Filosofia del lontano

La tesi di laurea "Filosofia del lontano - la teoria dell'umorismo in Luigi Pirandello" di Mario Guarna, ha vinto il primo premio al concorso di saggi inediti del premio "Totus Tuus" dedicato a Giovanni Paolo II.


Concorso Nazionale di Filosofia


La mia Associazione


 

 

Queste pagine sono tratte dalla mia tesi di laurea:

"Filosofia del lontano: la teoria dell'umorismo in Luigi Pirandello"

 

I. L'umorismo tra estetica e filosofia

L'umorismo non si pone come compito di far confermare e
svolgere oggettivamente un contenuto secondo la natura essenziale,
di articolarlo e conchiuderlo artisticamente in questo sviluppo in base a lui stesso,
ma è l'artista stesso che penetra nell'argomento
.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica


1. Umorismo e filosofia

É difficile trovare, nella storia del pensiero occidentale, un concetto più sfuggente ed inafferrabile di quello rappresentato dal riso. Imprendibile ed inafferrabile non solo perché fondamentalmente contraddittorio, ambiguo, paradossale, eccentrico, che non è mai costante. Ma anche perché lo abbiamo sempre concepito, in connessione con le caratteristiche appena elencate, come l'opposto di ciò che è "serio", vale a dire di ciò che è univocamente accettato, stabile, valido, importante. In un certo senso, potremmo dire che il contrasto "serio/comico" sia stato quasi sempre pensato nei termini di un'opposizione del tipo "positivo/negativo", razionale/irrazionale".
In effetti, la filosofia occidentale incomincia il suo lungo cammino imboccando subito una strada "seria"; vale a dire interrogandosi sul principio 'stabile', 'vero' di tutte le cose: sull'Essere, sulla Verità, su ciò che è Bene, su ciò che è Giusto, ecc. ma questa strada si rivela piena d'insidie, le quali fanno letteralmente cadere in qualche buca il filosofo che, per seguire la sua serietà dei propri pensieri, non guardava dove metteva i piedi. Da questa scena comica, che, come ha ricordato H. Blumenberg1, suscita il riso della donna di Tracia, nasce la filosofia.
E nasce all'insegna di un improvviso contrasto, di un'imprevista divaricazione tra il sostanziale e l'immutabile del pensiero e l'accidentale ed il contingente di ciò che è pratico e mutevole. A partire da questa scena, la filosofia ha in genere contrapposto la serietà del suo lavoro, connesso alla necessità degli oggetti della sua riflessione (il Vero, il Bene, il Bello ecc.) alla comicità di ciò che è superficiale, scadente, inutile, mutevole ed accidentale.


1. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, Bologna, Il Mulino, 1988.


Questo pregiudizio ha giocato un ruolo decisamente negativo in ordine alla nascita ed agli sviluppi di una teoria filosofica del comico, il quale, tranne poche ma importanti eccezioni (Aristotele soprattutto), non riuscì ad imporsi come 'serio' argomento di riflessione, ma rimase sostanzialmente confinato nei sotterranei e nei sottoscala dei filosofi.
Tuttavia, nonostante la sua esclusione "dalla mappa ufficiale della città dei filosofi e dalla strutturazione del discorso ideale, il riso riecheggerà a lungo fuori dalle sue mura, nel luogo franco e dissacrato della commedia o dei riti carnevaleschi"2. A causa di ciò, il comico sarà spesso oggetto di una dissertazione marginale, episodica e frammentaria. Ed ogni volta che i grandi filosofi proveranno a spiegare perché si rida, giungeranno a risultati teoricamente instabili.3 Il fatto è che quella del comico è una natura per molti versi strana, atipica, paradossale. E se non la si affronta con strumenti adeguati, rischia di sfuggire ad ogni tentativo di definizione.
J. Ritter ha scritto che riflettere sul riso rende malinconici, perché, non appena si tenta di esaminare ciò che vi si manifesta, esso scompare.4 La sua paradossalità consiste, nel fatto che un elemento contingente, insensato, irrazionale ed accidentale, cerca d'insinuarsi dentro un luogo non suo; anzi, opposto: quello dell'immutabile, del razionale, di ciò che è stabile e sensato, assumendone, per un qualche tempo (il momento del riso) la fisionomia. Il riconoscimento di tale incursione, la percezione folgorante della convivenza di sensi contrastanti, è quella che si può definire l'esperienza comica che si manifesta nel riso.
Il comico è allora atipico e bizzarro nel senso che, come dicevamo prima, è sfuggente ed inafferrabile da parte delle reti troppo strette della ragione discorsiva; è sfuggente ed inafferrabile qualora lo si voglia catturare nella logica dell'identità, in quanto esso indica piuttosto l'intrusione del diverso nell'identico, ciò non esclude l'intervento di strumenti intellettivi. Per questo bisogna munirci, come si diceva prima, degli strumenti giusti. Altrimenti rischiamo di ripetere le ineccepibili genericità formulate da molti filosofi. Come ha rivelato V. Propp, nella maggioranza dei casi, le teorie del comico:

Costituiscono [...] dei morti filosofemi, e per di più esposti in una maniera così pesante che talvolta è addirittura impossibile capirle.5


2. R. Prezzo, Ridere la verità. Scena comica e filosofia, Milano, Cortina, 1995, p.14.
3. P. L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell'esperienza umana, Bologna, Il Mulino, 1999, p.12.
4. J. Ritter, Sul Riso, in: Soggettività, Genova, Marietti, 1997, p.29.
5. V. Propp, Comicità e riso, Torino, Einaudi, 1988, p. 3.


Forse la ragione di questi fallimenti, o delle incapacità di molte riflessioni sul comico, dipendono da una circostanza a cui non si è prestata molta attenzione; e cioè che esiste una marcata diversità fra gli strumenti di indagine adoperati, che sono quelli della 'seria' tradizione della speculazione occidentale, e la sua natura ritenuta affatto seria dell'oggetto comico indagato.
Forse, come ha notato M. Bachtin, molto è dipeso, nelle riflessioni sul riso, dal fatto che:

Il tono serio si è affermato come unica forma per esprimere la verità, il bene, e in generale, tutto ciò che è importante e significativo.6

La conseguenza più o meno esplicita di ciò fu che il comico è stato collocato in una zona insignificante, insensata; in una zona franca, festiva, in estasi in cui ci si riposa dalle fatiche e dalla serietà del lavoro di tutti i giorni, ma tuttavia con la consapevolezza che si tratta di una temporanea evasione, di un'effimera piacevolezza che dura solo lo spazio di una risata.



1.1. L'umorismo soggettivo di Hegel

Hegel è forse, tra i grandi filosofi dell'età moderna, quello nel quale l'opposizione serio/comico, intesa come opposizione significante/ insignificante, e, più in generale, filosofia/non-filosofia, si delinea con maggior nettezza di contorni.
Illuminanti, a tale riguardo, sono alcune pagine della Fenomenologia dello spirito, in cui, il conflitto fondamentale non è pensato da Hegel come tragico, secondo un modello che dal mondo classico trapassa nell'età moderna, ma come serio. Mentre in realtà la tragedia mette in scena, per cosi dire, un conflitto tra due opposte identità (l'uomo e il fato nel mondo antico; l'uomo e la storia nel mondo moderno), la serietà implica invece un contrasto irremovibile tra identico e diverso; tra positivo e negativo.
Così, la dialettica signoria/servitù e la dialettica della Bildung (che culminerà nell'esperienza radicale del terrore) sono conflitti seri e non semplicemente tragici perché a fronteggiarsi non sono due opposte identità (che alla fine superano il loro conflitto conciliandosi), ma il positivo ed il negativo, dal cui scontro dipende la vita o la morte dei contendenti, vale a dire ciò che vi è di più serio.

6. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1995, p. 83.


Se la serietà del conflitto tra positivo e negativo, e inteso come rapporto assolutamente e irrimediabilmente 'altro' del negativo rispetto al positivo, viene disegnato da Hegel in questi termini, non stupisce affatto poi che il comico sia inteso come ciò che è frivolo, come legame ''superfluo'' tra gli elementi in gioco. Ma questa superfluità è considerata come "vacuità", ossia svalutata come pura universalità astratta che ha perso il contenuto, coscienza "felice" che sarà superata dalla coscienza "infelice", la quale sarà tragicamente consapevole di quella perdita.
Per una di quelle strane ed apparentemente impertinenti associazioni cui Hegel ha abituato i suoi lettori nel corso dell'opera, la coscienza comica viene paragonata, nel capitolo dedicato alla Religione rivelata,7 allo "stato giuridico", che segna alla fine dell'eticità immediata del mondo antico, la nascita del diritto privato e della persona giuridica (ossia della maschera) in quanto singolarità semplice.8 Questa singolarità ha perso la essenzialità reale dello spirito etico; e simula, per cosi dire, una essenzialità apparente, soltanto formale. Dunque, è una coscienza illusoria, perché s'illude di possedere ciò che non ha. Ma questa verità viene rivelata dalla coscienza infelice, la quale, secondo Hegel:

Costituisce il rovescio ed il completamento della coscienza entro sé perfettamente felice, la coscienza comica.9

Quest'ultima ancora non sa di aver perso ogni rapporto col sostanziale. In questo contesto, non si può che registrare, nelle riflessioni, spesso marginali, dedicati al fenomeno comico, una sostanziale svalutazione di esso, considerato una sorta di rovesciamento parodistico della 'serietà' del lavoro filosofico.
In questo contesto possiamo notare, che, la concezione hegeliana del comico, è vista come un dileguarsi del sostanziale all'interno di una forma che pretende di possederlo, ma che in realtà è riempita dal contingente e dall'accidentale. Questo comporta che la coscienza comica si collochi, per il filosofo tedesco, in uno stadio che precede quello della coscienza tragica, e che pertanto deve essere superato.
Tuttavia, nonostante la sostanziale svalutazione che l'accompagna, il comico è già nelle pagine della Fenomenologia dello spirito caratterizzato da una situazione di contrasto, dalla percezione di un disaccordo. Nel paragrafo dedicato all'opera d'arte spirituale, infatti, la comicità nasce dal fatto che gli dei, dimenticando la loro natura eterna e di essere universali, si comportano come se fossero entità particolari.

7. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, Rusconi, 1999, p. 981.
8. Ivi, p. 983.
9. Ivi, p. 985.


L'incongruenza comica è in altre parole determinata dal fatto che essi sono "individui eterni e belli", liberi da ogni accidentalità. Nello stesso tempo, però, agiscono come elementi determinati, ossia come divinità particolari. Sostiene Hegel:

Questo rapporto costituisce un comico auto-oblio della loro natura eterna.10

E nelle pagine dedicate alla commedia, egli parla del contrasto ridicolo tra l'universalità del démos e la sua ordinaria particolarità, che diviene una situazione corrispondente e rovesciata rispetto a quella degli dei. Quel contrasto è ridicolo perché oppone all'opinione di sé degli individui, concepita come universale e necessaria, l'esistenza immediata di ciascuno, che è particolare e limitata.
Il comico nasce, pertanto, dall'incursione dell'accidentale nell'ordine necessario del razionale. Un ordine che è soltanto pensato come necessario, perciò produce idee elementari come quelle di Bello e Bene, le quali, proprio perché essenze semplici, cui non corrisponde un adeguato contenuto sostanziale, accettano di essere riempite da qualsiasi significato. Questo spettacolo è comico in quanto le idee di Bello e di Bene, essendo vuote di contenuto, diventano:

Lo spasso in balia dell'opinione e dell'arbitrio dell'individualità accidentale.11

Tracce di queste convinzioni, adeguata naturalmente al nuovo quadro dentro il quale Hegel si muove, si ritrovano nelle Lezioni di estetica.
In esse viene sottolineato il carattere soggettivo-dissolvente dell'atteggiamento umoristico, in quanto nell'umorismo è la persona dell'artista che esibisce direttamente se stessa, la propria soggettività.12 L'artista, cioè, penetra nel contenuto oggettivo e sostanziale, ma non lo svolge oggettivamente. Scrive Hegel:

Per questo la sua attività principale consiste nel far in sé decomporre e dissolvere, ad opera della potenza di trovate soggettive, lampi di pensiero e sorprendenti modi di concepire, tutto ciò che pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa della realtà.13

10. Ivi, p. 961
11. Ivi, p. 979.
12. G.W. F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 671.
13. Ivi, p. 673.


Ma, coerentemente con la sua considerazione negativa dell'ironia, Hegel riduce la carica dissolvente dell'umorismo a semplice gioco virtuosistico- formale; ad un quasi insignificante:

Incrociarsi di espressioni, modi di vedere e atteggiamenti soggettivi con cui l'autore porta allo sbaraglio se stesso e i suoi oggetti; ossia ad un comportamento poco serio!14

Tuttavia, anche se le trovate umoristiche, i lampi, le arguzie sono un mescolare al modo più imprevisto oggetti la cui relazione è qualcosa di interamente soggettivo; anche se quella umoristica è una soggettività priva della sostanza e del sostegno di un animo riempito di vera realtà, esiste, secondo Hegel, un umorismo più vero, più ricco di animo che riesce a far emergere l'essenziale della sua stessa casualità.15
Fare affiorare il sostanziale attraverso l'accidentale: questo sembra un aspetto importante per la prospettiva dentro la quale ci stiamo muovendo, perché sostanziale ed accidentale che s'incrociano, per usare i termini hegeliani, in maniera imprevista mediante i lampi del witz, danno vita a quelle collisioni di senso che esprimo l'assurdità, la paradossalità tipica del comico.



