LA DISCIPLINA DELLO SCIOPERO IN GENERALE E NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI

 

Dispensa per il Corso di Diritto del Lavoro,

Facoltà di Economia (Prof.ssa Cristina Alessi - A.a. 2002/2003) Università degli Studi di Brescia,

curata dal

DOTT. FABIO RAVELLI

 

LO SCIOPERO
 

1.     Lo sciopero come “diritto”.

 

Art. 40 cost: “il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”.

 

Per la prima volta nel nostro ordinamento, lo sciopero è esplicitamente riconosciuto come diritto. Benché la norma apparentemente non dica molto, essa introduce nel nostro ordinamento giuridico una novità fondamentale.

Il rilievo di questa osservazione appare evidente se si passa brevemente in rassegna la disciplina dello sciopero ha avuto nel corso del tempo.

Durante l’epoca liberale (v. Codice Zanardelli del 1889) lo sciopero era considerato una "libertà".

Esso era consentito e costituiva uno degli strumenti di lotta a disposizione dei lavoratori per confrontarsi con la controparte datoriale all'interno del mercato. In sé considerato, non costituiva reato, con la conseguenza che lo Stato si asteneva dall'esercitare un'azione di repressione penale (a meno che nel corso dello sciopero non venissero commessi altri reati, ad es. violenza o minaccia). Lo “sciopero-libertà”, tuttavia, continuava a costituire una condotta illecita sotto il profilo civilistico e il datore di lavoro poteva rivalersi sui lavoratori: infatti, l'astensione dal lavoro configurava una forma di inadempimento contrattuale.

Con l’introduzione del regime corporativo, lo sciopero fu vietato ed fu previsto come reato dagli artt. 330-333 e 502 e ss. del codice penale del 1930 (c.d. Codice Rocco). Sul presupposto della negazione dell'idea di una società pluralista, qualsiasi conflitto tra le parti sociali doveva infatti risolversi nell'ambito dello Stato.

Con l’avvento della Costituzione repubblicana (1948), lo sciopero è finalmente riconosciuto come diritto soggettivo.

Si tratta quindi di una situazione soggettiva che può essere fatta valere non solo nei confronti dello Stato, che non può reprimerlo penalmente, ma anche verso il datore di lavoro, che non può licenziare o sanzionare altrimenti il lavoratore scioperante (su quest’ultimo punto si vedano anche gli artt. 15, 16, 28 Statuto e l’art. 4 legge 604/66). Si tratta di una precisa scelta di politica del diritto: tra i due diritti confliggenti – quello dell’imprenditore all’adempimento e quello del lavoratore all’autotutela – il Costituente ha fatto prevalere il secondo.

Si ha dunque il superamento dello Stato liberale, per la cui ideologia lo sciopero costituiva tutt’al più una libertà, tale da escludere la sola responsabilità penale, fatti salvi i profili civilistici (che continuavano ad essere rilevanti nei rapporti intersoggettivi privati). Oggi, invece, l’esercizio del diritto di sciopero va considerato un comportamento giuridicamente lecito sotto ogni profilo; il che vale ad escludere non solo la responsabilità penale, ma anche quella contrattuale.

 

2.     La nozione di “sciopero”.

 

Si è visto che, dal punto di vista giuridico, lo sciopero è un "diritto". Concretamente, però, quali comportamenti costituiscono uno "sciopero" – ricadendo quindi nell’area della liceità - e quali no?

Il problema non è di poco conto ed attiene all’individuazione dei limiti cui l’esercizio del diritto deve soggiacere, in quanto sia la Costituzione sia le leggi ordinarie nulla dicono in proposito.

Il compito è allora toccato alla giurisprudenza e alla dottrina; esse hanno inizialmente fatto ricorso ad una tecnica interpretativa di tipo “definitorio” che ha portato alla individuazione di una serie di limiti c.d. “interni”, cioè coessenziali alla nozione di sciopero.

La tecnica dei limiti interni seguiva grosso modo questo schema: si enucleava una nozione di sciopero fondata su taluni elementi essenziali determinati a priori, di modo che tutte quelle forme di lotta sindacale cui mancassero uno o più degli elementi individuati fossero considerate ad essa estranee [GIUGNI].

Per fare un esempio, secondo un orientamento divenuto classico, lo sciopero sarebbe una “astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse professionale collettivo” [SANTORO PASSARELLI] caratterizzata inoltre dai seguenti elementi:

- la “totalità” dell’astensione, nel duplice senso: a) della sua contemporaneità da parte di tutti gli scioperanti; b) della sua continuatività nel tempo;

- la sua funzionalità ad uno scopo di natura contrattuale;

- l’essere l’astensione posta in essere dai soli lavoratori subordinati.

È evidente che una simile qualificazione giuridica dello sciopero portava ad escludere la liceità di alcune forme di lotta quali, ad esempio, lo sciopero articolato (a singhiozzo, a scacchiera, ecc.), lo sciopero dei lavoratori parasubordinati e autonomi, lo sciopero con finalità diverse da quelle economico-contrattuali (sciopero politico, sciopero di solidarietà, ecc.). È emblematico il caso delle c.d. “forme anomale” di sciopero.

Sono state considerate “anomale” tutte quelle forme di lotta che, per le loro caratteristiche e modalità di svolgimento, non avevano in sé tutti quegli elementi aprioristicamente determinati cui prima si è fatto cenno.

Per quanto concerne lo sciopero “a sorpresa”, ossia quello effettuato senza preavviso, è stato ben presto ritenuto lecito (quanto meno in assenza di una norma che disponga il contrario).

Problemi maggiori sono stati posti dal c.d. sciopero “articolato” nelle sue due manifestazioni più frequenti dello sciopero c.d. “a singhiozzo” (astensione dal lavoro frazionata nel tempo in modo intermittente) e dello sciopero c.d. “a scacchiera” (astensione effettuata in tempi diversi da differenti gruppi di lavoratori, le cui attività siano interdipendenti nell’organizzazione del lavoro). È chiaro fin d’ora che lo sciopero articolato difetta del requisito della “totalità” (intesa come contestualità e continuità dell’astensione); anzi, proprio per questa sua caratteristica esso permette ai lavoratori scioperanti di cagionare il massimo danno alla controparte datoriale, minimizzando la perdita di retribuzione. Tuttavia, si riteneva che a causa di questa peculiarità esso fosse idoneo a produrre un “danno ingiusto” al datore, ossia a provocare l’alterazione del rapporto di corrispettività tra la perdita della retribuzione e il danno subito dall’imprenditore (la teoria del “danno ingiusto” è anche detta teoria della “corrispettività dei sacrifici”). Secondo un’interpretazione espressa dalla Cassazione (sent. n. 512/1967), l’esecuzione di uno sciopero articolato sarebbe causa di un danno ingiusto poiché “diverso e più grave di quello necessariamente inerente ai mancati utili dovuti alla momentanea sospensione dell’attività lavorativa dei suoi dipendenti, perdita compensata o limitata dal mancato pagamento della retribuzione agli scioperanti”. Ecco qualche esempio: disorganizzazione della azienda, spreco di energie e di materie prime, corresponsione di salari per prestazioni non rese o scarsamente utilizzabili, ecc. Il criterio del “danno ingiusto” è stato criticato per la sua indeterminatezza e per il fatto che, in ultima analisi, la determinazione del danno sarebbe affidata all’arbitrio dell’interprete. Inoltre, “l’entità del danno, in mancanza di una legge che le attribuisca questo effetto, non è elemento di qualificazione dello sciopero come legittimo o meno” [GIUGNI]. Allo stesso modo è parso poco convincente il tentativo giurisprudenziale volto a limitare l’esercizio del diritto di sciopero mediante l’applicazione dei principi di correttezza e buona fede (v. artt. 1175 e 1375 cod. civ.): infatti “essi operano nel momento della esecuzione del contratto e non possono essere estesi allo sciopero, che costituisce invece un momento di non esecuzione della prestazione e produce la sospensione degli effetti del contratto” [GIUGNI]. Pare più corretto l’orientamento che, in considerazione del fatto che in capo agli scioperanti grava comunque l’obbligo di rispetto dell’altrui sfera giuridica (ex art. 2043 cod. civ.), considera “ingiusto” il danno lesivo dell’interesse del datore alla conservazione dell’organizzazione aziendale.

