "favilla"
metaforica della ragione e della consapevolezza di noi stessi, che ci
fa vedere sperduti sulla terra" e, donandoci il "sentimento
della vita" si rivela la "causa finale" del suo stesso
supplizio, che è poi anche il supplizio dell'umanità tutta.
È questa la "lanternosofia" pirandelliana, la convinzione
che l'umanità sia parte dell'esistenza universale e la morte
non rappresenti tanto "l'estinzione della vita", quanto piuttosto
"il soffio che spegne nell'uomo questo lanternino" e il senso
"limitato, penoso, pauroso" che l'uomo ha della sua esistenza.
4.3. L'illusione come unica felicità possibile Il credere e continuo ricercare la felicità, come pure la convenzione che quest'ultima risieda nell'avanzare e progredire umano, è pertanto oggetto di dure critiche e di spunti polemici manifestati da Leopardi, fra le altre, nella satira delle "magnifiche sorti e progressive" della Ginestra, da Pirandello nel lapidario giudizio de L'umorismo, secondo cui "non è detto pur troppo che nel progresso consiste la felicità degli uomini" e nella lunga diatriba contro la civiltà delle macchine avviata da Mattia Pascal: Oh perché gli uomini [...] si affannano cosi a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il cosi detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care) che gioia in fondo proviamo noi, anche ammirevole? [...] Eppure la scienza [...] ha l'illusione di rendere più facile e comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine cosi difficile e complicate, domando io: - E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica? 70 La critica all'ideologia del progresso perpetuo
e necessario si trasforma in Leopardi in un'accusa di dannosità
in quanto porta a un peggioramento della condizione umana, che, nella
Storia del genere umano, vede la propria condizione "quasi gioconda"
rovinata dall' "oziosità e la vanità [...] che di
nuovo, dopo antichissimo esilio, occuparono la vita ", reintrodottevi
dai "molti ingegni trovati dagli uomini per provvedere agevolmente
e con poco tempo ai propri bisogni" (ossia dai progressi tecnici).71
Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là?72 Si riconferma cosi il carattere fondamentalmente positivo di questa "illusione" e delle molte altre che la affiancano. Benché esse siano degli errori, esse sono tuttavia errori naturali e necessari, ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti gli uomini, senza le quali la vita sarebbe misera e bruta cosa.
Uniche in grado di resistere al potere distruttivo della ragione, tanto anche se: Perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice, vigorissima, e continuando a vivere, tornado a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza acquistata[...] a dispetto della ragione e del sapere.73 L'importanza assegnata sia dal poeta di Recanati che da Pirandello alle illusioni, prima fra tutte quella della centralità umana nell'universo, conferma cosi la loro concezione negativa della filosofia soprattutto moderna, investita di valore distruttivo in quanto il suo progresso consiste nel dimostrare la falsità di ciò che si era creduto conoscere. Come spiega Leopardi, la filosofia antica era infinitamente superiore alla moderna, in quanto: I filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinatamente altro che disingannare e atterrare. [...] in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori.74 Anche Copernico, nella sua già discussa
veste di filosofo, dimostra che la teoria geocentrica non era altro
che un inganno, il suo stesso procedere superiore non insegna né
fabbrica, ma piuttosto disincanta e demoralizza. 73. G. Leopardi,
Zibaldone, cit., pp. 213-216. 5.
Pirandello e Croce: il problema del rapporto tra umorismo La controversia tra Pirandello e Croce, ha inizio nel 1908, quando Pirandello pubblica il suo saggio su L'umorismo. La critica pirandelliana è rivolta al passo della dottrina crociana, quello sull'impossibilità di definire rigorosamente l'umorismo. La preclusione di Croce alla definizione rigorosa dell'umorismo è criticata nella prima edizione del saggio su L'umorismo. Com'è noto la possibilità di definire rigorosamente l'umorismo è esclusa da Croce nell'Estetica del 1902. Egli vede l'umorismo come un concetto pseudo-estetico derivato dalla dottrina del comico, del simpatico, non ha posto nell'estetica, ma nella psicologia. Per questo motivo non gli si può competere una definizione filosofica, che è rigorosa, ma solo una definizione empirica, e perciò "mai unica", ma variabile "secondo i casi e gli intenti per i quali si foggia".75 Scrive Croce: Umorismo non è altro che un nome, dato ai gruppi di rappresentazioni, le quali non si possono mai staccare con un taglio netto da quelli affini, salvo ché arbitrariamente e per comodo.76 Tuttavia ogni sua definizione ha una certa utilità: Designa qualche aspetto e mette in rilievo qualche punto notevole degli infiniti atteggiamenti dell'animo umano.77 A Pirandello è però totalmente
ignota la distinzione crociana di concetti scientifici ed empirici.
Egli intende l'esattezza della definizione esclusivamente come precisione
filologica che determini lo spazio semantico della parola in relazione
alle altre parole, alla "cosa", e alla "concordia comune".
Per questo non trova un ostacolo nella posizione di Croce: la riporta
senza allarmarsene troppo rifiutandola con spiegazioni assai confuse.