1.2. La riflessione come proiezione dell'attività fantastica

Sappiamo che Pirandello, all'inizio della seconda parte de L'umorismo, muove proprio dall'unilateralità di posizioni come quella, che abbiamo appena vista, di Hegel per sostenere che l'umorismo non può essere definito guardando ad uno solo dei lati che compongono il fenomeno. Sulla scorta di Lipps,(come abbiamo potuto notare nel capitolo precedente), Pirandello sostiene:

Che l'umorismo non è solo una disposizione d'animo, né, come vuole Hegel, un'attitudine speciale d'intelletto e di animo onde l'artista si pone lui stesso al posto delle cose, questa definizione che, a porsi bene a guardare da quel solo lato da cui Hegel lo guarda, ha tutta l'aria di un Rebus.16

La notissima definizione Pirandelliana dell'umorismo come sentimento del contrario significa che, nella composizione dell'opera d'arte umoristica, sentimento e riflessione stanno in un rapporto conflittuale.

14. Ivi, p. 672.
15. Ivi, p. 673.
16. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p.121.


Ma l'elemento 'contrario', il diverso, non dipende da una sovrapposizione (per esempio istintiva) che dall'esterno sia aggiunta al primo elemento, ossia il sentimento.
La riflessione, in altre parole, non è una specie di specchio in cui "il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l'immagine". Da questa scomposizione, "un altro sentimento sorge o spira; quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo, il sentimento del contrario".17 Segue il famoso esempio della vecchia signora imbellettata che immediatamente ci fa ridere, ma che, attraverso una riflessione intimamente legata alla sfera comica che subito ci colpisce, si trasforma in una umoristica capacità di sentire il contrario dentro il primo sentimento. La riflessione di cui parla Pirandello non è una semplice opposizione di ciò che è cosciente nei confronti di ciò che è spontaneo.
Essa è invece una specie di proiezione della stessa attività riflessiva, come l'ombra è una proiezione del corpo. L'ombra differisce dal corpo, ma è ad esso intimamente legata e non si può cogliere senza farvi riferimento. L'umorismo diviene allora la capacità di scorgere il differente, l'altro dentro l'identico. È per questo, che secondo Pirandello, ogni sentimento, ogni pensiero che sorga nell'umorista:

Si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene infine ad assumere lo stesso valore del sì.18

Dentro il primo sentimento, se ne insinua un altro opposto che:

Ne smorza il calore, ne smonta la serietà e induce a ridere.19

Oltre che il sentimento del contrario, l'umorismo si risolve come una "comicità drammatica, dove drammatico non significa la presenza alternativa, come nell'Ariosto (capitolo II, Ironia e umorismo: l'Orlando furioso e Don Chisciotte), vuoi del comico, vuoi del tragico, bensì la presenza simultanea così del comico come del tragico".20
L'umorismo pirandelliano, più in generale, s'inquadra in un'estetica che si propone di cogliere l'opera d'arte non già come qualcosa di già creato, prodotto compiuto che fissa, a sua volta, la vita in un momento determinato; ma come progettualità, divenire.

17. Ivi. 126.
18. Ivi, p. 139.

19. Ivi, p. 140.
20. G. Carchia, Retorica del sublime, Bari, Laterza, 1990, p.181.


L'umorismo è, da questo punto di vista, una teoria che cerca di catturare l'incessante mobilità degli aspetti successivi della vita, più che l'immobile rigidità dei suoi singoli momenti.
L'arte in genere, secondo Pirandello, 'astrae e concentra', cerca in poche parole di individuare l'essenza immutabile delle cose e degli eventi.
Costruisce caratteri unificando e sintetizzando elementi diversi e, a volte, contrastanti. L'atteggiamento umoristico, invece scompone, smonta, squarcia ciò che è apparentemente unitario, identico, sensato. Viceversa, un poeta epico o drammatico rappresenta il suo eroe componendo nell'unità del carattere gli elementi opposti, l'umorista fa esattamente il contrario: scompone il carattere nei suoi elementi contraddittori e lo rappresenta nelle sue incongruenze.
Chi ha cercato di chiarire la natura specifica del contrasto comico e soprattutto della sua incongruenza, è stato A. Schopenhauer.



1.3. La teoria schopenhaueriana del ridicolo

Nel famoso libro Il mondo come volontà e rappresentazione e nei Supplementi, il filosofo di Danzica, espone un'interessante 'Teoria del ridicolo' che sembra andare nella direzione sopra accennata.
Schopenhauer sviluppa un accenno alla comicità, in cui sostiene che il riso dipende da una incongruenza fra conoscenza intuitiva e quella astratta, ossia da una discordanza un concetto e l'oggetto reale al quale quel concetto ci fa pensare:

Il riso proviene sempre da un'incongruenza subitamente constatata fra un concetto e l'oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell'altro, ci fa pensare; e non è, appunto, se non l'espressione di questa incongruenza, la quale si verifica spesso quando due o più oggetti reali sono pensati sotto un solo concetto e sussunti nella sua identità; mentre poi la divergenza radicale, evidente per tutto il resto, ci fa capire che il concetto non conveniva che sotto un solo punto di vista.21

21. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mondadori, 1989, p. 108.


Come chiarirà meglio il testo dei Supplementi su accennato, il comico per Schopenhauer è sempre determinato dalla sussunzione, assurda e perciò inattesa, improvvisa, che l'autore comico fa di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneo per tutti gli altri aspetti tranne, chiaramente, quello che consente la sussunzione stessa, che è la causa per cui ridiamo:

L'origine del ridicolo è sempre la sussunzione, paradossale e perciò inaspettata, di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneo per tutti gli altri aspetti: pertanto, il fenomeno del riso indica sempre la percezione improvvisa di un'incongruenza tra quel concetto e l'oggetto reale che mediante esso viene pensato, quindi tra l'astratto e l'intuitivo.22

Quindi, possiamo asserire che, secondo Schopenhauer, il riso è sempre generato, dal fatto che qualcuno introduce, in maniera paradossale ed inattesa, un oggetto sotto un concetto che, generalmente gli è estraneo.
E tuttavia ci deve essere un lato, un aspetto, un tratto di quell'oggetto che consente di ricondurlo sotto quel concetto. Vi è un esempio di Schopenhauer che, spiega questa concezione:

Il Re incontra un Guascone che, nel rigore dell'inverno, indossa un misero abito estivo. Ciò suscita un lieve riso nel re, adeguato all'esiguità comica della circostanza (contrasto tra il freddo dell'inverno e la leggerezza estiva dell'abito). Quando però chiede al Guascone se non senta freddo con addosso quel vestito leggero si sente rispondere: "Se Vostra Maestà avesse indosso tutto quello che ho io sentirebbe un gran caldo". " E cosa tu hai addosso?" gli chiede incuriosito il Re. E il Guascone: "Tutto il mio guardaroba, Sire!".23

Qui scoppia la risata, spiega il filosofo, a causa della manifesta incongruenza fra l'esiguità dell'abito del contadino ed il concetto di 'guardaroba' sotto il quale viene assunto in maniera inattesa.(Inattesa perché generalmente il concetto di 'guardaroba' comprende sotto di sé, sussume una 'molteplicità di abiti', non uno solo).
Queste posizioni di Schopenhauer, si avvicinano per molti versi, a quella figura di comicità che Pirandello chiamerà "avvertimento del contrario", anche se lo scrittore siciliano si spingerà oltre (come abbiamo visto nel I capitolo, nel terzo paragrafo dal titolo Il sentimento del contrario) sino ad arrivare, attraverso la riflessione, al "sentimento del contrario".

22. Ivi, Supplementi al primo libro, p.852.
23. Ivi, p.853.



2. Pirandello e Bergson: la forma e la vita

Quello del riso è un motivo ispiratore comune tanto a Pirandello quanto a Bergson e che tuttavia essi trattano in maniera talora differente, considerate le diverse teorie nelle quali i due impostarono i propri concetti: da una parte un riso che include la riflessione, dall'altra il riso visto come funzione sociale.

Le ricerche di Bergson sulla natura della comicità sono racchiuse in un breve saggio, intitolato Il riso. Saggio sul significato del comico (1900). Quest'opera si situa in una fase importante dell'evoluzione del pensiero bergsoniano: si colloca, infatti, negli anni in cui da interessi in prevalenza psico-filosofici Bergson muove verso una filosofia della vita orientata metafisicamente. Il saggio sul riso accomuna dunque, come vedremo, queste due tendenze della speculazione del filosofo francese e rappresenta quindi una possibile introduzione al suo pensiero.
Nelle pagine di questo suo saggio, Bergson muove innanzi tutto da una constatazione di natura generale: se il riso è un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual è il fine che lo anima. Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento dobbiamo in primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade. E per Bergson vi sono almeno tre punti che debbono essere a questo proposito sottolineati:

1."Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano".24 Questa affermazione può lasciare di primo acchito perplessi: si può ridere, infatti, anche di un cappello o di un burattino di legno.
E tuttavia, se non ci fermiamo a questa constatazione in sé ovvia, dobbiamo riconoscere che in questi casi il rimando a ciò che è umano gioca un ruolo prevalente e tuttavia ineliminabile: di un cappello si ride perché vi si vede espresso un qualche capriccio estetico dell'uomo, così come nella marionetta l'immaginazione scorge i gesti impacciati di un uomo sgraziato.
Alla massima antica secondo la quale l'uomo è l'animale che ride si deve affiancarne dunque una moderna: l'uomo è un animale che fa ridere.

2.Il riso scaturisce solo di fronte a ciò che appartiene direttamente o indirettamente all'ambito propriamente umano; perché possa tuttavia scaturire è necessario che chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte.
Per ridere di una piccola disgrazia altrui bisogna far tacere per un attimo la pietà e la simpatia, e porsi come semplici spettatori o, per esprimersi come Bergson, come intelligenze pure: "il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore".25

3. Il riso, abbiamo osservato, chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che lega a colui di cui si ride. E tuttavia tutti sanno che il riso è un'esperienza corale: si ride meglio quando si è insieme ad altri, ed il riso è spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone.


24. H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Milano, Bur, 1991, p. 38.
25. Ivi, p. 39.


Scrive Bergson:

Il riso, cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano.26

Non è difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo allora, seguendo Bergson, far convergere i tre punti su cui abbiamo dinanzi richiamato l'attenzione in un'unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso:

Il "comico" nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza.27

E se le cose stanno così, se il riso come comportamento umano sorge nella vita associata, allora possiamo supporre che esso risponda a determinate esigenze della vita sociale.


2.1. Il riso e su ciò di cui si ride

Per far luce sul motivo che stimola a ridere non basta indicare quando ridiamo: occorre riflettere anche su ciò di cui ridiamo.
Orientarci in questa seconda parte delle analisi vuol dire innanzitutto lasciarci guidare dagli esempi, e tra questi uno gode di una posizione privilegiata proprio per la sua estrema semplicità: il gioco del diavolo a molla.
"Noi tutti abbiamo giocato [...] col diavolo che esce dalla sua scatola. Lo si schiaccia ed ecco si raddrizza; lo si ricaccia più in basso ed esso rimbalza più in alto, lo si scaccia sotto il coperchio ed esso fa saltare tutto"28 scrive Bergson, e propone subito dopo un'osservazione che ci spiega perché un simile gioco possa far ridere un bambino:

E' il conflitto di due ostinazioni, di cui l'una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all'altra, che se ne prende gioco.29

Del diavolo ci fa ridere la cieca ostinazione, il suo "saltar su" come una molla: È dunque il comportamento rigidamente meccanico di ciò che pure nel gioco vale come un essere dotato di un'autonoma volontà a far ridere il bambino.