Da quanto si è visto, la teoria dei limiti interni si è dimostrata inadeguata a disciplinare il fenomeno dello sciopero, ponendosi dunque il problema del suo superamento.

Il cambiamento di prospettiva è dovuto all’opera della Suprema Corte di Cassazione, secondo la quale con il termine “sciopero” si deve intendere “nulla più che un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”, facendosi dunque riferimento al significato che “la parola, ed il concetto ad essa sotteso, hanno nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale” [Cass. n. 711/1980]. La Cassazione ha dunque accolto una nozione di sciopero alquanto ampia, in base alla quale vengono “assegnate all’astensione collettiva dal lavoro tutte le possibili e molteplici forme che, di volta in volta, sono state giudicate le più efficaci, o come le sole idonee a far conseguire il risultato voluto” [Ghezzi-Romagnoli, 1997].

Tuttavia, l’avere esteso i confini delle attività riconducibili al concetto di sciopero non ha eliminato il problema dei limiti da porre all’esercizio del diritto. Adottando un approccio peraltro precedentemente sperimentato dalla Consulta, essa ha desunto una serie di limiti “dal peso relativo” del diritto di sciopero “rispetto ad altri diritti costituzionalmente tutelati” [Carinci-De Luca Tamajo-Tosi- Treu, 1994]. In questo senso la sentenza n. 711/1980 fa da spartiacque: accogliendo una nozione di sciopero ampia e legata alla percezione del fenomeno maturata nella realtà sociale, essa porta al superamento dell’attualità della tecnica giuridica dei c.d. “limiti interni”, aprendo definitivamente la strada alle possibilità offerte dal ricorso alla tecnica dei c.d. “limiti esterni”, ossia quelli rinvenibili “in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quantomeno paritario, con quel diritto” [Cass. n. 711/1980].

Ad esempio, argomentando dal combinato disposto degli artt. 41 c. I e 4 c. I Cost., si è ricavata la regola secondo la quale l’esercizio del diritto di sciopero non deve causare un danno alla produttività. Ancora una volta, le coordinate fondamentali sono fornite dalla sent. n. 711/1980: il diritto di sciopero va esercitato in modo da non “pregiudicare, in una determinata ed effettiva situazione economica generale o particolare, irreparabilmente (non la produzione, ma) la produttività – diremmo meglio, la capacità produttiva - dell’azienda, cioè la possibilità per l’imprenditore di (continuare a) svolgere la sua iniziativa economica”. Eventuali danni alla produttività, dunque, possono integrare un’ipotesi di responsabilità extra-contrattuale (art. 2043 cod. civ.); semmai, la difficoltà risiede nel distinguere, nel caso concreto, il danno alla produttività dal danno alla produzione. Ad ogni modo, questo criterio ha il pregio di poter essere utilizzato a prescindere dalle modalità d’attuazione dello sciopero: l’importante è che questo sia idoneo a ledere un diritto costituzionale sovraordinato o, comunque, di pari livello.

La logica di base della teoria dei limiti esterni è poi rifluita nella legge n. 146/1990, la quale disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, ossia quei servizi “volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione” (v. art. 1). Sul punto si tornerà più avanti.

 

3.         Segue: la nozione di sciopero oggi.

 

Come si è visto, la Cassazione ha definito come “sciopero” ogni "astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune" (Cass. n. 711/1980).

Ci sono quindi 3 profili da evidenziare:

1)       sciopero come astensione collettiva dal lavoro. Secondo l'orientamento ormai prevalente, lo sciopero è un diritto "a titolarità individuale ed esercizio collettivo": quindi, il diritto appartiene ad ogni singolo lavoratore, ma, affinché si possa parlare di “sciopero”, occorre che almeno due lavoratori si astengano dal lavoro. Qual è il ruolo del sindacato in tutto questo? Il sindacato può proclamare uno sciopero ed organizzarne l'attuazione, ma la titolarità del diritto resta comunque in capo ai singoli lavoratori. Tutt’al più, la proclamazione può avere l’effetto di rendere legittimo lo sciopero svolto dall’unico lavoratore che – a differenza dei colleghi - abbia deciso di aderire;

2)       è richiesto che anche la proclamazione si traduca in un momento collettivo. Lo sciopero non può essere proclamato dal singolo, bensì da una "pluralità di lavoratori". A tale scopo, non è necessario che la pluralità di lavoratori sia organizzata in un vero e proprio sindacato (v. art. 39 Cost.);

3)       la finalità dello sciopero deve consistere nella tutela di un interesse collettivo. Con riferimento allo scopo, lo sciopero può essere classificato come: contrattuale, di solidarietà o protesta, d’imposizione economico-politica, puramente politico. L’argomento sarà approfondito più avanti.

Infine, va rilevato che nell’area di tutela dell’art. 40 Cost. sono state comprese anche forme di lotta poste in essere da soggetti diversi dai lavoratori subordinati. La Consulta (sent. n. 222/1975) ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 506 c.p. nel caso in cui ad astenersi dal lavoro siano gli esercenti di piccole industrie e commerci che non abbiano lavoratori alle proprie dipendenze. Queste forme di lotta sarebbero assimilabili più allo sciopero (garantito) che alla serrata (vietata), in quanto tali soggetti possono essere qualificati come lavoratori (autonomi) e non come datori.

In seguito, la Cassazione (sent. n. 3278/1978) ha affermato la sussistenza della titolarità del diritto di sciopero in capo a tutti i lavoratori autonomi che siano in condizione di parasubordinazione.

 

4.     Le finalità dello sciopero.

 

In tema di finalità dello sciopero, si sono registrati in giurisprudenza profondi cambiamenti. Il dato di partenza è rappresentato dal divieto di sciopero sancito dal codice Rocco (art. 502 ss.). Con l'entrata in vigore della Costituzione, la Corte Costituzionale non ha ritenuto abrogate le norme del codice penale, ma ha operato "manipolazioni" di quelle stesse norme tramite sentenze interpretative.

Con la sentenza n. 29/1960 è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 502 comma II c.p., che puniva lo sciopero che fosse attuato "al solo scopo di imporre ai datori di lavoro patti diversi da quelli stabiliti, ovvero di opporsi a modificazioni di tali patti o, comunque, di ottenere o impedire una diversa applicazione dei patti o usi esistenti" (c.d. sciopero a fini contrattuali). In realtà la Corte ha, per così dire, sfondato una porta aperta, dato che nessuno, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione (1948), aveva mai dubitato della piena liceità, nonché della natura di "diritto soggettivo", di tale forma di lotta. Anzi, dopo l’entrata in vigore della Costituzione la dottrina si era subito espressa a favore del riconoscimento della “immediata precettività” della norma contenuta nell’art. 40 Cost. (contrariamente a quanto sostenevano coloro – in verità pochi – secondo i quali si dovesse comunque attendere l’approvazione da parte del Parlamento delle leggi ordinarie cui l’art. 40 fa riferimento).