Anche Pirandello ritiene che muovendo dalle caratteristiche delle opere
particolari, dell'umorismo risulti una conoscenza troppo compendiosa,
ma, come già aveva scritto in Alberto Cantoni, una conoscenza
esatta può essere raggiunta cogliendo il procedimento nell'anima
dell'autore.
Una seconda critica investe la presenza della riflessione nel procedimento umoristico. Proprio nel 1908 Croce con la conferenza di Heidelberg L'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte era giunto alla precisa delimitazione della sfera estetica escludendo la presenza del pensiero dall'attività artistica. Dal suo punto di vista vuole stringere perciò Pirandello nel dilemma: La riflessione che egli considera carattere distintivo dell'arte umoristica, o entra come materia dell'arte e il carattere distintivo cade, perché in qualsiasi opera d'arte, tragedia o commedia, il pensiero e la riflessione possono entrare insieme con la restante materia; ovvero rimane estrinseca all'opera d'arte, e allora si avrà critica e non mai arte, e di conseguenza nemmeno arte umoristica.79 Si dica il medesimo intorno al sentimento del contrario, il quale o è la visione dialettica della vita, e in questo caso entra in tutte le opere d'arte, giacché ogni contenuto di rappresentazione è contrarietà; ovvero è consecutivo a una data immagine artistica, e allora sarà l'accenno a un'altra rappresentazione, che sorge diversa dalla prima. Ma questa nuova rappresentazione o rimane intrinseca alla prima, ed è una nuova opera d'arte; ovvero si fonde con la prima, e allora si torna al caso, già enunciato, della vita, che è contrarietà, e dell'arte, che è perciò, sempre rappresentazione della realtà.80 Croce riconosce che a Pirandello interessa qualcosa che è veramente presente in alcune opere d'arte: Ma, giacché i fatti da lui considerati non erano altro se non sfumature dell'animo umano (individualmente distinte, astrattamente inafferrabili), è stato costretto a dare all'umorismo una definizione empirica... Ripeto, io non muovo guerra a queste definizioni... anzi, il mio modo di rifiutarle filosoficamente, è l'accettarle tutte, empiricamente.81 Dunque l'umorismo è un particolare individuale carattere psicologico: E' meglio che di umorismo si dovrebbe parlare di umoristi. Dell'arte si dà definizione, non dell'umorismo o d'una qualunque sfumatura psicologica, sempre individuale.82 Croce accetta dunque la distinzione fatta pure da Pirandello, tra umorismo e arte; ma respinge come assurdo l'opporre l'umorismo all'arte.
Tale opposizione è quanto invece preme a Pirandello. Egli, non pensa effettivamente di dar una definizione dell'arte in generale: oggetto del suo pensiero sono temi che possono essere definiti di "poetica", di un modo, diverso da un altro, di concepire la produzione poetica, in un particolare momento storico e culturale. Pirandello vuole opporre un'arte nuova, resa necessaria dall'esaurimento e dall'insufficienza delle ricerche che erano proprie in passato, e "arte" chiama generalmente l'idolo polemico che vuole abbattere, "umorismo" è il nuovo carattere distintivo delle odierne esigenze ed esperienze dell'artista moderno. Pirandello insiste su un suo modo di sentire vita e arte, che gli fa apparire esaurita ogni altra forma della recente tradizione. Si ribella alla definizione di Croce, che sia empirica ogni caratterizzazione da lui tentata dell'umorismo: ...Ordinariamente, nella concezione d'una opera d'arte, la riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi un specchio che si rimira. Volendo seguitar quest'immagine, si potrebbe dire che, nella concezione umoristica, la riflessione è, si, come uno specchio, ma d'acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza: il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista; il vapore freddo che n'esala è la fantasia spesso un po' fumosa dell'opera umoristica... Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico , ma - si badi - un critico sui generis, un critico fantastico: e dico fantastico non solamente nel senso bizzarro o di capriccioso, ma anche nel senso estetico della parola... La riflessione... di cui io parlo, non è un'opposizione del cosciente verso lo spontaneo; è una specie di proiezione della stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l'ombra dal corpo; ha tutti i caratteri della "ingenuità" o natività spontanea; e nel germe stesso della creazione.83 E ribatte, contro Croce: Come c'entra la riflessione sull'arte che è critica d'arte, e la riflessione sulla vita che è filosofia della vita? Io ho detto che ordinariamente, in generale, nella concezione d'una opera d'arte, cioè mentre uno scrittore la concepisce, la riflessione ha un ufficio che ho cercato di determinare quale speciale attività essa assume, non già sull'opera d'arte, ma in quella speciale opera d'arte che si chiama umoristica. Ebbene, perciò l'umorismo non è arte, o è più che arte?84 83. L. Pirandello,