26. Ivi, p. 40.
27. Ivi, p. 41.
28. Ivi, p. 76.
29. Ivi, p. 77.


Un comportamento rigidamente meccanico applicato a ciò che è (o immaginiamo che sia) vivente: su questa tesi bisogna riflettere perché per Bergson circoscrive in modo abbastanza preciso l'ambito del comico.
Molti esempi di comicità possono esserle immediatamente ricondotti: una marionetta fa ridere perché i suoi gesti sono rigidi e meccanici, ed è per questa stessa ragione che sembra ridicolo chi, giunto in fondo alle scale, tenta di scendere anche da un ultimo inesistente gradino, con un gesto goffo che non è motivato da un fine reale, ma solo dal meccanismo acquisito della discesa. Altri invece costringono a disporsi nella prospettiva propria dell'immaginazione che con le definizioni non procede con la stessa metodica precisione dell'intelletto: così, non bisogna stupirsi se il topos della meccanicità si estende per l'immaginazione fino a coprire campi che non sembrano in senso stretto spettarle. Per l'immaginazione una macchina è innanzitutto ripetitiva: di qui la comicità che sorge dalla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei pensieri.
"Due volti simili, ciascuno dei quali preso isolatamente non fa ridere, presi insieme fanno ridere per la loro somiglianza", diceva Pascal, e tutti sanno come un tic fisico o intellettuale (una frase, sempre la stessa, ripetuta troppo di sovente) sia causa di ilarità. Ma un meccanismo non è solo ripetizione: è anche, a dispetto del movimento - staticità.
Una macchina è inchiodata alla sua funzione: così, chi voglia fare una caricatura, saprà farci ridere solo a patto di ritrarre nel volto una piega espressiva solidificata in un tratto stabile della fisionomia, un'espressione cui la macchina dei lineamenti non sa più sottrarsi. Nell'immagine della macchina si cela infine anche l'idea dell'ostinazione cieca, del movimento che non sa più aderire al presente, ma segue una regola tanto fissa quanto sorda alle esigenze del momento. Basta dunque che quest'immagine si sovrapponga alla vita umana perché il riso si faccia avanti. Una simile sovrapposizione si ha per esempio:

Quando l'anima ci si mostrerà contrariata dai bisogni del corpo, da un lato la personalità morale con la sua energia intelligentemente variata, dall'altra il corpo stupidamente monotono interrompente sempre ogni cosa con la sua esigenza di macchina. Quanto più queste esigenze del corpo saranno meschine ed uniformemente ripetute, tanto più l'effetto sarà vivo.30

Non è dunque un caso, commenta Bergson, se i personaggi tragici debbono tenersi lontani da gesti che tradiscano le esigenze della corporeità, mentre il commediografo potrà senz'altro ottenere il riso del pubblico rappresentando i suoi personaggi comici in preda a un malanno o ad un fastidioso singhiozzo che interrompe ogni loro discorso.

30. Ivi, p. 63.


Proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso. La lettera, le regole e le convenzioni sociali, si sovrappone alla sostanza, la vita in comune, e dalla contemplazione di questo travestimento della vita sorge la comicità: il deputato che interpellando il ministro su di un assassinio famoso rammenta che il colpevole, dopo aver ucciso la vittima, è sceso dal treno in senso contrario alla sua direzione, violando così il regolamento, è, per Bergson, comico perché in lui l'adesione alla regola ha soffocato la comprensione della vita.
Ci potremmo soffermare ancora sulle strade che l'immaginazione comica percorre, e non sarebbe difficile mostrare come a partire dalle poche cose che abbiamo detto possiamo comprendere le ragioni che ci spingono a ridere dei travestimenti o, e su questo punto dovremo in seguito ritornare, dei vizi di natura morale. Per ora ci basta invece il risultato a cui siamo pervenuti: ciò di cui ridiamo è, per Bergson, tutto ciò in cui l'immaginazione scorge una sorta di meccanizzazione della vita.



2.2. Il riso come castigo sociale. La comicità morale e la funzione
sociale della commedia

Le considerazioni che si sono sin qui svolte ci permettono di formulare ora, senza ulteriori indugi, una risposta alla domanda da cui avevamo preso le mosse, la domanda sul fine che il riso persegue. Il riso, abbiamo osservato, deve avere una funzione sociale, e sorge, diciamo ora, dalla constatazione di una sorta di contraddizione: ciò che dovrebbe comportarsi in modo libero e vivo sembra assoggettare i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo.
Al riso spetta dunque il compito di sanare questo contrasto, richiamando quella parte della società (reale o immaginaria) che è colpevole di un comportamento rigido e ostinato ad un atteggiamento più elastico, ad uno stile di vita più duttile e desto. Il riso è quindi un castigo sociale, scrive Bergson:

È comico qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno. [...].

Tutte le piccole società che si formano sulla grande sono portate, per un vago istinto, ad inventare una moda per correggere e per addolcire la rigidità delle abitudini contratte altrove, e che sono da modificare. La Società propriamente detta non procede diversamente: bisogna che ciascuno dei suoi membri stia attento a ciò che gli è intorno, si modelli su quello che lo circonda, eviti infine di rinchiudersi nel suo carattere come in una torre di avorio. Perciò essa fa dominare su ciascuno, se non la minaccia di una correzione, per lo meno la prospettiva di un'umiliazione che per quanto leggera non è meno temibile. Tale si presenta la funzione del riso. Sempre un po' umiliante per chi ne è l'oggetto, il riso è veramente una specie di castigo sociale.31

Di questa funzione sociale del riso, la commedia è per Bergson un'espressione esemplare. Tra tutte le forme di comicità una in particolare sembra stringere un rapporto strettissimo con la sfera sociale: È la comicità morale. Le passioni spesso si prendono gioco di noi e subordinano tutte le nostre azioni ad un unico meccanismo. E' questo ciò che accade ai personaggi comici di molte commedie: lo spettatore è chiamato a ridere di un uomo, i cui gesti sembrano quelli di una marionetta, mossa da un burattinaio, la gelosia, l'avarizia, la pavidità, ecc., che è ben noto e di cui possiamo prevedere i movimenti. Di qui la forma di tante commedie che hanno per protagonisti non già individualità ben determinate, ma personaggi tipici, marionette dietro alle quali traspare la passione che li domina. Ma di qui anche il fine che si prefiggono: correggere, ridendo, i costumi. Alle forme propriamente artistiche, caratterizzate dall'assoluta assenza di finalità pratiche dobbiamo contrapporre dunque la commedia, che è, per Bergson, una forma artistica spuria, proprio perché affonda le sue radici nella vita e perché alla vita ritorna come ad un valore da salvaguardare e cui sottomettere i propri sforzi.
Vi è tuttavia una seconda ragione che spinge Bergson a dedicare tanto spazio alle considerazioni sulla commedia, ed è propriamente il carattere per così dire teatrale della comicità. Possiamo ridere soltanto quando la rigidità di un carattere o di un comportamento si fa gesto e si mostra apertamente agli occhi dell'immaginazione: non basta sapere che la paura della morte ha trasformato Argan in un burattino; per ridere bisogna vedere i gesti in cui la riduzione dell'uomo a cosa si fa spettacolo. Ma lo spettacolo comico implica uno spettatore che sappia per un attimo guardare alla vita come ad una rappresentazione teatrale:

Da ciò il carattere equivoco del comico. Esso non appartiene né completamente all'arte, né completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci di assistere alle loro vicende come ad uno spettacolo visto dall'alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perché ci danno la commedia.


31. Ivi, p. 122-123.


Ma d'altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l'abbiamo noi stessi; vi è sempre l'intenzione non confessata di umiliare e con ciò, è vero, di correggere, almeno esteriormente.32

Il riso sorge così come un gesto che per strappare la vita dalla sua negazione implica una momentanea sospensione della vita stessa: è dunque una contemplazione della vita volta a sanare i pericoli che la mettono in forse.


2.3. Il riso e la metafisica bergsoniana

Nonostante la sua indubbia coerenza e la sua capacità di far luce su di un aspetto importante del comico, il saggio di Bergson sembra lasciare aperto più di un problema. Ciò che in particolare colpisce il lettore è forse il trovarsi di fronte ad un saggio che con tanto vigore sottolinea la funzione sociale del riso, senza tuttavia sfociare in un'indagine di natura sociologica che, tra le altre cose, mostri quali sono i processi di acquisizione del riso. Perché almeno questo è chiaro: se il riso è un gesto sociale che appartiene alla forma di vita propria dell'uomo, allora deve esistere qualcosa come un addestramento al riso, un addestramento che insegni al bambino quali sono i vizi e i difetti di cui ridere e quando è opportuno riderne.
In realtà, basta dare uno sguardo alle brevi considerazioni che Bergson raccoglie intorno a questi problemi per renderci conto che le sue analisi si muovono in un'altra direzione. Se con Bergson indichiamo quali siano i "difetti" censurati dal riso siamo prima di tutto ricondotti a ciò che rende non tanto immorali, quanto poco adatti alla società, ma bisogna poi, in secondo luogo, rammentare che si trovano comiche anche le fisionomie buffe nelle quali l'immaginazione può scorgere un irrigidimento della vita espressiva, ma in cui sarebbe insensato scorgere un problema per la società. Se il riso è un castigo sociale, allora dobbiamo aggiungere che talvolta sembra castigare anche là dove non ce n'è alcun bisogno. Non solo: di un vizio morale come l'avarizia o la gelosia, non sempre si ride, poiché, osserva in primo luogo Bergson, il riso chiede che il vizio da castigare non coinvolga troppo da vicino e permetta di mantenere la posizione dello spettatore. In secondo luogo, tuttavia, Bergson attira l'attenzione sul fatto che uno stesso vizio, l'avarizia, per esempio, può talvolta suscitare il riso, talvolta il disprezzo.
Ora, la diversità della reazione non dipende solo dalla gravità della colpa, ma soprattutto dal modo in cui questa si palesa.

32. Ivi, p.119.


E ancora una volta il cammino da seguire è indicato dall'esperienza letteraria. Gli eroi tragici rivelano il loro carattere nelle azioni, e con azioni Bergson intende i comportamenti volontari della soggettività. Il personaggio comico invece si rivela nei gesti, e cioè in quei movimenti e in quei discorsi nei quali uno stato d'animo si manifesta senza scopo e senza alcuna premeditazione.
Nell'azione la persona intera è in gioco, nel gesto una parte isolata della persona si esprime all'insaputa o in disparte dell'intera personalità.
Il gesto è una sorta d'irruzione improvvisa dell'inconscio nella vita desta, ed è proprio questo carattere di casualità e d'immediatezza che fa apparire comico anche un vizio che si detesta. Ma se il comico si esprime nel gesto, anche il riso è a sua volta un gesto sociale33 di cui dobbiamo sottolineare l'immediatezza: non bisogna dunque stupirsi se:

Non ha tempo di osservare sempre dove tocca [... e se] talvolta castiga certi difetti come la malattia castiga certi eccessi, colpendo gli innocenti, risparmiando i colpevoli, mirando verso un risultato generale, senza preoccuparsi del singolo.34

Così, accanto alla tesi secondo la quale il riso sorge come prodotto di un'antica abitudine sociale, Bergson viene sempre più chiaramente sostenendo che "il riso è semplicemente l'effetto di un meccanismo datoci dalla natura".35 Ed in questa prospettiva, il problema di un addestramento al riso non si pone, poiché il riso ci appare come una manifestazione diretta della natura, come una difesa immediata della vita che è la vita stessa a donare, munendo di una sorta d'istintiva reazione alla comicità.
Se dunque Bergson non s'impegna sul terreno delle considerazioni sociologiche è proprio perché intende rispondere alla domanda sulle origini del riso sul terreno di un'autentica metafisica della vita, che del resto si fa percepire in vari passaggi del saggio bergsoniano. La nostra immaginazione scrive Bergson:

Ha una sua filosofia ben salda; in tutte le forme umane essa scorge lo sforzo di un'anima che foggia la materia, anima infinitamente agile, eternamente mobile sottratta al peso perché non è la terra che l'attira... Con la sua leggerezza alata quest'anima comunica qualcosa al corpo che anima: l'immaterialità che passa così nella materia è ciò che si chiama grazia. Ma la materia resiste e si ostina. Essa attira, e vorrebbe convertire la propria inerzia e fare degenerare in automatismo l'attività sempre sveglia di questo principio superiore. Laddove la materia riesce a far crassa esteriormente la vita dell'anima, irrigidendone il movimento ed ostacolandone la grazia, ottiene dal corpo un effetto comico.36

33. Ivi, p. 48.
34. Ivi, p.150.
35. Ibidem
36. Ivi, pp. 49-50.


Non è difficile scorgere in queste pagine (o in quelle in cui si deducono le leggi della comicità dalla diretta negazione della nozione metafisica di vita), il germe di quella filosofia che troverà poi nell'Evoluzione creatrice, la sua configurazione definitiva. La lotta tra l'ergere dinamico e multiforme della vita e la resistenza cieca e sorda che la materia le impone trova già qui, nella disamina sul comico, la sua prefigurazione. Così, non bisogna stupirsi se l'abitudine al riso è tanto antica da affondare le sue radici in un meccanismo della natura:37 il riso è sì un castigo sociale, ma le sue origini non appartengono alla società, ma alla vita stessa e debbono essere quindi viste sullo sfondo della lotta tra lo slancio vitale e l'inerzia della materia.