Ha invece posto più problemi l’accoglimento nel nostro ordinamento dello sciopero c.d. “di imposizione economico politica” (o sciopero economico-politico). Si tratta di un abbandono del lavoro economico nell'oggetto, ma politico nel destinatario; esso è volto ad ottenere o impedire un intervento su materie di immediato interesse per il mondo del lavoro subordinato (o, secondo una lettura più estensiva, di interesse per le condizioni di vita dei cittadini in genere). Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 123/1962, anche questo sciopero è stato incluso tra quelli garantiti come "diritto", aggirando il divieto contenuto nell'art. 504 c.p. relativo allo "sciopero di coazione alla pubblica autorità". Ciò è stato possibile in ragione della particolare collocazione dell'art. 40 cost. all'interno del titolo III ("rapporti economici") della prima parte della Costituzione, dedicata ai "diritti e doveri dei cittadini". Tale collocazione ha permesso di affermare che: "la tutela concessa ai rapporti economici non può rimanere circoscritta alle sole rivendicazioni di indole meramente salariale, ma si estende a tutte quelle riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che si trovano disciplinati nelle norme racchiuse sotto questo titolo della Costituzione". Un tipico esempio è costituito dallo sciopero generale del 16 aprile 2002 contro la riforma dell’art. 18 Stat. Lav. prospettata dal Governo Berlusconi.

Nella medesima sentenza la Corte ha inoltre affrontato i temi dello sciopero di solidarietà e dello sciopero di protesta.

Nel primo caso si tratta dell'astensione dal lavoro che venga effettuata in appoggio a rivendicazioni di carattere economico cui si rivolge uno sciopero già in via di svolgimento, ad opera di lavoratori appartenenti alla stessa categoria dei primi scioperanti. In considerazione dell'incontestabile esistenza di interessi comuni ad intere categorie di lavoratori, la Corte ha ritenuto l’esercizio di questa forma di lotta un diritto qualora sia accertata l'affinità delle esigenze che motivano l'agitazione degli uni e degli altri.

Con riferimento allo sciopero di protesta, la Corte ha considerato legittima l'astensione concertata dal lavoro con la quale gli scioperanti intendono manifestare il loro incondizionato dissenso nei confronti di determinati comportamenti del datore di lavoro (es. violazione degli obblighi di sicurezza; ritardato pagamento delle retribuzioni).

Prima di questa sentenza, sia lo sciopero di protesta sia quello di solidarietà erano vietati dall'art. 505 c.p.

Gli interventi della giurisprudenza costituzionale degli anni Sessanta non avevano tuttavia intaccato il carattere di illiceità penale che continuava a contraddistinguere lo sciopero politico puro, ossia lo sciopero attuato al fine di conseguire provvedimenti che attengono all'indirizzo generale del Governo (ad esempio, sarebbe di tipo puramente politico uno sciopero volto a protestare contro l'invio di truppe italiane nell'ex Yugoslavia). Si è dovuto attendere fino al 1974 perchè la Corte Costituzionale (sent. n. 290/1974) si pronunciasse nel senso della sua liceità: essa ha affermato che lo sciopero è "necessariaente valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali" e, dunque, è "idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui al 2° comma dell'art. 3 cost.". La Corte, tuttavia, non si è spinta fino al punto di ritenere lo sciopero politico un "diritto", limitandosi a qualificarlo come "libertà" (con le implicazioni in precedenza viste). L'art. 503 c.p. - che, fino al 1974, vietava lo sciopero politico - è da considerarsi tuttora in vigore in caso di sciopero rivoluzionario (cioè diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale) ed in caso di sciopero diretto a ostacolare o impedire il libero esercizio dei diritti e dei poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare.

 

5.     Gli effetti dello sciopero sul contratto di lavoro.

 

Essendo il contratto di lavoro un contratto a prestazioni corrispettive, la partecipazione del lavoratore allo sciopero comporta la perdita correlativa della retribuzione. In altre parole, l’attuazione dell’astensione lavorativa provoca l’effetto della sospensione dell’obbligo retributivo posto in capo al datore.

Secondo la dottrina dominante [MENGONI] la sospensione “si giustifica in funzione della natura sinallagmatica del contratto di lavoro, per cui l’obbligazione di ciascuna parte è fondamento dell’obbligazione dell’altra”.

Altro problema è stabilire se la sospensione si limita al sinallagma “obbligazione lavorativa-retribuzione” o se invece si estende anche ad altri istituti quali, ad esempio, la tredicesima mensilità, il TFR e le ferie.

L’orientamento prevalente della giurisprudenza è quello di ritenere che l’astensione dal lavoro incida anche su questi istituti, i quali potranno subire una decurtazione proporzionale. La dottrina ha invece espresso posizioni più articolate.

Infine si consideri l’ipotesi dello sciopero articolato. Una volta stabilita la sua piena legittimità, il problema è capire se sia da considerarsi corretto – alla stregua dei principi di diritto comune – il rifiuto datoriale delle prestazioni rese disponibili dai dipendenti non scioperanti, soprattutto nel caso in cui le prestazioni offerte non siano utili o proficue.

In giurisprudenza il rifiuto datoriale è stato giustificato in vari modi:

1. in primo luogo come “eccezione di inadempimento” ex art. 1460 cod. civ.

2. oppure si è utilizzato l’art. 1206 cod. civ. Quindi, l’inesattezza della prestazione offerta dal debitore o la sua inidoneità ad assicurare il soddisfacimento dell’interesse creditorio” renderebbe giustificato il rifiuto del datore, integrando un’ipotesi di motivo legittimo di esclusione della mora accipiendi.

3. infine – ed è l’orientamento più diffuso – si è fatto ricorso allo schema normativo dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1256 cod. civ. (deve però trattarsi di impossibilità obiettiva di ricevere la prestazione, non essendo rilevante la mera difficultas). A questo proposito, la Cassazione (sent. n. 1331/1987) ha stabilito: “quando, per uno sciopero non imputabile all’imprenditore, la prestazione del lavoratore che chiede o ritiene di fornire ancora la propria opera non è obiettivamente utilizzabile nel processo produttivo dell’impresa, si determina un’impossibilità temporanea delle contrapposte obbligazioni che, finché dura l’inadempimento, libera il lavoratore dall’obbligo della prestazione e il datore dall’obbligo di corrispondere la retribuzione”.