L'umorismo, cit., pp. 132-133. Il sentimento del contrario, che si sforza di giustificare come un modo particolare di "fantasia", di creazione artistica, gli si caratterizza concretamente quando passa a parlare di sé, e di un'esperienza tutta concentrata e sospesa in un'interiorità vuota, dolente, che è quel dato essenziale, di cui progressivamente si viene determinando in concreti caratteri il suo sentimento dell'arte, e della vita: In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti, e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, quasi in una nudità arida, inquietante, ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori dalle norme dell'umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell'esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d'immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l'innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c'è qualcos'altro, a cui l'uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d'impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l'impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrastala stabilità, pur cosi vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita allora, che s'aggira, piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica.85 Queste sono situazioni che ci richiamano alle
opere d'arte di Pirandello, ma, più ancora, è il caso
di osservare che questo passo ha il tono, l'animo, la struttura caratteristica
di tante pagine della sua narrativa e, forse più ancora, del
suo dramma. Il dialogo è già nel carattere d'intima discussione,
di dibattito polemico, inerente alla sua esperienza, e che spontaneamente
diventa un carattere anzi uno dei più tipici caratteri espressivi
delle sue creazioni. Effettivamente è qui l'interesse della sua
difesa contro le obiezioni del Croce. Insiste su distinzioni terminologiche
che prendono in lui volta a volta quelle diverse sfumature che sono
proprie delle immagini, di confessioni, non di concetti. 85. Ivi, pp. 154-155. Egli oppone in astratto un tipo d'arte a tutti quelli che hanno avuto di recente o hanno attualmente. Nel discorso sul Verga parla di "forma" o di "genere letterario": non rivendica l'autonomia della creazione artistica, l'individualità d'ogni opera d'arte, vuole portare il principio della soggettività assoluta del creare artistico a negazione d'ogni realtà esterna, retorica o storica, genere letterario o "forma" relativa, e tradizione storica: Parlare di tradizione in arte, come di qualcosa da cui l'opera d'arte dipenda e senza la quale sia, se non proprio impossibile, assai difficile che nasca, è - come fa di solito - porre male una questione che va posta e - per conseguenza - risolta altrimenti. Ogni vera opera d'arte è e deve essere "unica", e dunque senza modelli. Non esiste per se stessa in astratto una forma "romanzo" o una forma "novella" che da sé, qua e là, e qua meno e la più, si evolvano; bensì quei tali romanzi, quelle tali novelle, ciascuno e ciascuna con la sua forma propria, da non potersi confondere con altre, se veramente opere d'arte. Considerando per sé le forme e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo con cui quelle narrazioni dovevano essere condotte, si veniva a cadere nello stesso errore intellettualistico della retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella ricerca esteriore dell'espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da cercare fuori per rendere ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso e che è anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti. 86 E prosegue: La questione infine della famosa "impersonalità"
o dell'oggettivismo nell'arte narrativa non ci voleva molto a vedere
che si riduceva a nient'altro che a un diverso atteggiamento dello spirito
nell'atto della rappresentazione, poiché l'arte, come coscienza
del soggetto, non può essere mai oggettiva se non a patto di
porre ciò che è 86. L. Pirandello,
Saggi, poesie e scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, p. 396. Proprio sull'indefinibilità dell'umorismo
si appunta la critica di Pirandello, ma le sue argomentazioni non sono
molto perspicue, né mirano al centro del problema. E sul punto
delle definizioni Croce ha un buon gioco nel concludere - recensendo
il saggio pirandelliano - che accetta le definizioni dal punto di vista
empirico, ma le rifiuta per quanto riguarda quello filosofico. Croce
ha l'abilità di appuntare la sua critica su alcuni punti deboli
della definizione pirandelliana dell'umorismo come quel "sentimento
del contrario" che, ad esaminarlo bene nella prima edizione del
saggio, non era, in effetti, molto chiaro. La fondamentale distinzione
tra "sentimento" e l'opposto "avvertimento del contrario",
con il relativo esempio della signora dai capelli ritinti, il più
noto emblema dell'umorismo, Pirandello lo aggiunge nella seconda edizione
del 1920, assieme ad alcuni passi in risposta a Croce. Come mostrano
anche altre modifiche o soppressioni, vuol dire che Croce ha colpito
nel segno; su alcuni punti, tuttavia, Pirandello persiste. Sulla definibilità
dell'umorismo, in primo luogo: con affermazioni di natura empirica (come
si può dimostrare, in assenza del concetto, che uno scrittore
è un umorista e non un comico?) e con un'aggiunta significativa
sugli stati psicologici, che sono forse indefinibili per un filosofo,
a differenza l'artista che non fa altro che definire e rappresentare
stati psicologici. E in secondo luogo, sull'intervento della riflessione
nella concezione dell'opera umoristica. Notando una certa opposizione
tra arte e umorismo, Croce chiede a Pirandello se l'umorismo è
arte o qualcosa di diverso (per esempio una riflessione sull'arte).
Pirandello ribatte riaffermando la validità delle sue teorie,
e dichiarando ingiustificata la critica ricevuta. Eppure non deve averla
ritenuta del tutto infondata se nell'ultimo capitolo ha soppresso la
seguente affermazione: "L'arte, in genere compone; l'umorismo decompone".
|