2.4. Comicità ed umorismo

L'umorismo pirandelliano s'iscrive in un'area culturale e difficile abbastanza vicina a quell'occupata dallo studio di Bergson: e non per un diretto rapporto di comprensione o discussione, ma piuttosto per la presenza di un nucleo ideologico molto simile a quello del filosofo francese, riassumibile in uno stesso concetto di "vita", come profondità, durata, coscienza e presenza a sé, autenticità, superamento di ogni forma meccanica.
Ma da quest'elemento ideologico comune, Pirandello svolge il suo discorso in termini molto diversi da quelli di Bergson, per un'esigenza di chiarire una poetica personale, che poneva particolari problemi ed atteggiamenti nei riguardi della società contemporanea. La natura di poetica del saggio Pirandelliano lo rende un caso particolarmente esemplare di contiguità tra teoria e forma d'uso: in esso la teoria proposta di un uso si possono vedere immediatamente intrecciate; e già la limitazione di argomento (l'umorismo e non il comico) è un indizio evidente di un orientamento teso a recuperare, al di là della pericolosa gratuità del comico, valori più drammaticamente impegnativi. Il proposito di Pirandello è quello di eliminare tutte le confusioni che si sono addensate sul termine "umorismo", e di arrivare ad una sua definizione precisa, che tolga di mezzo gli equivoci e le interferenze tra di esso e le altre sfere del comico.
Come sappiamo, nella seconda parte del saggio Pirandello formula con chiarezza una distinzione precisa tra "comico" in genere e "umorismo in senso stretto".


37. Ivi, p. 150.


Il comico è per lui un avvertimento del contrario, mentre nell'umorismo è un sentimento del contrario: entrambi sono dunque caratterizzati da un processo di scomposizione, disfacimento, contrasto, di cui si situano in due gradi diversi, di diversa intensità e di diverso interesse, ma comunque poggianti, su di una base perfettamente omogenea. La contraddizione, la disintegrazione di una norma, la spinta alla scomposizione sono dunque elementi comuni al comico e all'umorismo. Prendendo l'esempio della vecchia signora imbellettata in modo grottesco, qui scoppia una risata spontanea, come avvertimento immediato del fatto che essa "è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere".38
Oltre questo primo grado, puramente comico, può intervenire la riflessione, che svela la sofferenza e il dolore nascosti sotto quello squallido trucco, per una giovinezza ormai perduta: si avrà allora un atteggiamento più profondo, insieme di partecipazione e di distacco critico, che è appunto quello dell'umorismo. Rispetto al primo "avvertimento", l'umorismo va più a fondo nel cuore della contraddizione, scopre cosa è nascosto sotto la sua faccia ridicola: tra comico e umorismo c'è dunque una differenza di livelli di coscienza e di riflessione in relazione ad un fondo comune che è il "contrario".


2.5. La vita nuda

Abbiamo osservato, come da un primo punto vista tutti i fenomeni comici sono stati segnalati da Pirandello come scomposizione degli inasprimenti e dei falsi equilibri costruiti dall'enfasi. Basta portare avanti questo discorso per pervenire al nucleo della sua concezione della vita e della società: l'intera vita sociale e per lui composta appunto di una catena di illusioni che danno corpo a forme e a meccanismi che n'arresta il flusso naturale.
Queste forme sono maschere che rendono impossibile un rapporto reale con un qualcosa di profondo che invece giace dentro l'animo dell'uomo: qualcosa che può apparire solo all'improvviso nel contatto con un ente, in un'espressione immediata e bizzarra, in uno scatto "lampante" che rivela la nudità della vita più autentica, al di là d'ogni inganno e di qualsiasi maschera. Nella vita quotidiana la maschera predomina a tutti i livelli: ogni individuo riceve innumerevoli maschere, creandole molto spesso per propria iniziativa, o lasciandole imporre dagli altri, dai rapporti sociali, dalle formalità tradizionali.

38. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p. 126.


La società ha perfino creato un imponente congegno mentale che cattura le espressioni umane nell'inganno e nelle falsificazioni: si tratta della logica, arma con cui impedisce che ragionamenti, discorsi e pensieri si sottraggono alla maschera per eccellenza. Per Pirandello, come per Bergson, la maschera, la finzione, la forma, rappresentano il danno, l'annientamento della "vita" più originale, della durata, della profondità, ecc. ma se per Bergson tendeva, almeno nel momento "ottimistico" prevalente ne Il riso, a riconoscere all'insieme della società del suo tempo una disposizione e una tensione di fondo verso l'elasticità, la pienezza sempre rinnovatesi, il flusso continuo dello slancio vitale, lo scrittore siciliano ha invece un atteggiamento radicalmente negativo di fronte alla società stessa: se per Bergson il meccanico è solo una dimensione irregolare che la società più cosciente ha la possibilità di reprimere e di reinserire nei processi vitali, proprio attraverso il riso, per Pirandello esso, designato soprattutto col nome di "forma", è il segno di riconoscimento di tutta la vita sociale, a cui l'unica alternativa possibile è in un al di là dalla società, in un'improvvisa sospensione di ogni maschera, in un fulminante ed istantaneo rapporto con la "vita nuda".
Svelamento del contrario è dunque scomponimento della totalità e della fissità della maschera sociale, frantumazione dei suoi meccanismi, scoperta dell'ombra nascosta dietro di essa. I procedimenti comico-umoristici (basati sulla disarmonia, su interruzioni e riprese ripetitive, continue digressioni, giochi di sdoppiamento e di disgregazione) mettono in evidenza qualcosa che è "contrario" alla consuetudine e agli schemi illusori della vita sociale: il "comico" vero e proprio è, come abbiamo visto più volte, soltanto il superficiale ed esteriore avvertimento di questa contraddizione, è il rapporto con una rivelazione improvvisa già nelle cose, senza che il soggetto ridente ambisca a scendere a fondo dentro le ragioni di questa rivelazione, a vederne le linee estreme. Nel comico il "contrario" è solo un primo e parziale scoprirsi della maschera, un iniziale svelarsi della finzione dei rapporti umani: esso permette di transitare davanti a una collezione di marionette sociali, facendo avvertire la loro natura illusoria, ma senza pronunciarsi su cosa si cela dietro di esse, senza recuperare i sintomi segreti dell'oltre, del reale e profondo flusso della "vita nuda".
L'umorismo porta invece il "contrario" alle sue ultime conseguenze, trapassa le marionette e alla fine permette che avvenga il contatto con l'autenticità, con l'affiorare istantaneo di "una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori dalle forme dell'umana ragione"39 in seguito a quest'atteggiamento di un orizzonte nascosto e misterioso, le maschere della vita abituale perdono peso ed importanza, si riducono a nulla.

39. Ivi, pp. 154-155.


Se la riflessione è un momento speciale dell'umorismo "in senso stretto", una certa dose n'è però presente anche nel comico. A differenza di quanto avviene nelle altre forme artistiche, in cui la riflessione si nasconde e sembra quasi volersi cancellare dall'immagine definitivamente realizzata, nell'umorismo e nelle forme comiche in genere la riflessione e la vigilanza critica sono esplicitamente presenti. Nel comico esse si limitano però soltanto a "svalutare" leggermente le maschere e le "metafore" che l'illusione ha costruito; nell'umorismo arrivano a prendere coscienza delle motivazioni più interne che hanno prodotto quelle maschere, cercano di partecipare alla loro "origine", deridendole e nel frattempo sentendole parte di sé. La "scomposizione" dissolve ogni eccessività di forma, smonta ogni congegno ideale: nel comico simili disfacimenti possono apparire gratuiti, lasciandosi guidare dalle leggi di un superfluo piacere, in una adempiuta indifferenza intellettuale; nell'umorismo essi fanno leva su di una tensione e su un'apertura sentimentale da parte del soggetto.
L'umorismo può così dar luogo a controsensi più discrepanti, alla convivenza tra comico e tragico, tra riso e pianto. Esso non si limita a riconoscere le maschere di cui è fatta la realtà abituale, ma ne scopre i dispositivi di produzione, fino ad andare al di là di esse, ad accedere al punto in cui il "contrario" si dà nella sua semplicità, come vita indistinta e autentica, vertigine ed illuminazione, sprofondamento nella "profondità dell'arcano".
Pirandello si pone qui perfettamente in linea con quella tradizione metafisica che ha sempre visto la maschera come danno, perdita del soffio vitale umano e divino: da questo punto di vista la società è danno soprattutto perché è maschera, perché non le è più concesso il dono dell'autocoscienza immediata, dell'autenticità vitale. Il compito dell'arista umorista non sarà dunque quello di ridere di questa maschera, di stabilire con essa un contatto puramente demistificante, ma quello di dissolverla per recuperare nella poesia quella profondità vitale che la società sembra aver perduto.
L'umorismo è dunque un tramite artistico di questa "profondità": in esso l'intervento del "sentimento" può permettere di riscoprire i segni del più intenso flusso vitale, di quell'indice di valore improvviso che si dà rompendo gli schemi dei rapporti ordinari.



3. Pirandello e Sartre: l'essere e la maschera

Per dimostrare, dunque, quanto la “filosofia” di Pirandello sia in corrispondenza con le tematiche delle filosofie novecentesche, abbiamo scelto qui di confrontarla, sia pure soltanto su alcuni punti decisivi, con il pensiero di un filosofo-scrittore che, come lo scrittore siciliano, spaziò nella sua produzione dal romanzo al teatro (e che quindi, già per questo solo fatto, potrebbe essergli paragonato su un piano letterario): Jean Paul Sartre.
Il pensiero pirandelliano si sviluppa al suo inizio in una precisa (anche se non sempre programmaticamente consapevole) opposizione al positivismo e alla sua fiducia in un'oggettiva “solidità” dell’uomo e della sua “realtà” psicologica, allo stesso modo l’esistenzialismo sartriano entra fin da subito in polemica con ogni teoria sostanzialistica dell’individualità e della coscienza, sia essa idealistica o materialistica, secondo una prospettiva rigorosamente fenomenologica.
Tutte le prime due parti dell’Essere e il nulla40 sono, infatti, dedicate a definire la differenza di status ontologico fra la realtà esterna e quella della coscienza umana. Solo la realtà esterna, le cose, la materia sono pienamente: il loro essere coincide con se stesso, è essere che in sé coincide con se stesso e non è altro che se stesso. Sartre definisce questo essere delle cose “essere in sé”, o più brevemente “in-sé”. Al contrario, l’essere della coscienza umana non coincide né può mai coincidere pienamente con se stesso, perché è appunto coscienza di essere: fra la coscienza d'essere e l’essere della coscienza c’è sempre un minimo scarto, un nulla che tuttavia impedisce alla coscienza di identificarsi pienamente con il proprio essere, di solidificarsi nella durezza dell’in-sé. L’essere della coscienza è, infatti, sempre, inevitabilmente, davanti alla coscienza, per la coscienza; non risiede mai definitivamente nella coscienza. Questo essere particolare che è l’essere della coscienza umana viene pertanto definito da Sartre “essere per sé”, o più celermente “per-sé”. Sulla base di questa fondamentale dicotomia ontologica, il filosofo francese svolge un’accurata analisi fenomenologica delle modalità dell’agire umano, un'enorme esposizione ontologico-esistenziale, che sovente corrisponde stranamente con le “teorie” pirandelliane.
Le corrispondenze fra Sartre e Pirandello sono del resto rese possibili e semplificate da un opposto e armonico atteggiamento dei due scrittori: se da una parte, infatti, l’autore siciliano sente l’esigenza di fondare le vicende dei propri personaggi su una teorizzazione “filosofica”, dall’altra parte il pensatore francese sente l’esigenza di rendere più concrete le proprie teorie mediante una folta esemplificazione fatta di brevissimi spunti narrativi. Già la teoria pirandelliana della maschera viene confermata e nello stesso tempo approfondita se riguardata alla luce dell’opposizione sartriana fra il per-sé e l’in-sé.