 

 

 

 

L'epoca liberale: sciopero-libertà

 
 
L'epoca fascista:
sciopero-reato

 

La Costituzione:
sciopero-diritto

 

 
 

 

 
 
La teoria dei c.d.
"limiti interni"

 

 
 
 
 

 

I limiti interni e le c.d. "forme anomale" di sciopero
 

 

 

 

Cass. n. 711/80: il superamento della teoria dei "limiti interni"
La teoria dei c.d. "limiti esterni"
Il limite del c.d. "danno alla produttività"
I servizi pubblici essenziali (rinvio)
 
I tre profili essenziali della nozione di sciopero (Cass. n. 711/80)
 

 

 

Lo sciopero dei lavoratori autonomi e parasubordinati
 

 

 

 

 

Lo sciopero a fini contrattuali (Corte cost. n. 29/'60
Lo sciopero c.d. "economico-politico"
(Corte cost. n. 123/'62)

 

Lo sciopero politico "puro" (Corte cost. n. 290/'74)
Effetti sulla obbligazione retributiva
Effetti su ferie e retribuzione differita
Lo sciopero articolato

LA DISCIPLINA DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI

(Legge n. 146/1990, come modificata dalla Legge n. 83/2000)

 

 

1.     Introduzione.

 

La predisposizione dell’apparato concettuale fondato sulla teoria dei limiti esterni si è rivelata utile soprattutto nel settore dei cosiddetti “servizi pubblici essenziali”, vale a dire di quei servizi “destinati alla collettività” ovvero “essenziali ai bisogni della collettività” [Campanella, 1998]. È di facile ed immediata percezione il fatto che, in questo settore più che in altri, l’esperimento di un’azione di autotutela collettiva è potenzialmente lesivo di situazioni soggettive di terzi meritevoli di tutela. In realtà, le stesse organizzazioni sindacali non sono state insensibili a questa esigenza di bilanciamento di interessi configgenti. Esse hanno, infatti, dato vita ad esperienze di autoregolamentazione, sia di tipo “unilaterale” (autoregolamentazione in senso stretto), sia di tipo “bilaterale” (regolazione pattizia), ossia convenuta con la controparte datoriale [Carinci-De Luca Tamajo-Tosi- Treu, 1994]. Dal che si desume come, alla fine degli anni ’80, sulla scorta delle più recenti elaborazioni giurisprudenziali, nonché della diffusa consapevolezza degli interessi in gioco raggiunta dalle parti sociali, i tempi fossero ormai maturi per approntare una disciplina organica delle modalità di esercizio del diritto di sciopero, benché limitatamente all’area dei servizi pubblici essenziali, ove l’esigenza di regole certe è da sempre particolarmente sentita. Il confronto sul tema apertosi tra il Governo e le parti sociali ha portato, il 12 giugno 1990, all’approvazione della legge n. 146, la quale, dato il contesto di collaborazione che l’ha generata, è stata definita una legge “contrattata” [Carinci-De Luca Tamajo-Tosi- Treu, 1994].

 

2.     Nozione di “servizi pubblici essenziali”.

 

L’incipit “ai fini della presente legge” (art. 1, comma 1°) consente di riferire l’applicazione della disciplina in oggetto ai soli addetti ai servizi pubblici essenziali riconosciuti come tali dalla legge medesima. È dunque di decisiva importanza definirne la nozione.

Ai sensi dell’art. 1, comma 1°, della legge n. 146/90 sono da considerarsi servizi pubblici essenziali “quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione”. Un'elencazione a titolo esemplificativo (v. l’inciso “in particolare…”) dei servizi pubblici essenziali si rinviene nel successivo 2° comma; la lista dei servizi di cui al 2° comma è suscettibile di ampliamento, in ciò differenziandosi dall'elenco - tassativo - dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Il legislatore ha dunque optato per una tecnica definitoria, per così dire, “composita”, illustrando, dapprima, un catalogo di diritti cui si ricollegano servizi essenziali ed elencando, poi, in modo esemplificativo i più importanti di essi [Pilati, 1998].

Dalla lettera dell’art. 1, comma 1°, sono ricavabili due ulteriori elementi. Innanzi tutto, la legge si applica a tutti gli addetti a servizi pubblici essenziali, “indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di lavoro”, ragion per cui vengono in considerazione: a) i rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di datori sia pubblici che privati; b) i rapporti di lavoro autonomi; c) i rapporti c.d. parasubordinati. In secondo luogo, l’inciso relativo ai rapporti di lavoro rilevanti ai fini dell’applicazione della legge (“…anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione…”) consente di argomentare a favore della “indifferenza di ogni forma organizzativa e di gestione del servizio” [Pilati, 1998].

 

3.     La “ratio legis”.

 

Come si evince dalla lettura dell'articolo in esame, principio ispiratore della legge n. 146/90 è il contemperamento tra diritti costituzionalmente tutelati i quali, in particolari situazioni, possono trovarsi a confliggere. Si tratta in particolare:

·         da un lato, del diritto di sciopero, riconosciuto e protetto dall'articolo 40 Cost.;

·         dall'altro, dei diritti della persona di cui al 1° comma (diritto alla vita, alla salute, alla libertà, ecc.), dei quali è necessario “assicurare l'effettività nel loro contenuto essenziale”.

In altre parole, l'esercizio del diritto di sciopero, qualora l'astensione coinvolga i lavoratori addetti ai servizi pubblici essenziali, può pregiudicare il godimento di altri diritti (tassativamente elencati dal comma 1) ritenuti ad esso sovraordinati. Di conseguenza, si impone la necessità non tanto di negare, quanto piuttosto di limitare il diritto di sciopero, ossia di consentirne l'esercizio nel rispetto di modalità poste a garanzia degli utenti. Si tratta cioè di trovare un punto di equilibrio tra le ragioni di chi, legittimamente, intende esercitare il diritto di sciopero - tutelato dall'articolo 40 cost. - e le ragioni di chi, altrettanto legittimamente, chiede di non subire, per effetto dello sciopero medesimo, un pregiudizio in ordine al godimento di diritti, anch'essi costituzionalmente protetti, ritenuti di rango superiore. In ciò consiste il “contemperamento” cui la legge n. 146/90 fa riferimento.

4.     Le modalità di esercizio del diritto di sciopero.

 

L'estrema delicatezza degli interessi in gioco implica che l’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali debba svolgersi secondo un certo iter, del quale si occupa l'articolo 2.

In linea generale è stabilito che “il diritto di sciopero è esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità di cui al comma 2 dell'articolo 1 [ossia il contemperamento tra l'esercizio del diritto di sciopero, da un lato, e i diritti della persona di cui all'articolo 1, comma 1, dall'altro] con un preavviso minimo non inferiore a quello previsto dal comma 5 del presente articolo [10 gg]”.

In particolare, in capo ai soggetti che proclamano lo sciopero è posto l’obbligo di comunicare per iscritto nel termine di preavviso durata, modalità di attuazione e motivazioni dello sciopero, il che consente di rendere pubbliche le ragioni dello scontro.

Speculare all’obbligo di preavviso è quello, posto a carico delle amministrazioni o delle imprese erogatrici dei servizi pubblici essenziali, di “dare comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi; debbono inoltre garantire e rendere nota la pronta riattivazione del servizio, quando l'astensione dal lavoro sia terminata” (articolo 2, comma 6). Le medesime informazioni agli utenti debbono essere altresì fornite dai mass-media. In ogni caso, “le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi hanno l’obbligo di fornire tempestivamente alla Commissione di garanzia che ne faccia richiesta le informazioni riguardanti gli scioperi proclamati ed effettuati, le revoche, le sospensioni ed i rinvii degli scioperi proclamati, e le relative motivazioni, nonché le cause di insorgenza dei conflitti”.

Come si evince dalla lettura del comma 5, l'istituto del preavviso risponde ad una duplice esigenza: a) consentire all'amministrazione o all'impresa erogatrice del servizio di predisporre le misure dirette all'erogazione delle prestazioni indispensabili; b) favorire lo svolgimento di eventuali tentativi di composizione del conflitto.