40. J. P. Sartre, L'essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1964.


Difatti, secondo il filosofo francese, è proprio del per-sé mancare di essere: la sua “sostanza” non è un qualche tipo di essere (altrimenti il per-sé sarebbe un in-sé, un oggetto, una cosa), ma proprio assenza di essere, non-essere, allo stesso modo che l’eroe di Uno, nessuno e centomila scopre se stesso, al di sotto delle centomila apparenze che lo definiscono socialmente, proprio come un nessuno. Tuttavia, come il “nessuno” pirandelliano deve crearsi un’immagine e costituirsi una maschera, così quel non-essere che alla radice è il per-sé sartriano aspira smaniosamente a raggiungere un essere stabile, a rapprendersi in un in-sé.
Ma quest'aspirazione è destinata sempre all'insuccesso, poiché la stessa natura del per-sé rende impossibile una sua identificazione con l’in-sé. Posto che l’individuo fosse “davvero” qualcosa, un malato, un adultero, un borghese, il per-sé non potrà identificarsi pienamente con questo proprio essere, non fosse altro perché n'avrà coscienza, e quindi ne sarà fuori; saprà di non essere soltanto un malato o un adultero o un borghese: e se crederà di essere soltanto questo, sarà un ipocrita. All’inverso, se proietterà un essere fuori di sé e vi si identificherà (Sartre fa l’esempio di un cameriere che si comporta così puntualmente da cameriere da credere di essere davvero e soltanto un cameriere),41 cadrà ugualmente nell'ipocrisia, perché non vedrà di non essere quell’essere (quell’uomo, infatti, non è un cameriere allo stesso modo che un sasso è un sasso).
Insomma, per Sartre il per-sé è quell'essere che non è ciò che è, e che è ciò che non è; e se non se ne rende conto, è in malafede. Ciò non significa che il per-sé possa rassegnarsi a riposare nella propria radicale assenza di essere: già questa rassegnazione a non essere costituirebbe pur sempre una scelta, un progetto di essere. Il per-sé, infatti, deve aprirsi all’essere, non può non aprirsi all’essere per progettarvisi in una qualche maniera, anche se questo non gli permetterà mai di coincidere pienamente con un essere, di essere- un essere al modo dell’in-sé.
Per usare la terminologia pirandelliana: il nessuno che è l’uomo non può non apparire come qualcuno, non può non costituirsi come forma, non può non indossare una maschera, anche se d’altra parte non potrà mai identificarvisi appieno senza mentire a se stesso, questa è la rivelazione che fa l'umorismo pirandelliano.
C’è un momento, nelle vicende di personaggi pirandelliani, in cui questa necessità di fingere una forma appare come un'improvvisa rivelazione: talora inquietante, perché il personaggio si rende conto di non essere la propria figura, di non essere nessuno; talvolta invece eccitante, perché il personaggio scopre di poter essere chiunque, di potersi creare qualunque forma o maschera voglia.

41. Ivi, pp. 100-102.


E’ il momento, secondo Sartre, della rivelazione della libertà: libertà radicale e innata al per-sé, il quale è pura libertà, in quanto pura apertura ad un essere che non è ancora. Una rivelazione che s'identifica peraltro, secondo Sartre, con il sentimento dell’angoscia. L’angoscia è una sorta di vertigine di fronte all'improvvisa rivelazione della libertà, cioè del radicale non-essere e insieme, ed è lo stesso, dell'apertura ad una molteplicità d'esseri possibili. Come tale l’angoscia non è considerata da Sartre un sentimento negativo e paralizzante, ma come la consapevolezza, certamente dolorosa ma potenzialmente feconda, della stessa condizione esistenziale. Anche in Pirandello, del resto, la scoperta da parte del personaggio della propria falsità si accompagna spesso con un sentimento doloroso e angosciante, che in taluni casi estremi può addirittura portare al suicidio.
Ma è anche vero che in Pirandello l’angoscia è compensata da una fortissima esigenza vitalistica, rispetto alla quale, anzi, si configura spesso come una sorta di reazione difensiva. La stessa volontà di morire esprime sovente nei suoi personaggi il senso di una disperata e caparbia volontà di vivere, infatti, questi ultimi non rinuncerebbero brutalmente alla vita se non l'amassero. In Sartre e nella sua filosofia esistenziale, al contrario, questo infervorato vitalismo è del tutto assente, sia a causa della rigorosa razionalità del filosofo, sia anche a causa di una sua precisa scelta metodologica (la cosiddetta “epoché” fenomenologica) che lo porta a “mettere fra parentesi” ciò che non sia essenziale all’analisi.
Tale messa fra parentesi contribuisce alla chiarezza e alla sinteticità delle concrete situazioni esistenziali che così spesso vengono allestite nell’Essere e il nulla, situazioni che non appaiono complicate e confuse, come spesso accade in Pirandello, dall’intervento imprevedibile di slanci passionali o vibrazioni vitalistiche, ma invece risaltano per la loro nitidissima, paradigmatica semplicità.
Se l’angoscia in ogni caso non impedisce la libertà, essendone piuttosto l’espressione, la coscienza, c’è tuttavia un “limite”, in Sartre (e, come vedremo, in Pirandello), alla libertà del per-sé.
Tale limite non è tanto la realtà esterna, nella quale invece la libertà definisce i propri progetti e che “consacra” secondo il proprio punto di vista. La realtà, infatti, è per così dire lo spazio intimo, il “mondo” del per-sé, realizza la situazione entro cui il per-sé può realmente attuare la propria libertà; ma il per-sé la trascende, non vi si identifica né può identificarvisi, perché appartiene ad un altro tipo di essere: non è l’in-sè che è la realtà. Libertà e in-sé convengono a due “campi” diversi, incomunicabili.

A contrastare davvero e a fondo il per-sé non può essere dunque l’in-sé, ma soltanto un altro per-sé. “Altrui”, l’altro per antonomasia, è nell’Essere e il nulla appunto l’altro essere umano, che si rivolge all'Io e lo contempla.
Lo sguardo dell’altro, è un tema che Sartre analizza a fondo all’inizio della terza parte dell’Essere e il nulla, dedicata a quel peculiare terzo tipo di essere che è appunto "l’essere per gli altri", costituisce un’irruzione dentro il “mondo” umano: un’irruzione demolitrice perché di colpo ne riorganizza e ne modifica lo spazio secondo una misura “altra” da quello attuale. Non è più l'Io al centro di questo mondo, ma quell’altro per-sé di cui percepisce lo sguardo. E così come, in precedenza, ogni cosa del mondo era un semplice oggetto rispetto alla soggettività trascendente del nostro per-sé, allo stesso modo di colpo l’altro che ci guarda diventa centro trascendente del mondo e noi stessi siamo trasformati in oggetto: il nostro per-sé viene ridotto, nello sguardo dell’altro, a passivo in-sé.
Ma questo condensarsi in oggetto del sé davanti all’altro che lo guarda non significa il conseguimento di una rassicurante solidità esistenziale, quasi che finalmente il per-sé sia riuscito ad essere ciò che davvero è, a far coincidere insomma essere e coscienza di essere; al contrario, il per-sé si scopre diverso ancora una volta da ciò che vuole essere, si rivede, negli occhi dell’altro, come colui che è ciò che non è. Ma questo suo essere che non è il suo essere gli è imposto dall’altro, dalla libertà dell’altro, contro cui non può fare nulla perché, nello sguardo dell’altro, egli è ridotto ad oggetto, cioè a nulla.
In conclusione: alla vertigine angosciosa provocata dalla pluralità di possibilità che sono aperte dalla libertà, si aggiunge, nel rapporto con l’altro, la paura di fronte alla libertà istintiva e inafferrabile, “insaisissable”, dice Sartre, della soggettività altrui. Il per-sè è libertà esposta, fin da sempre, al rischio della libertà dell’altro. Ma questo rischio è ab origine insito al per-sé: la coscienza, il per-sé, è fin da sempre “per-sé-per-altri”.42
Ciò che è fondamentale, tuttavia, non è tanto che l’altro possa ridurre drasticamente e inaspettatamente con la sua la mia libertà, ma che possa conoscermi più veracemente di quanto io possa mai riuscirvi. Infatti, lo sguardo dell’altro mi vede come io non potrò mai vedermi, come io sarò per sempre a me stesso inattingibile: mi vede, cioè, come un corpo. E vedendo il mio corpo come io non lo posso vedere, mi dà una forma che io non so d'avere, mi definisce, mi domina.

42. Ivi, p. 355.


Scrive Sartre:

Io sono posseduto dall’altro; lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce, come è, lo vede come io non lo vedrò mai. L’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono.43

La corporeità diventa insomma il tramite del rapporto con l’altro: ciò che permette all’altro di vedermi e di impormi un essere che io non sono, ma che all’inverso permette a me di vederlo a mia volta e di definirlo. Su questa base Sartre elaborerà, nella terza parte dell’Essere e il nulla, una ricca fenomenologia esistenziale delle possibili relazioni intersoggettive, dall’amore all’odio, dall'autolesionismo (la rinuncia a vederci diversamente da come mi vede l’altro) alla perversità (la pretesa di obbligare l’altro a vedersi come io lo vedo).
Ma senza entrare in questa complessa tematica, ci appare sufficiente qui riconoscere nel discorso sartriano una straordinaria chiave interpretativa per comprendere molti episodi dell’opera pirandelliana basati su uno “sguardo” che giudica e definisce tanto gratuitamente quanto inesorabilmente la “verità” del personaggio. E la gratuità e quindi la relatività dello sguardo non n'attenua affatto la tragica brutalità, che nell’opera da questo punto di vista senz’altro simbolica, Uno, nessuno e centomila, è proprio legata al fatto che lo sguardo altrui scopre una verità, per quanto insignificante, “oggettiva” nel corpo del personaggio. E basta questa “oggettività” corporea a mettere in crisi definitivamente, le facili illusioni esistenziali del protagonista.
Nell'ultima parte del saggio su L'umorismo, queste illusioni sono viste da Pirandello, come le responsabili dell'arresto del flusso vitale che è insito in ciascuno di noi. Scrive Pirandello:

Cominciamo da quella che l'illusione fa a ciascuno di noi, dalla costruzione cioè che ciascuno per opera dell'illusione si fa di se stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d'incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.44

L'origine di quest'inganno sta nella falsa costruzione del rapporto individuale con l'Altro, in base ai codici comportamentali previsti dalla società.

43. Ivi, p. 447.
44. L. Pirandello, L'umorismo, cit., pp. 147-148.


Di fatti:

Si mentisce psicologicamente come si mentisce socialmente. E il mentire a noi stessi, vivendo coscientemente solo la superficie del nostro essere psichico, è un effetto del mentire sociale.45

La realtà profonda dell'individualità è insolita e molto più fitta e multiforme, all'insaputa della coscienza, dell'immagine che ella gli da esternamente; è una realtà in un infinito stato di confusione, soggetta a definizioni spesso inaspettate, che pur nascendo dall'Io sono prodotte e esortate dal rapporto con l'altro:

Non soltanto noi, quale ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da lungo oblio oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto, a un tumulto improvviso dello spirito, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato.46

La maschera è la prigione, che rinchiude l'essenza della persona e testimonia l'esistenza di un dramma che si gioca sulla tensione dello svelamento. Calata sul volto essa fa sì che l'azione del soggetto si risolva nella comicità di una marionetta che si contorce in preda a passioni, impulsi, sentimenti inaccessibili all'altro per l'ostacolo frapposto da quest'espressione immutabile che non corrisponde al gesto. Il sentimento del contrario è la capacità critica di intuire la maschera come prigione dell'individualità e di superarne la negazione, che essa rappresenta, dell'essere reale.
Quindi, possiamo affermare che l'umorismo è, quell'atteggiamento di smascheramento rivolto a rivelare i dispositivi che fanno arrestare in una personificazione fittizia dell'Io l'incessante flusso vitale della soggettività, levandone la parte irrazionale. Esso è altresì lo strumento per dissolvere questo potere paralizzante attraverso l'azione corrosiva del riso, vero e proprio fenomeno di "scarico", in senso freudiano, di una tensione accumulatesi e risolta in conquista di piacere ai danni del "penoso affetto" che l'aveva prodotta. Pertanto l'umorismo è capace, per sua natura, di ricreare il movimento laddove qualcosa ne aveva provocato l'arresto, e in questo viene proposto da Pirandello come causa di una concezione estetica che pone l'arte, al pari della vita, come prodotto dello Spirito nel suo incessante divenire.