L’obbligo di indicare preventivamente la durata dello sciopero ha posto un problema interpretativo: ci si è chiesti se tale previsione sia o meno compatibile con talune forme di lotta quali, ad esempio, lo sciopero ad oltranza ovvero a tempo indeterminato. La Commissione di garanzia, in ciò confortata dalla dottrina prevalente, si è espressa, nelle sue delibere, per l’incompatibilità, ritenendo dunque illegittimo lo sciopero attuato senza rispettare nella sua integrità l’obbligo di preavviso (il quale, appunto, impone di comunicare anche la durata dell’astensione).

Tuttavia in passato l'uso scorretto di tale strumento ha creato effetti distorsivi. Si pensi al caso in cui la proclamazione dello sciopero è revocata alla vigilia del termine del preavviso, dunque senza dare la possibilità di informare gli utenti del servizio: uno sciopero revocato all'ultimo momento nelle forme cui si appena fatto cenno provoca spesso non meno disagi di uno sciopero che si svolga effettivamente. Si tratta del c.d. effetto-annuncio, spesso impropriamente utilizzato quale strumento di lotta sindacale.

Più volte la Commissione di garanzia si è trovata a stigmatizzare l’uso scorretto dello strumento del preavviso da parte delle organizzazioni sindacali. La vicenda ha avuto un ultimo svolgimento con la legge n. 83/2000, la quale ha modificato il comma 6 dell'articolo 2 della L. 146/90, stabilendo che: “salvo che sia intervenuto un accordo tra le parti ovvero vi sia stata una richiesta da parte della Commissione di garanzia o dell'autorità competente ad emanare l'ordinanza di cui all'articolo 8 [ossia l'ordinanza di precettazione], la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che è stata data informazione all'utenza ai sensi del presente comma, costituisce forma sleale di azione sindacale e viene valutata dalla Commissione di garanzia ai fini previsti dall'articolo 4, commi da 2 a 4-bis [vale a dire ai fini dell'eventuale irrogazione di sanzioni]”.

 

5.     Il ruolo dell’autonomia collettiva.

 

Quando si parla di sciopero nei servizi pubblici essenziali, il problema più rilevante diviene quello della concreta individuazione delle prestazioni indispensabili, che comunque debbono essere erogate, nonché delle misure che ne assicurino lo svolgimento. Le fonti regolative attivabili a tale scopo sono chiaramente indicate dall'articolo 2, comma 2, a norma del quale: “le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi […] concordano, nei contratti collettivi o negli accordi di cui al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, nonché nei regolamenti di servizio da emanare in base agli accordi con le rappresentanze del personale di cui all’art. 47 del medesimo decreto legislativo n. 29 del 1993, le prestazioni indispensabili che sono tenute ad assicurare, nell'ambito dei servizi di cui all'articolo 1, le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure dirette a consentire gli adempimenti di cui al comma 1 del presente articolo”.

La soluzione accolta dal legislatore rappresenta l’elemento di maggiore originalità della legge n. 146/90. Infatti, il contemperamento tra il diritto di sciopero e le posizioni soggettive elencate al comma 1° dell’art. 1 avrebbe potuto essere realizzato percorrendo diverse strade: “o in via eteronoma e cioè con previsioni legislative di merito dettate dal Parlamento, ovvero indirettamente da una giurisprudenza creativa; oppure in via autonoma, attraverso convenzioni tra le parti sociali” [Alleva-Arrigo-Naccari-Russo, 2000].

Gli estensori della legge n. 146/90 hanno scelto l’opzione del ricorso all’autonomia collettiva, cui è affidata la “formulazione delle regole sostanziali e procedurali da osservare durante il conflitto” [Pilati, 1998], mentre alla legge è stato riservato il compito di definire il quadro normativo, lo scenario entro il quale deve svolgersi l’azione negoziale delle parti sociali, vale a dire: l’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo, l’apparato sanzionatorio, l’istituzione di un organismo terzo (la Commissione di garanzia) e la predisposizione di un istituto -l’ordinanza di precettazione- pensato per fronteggiare situazioni di eccezionale gravità, le c.d. “variabili di contesto” [Alleva-Arrigo-Naccari-Russo, 2000].

Sotto questo profilo, la legge n. 146/90 costituisce una delle esperienze europee più avanzate nel settore dei servizi pubblici essenziali. La valorizzazione del ruolo dell’autonomia collettiva presenta infatti un duplice profilo di utilità: anzitutto, consente che attorno all’operazione di bilanciamento di interessi così delicati si formi il necessario consenso sociale; secondariamente, il contratto collettivo è per sua natura più flessibile e adattabile alle concrete situazioni di quanto non possa essere la legge (la sua astrattezza, infatti, spesso non consente di tener conto della specificità dei problemi che sorgono e delle esigenze che si manifestano nei diversi settori dei servizi pubblici essenziali).  Vi è però un presupposto in mancanza del quale il meccanismo è destinato ad incepparsi: al potere di darsi autonomamente delle regole -pur in un quadro generale eterodeterminato-  deve sempre accompagnarsi il senso di responsabilità delle parti, il quale deve tradursi nella capacità e volontà di trovare un soddisfacente punto di equilibrio tra le opposte istanze.

In passato questo non sempre è accaduto, con la conseguenza che si sono venute a creare situazioni di impasse che sono andate a danno degli utenti del servizio. Infatti, se ai sensi della legge è possibile configurare un obbligo a negoziare posto in capo ad entrambe le parti, non si può tuttavia parlare di obbligo a contrarre. In particolare, l’originaria versione della legge lasciava irrisolta un’importante questione in ordine alla legittimazione a decidere, in assenza di autoregolamentazione od in caso di lacunosità dei contratti/accordi collettivi, le prestazioni indispensabili da erogare. A colmare la lacuna è giunta la recente L. 11 aprile 2000, n. 83, la quale, modificando l'articolo 2, comma 2 della legge n. 146/90, ha stabilito che “qualora le prestazioni indispensabili e le altre misure di cui al presente articolo non siano previste dai contratti o accordi collettivi o dai codici di autoregolamentazione, o se previste non siano valutate idonee, la Commissione di garanzia adotta […] la provvisoria regolamentazione compatibile con le finalità di cui al comma 3”. Si tratta di una significativa innovazione, la quale accresce notevolmente il ruolo della Commissione di garanzia.

In realtà, un simile epilogo era già stato prefigurato dalla Corte Costituzionale. Infatti, anche nella versione originaria la legge n. 146/90 imponeva alle parti -indipendentemente dall’esito dei negoziati- un obbligo di assicurare le “prestazioni indispensabili”. All’attenzione degli operatori giuridici si era dunque posto il seguente quesito: il dovere delle imprese erogatrici del servizio di assicurare comunque le prestazioni indispensabili (v. art. 19, comma 2°) poteva autorizzare le imprese medesime -in mancanza di un accordo con i sindacati- a determinarle in modo unilaterale? Secondo l’orientamento espresso dalla Consulta “se manca l’accordo a livello d’impresa, senza il quale non può essere emanato il regolamento, le prestazioni indispensabili -che il datore di lavoro è tenuto ad assicurare in ogni circostanza- saranno da lui determinate unilateralmente caso per caso mediante specifici ordini di servizio conformi alle indicazioni dell’intesa intervenuta al livello superiore della contrattazione collettiva oppure, se la Commissione le abbia giudicate negativamente, alla proposta presentata alle parti ai sensi dell’art. 13” [C. Cost. n. 344/96]. In quest’ottica, si attribuisce all’ordine di servizio conforme alla proposta della Commissione (dunque, indirettamente, alla proposta stessa) una sorta di efficacia provvisoriamente sostitutiva di quella delle norme (mancanti) di fonte pattizia. In sostanza, benché la legge sia fortemente connotata dalla c.d. “etica del consenso” [Ghezzi-Romagnoli, 1997], il mancato esercizio della possibilità di darsi regole in modo autonomo ha aperto necessariamente il campo a soluzioni meno “democratiche”, volte tuttavia a tutelare i terzi potenzialmente danneggiati dal perdurare dello stato di conflittualità nel settore dei servizi pubblici essenziali. Ad ogni buon conto, il fatto che l’ordine di servizio sia conforme alle indicazioni di un organo imparziale come la Commissione garantisce sufficientemente tutte le parti in gioco. Concludendo sul punto, si può dire che la sentenza n. 344/96 ha posto le basi per le scelte recepite dalla legge n. 83/2000, la quale ha conferito maggiori poteri alla Commissione, rendendola il “cuore” del sistema.

Infine, merita un accenno il tema -classico- dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi contemplati dalla legge n. 146/90. La questione dell’efficacia degli atti negoziali di cui all’art. 2, comma 2°, è stata sollevata in relazione ai sindacati che non abbiano preso parte alle trattative (e, dunque, ai loro iscritti), nonché ai lavoratori che non aderiscano ad alcun sindacato. Il problema è particolarmente rilevante nel settore privato, ove la disciplina dell’efficacia dei contratti collettivi è mutuata dal diritto comune. La legge n. 146/90 contiene tuttavia elementi dai quali la dottrina nettamente prevalente ha potuto ricavare appigli normativi sufficienti per estendere l’ambito di efficacia del contratto collettivo a tutti i lavoratori. Ciò è stato possibile in quanto la legge contempla l’emanazione di regolamenti di servizio -su base concordata- i quali, in quanto espressione del potere direttivo del datore di lavoro, sono idonei ad “esplicare i propri effetti nei confronti di tutti i prestatori di lavoro” [Pilati, 1998].

 

6.     Le procedure conciliative e la precettazione.

 

La legge n. 83/2000, novellando l'articolo 2, comma 2 della legge n. 146/90, ha introdotto anche una serie di strumenti volti ad attenuare l'impatto delle vertenze sugli utenti. Più specificamente, si dispone che nei contratti/accordi collettivi “devono in ogni caso essere previste procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per entrambe le parti, da esperire prima della proclamazione dello sciopero […]”. Qualora non intendano avvalersi di tali procedure, le parti possono richiedere che il tentativo preventivo di conciliazione si svolga: a) se lo sciopero ha rilievo locale, presso la prefettura, o presso il comune nel caso di sciopero nei servizi pubblici di competenza dello stesso (salvo il caso in cui l'amministrazione comunale sia parte); b) se lo sciopero ha rilievo nazionale, presso la competente struttura del Ministero del lavoro e della previdenza sociale.

L'esito negativo delle procedure conciliative, e dunque il permanere dello stato conflittuale, possono comportare l'emissione dell’ordinanza di precettazione.

La titolarità del potere di precettazione spetta: a) al Presidente del Consiglio (o ad un Ministro da questi delegato), qualora il conflitto abbia rilevanza nazionale o interregionale; b) al Prefetto, o al corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale, in tutti gli altri casi.

Il presupposto di esercizio del potere di precettazione è la sussistenza del “fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all'articolo 1, comma 1, che potrebbe essere cagionato dall'interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici di cui all'articolo 1, conseguente all'esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori”. La nuova versione dell'articolo 8, come modificato dalla L. n. 83/2000, è più severa della precedente nei confronti degli aderenti allo sciopero: mentre prima, ai fini dell'emissione dell'ordinanza, era necessario che vi fosse “interruzione” dell'erogazione dei servizi pubblici, oggi è sufficiente che si produca una “alterazione” nel loro funzionamento (che comporti, ovviamente, il “pericolo di un pregiudizio grave ed imminente”).

L’emissione dell'ordinanza non avviene come un fulmine a ciel sereno, ma si pone come momento culminante di un preciso iter procedimentale descritto dall'articolo 8, comma 1, a norma del quale le autorità titolari del potere di precettazione:

1.   su segnalazione della Commissione di garanzia ovvero, nei “casi di necessità e urgenza, di propria iniziativa, invitano le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo”;

2.   “esperiscono un tentativo di conciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile”;

3.   nell’evenienza di un esito negativo del tentativo di conciliazione, “adottano con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona” oggetto di tutela;

4.   portano l'ordinanza a conoscenza dei destinatari mediante comunicazione.

Con riferimento al contenuto, l'ordinanza può, ai sensi dell'articolo 8, comma 2:

a)       disporre il “differimento dell'astensione collettiva ad altra data, anche unificando astensioni collettive  già proclamate”;

b)       disporre “la riduzione della sua durata”;

c)       prescrivere “l'osservanza da parte dei soggetti che la proclamano, dei singoli che vi aderiscono e delle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, di misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento del servizio pubblico compatibili con la salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.

Ai sensi dell'articolo 9, l’inosservanza delle disposizioni contenute nell'ordinanza comporta l'irrogazione con decreto, da parte dell'autorità che l'ha emessa, di sanzioni amministrative.

A norma dell'articolo 10, contro l'ordinanza di precettazione è possibile promuovere ricorso avanti al T.a.r. competente; il che conferma la natura di atto amministrativo dell’ordinanza di precettazione e, più precisamente, di provvedimento amministrativo  d’urgenza [per una ricognizione delle teorie in proposito, v. Pilati 1998].

 

7.     La questione dello sciopero degli avvocati

 

La vicenda dello sciopero degli avvocati si inserisce nella più ampia tematica dell'ambito soggettivo di applicabilità di una legge, la n. 146/90, la quale disciplina una materia delicata come quella dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. Infatti, in linea di principio la rilevanza dei diritti costituzionali che la legge si propone di tutelare implica che tutti gli addetti a servizi pubblici essenziali siano tenuti a rispettarne le disposizioni. Tuttavia, se l'applicabilità della legge n. 146/90 nei confronti di soggetti quali i c.d. padroncini dei TIR e i gestori di distributori di carburante non è mai stata in discussione, sono invece stati sollevati non pochi problemi in ordine alla inclusione nell'ambito di applicabilità della legge di altre categorie professionali (ad es. gli avvocati). Infatti, l'articolo 1, comma 2, contempla sì tra i servizi pubblici essenziali “l'amministrazione della giustizia, con  particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione”; ma si è ritenuto fino a tempi recenti che la legge n. 146/90 trovasse applicazione solo in casi di sciopero dei cancellieri e del personale amministrativo degli uffici giudiziari.