45. Ivi, p. 150.
46. Ivi, p. 151.



4. Pirandello e Leopardi: l'umorismo come unico rimedio
all'infelicità umana

La coscienza dolente dell'inevitabile angoscia destinata dalla natura all'umanità e la nozione di arte come "smascheratrice" delle false apparenze della vita non sono che due motivi che accomunano Leopardi e Pirandello, le affinità sono verificabili sia nel confronto dirette degli scritti letterari dei due autori, sia nell'analisi dei saggi teorici, il labirinto speculativo dello Zibaldone nel caso del primo, i due cardini de L'umorismo e Arte e scienza per il secondo. L'accostamento fra i due scrittori è ulteriormente suggerito e giustificato da Pirandello stesso con i suoi riferimenti diretti al pensiero del Leopardi, nel primo dei due saggi sopra ricordati.
Lo scopo di questo paragrafo è pertanto di esaminare alcuni dei punti di coincidenza nella filosofia dei due autori, con particolare riguardo al ruolo e valore da loro assegnato alla conoscenza umana e alle implicazioni delle sue scoperte. Sulla funzione dell'arte come smascheratrice delle finte sembianze, Pirandello espone il suo pensiero nelle pagine de L'umorismo:

Quanto più difficile è la lotta per la vita e più sentita in questa lotta la propria debolezza, tanto maggiore si fa poi il bisogno del reciproco inganno. La simulazione della forza, dell'onesta, della simpatia, della prudenza, insomma d'ogni virtù massima della veracità, è una forma di adattamento, un abile strumento di lotta. L'umorista coglie subito queste varie simulazioni per la lotta della vita: si diverte a smascherarle; non se n'indigna: - è cosi!47

Queste nozioni saranno poi ribadite qualche pagina più avanti:

Maschere, maschere ... Un soffio e passano, per dar posto ad altre.
Quel povero zoppetto là ... chi è? Correre alla morte con la stampella ... La vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava un occhio ad un altro ... Gamba di legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può - la maschera esteriore. Perché dentro poi c'è l'altra, che spesso non s'accorda con quella fuori. E niente è vero! Vero il mare, si, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d'erba; ma l'uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, in quella tal cosa ch'egli in buona fede si figura d'essere: bello, buono, generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere, a pensarci. Si, perché un cane, poniamo, quando gli è passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l'uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se n'avvede; non può fare a meno d'atteggiarsi, anche davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che a bisogno di crede vere e di prendere sul serio.48

47. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p. 150.
48. Ivi, pp. 155-56.


Leopardi dal canto suo aveva dato voce a simili convinzioni in alcune pagine zibaldoniane del settembre 1823, quando parlando dello scopo primario del dramma, aveva affermato come esso fosse quello "d'ispirare odio verso il delitto", suscitando nello spettatore pietà per chi è ingiustamente infelice, e come tale scopo fosse raggiunto solo nei drammi con il finale triste, dato che:

Cosi va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità sono ambedue di chi non le merita. Ma nel mondo il felice ha per lo più il nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condanna morale de' felici e degli infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio e il disprezzo originario dal dramma, verso i malvagi benché felici, e viceversa.49

Qualche mese più tardi giudizi simili verranno confermate attraverso il personaggio di Eleandro durante un suo dialogo con Timandro; interrogato sulle ragioni della "sostanza e intenzione" dei suoi scritti, "colui che ha pietà degli uomini" elenca "diverse cose":

Prima, l'intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione: alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi da dire quel che non penso, non mi sarebbe un grande sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e pochi la intendono. Io non veggo come non si parimente ridicolo questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascun sa che ormai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti interamente per nulla e da chi gli nomina e da chi gli gode nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschera, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce fanciullaggine: Cavinsi le maschere, e rimangono con i loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e saranno più a loro agio.50Smascherate cosi dall'arte le finte sembianze dell'esistenza, l'uomo trova svelata dinanzi a sé l'angosciosa condizione del suo esserci, e il fato crudele assegnatoli. E tanto più è grave quest'afflizione per Leopardi quanto più è marcato il "sentimento vitale", cioè la vita interna, ossia l'attività dell'anima. Se il progressivo raffinamento dell'attività speculativa porta nel poeta di Recanati all'aumento della consapevolezza umana della propria infelicità, parallelamente il pirandelliano "triste privilegio di sentirsi vivere" è il prodotto di quella "macchina infernale" che, attingendo "i sentimenti dal cuore" li trasforma e fissa in idee e nozioni assolute.


49. G. Leopardi, Zibaldone, Milano, Garzanti, 1991, p. 345.
50. G. Leopardi, Operette morali, Napoli, Guida, 1990, pp. 426-427.


Afferma Pirandello:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori dalle forme dell'umana ragione.51

Quest'istante di rivelazione che porta Pirandello a comprendere l'intrinseco significato e valore dell'esistenza e alla base anche del pensiero leopardiano della "contraddizione spaventevole" che caratterizza l'esserci dell'uomo nel mondo, ovvero lo scarto incolmabile fra il desiderio di felicità e la sua inarrivabilità. Tale scarto fra il desiderio, e il dolore della felicità mancata, diviene per Leopardi la conferma ultima della falsità del principio di non contraddizione secondo cui, non potest idem simul esse et non esse. Il valore negativo e autodistruttivo dell'attività razionale e conoscitiva, conduce alla scoperta della succinta contraddizione, viene ribadito anche da Pirandello nell'aforistico "accrescimento di scienza, accrescimento di dolore". La concezione sfavorevole della conoscenza trova spazio anche nelle ampie discussioni leopardiane, che identificano nel divino "interdir chiaramente all'uomo il sapere" un "ostacolo agl'incrementi della ragione, come quella di Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità.
La favola di Psiche, secondo Leopardi testimonia che l'Anima [...] era felicissima senza conoscere, e il racconto della Genesi da cui, constatando come la causa immediata dell'infelicità umana sia attribuita al sapere, il poeta di Recanati deduce che "l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemico della felicità, la ragione è nemica della natura", rafforza cosi la convinzione del valore negativo della conoscenza e si contrappone all'affermazione socratica secondo cui "c'è un solo bene, il sapere, e un solo male, l'ignoranza". Questo valore negativo assegnato alla conoscenza e sapienza umana risale direttamente alla visione sfavorevole che Leopardi ha della filosofia/conoscenza, il cui progresso consiste secondo il Recanatese nello svelare e distruggere gli errori che di volta in volta qualificano le opinioni umane, mostrando di conseguenza “l’arido vero” della condizione umana.
La negatività della ragione umana, e dei risultati cui essa porta, può essere attenuta, nelle opinioni leopardiane, sono nel raggiungimento di una forma di pensiero che egli stesso definisce “ultrafilosofia”, che conoscendo il tutto e l’intimo delle cose, possa ravvicinare l’umanità alla natura grazie a una conciliazione della natura colla ragione;


51. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p. 154.


e l’intersecarsi cooperante fra queste due facoltà possono garantire una forma di sapere in cui la ragione riconosca, paradossalmente, l’impossibilità di giungere ad una conoscenza oggettiva della realtà circostante se non è assistita dalla componente soggettiva di tale processo.
Rivalutando così l’elemento soggettivo (ossia l’immaginazione e il sentimento), all’interno del procedimento conoscitivo l’alterità soggetto conoscente - oggetto conosciuto viene completamente riassorbita e nullificata.
Una siffatta visione trova la sua controparte artistica nella concezione leopardiana della “poesia sentimentale”, risultato della proficua ed equilibrata cooperazione di ragione e sentimento, figli “della filosofia, dell’esperienza, della cognizione dell’uomo e delle cose”, insomma del “vero”, e contrapposta alla “poesia immaginativa” delle epoche più antiche, ispirata invece dal falso. Concetti non molto dissimili da questi li esprime Pirandello quando, in apertura del saggio Arte e scienza, rimproverando Croce per aver accolto l’arte come attività teoretica, e non pratica, dello spirito, nota che:

Dato che una separazione possa farsi, parrebbe a tutti che l’arte dovesse piuttosto consistere nella seconda forma o attività, che implica la mutazione delle cose e la creazione, non la semplice comprensione di esse.52

Pirandello considera un “arbitrio” l’aver separato l’arte stessa, come conoscenza “intuitiva”, dalla conoscenza “intellettuale” propria della scienza:

L’arbitrio consiste appunto nell’avere fin da principio staccato con un taglio netto le varie attività e funzioni dello spirito, che sono in intimo inscindibile legame in continua azione reciproca.53

Nella visione pirandelliana, l’esclusione degli “elementi soggettivi dello spirito” contribuisce a porre l’arte sullo stesso livello del meccanicismo; nella pratica artistica, insiste Pirandello, pensieri, volontà e sentimenti s’intrecciano continuamente, mentre l'affermata divergenza, fantasia e ragione non sarebbe altro che un rapporto prettamente dialettico di compenetrazione e rafforzamento reciproco:

Funzioni e potenze antitetiche, insomma, son fantasia e logica, non fantasia e intelletto: antitetiche, ma non cosi nettamente separate (…) il suo piacere è uno strumento di precisione che calcola senza saperlo.54


52. L. Pirandello, Arte e scienza, in: Saggi, poesie, scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, p. 167.
53. Ibidem.
54. Ivi, p. 178
.


Tali idee, sono molto vicine alle convinzioni ricordate in precedenza, hanno in entrambi gli autori, una simile conseguenza immediata: per Leopardi il far parte “di quest'università che esaminiamo” impedisce all’uomo un totale distacco; il suo essere condizionato, irrimediabilmente, da sentimenti, desideri, bisogni “naturali”, nega la possibilità di ridurre la realtà naturale ad un sistema di principi e di regole fisse e immutabili.
Per Pirandello la vita:

È un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate, forme che si muovono che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che pero possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità.55



4.1. Maledetto sia Copernico

Questa visione comune della natura e della vita non richiudibili entro schemi esatti, e dell’impossibilità, per entrambi, di giungere a certezze stabili e incontrovertibili sono anch’esse il risultato della concezione, leopardiana e pirandelliana, del carattere negativo della conoscenza umana, il cui esempio forse più evidente è la concezione della rivoluzione copernicana, per Leopardi produttrice d’infelicità in quanto appunto frutto di quell’albero della scienza il contatto con il quale era stato vietato da Dio all’umanità. Introdotta all’inizio del quarto capitolo della Storia dell'astronomia e presentata poi umoristicamente nell’operetta morale intitolata al canonico polacco, la figura di Copernico ricopre già in Leopardi un ruolo che non è più di semplice astronomo, ma è già diventato filosofo; il canonico polacco, infatti, afferma:

Primariamente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia tanto grande da persuadere alla terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; a darsi ad affaticare, invece di stare in ozio.56

55. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p 153.
56. G. Leopardi, Operette morali, cit., p.450.


Tale dignità filosofica gli verrà poi riconosciuta anche dal sole a conclusione dell’operetta; egli stesso, infatti, ammette di essersi “voltato alla filosofia” e di cercare “in ogni cosa l’utilità”, per cui, non vedendo ragione alcuna di “anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva”, se vuole fare in modo che la Terra cominci a muoversi sarà necessario ricorrere “a un filosofo”, dato che i filosofi “sono cominciati a stare al di sopra” e godono ora di quel seguito di cui godevano un tempo i poeti. La nuova teoria eliocentrica era, infatti, destinata ad avere ripercussioni non solo in campo fisico e astronomico, ma anche, e soprattutto, sui sistemi intellettuali e metafisici, dato che la nuova teoria copernicana:

Al pensatore rinnova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analogo al nostro, e quelli che saranno benché non ci appariscono intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima.57

In altre parole, come afferma Copernico stesso:

Ma ora se vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corre, che essa si voltoli, che essa si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porta seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgombrare il trono, e lasciare l’impero, restandosene però tuttavia
co’ loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche.58

Non ci sorprenderà se, alla luce di quest'affermazione, Mattia Pascal lancerà contro l’astronomo–filosofo quel “Maledetto sia Copernico” che apre l’omonimo romanzo pirandelliano dato che, quando ancora non si pensava che la Terra girasse “l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva cosi bella figura e cosi altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità”. Ma questo non è più possibile da quando si sa che la Terra non è immobile al centro dell’universo, tanto che Mattia giunge ad affermare che:

Copernico, Copernico, Don Egilio mio, ha rovinato l’umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a consideraci anzi men che niente nell’Universo.59


57. G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 84.
58. G. Leopardi, Operette morali, cit., p 453.
59. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in: Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, 1957, pp. 268-269.


Questo rovesciamento di prospettiva che la scoperta copernicana produce o, meglio, dovrebbe produrre, non basta tuttavia a togliere l’umanità l’illusione antropocentrica che l’anima:

E gli uomini si contenteranno di essere quello che non sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto dell’ evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano.60

È cosi che essa persisterà nel proprio errore e il “mondo rovesciato” si rivela essere quello in cui gli esseri umani credono e in cui continuano a recitare i propri ruoli. E al sole non interessa che gli esseri umani continuano a credersi signori dell’universo, dato che questa recita, che dura da secoli, continuerà ancora grazie alla loro arroganza nel non arrendersi all’evidenza delle cose. È in quanto strappa all’essere umano la sua dignità che la rivoluzione copernicana, nella concezione di Mattia Pascal e di Don Eligio, è destinata a fallire: “ per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare le illusioni che la provvida natura ci aveva creato a fin di bene, non ci riusciamo”.61 La boria antropocentrica perduta se, come afferma Mattia:

Anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle fornirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali.62

Ciononostante, Mattia si dimostrerà persuaso della necessità delle illusioni geo – e antropocentriche; e Pirandello, citando proprio Leopardi, dopo aver ricordato la scoperta copernicana che abbatte tali illusioni, coadiuvata dalla scoperta di “quel terribile strumento” che “ci diede il colpo di grazia”, che subissò la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze, sembra concludere che, per fortuna:

E’ proprio della riflessione umoristica provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: - Ma è poi veramente cosi piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’inifinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?63

60. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 454.
61. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in: Tutti i romanzi, cit., p. 269.
62. Ibidem.
63. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p.159.