L'esperienza ha tuttavia mostrato come l'astensione dal lavoro degli avvocati, al pari di quella dei cancellieri e del personale amministrativo degli uffici giudiziari, possa creare gravi problemi all'attività di amministrazione della giustizia. Questo ha indotto la Corte Costituzionale a pronunciarsi in merito alla questione con la sentenza n. 171/96, nella quale si osserva: “l'obiettivo della legge n. 146 è la garanzia dei servizi pubblici essenziali, costruita com'è in funzione della tutela dei beni fondamentali della persona: l'articolo 1, comma 1, è in tal senso emblematico, ma la restante parte della legge - nel mirare esclusivamente alla protezione dall'abuso del diritto di sciopero - non appresta una razionale e coerente disciplina che includa tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari”. La Corte prosegue poi constatando che: “la salvaguardia degli spazi di libertà riservati ai singoli, e ai gruppi, che ispira la prima parte della Carta costituzionale non esclude che vi siano altri valori costituzionali meritevoli di tutela, come s'intravede nell'impianto della legge n. 146, dove vengono in rilievo diritti fondamentali - quello di azione e quello di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione - che sono attribuiti ai soggetti destinatari, a vario titolo, della funzione giurisdizionale. Ora, avendo l'esperienza rivelato le carenze della legge n. 146, si impone una più ampia regolamentazione anche in riferimento all'astensione collettiva dal lavoro non qualificabile, per l'assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero; e si richiedono, quanto meno, un congruo preavviso e un ragionevole limite temporale di durata, peraltro già previsti da codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale”. Sulla base di queste considerazioni, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell'articolo 2, commi 1 e 5 della L. n. 146/90 “nella parte in cui non  prevede, nel caso dell'astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l'obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza”.

Le linee guida contenute nella sentenza della Consulta sono state fatte proprie dal legislatore, il quale, attraverso la legge n. 83/2000, ha formulato ex novo l'articolo 2-bis, che estende l'applicazione della legge n. 146/90 alle ipotesi di “astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori [cfr. articolo 2083 cod. civ.] che incida sulla funzionalità dei servizi pubblici di cui all'articolo 1”. A tale scopo si prevede che la Commissione di garanzia promuova “l'adozione da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, di codici di autoregolamentazione”.

 

8.     La Commissione di garanzia.

      

La legge n. 146/90 prevede l'istituzione di una “Commissione di garanzia dell'attuazione della legge”, il cui funzionamento è regolato dagli articoli 12, 13, e 14. La disciplina originaria, però, è stata oggetto di critiche. In sintesi, la competenza della Commissione risultava ampia sotto il profilo dell'attività promozionale volta al superamento del conflitto, nonché della sorveglianza in ordine al rispetto degli accordi o dei codici di autoregolamentazione. La disciplina contenuta nella legge n. 146/90 mostrava tuttavia notevoli limiti in relazione a due aspetti:

·         innanzi tutto, la Commissione non aveva grandi margini di manovra nell'ipotesi in cui il conflitto fosse in una fase impasse, oppure in cui le parti fossero comunque inerti nel redigere accordi o codici di autoregolamentazione;

·         secondariamente, la condotta delle parti che integrasse una violazione degli accordi, ovvero il rifiuto delle parti di rispettare gli inviti e le proposte della Commissione, erano sanzionati in maniera insufficiente, ponendo dunque seri problemi di effettività della tutela.

I problemi cui si è appena fatto cenno sono stati spesso oggetto di segnalazione da parte della Commissione stessa, al punto che il legislatore ha ritenuto di dover intervenire per rafforzarne il ruolo (cfr. legge n. 83/2000).

In seguito al recente intervento legislativo, l'attività della Commissione si articola nello svolgimento di funzioni e nell'esercizio di poteri che possono essere riassunti come segue.

La Commissione svolge una funzione di mediazione e conciliazione tra le parti in conflitto, funzione esplicata non solo prima che lo sciopero venga proclamato, ma anche nella fase immediatamente successiva:

·         ai sensi dell'articolo 13, comma 1, la Commissione, anche di propria iniziativa, “valuta l'idoneità delle prestazioni indispensabili, delle procedure di raffreddamento e conciliazione e delle altre misure individuate ai sensi del comma 2 dell'articolo 2” e, qualora non le giudichi idonee, formula alle parti una “proposta sull'insieme delle prestazioni, procedure e misure da considerare indispensabili”. Se, nonostante questa iniziativa, il conflitto permane insanabile, la Commissione “adotta con propria delibera la provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili, delle procedure di raffreddamento e di conciliazione e delle altre misure di contemperamento”. La Commissione si comporta in modo analogo in relazione ai codici di autoregolamentazione di cui all'articolo 2-bis. A questo proposito, l'articolo 13 indica una serie si criteri da seguire allorché si decida di ricorrere alla provvisoria regolamentazione: salvo casi particolari, le prestazioni indispensabili “devono essere contenute in misura non eccedente mediamente il 50% delle prestazioni normalmente erogate e riguardare quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente ad 1/3 del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio nel tempo interessato dallo sciopero, tenuto conto delle condizioni tecniche e della sicurezza” (articolo 13, comma 1, lett. a);

·         come anticipato, l'attività conciliativa della Commissione non si esaurisce in seguito alla proclamazione dello sciopero. Infatti la Commissione, ricevuta comunicazione della proclamazione di uno sciopero “può assumere informazioni o convocare le parti in apposite audizioni” allo scopo di verificare: a) se sono stati esperiti i tentativi di conciliazione; b) se vi siano comunque le condizioni per una composizione della controversia. Tutto questo, con specifico riferimento al caso di conflitti di rilievo nazionale, si pone come premessa per un eventuale tentativo di mediazione, in vista del quale la Commissione “può invitare, con apposita delibera, i soggetti che hanno proclamato lo sciopero a differire la data dell'astensione dal lavoro”;

·         infine, va rilevato che la Commissione interviene non solo nei conflitti tra datore di lavoro e lavoratori, ma anche nelle ipotesi in cui si registri un “dissenso tra organizzazioni sindacali dei lavoratori su clausole specifiche concernenti l'individuazione o le modalità di effettuazione delle prestazioni indispensabili”. In questi casi, ai sensi dell'articolo 14, la Commissione “indice [la versione originaria, modificata dalla legge n. 83/2000, prevedeva la formula “può indire”] una consultazione tra i lavoratori interessati sulle clausole cui si riferisce il dissenso”.

La Commissione svolge una funzione di sorveglianza sul rispetto delle regole del conflitto ed in particolare:

·         “indica immediatamente ai soggetti interessati eventuali violazioni delle disposizioni” relative alle misure (es. preavviso, procedure di raffreddamento, ecc.) volte al contemperamento dei diritti delle parti;

·         “segnala all'autorità competente le situazioni nelle quali dallo sciopero o astensione collettiva può derivare un imminente e fondato pericolo di pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all'articolo 1”.

La Commissione svolge una funzione nomofilattica, esprimendo il proprio “giudizio sulle questioni interpretative o applicative dei contenuti degli accordi o codici di autoregolamentazione […] per la parte di propria competenza”. Essa svolge tale funzione “su richiesta congiunta delle parti o di propria iniziativa”. Inoltre, sempre su richiesta congiunta delle parti, essa può emanare un “lodo” sul merito della controversia.

Al fine di porre rimedio alla debolezza dell'azione della Commissione, la legge n. 83/2000 ne ha rafforzato i poteri sanzionatori. Sul punto si rimanda al paragrafo dedicato all'apparato sanzionatorio.

Sia nello svolgimento delle funzioni conciliative, sia preventivamente all'esercizio dei poteri sanzionatori, la Commissione è dotata di adeguati poteri istruttori, i quali si concretano per lo più nella “assunzione di informazioni” e nella “convocazione delle parti in apposite audizioni”.

 

9.     L'apparato sanzionatorio.

 

L'articolo 4, interamente dedicato alla disciplina dell'apparato sanzionatorio, prevede due catagorie di sanzioni: quelle disciplinari (individuali) e quelle collettivo-sindacali.

Le sanzioni disciplinari (individuali) sono poste a carico dei lavoratori che si astengano dal lavoro in attuazione di uno sciopero proclamato senza il dovuto preavviso minimo e/o senza l'indicazione della sua durata, salvo che non ricorrano le circostanze d'esonero di cui all'articolo 2, comma 7 (il quale fa riferimento alla “astensione dal lavoro in difesa dell'ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della sicurezza dei lavoratori”). Il comma 1 precisa che le sanzioni sono proporzionate alla gravità dell'infrazione e che, comunque, sono escluse le “misure estintive del rapporto, nonché quelle che comportino mutamenti definitivi dello stesso”.

 

Le sanzioni collettivo-sindacali sono irrogate nei confronti delle organizzazioni di lavoratori che proclamano uno sciopero o ad esso aderiscono in violazione delle disposizioni di cui all'articolo 2 (dunque in violazione degli accordi collettivi, dei codici di autoregolamentazione o della provvisoria regolamentazione disposta dalla Commissione di garanzia). Esse consistono in:

·         sospensione dei permessi sindacali retribuiti ovvero dei contributi sindacali comunque trattenuti dalla retribuzione, ovvero entrambi, per la durata dell'astensione. L'ammontare economico delle sanzioni deve essere compreso tra un minimo di 5 ed un massimo di 50 milioni avendo riguardo ai seguenti parametri: consistenza associativa, gravità della violazione, eventuale recidiva;

·         esclusione delle associazioni sindacali che si rendono responsabili di una violazione delle trattative alle quali partecipino per un periodo di due mesi dalla cessazione del comportamento.

Va poi sottolineata un'importante innovazione introdotta dalla legge n. 83/2000, la quale, ritenendo fondate le critiche mosse sul punto alla versione originaria della legge 146/90, ha previsto sanzioni amministrative pecuniarie, comprese tra un minimo di 5 ed un massimo di 50 milioni, a carico:

·         dei dipendenti responsabili delle amministrazioni pubbliche o dei legali rappresentanti delle imprese e degli enti che erogano servizi pubblici essenziali i quali violino “gli obblighi loro derivanti dagli accordi o contratti collettivi o dalla regolamentazione provvisoria della Commissione di garanzia” ovvero che “non prestino correttamente informazione agli utenti”. Tale modifica al testo originario mira a correggere lo squilibrio dell’apparato sanzionatorio precedentemente in vigore, il quale reprimeva il comportamento lesivo degli accordi posto in essere dalle associazioni sindacali dei lavoratori, lasciando priva di adeguata sanzione la violazione perpetrata dalla pubblica amministrazione ovvero dalle imprese erogatrici del servizio;

·         delle associazioni o degli organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori in solido con i singoli lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori che “aderendo alla protesta si siano astenuti dalle prestazioni” violando in tal modo i codici di autoregolamentazione o la regolazione provvisoria della Commissione di garanzia.

Di notevole importanza è il procedimento di irrogazione delle sanzioni collettivo-sindacali (articolo 4, comma 4-quater), nel quale il ruolo-chiave è svolto dalla Commissione di garanzia. Il procedimento in esame può essere scomposto, per comodità espositiva, in quattro sequenze:

1.        il momento iniziale va ravvisato nell’impulso dato dalle parti interessate (associazioni sindacali, organismi rappresentativi di lavoratori autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori, pubblica amministrazione ed imprese erogatrici di servizi) , dalle associazioni degli utenti, dalle autorità nazionali o locali che vi abbiano interesse oppure d'ufficio dalla Commissione di garanzia;

2.        segue una fase istruttoria che si instaura nel momento in cui la Commissione apre il procedimento di valutazione del comportamento che si assume posto in essere in violazione degli articoli 2 e 2-bis. L'apertura del procedimento di valutazione è notificata alle parti, cui è concesso un termine (30 gg dalla notifica) per presentare osservazioni e per chiedere di essere sentite;

3.        una volta assunti gli elementi utili alla valutazione, si passa alla fase decisoria: decorso il termine entro il quale le parti possono presentare le osservazioni, e comunque non oltre 60 gg dall'apertura del procedimento, la Commissione formula la propria valutazione. Se il comportamento in esame è valutato negativamente, la Commissione, tenuto conto anche delle cause di insorgenza del conflitto, delibera le sanzioni che ritiene opportune, indicando il termine entro il quale la delibera deve essere eseguita;

4.        infine la fase di esecuzione del provvedimento sanzionatorio.

Infine, il comma 4-ter prevede che le sanzioni “sono raddoppiate nel massimo se l'astensione collettiva viene effettuata nonostante la delibera di invito della Commissione di garanzia emanata ai sensi dell'articolo 13, comma 1, lettere c), d), e) ed h)”. Tali delibere di invito, adottate dalla Commissione in ipotesi tassativamente previste, hanno lo scopo di condizionare la condotta nelle parti coinvolte nel conflitto. Esse, pur non avendo efficacia vincolante, assumono rilievo nella fase decisoria del provvedimento di irrogazione delle sanzioni, allorché la valutazione della Commissione investa la condotta delle parti.

 

10.   La tutela ex articolo 7-bis.

 

L'articolo 7-bis, introdotto dalla recente legge n. 83/2000, contempla un'ulteriore forma di tutela a favore dei destinatari dei servizi pubblici essenziali: si tratta della legittimazione ad agire in giudizio accordata alle associazioni degli utenti (cfr. legge n. 281/98), “anche al solo fine di ottenere la pubblicazione, a spese del responsabile, della sentenza che accerta la violazione dei diritti degli utenti”. La legittimazione ad agire è riconosciuta:

a) nei confronti delle associazioni sindacali responsabili, qualora lo sciopero sia stato revocato dopo la comunicazione all'utenza, a meno che, ai sensi dell'articolo 2, comma 6, sia nel frattempo intervenuto un accordo tra le parti ovvero vi sia stata una richiesta da parte della Commissione di garanzia o dell'autorità competente ad emanare l'ordinanza di precettazione. Il presupposto è che dalla condotta delle associazioni sindacali “consegua un pregiudizio al diritto degli utenti di usufruire con certezza dei servizi pubblici”;

b) nei confronti delle amministrazioni, degli enti o delle imprese che erogano i servizi, qualora non vengano fornite adeguate informazioni agli utenti ai sensi dell'articolo 2, comma 6 (si veda, a questo proposito, il paragrafo dedicato alla disciplina dell'istituto del preavviso). Il presupposto è che “da ciò consegua un pregiudizio al diritto degli utenti di usufruire dei servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”.

Nozione
L'ambito soggettivo di applicazione
Il contemperamento tra diritti confliggenti
Modalità di esercizio
Obbligo di preavviso
Obbligo di comunicazione
Il cd. "effetto-annuncio"
La ratio del ricorso all'autonomia collettiva
La provvisoria regolamentazione
Corte cost. n. 344/96
L'efficacia soggettiva dei contratti collettivi
Le procedure di raffreddamento e di conciliazione
Il potere di precettazione
Il presupposto di esercizio
L'emissione dell'ordinanza
Il contenuto dell'ordinanza
Corte cost. n. 171/96
La riforma introdotta dalla legge n. 83/2000
I limiti della vecchia disciplina
La funzione di mediazione e conciliazione
La funzione di sorveglianza
La funzione nomofilattica
I poteri sanzionatori
Le sanzioni individuali
Le sanzioni collettivo-sindacali
Il procedimento di irrogazione delle sanzioni

 

(Ritorna all'elenco Articoli nel sito)