Questa domanda retorica, che sembra snobilitare l’essere umano, nello stesso modo in cui, leopardianamente, il sistema copernicano “ abbassa l’idea dell’uomo e la sublima”, mostra in realtà come tale concezione venga relativizzata, dato che "è anche vero che poi egli si sente grande e un umorista viene a saperlo, gli può capitare come a Gulliver, gigante a Lilliput e balocco tra le mani dei giganti di Brobdingnag".64
Ad una concezione ordinata del cosmo se ne sostituisce pertanto una relativistica, per cui non solo ogni essere perde il suo posto stabilito nella gerarchia delle cose, ma non esistono nemmeno più valori assoluti. Lo stesso relativismo diviene un potente principio gnoseologico, tanto che sostiene Leopardi:

Si dice con ragione, massime delle cose umane, e terrene, che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando cioè relativamente, come ancora parlano quelli che chiamano tutto piccolo, perché né piccola né grande è cosa niuna assolutamente.65

Il cannocchiale, la "macchinetta infernale" viene pertanto ad assolvere a una duplice funzione: quella letterale, appunto dello strumento scientifico, che serve ad osservare i movimenti dei corpi celesti, insieme ad un'altra, che ne fa una metafora dell'umorismo rendendolo una sorta di congegno/dispositivo artistico attraverso cui si può interpretare il mondo non prima di averne osservata e riconfermata l'irrilevanza. Da questo contrasto tra l'ideale e la realtà l'umorista, riflettendo sulla costruzione illusoria che l'essere umano fa di se stesso, vedrà "il lato serio e doloroso; smonterà questa costruzione, ma non per riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene, magari ridendo, comparirà".66
Questo stesso "sentimento del contrario" è pure all'origine del ridicolo leopardiano:

Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono. Il povere, l'ignorante, il rustico, il malato, il vecchio, non sono mai ridicoli mentre si contentano di parere tali, e si tengono nei limiti voluti da queste loro qualità, ma si bene quando il vecchio vuol parere giovane, il malato sano, il povero ricco, l'ignorante vuol fare dell'istruito, il rustico del cittadino [...] non per altra causa riesce insopportabile una quantità di persone, che sarebbero amabilissime solo che si contentassero dell'esser loro.67


64. Ibidem.
65. G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 84.
66. L. Pirandello, L'umorismo, cit., p. 148.
67. G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 242
.


Ricalcando la massima di La Rochefoucauld secondo cui le qualità che si affetta di avere a renderci ridicoli, Leopardi ribadisce come il "voler essere ciò che non siamo, guasta ogni cosa al mondo". La potenza del riso pirandelliano, dal "riso maligno" di Mattia Pascal a quello distruttore delle novelle Sua maestà e L'imbecille, a quello minaccioso perché incontenibile e inarrestabile di C'è qualcuno che ride è parallela alla concezione leopardiana della potenza terribile del riso, dato che per leopardi "chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire".68
Il riso diviene cosi nei due autori il rimedio all'infelicità umana; ma mentre il riso umoristico di Pirandello è simpatetico nei confronti
dell'essere umano, quello leopardiano spazia dalla simpatia alla vendetta: se Eleandro/Leopardi tiene "per fermo che il ridere dei nostri mali sia l'unico profitto che se ne possa cavare, e l'unico rimedio che vi si trovi", la vendetta sul mondo è lo scopo primario del riso maligno, sarcastico e disperato che anima le Operette morali.


4.2. La favilla di Prometeo

Come già Copernico è stato presentato, da Leopardi e Pirandello, come umorista, cosi pure Prometeo, simbolo dell'intelligenza e intraprendenza umana, viene introdotto come personaggio umoristico dai due autori.
Protagonista, col suo ingenuo ottimismo, del "disperato umorismo" di
un'operetta leopardiana Prometeo è il bersaglio dell'ironia del suo autore contro quella convinzione che vede consistere la perfezione dell'essere umano in una superiorità e diversità dall'ordine naturale degli esseri:

Ma l'uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale, non però dovea mettersi in un altro ordine di cose, e considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre dignità non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori dalla loro sfera, e regolarsi con leggi appartate, e indipendenti dalle leggi universali.69

L'orgoglio del titano, convinto che la propria invenzione degli esseri umani meritasse il riconoscimento degli altri dei, sarà destinato a crollare in seguito agli incontri con vari esempi di umanità e i loro comportamenti.

68. Ivi, p. 439.
69. Ivi, p. 328.


Il Prometeo pirandelliano, dal canto suo, è responsabile di aver donato all'umanità la "favilla" metaforica della ragione e della consapevolezza di noi stessi, che ci fa vedere sperduti sulla terra" e, donandoci il "sentimento della vita" si rivela la "causa finale" del suo stesso supplizio, che è poi anche il supplizio dell'umanità tutta. È questa la "lanternosofia" pirandelliana, la convinzione che l'umanità sia parte dell'esistenza universale e la morte non rappresenti tanto "l'estinzione della vita", quanto piuttosto "il soffio che spegne nell'uomo questo lanternino" e il senso "limitato, penoso, pauroso" che l'uomo ha della sua esistenza.
Si rivela cosi la paradossale contraddizione della condizione umana, artefice, tramite l'uso del lanternino di cui è dotata, della propria infelicità. La "favilla" che aliena l'umanità dall'esistenza e dalla natura la allontana dalla felicità cui tanto desidera: mostrandole la sua insignificanza (tramite la rivoluzione copernicana) o col suo esercizio, scoprendo la contraddizione implicita dell'esistenza: l'impossibilità della felicità. L'impostazione di base della Scommessa di Prometeo è pertanto l'impossibilità che la natura avesse voluto l'infelicità umana, che è pertanto dovuta all'allontanamento dello stato naturale, al processo di civilizzazione ritenuto invece universalmente la dimostrazione della capacità di perfezionarsi dell'umanità; l'assenza riscontrata dalla semi-divinità di un grado seppure minimo di "stato naturale" nell'umanità rappresenta proprio la dimostrazione ultima della contraddittorietà della natura.



4.3. L'illusione come unica felicità possibile

Il credere e continuo ricercare la felicità, come pure la convenzione che quest'ultima risieda nell'avanzare e progredire umano, è pertanto oggetto di dure critiche e di spunti polemici manifestati da Leopardi, fra le altre, nella satira delle "magnifiche sorti e progressive" della Ginestra, da Pirandello nel lapidario giudizio de L'umorismo, secondo cui "non è detto pur troppo che nel progresso consiste la felicità degli uomini" e nella lunga diatriba contro la civiltà delle macchine avviata da Mattia Pascal:

Oh perché gli uomini [...] si affannano cosi a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il cosi detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care) che gioia in fondo proviamo noi, anche ammirevole? [...]

Eppure la scienza [...] ha l'illusione di rendere più facile e comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine cosi difficile e complicate, domando io: - E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica? 70

La critica all'ideologia del progresso perpetuo e necessario si trasforma in Leopardi in un'accusa di dannosità in quanto porta a un peggioramento della condizione umana, che, nella Storia del genere umano, vede la propria condizione "quasi gioconda" rovinata dall' "oziosità e la vanità [...] che di nuovo, dopo antichissimo esilio, occuparono la vita ", reintrodottevi dai "molti ingegni trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai propri bisogni" (ossia dai progressi tecnici).71
Quest'idea del progresso porta inoltre a un nuovo antropocentrismo, una sorta di "cristianesimo laico" che fa dell'essere umano il "centro del mondo" trasformandolo nell'uomo-Dio. Per Leopardi l'assurdità della convinzione della perfezione umana è evidente in quanto nella sua visione era appunto l'incivilimento ad allontanare l'essere umano dalle condizioni di ignoranza e spontaneità che gli garantivano l'unica felicità possibile. Si riconfermano cosi il biasimo riversato contro "lo studio di quel misero e freddo vero" (ossia la filosofia), e la lode e l'esaltazione di quelle "immagini belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita" il cui ritorno servirà a addolcire la conoscenza della squallida verità della condizione umana, dato che non appartiene che all'immaginazione di procurare all'uomo la sola specie di felicità positiva di cui sia capace.
Caduta ogni fiducia nel progresso la specie umana si trastulla cosi con altre "favole"; prima fra tutte la speranza in una vita futura che Leopardi identifica come unico valido antidoto e compenso contro l'insoddisfazione della condizione terrena dell'uomo e che Anselmo Paleari, proprio citando Leopardi, discute con Mattia Pascal nel tentativo di comprendere vita e morte:

Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là?72

Si riconferma cosi il carattere fondamentalmente positivo di questa "illusione" e delle molte altre che la affiancano. Benché esse siano degli errori, esse sono tuttavia errori naturali e necessari, ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti gli uomini, senza le quali la vita sarebbe misera e bruta cosa.


70. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in: Tutti i romanzi, cit., p. 353.
71. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 73.
72. Ivi, p. 363.


Uniche in grado di resistere al potere distruttivo della ragione, tanto anche se:

Perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice, vigorissima, e continuando a vivere, tornado a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza acquistata[...] a dispetto della ragione e del sapere.73

L'importanza assegnata sia dal poeta di Recanati che da Pirandello alle illusioni, prima fra tutte quella della centralità umana nell'universo, conferma cosi la loro concezione negativa della filosofia soprattutto moderna, investita di valore distruttivo in quanto il suo progresso consiste nel dimostrare la falsità di ciò che si era creduto conoscere. Come spiega Leopardi, la filosofia antica era infinitamente superiore alla moderna, in quanto:

I filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinatamente altro che disingannare e atterrare. [...] in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori.74

Anche Copernico, nella sua già discussa veste di filosofo, dimostra che la teoria geocentrica non era altro che un inganno, il suo stesso procedere superiore non insegna né fabbrica, ma piuttosto disincanta e demoralizza.
La stessa rivoluzione copernicana viene cosi indirettamente ridimensionata, essendo investita di quel carattere negativo appartenente a tutta la filosofia moderna. L'illusione antropocentrica che aveva permesso al genere umano di evadere dal reale della sua misera condizione si trasforma cosi nella cognizione della sua stessa caducità. Il sogno diviene un incubo.
Unico rimedio, il riso confortante di Eleandro o quello maligno di Mattia Pascal.

73. G. Leopardi, Zibaldone, cit., pp. 213-216.
74. Ivi, pp.279-280.


5. Pirandello e Croce: il problema del rapporto tra umorismo
ed estetica

La controversia tra Pirandello e Croce, ha inizio nel 1908, quando Pirandello pubblica il suo saggio su L'umorismo. La critica pirandelliana è rivolta al passo della dottrina crociana, quello sull'impossibilità di definire rigorosamente l'umorismo.

La preclusione di Croce alla definizione rigorosa dell'umorismo è criticata nella prima edizione del saggio su L'umorismo. Com'è noto la possibilità di definire rigorosamente l'umorismo è esclusa da Croce nell'Estetica del 1902. Egli vede l'umorismo come un concetto pseudo-estetico derivato dalla dottrina del comico, del simpatico, non ha posto nell'estetica, ma nella psicologia. Per questo motivo non gli si può competere una definizione filosofica, che è rigorosa, ma solo una definizione empirica, e perciò "mai unica", ma variabile "secondo i casi e gli intenti per i quali si foggia".75 Scrive Croce:

Umorismo non è altro che un nome, dato ai gruppi di rappresentazioni, le quali non si possono mai staccare con un taglio netto da quelli affini, salvo ché arbitrariamente e per comodo.76

Tuttavia ogni sua definizione ha una certa utilità:

Designa qualche aspetto e mette in rilievo qualche punto notevole degli infiniti atteggiamenti dell'animo umano.77

A Pirandello è però totalmente ignota la distinzione crociana di concetti scientifici ed empirici. Egli intende l'esattezza della definizione esclusivamente come precisione filologica che determini lo spazio semantico della parola in relazione alle altre parole, alla "cosa", e alla "concordia comune". Per questo non trova un ostacolo nella posizione di Croce: la riporta senza allarmarsene troppo rifiutandola con spiegazioni assai confuse. Anche Pirandello ritiene che muovendo dalle caratteristiche delle opere particolari, dell'umorismo risulti una conoscenza troppo compendiosa, ma, come già aveva scritto in Alberto Cantoni, una conoscenza esatta può essere raggiunta cogliendo il procedimento nell'anima dell'autore.
A L'umorismo Croce risponde con un articolo assai duro, apparso sulla "Critica" del 20 maggio 1909. Estraneo a sua volta alla fondamentale distinzione pirandelliana di posizione cosciente e inconsapevole, chiede ironicamente, poiché "Pirandello viene a distinguere e a contrapporre arte e umorismo" se "vuol forse dire che l'umorismo non è arte, o che esso è più che arte". ritiene però probabile che Pirandello lo intenda come genere "che si distingui dagli altri o addirittura dal complesso degli altri tutti". Ma ammesso che sia un genere e un concetto empirico, non è "definibile a rigore" né "filosoficamente".78


75. B. Croce, Estetica, Bari, Laterza, 1958, p. 99.
76. B. Croce, Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1954, p.290.
77. Ibidem.
78. Ibidem.


Una seconda critica investe la presenza della riflessione nel procedimento umoristico. Proprio nel 1908 Croce con la conferenza di Heidelberg L'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte era giunto alla precisa delimitazione della sfera estetica escludendo la presenza del pensiero dall'attività artistica. Dal suo punto di vista vuole stringere perciò Pirandello nel dilemma:

La riflessione che egli considera carattere distintivo dell'arte umoristica, o entra come materia dell'arte e il carattere distintivo cade, perché in qualsiasi opera d'arte, tragedia o commedia, il pensiero e la riflessione possono entrare insieme con la restante materia; ovvero rimane estrinseca all'opera d'arte, e allora si avrà critica e non mai arte, e di conseguenza nemmeno arte umoristica.79

Si dica il medesimo intorno al sentimento del contrario, il quale o è la visione dialettica della vita, e in questo caso entra in tutte le opere d'arte, giacché ogni contenuto di rappresentazione è contrarietà; ovvero è consecutivo a una data immagine artistica, e allora sarà l'accenno a un'altra rappresentazione, che sorge diversa dalla prima. Ma questa nuova rappresentazione o rimane intrinseca alla prima, ed è una nuova opera d'arte; ovvero si fonde con la prima, e allora si torna al caso, già enunciato, della vita, che è contrarietà, e dell'arte, che è perciò, sempre rappresentazione della realtà.80 Croce riconosce che a Pirandello interessa qualcosa che è veramente presente in alcune opere d'arte:

Ma, giacché i fatti da lui considerati non erano altro se non sfumature dell'animo umano (individualmente distinte, astrattamente inafferrabili), è stato costretto a dare all'umorismo una definizione empirica... Ripeto, io non muovo guerra a queste definizioni... anzi, il mio modo di rifiutarle filosoficamente, è l'accettarle tutte, empiricamente.81

Dunque l'umorismo è un particolare individuale carattere psicologico:

E' meglio che di umorismo si dovrebbe parlare di umoristi. Dell'arte si dà definizione, non dell'umorismo o d'una qualunque sfumatura psicologica, sempre individuale.82

Croce accetta dunque la distinzione fatta pure da Pirandello, tra umorismo e arte; ma respinge come assurdo l'opporre l'umorismo all'arte.


79. B. Croce, Conversazioni critiche, Bari, Laterza, 1918, pp. 43-48.
80. Ibidem.
81. Ibidem.
82. Ibidem.


Tale opposizione è quanto invece preme a Pirandello. Egli, non pensa effettivamente di dar una definizione dell'arte in generale: oggetto del suo pensiero sono temi che possono essere definiti di "poetica", di un modo, diverso da un altro, di concepire la produzione poetica, in un particolare momento storico e culturale. Pirandello vuole opporre un'arte nuova, resa necessaria dall'esaurimento e dall'insufficienza delle ricerche che erano proprie in passato, e "arte" chiama generalmente l'idolo polemico che vuole abbattere, "umorismo" è il nuovo carattere distintivo delle odierne esigenze ed esperienze dell'artista moderno. Pirandello insiste su un suo modo di sentire vita e arte, che gli fa apparire esaurita ogni altra forma della recente tradizione. Si ribella alla definizione di Croce, che sia empirica ogni caratterizzazione da lui tentata dell'umorismo:

...Ordinariamente, nella concezione d'una opera d'arte, la riflessione è quasi una forma del sentimento, quasi un specchio che si rimira. Volendo seguitar quest'immagine, si potrebbe dire che, nella concezione umoristica, la riflessione è, si, come uno specchio, ma d'acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza: il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista; il vapore freddo che n'esala è la fantasia spesso un po' fumosa dell'opera umoristica... Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico , ma - si badi - un critico sui generis, un critico fantastico: e dico fantastico non solamente nel senso bizzarro o di capriccioso, ma anche nel senso estetico della parola... La riflessione... di cui io parlo, non è un'opposizione del cosciente verso lo spontaneo; è una specie di proiezione della stessa attività fantastica: nasce dal fantasma, come l'ombra dal corpo; ha tutti i caratteri della "ingenuità" o natività spontanea; e nel germe stesso della creazione.83

E ribatte, contro Croce:

Come c'entra la riflessione sull'arte che è critica d'arte, e la riflessione sulla vita che è filosofia della vita? Io ho detto che ordinariamente, in generale, nella concezione d'una opera d'arte, cioè mentre uno scrittore la concepisce, la riflessione ha un ufficio che ho cercato di determinare quale speciale attività essa assume, non già sull'opera d'arte, ma in quella speciale opera d'arte che si chiama umoristica. Ebbene, perciò l'umorismo non è arte, o è più che arte?84

83. L. Pirandello, L'umorismo, cit., pp. 132-133.
84. Ivi, pp. 134-135.


Il sentimento del contrario, che si sforza di giustificare come un modo particolare di "fantasia", di creazione artistica, gli si caratterizza concretamente quando passa a parlare di sé, e di un'esperienza tutta concentrata e sospesa in un'interiorità vuota, dolente, che è quel dato essenziale, di cui progressivamente si viene determinando in concreti caratteri il suo sentimento dell'arte, e della vita:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti, e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, quasi in una nudità arida, inquietante, ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vita umana, fuori dalle norme dell'umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell'esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d'immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l'innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c'è qualcos'altro, a cui l'uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d'impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l'impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrastala stabilità, pur cosi vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita allora, che s'aggira, piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica.85

Queste sono situazioni che ci richiamano alle opere d'arte di Pirandello, ma, più ancora, è il caso di osservare che questo passo ha il tono, l'animo, la struttura caratteristica di tante pagine della sua narrativa e, forse più ancora, del suo dramma. Il dialogo è già nel carattere d'intima discussione, di dibattito polemico, inerente alla sua esperienza, e che spontaneamente diventa un carattere anzi uno dei più tipici caratteri espressivi delle sue creazioni. Effettivamente è qui l'interesse della sua difesa contro le obiezioni del Croce. Insiste su distinzioni terminologiche che prendono in lui volta a volta quelle diverse sfumature che sono proprie delle immagini, di confessioni, non di concetti.
Pirandello pone a principio stesso dell'arte, o di un'arte che egli avverte fondatamente diversa dalle forme tradizionali, ciò che considera scoperta di un mondo espressivo rispondente al suo periodo culturale, nell'esaurimento, e nelle contraddizioni, del verismo, e delle altre correnti artistiche. Caratteri propri dell'umorismo egli li rintraccia, ben s'intende, anche negli artisti del passato, e, non meno che negli stranieri, negli italiani: sono frequenti, nel saggio su L'umorismo, gli esempi ricavati dai Promessi sposi, e i riferimenti ai poeti e scrittori dei primi secoli: ma sono archetipi astratti di un modo anzi di quel modo di sentire la vita e l'arte, che gli preme definire, non sono mai indicati come possibile traccia d'una tradizione.

85. Ivi, pp. 154-155.


Egli oppone in astratto un tipo d'arte a tutti quelli che hanno avuto di recente o hanno attualmente. Nel discorso sul Verga parla di "forma" o di "genere letterario": non rivendica l'autonomia della creazione artistica, l'individualità d'ogni opera d'arte, vuole portare il principio della soggettività assoluta del creare artistico a negazione d'ogni realtà esterna, retorica o storica, genere letterario o "forma" relativa, e tradizione storica:

Parlare di tradizione in arte, come di qualcosa da cui l'opera d'arte dipenda e senza la quale sia, se non proprio impossibile, assai difficile che nasca, è - come fa di solito - porre male una questione che va posta e - per conseguenza - risolta altrimenti. Ogni vera opera d'arte è e deve essere "unica", e dunque senza modelli. Non esiste per se stessa in astratto una forma "romanzo" o una forma "novella" che da sé, qua e là, e qua meno e la più, si evolvano; bensì quei tali romanzi, quelle tali novelle, ciascuno e ciascuna con la sua forma propria, da non potersi confondere con altre, se veramente opere d'arte. Considerando per sé le forme e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo con cui quelle narrazioni dovevano essere condotte, si veniva a cadere nello stesso errore intellettualistico della retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella ricerca esteriore dell'espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da cercare fuori per rendere ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso e che è anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti. 86

E prosegue:

La questione infine della famosa "impersonalità" o dell'oggettivismo nell'arte narrativa non ci voleva molto a vedere che si riduceva a nient'altro che a un diverso atteggiamento dello spirito nell'atto della rappresentazione, poiché l'arte, come coscienza del soggetto, non può essere mai oggettiva se non a patto di porre ciò che è
creazione nostra, fuori di noi, come se non fosse appunto nostra, ma una realtà per sé che noi dovessimo solamente ritrarre con fedeltà, senz'affatto mostrare di parteciparvi, insomma da spettatori diligenti e spassionati.87


Abbiamo visto come il Croce, inserisca l'umorismo fra i pseudoconcetti che non appartengono all'estetica, ma viene visto alla stregua di un sentimento da assegnare alla psicologia descrittiva. Qui, evidenziamo il punto di contesa, soprattutto perché il filosofo napoletano vuole escludere la psicologia dal novero delle scienze filosofiche, ritenendo che non può eguagliarne il rigore, mentre Pirandello definisce "psicologia e estetica" la seconda parte del saggio su L'umorismo. Croce ironizza sull'estensione eccessiva del termine "umorismo" e sottolinea che l'individualità di ogni scrittore umorista rende parziale qualsiasi definizione o, viceversa, se si applica a tutti, troppo generale e astratta: concludendo, così, sulla necessità di rinunciare all'effimera pretesa di stabilire la definizione esatta (ossia rigorosa e filosofica) dell'umorismo.

86. L. Pirandello, Saggi, poesie e scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, p. 396.
87. Ivi, pp.396-397.


Proprio sull'indefinibilità dell'umorismo si appunta la critica di Pirandello, ma le sue argomentazioni non sono molto perspicue, né mirano al centro del problema. E sul punto delle definizioni Croce ha un buon gioco nel concludere - recensendo il saggio pirandelliano - che accetta le definizioni dal punto di vista empirico, ma le rifiuta per quanto riguarda quello filosofico. Croce ha l'abilità di appuntare la sua critica su alcuni punti deboli della definizione pirandelliana dell'umorismo come quel "sentimento del contrario" che, ad esaminarlo bene nella prima edizione del saggio, non era, in effetti, molto chiaro. La fondamentale distinzione tra "sentimento" e l'opposto "avvertimento del contrario", con il relativo esempio della signora dai capelli ritinti, il più noto emblema dell'umorismo, Pirandello lo aggiunge nella seconda edizione del 1920, assieme ad alcuni passi in risposta a Croce. Come mostrano anche altre modifiche o soppressioni, vuol dire che Croce ha colpito nel segno; su alcuni punti, tuttavia, Pirandello persiste. Sulla definibilità dell'umorismo, in primo luogo: con affermazioni di natura empirica (come si può dimostrare, in assenza del concetto, che uno scrittore è un umorista e non un comico?) e con un'aggiunta significativa sugli stati psicologici, che sono forse indefinibili per un filosofo, a differenza l'artista che non fa altro che definire e rappresentare stati psicologici. E in secondo luogo, sull'intervento della riflessione nella concezione dell'opera umoristica. Notando una certa opposizione tra arte e umorismo, Croce chiede a Pirandello se l'umorismo è arte o qualcosa di diverso (per esempio una riflessione sull'arte). Pirandello ribatte riaffermando la validità delle sue teorie, e dichiarando ingiustificata la critica ricevuta. Eppure non deve averla ritenuta del tutto infondata se nell'ultimo capitolo ha soppresso la seguente affermazione: "L'arte, in genere compone; l'umorismo decompone".
Tuttavia possiamo concludere affermando che, questa controversia è senza dubbio assai sterile, semplice contrapposizione di posizioni lontanissime, incapaci di comprendersi: l'una tesa a riconoscere nell'arte il prolungamento di tutta l'attività della natura e quindi la presenza di ogni facoltà della persona, l'altra preoccupata di cogliere l'esatta distinzione delle attività dello spirito. Il contrasto profondo tra la concezione pessimistica, critica e tragica di Pirandello, e la prospettiva ottimistica di Croce, che si fonda sulla fiducia del pensiero, sulla creatività dello spirito. Non per nulla lo sforzo speculativo di Pirandello è diretto a riconoscere nell'organicità dell'arte la presenza della criticità della vita, mentre la teoria di Croce, al contrario, esige il superamento di ogni criticità particolare nella serenità universale dell'arte.

 

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