“E’ tutta colpa vostra, perché gli avete sempre lasciato fare quello che voleva!” disse mia cognata a mio fratello e a me un giorno che, secondo le sue abitudini, Antonio si era levato le scarpe, sdraiato sul divano, messo un fazzoletto davanti agli occhi e addormentato alla presenza di una decina di persone invitate al pranzo di Natale.
Mio fratello accettò il rimprovero della moglie senza nulla rispondere e così feci io, memore dell’antico adagio “Tra moglie e marito non mettere il dito”.
L’accusa era comunque rivolta ad entrambi in parti uguali, a mio fratello e a me, e si riferiva al non aver saputo educare Antonio, nostro padre.
Io reagisco spesso alle accuse col silenzio, facendo finta di non sentire, ma, meditando in un secondo tempo su quell’accusa, mi veniva da pensare: “ Da quando in qua i figli sono responsabili della cattiva educazione dei genitori? Non dovrebbe essere il contrario?” Il fatto è che quando la normalità diventa il sogno di una notte di mezza estate e si è lontani le mille miglia dai comportamenti usuali, tutti perdono il senso della realtà; così di fronte a due figli che, nonostante tutto, sono cresciuti in un modo non troppo strampalato, risalta la stranezza di un comportamento paterno che segue regole sue proprie, incomprensibili ai più.
E, a dire il vero, l’accusa non è neanche meritata: benché figli e non genitori, noi abbiamo tentato in mille modi di educare nostro padre. 
Ricordo quando, per evitare che abbandonasse il negozio in balia dei ladri, gli dicevo:” Papà, io sono nella mia stanza a studiare. Se ti stanchi di stare in negozio, chiamami e io vengo subito. Non allontanarti dal negozio lasciandolo aperto”. Purtroppo erano soltanto parole al vento. Il negozio, affidato, anche per pochi minuti, a lui, veniva regolarmente abbandonato, così, aperto, col denaro dell’incasso nel cassetto, come se fosse stato affidato ad un bambino e non ad un uomo di età matura, padre di due figli.
L’inutilità assoluta dei reiterati rimproveri ci ha fatto desistere, nel corso degli anni, dal riprovarci; ci ha indotto ad accettare nostro padre così com’era, con le sue stranezze, e ha sviluppato in noi doti non comuni di pazienza e di tolleranza, che sono poi risultate utilissime nella nostra vita sociale e lavorativa.
Certo la convivenza con nostro padre negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza ci aveva creato non pochi problemi.. Le sue stranezze e in particolare la sua ingenuità caricaturale lo rendevano facile preda delle prese in giro da parte di tutto il paese e noi figli eravamo vittime di questa situazione. Quante volte mi sono sentita apostrofare da lontano col nomignolo: “Antonia!” in tono di scherno e di disprezzo!
Questo fino all’età di diciannove anni, quando la distanza tra il paese e l’università mi ha costretto a trasferirmi nella città dove poi sono rimasta e dove tuttora vivo. 
La lontananza e la maturità fanno dimenticare il passato e le pene sofferte nell’infanzia, salvo venire bruscamente richiamati alla dolorosa realtà quando meno ce l’aspettiamo.
Lavoravo in ospedale ormai da anni, abituata al rispetto e alla reverenza abituali nei confronti di un medico, dimentica dello scherno e della continua necessità di difesa che avevano caratterizzato la mia adolescenza, quando mi sento telefonare dal portiere dell’ospedale che con tono incredulo mi dice “Dottoressa, qui c’è un uomo che dice di essere suo padre” Io, fingendo di non avvertire la sua meraviglia, rispondo “E’ mio padre, lo sto aspettando”. 
A nulla erano valse le mie raccomandazioni sull’abbigliamento, che non deve imitare quello dei mendicanti. E’ più forte di lui: il denaro non gli manca, i consiglieri neppure, ma si veste come uno straccione; le scarpe che tollera, come pure le maglie e i gilè, sono piene di buchi fatti ad arte secondo regole da lui inventate per la salute e il benessere della pelle e a nulla valgono le raccomandazioni sulla reputazione sua, dei famigliari in generale e della figlia dottoressa in particolare.

Era un pomeriggio di domenica e io mi trovavo in chiesa alla funzione dei vespri.
La funzione aveva momenti di canto corale, altri di preghiera recitata e altri, abbastanza lunghi, di silenzio e di raccoglimento durante i quali si sarebbe sentita volare una mosca.
Proprio durante uno di questi momenti Antonio entra in Chiesa, con passo rumoroso, per portarmi le chiavi di casa. Incurante del clima di silenzioso raccoglimento, mi porge le chiavi dicendo ad alta voce: “Nela, ti do’ le chiavi perché in casa non c’è nessuno”. A nulla sono servite le mie intimazioni al silenzio e gli sguardi dei fedeli sconcertati da quell’atteggiamento, così stonato rispetto al contesto e purtuttavia non blasfemo né anticlericale, ma soltanto incapace di percepire un’atmosfera così tangibile per chiunque avesse avuto dei normali recettori sociali. Ha continuato con lo stesso tono e lo stesso volume di voce fino alla conclusione del messaggio che mi doveva dare sulla chiave e sulla porta di casa.

Avevo vent’anni , frequentavo l’università e tornavo in treno dalla città al paese. 
Per un ritardo del primo treno ho perso la coincidenza con il secondo Essendo questa l’ultima corsa, ho telefonato a casa perché qualcuno mi venisse a prendere.
In casa mia nessuno sapeva guidare, ma nella famiglia allargata c’erano zii e cugini sui quali potevo contare per non essere costretta a fare venti chilometri a piedi. Dopo la mezz’ora prevista mi vedo arrivare, a piedi, con un viso raggiante, mio padre. Dopo aver constatato che era proprio solo, gli chiedo: ”E a casa come ci andiamo?” “Ma in autostop” mi risponde con l’aria più naturale del mondo. “ Ma non è un po’ penoso fare l’autostop padre e figlia?” Era come parlare arabo. Impossibile per Antonio percepire la differenza tra la nostra coppia e una coppia di autostoppisti ventenni. L’imbarazzo si è poi risolto presto perché è passato un compaesano che ci ha caricati e portati a destinazione con la massima naturalezza.

Un amico di famiglia coetaneo di Antonio, celibe, un giorno ebbe a dire: “Io non mi sono mai sposato pensando alle responsabilità che comporta il matrimonio”; a queste parole Antonio, con l’aria più sorpresa del mondo, ha esclamato: “Ma io non ho mai pensato alle responsabilità”. Nulla gli è più estraneo e incomprensibile di questo concetto, lontano dal suo universo come per noi il pianeta Marte.

L’incontro con mia madre mi è stato raccontato mille volte e anche questo ha qualcosa di teneramente comico. Dopo un viaggio in corriera avvenuto nel dicembre 1945, Antonio arrivò a casa dicendo a sua madre che aveva trovato la moglie ideale. Il padre di lei, dopo aver chiesto e ottenuto ottime informazioni sulla famiglia, mentre nessuno sapeva nulla del futuro sposo che era tornato dalla guerra dopo sette anni di assenza dal paese, andò in visita alla famiglia per conoscere il promesso sposo. La madre, volendo favorire questo matrimonio dal quale il figlio aveva tutto da guadagnare, gli diede un incarico che lo tenne lontano tutta la giornata, mandò a chiamare la migliore delle sue figlie, che intrattenne il padre della sposa per tutto il tempo della visita lasciando in lui un’impressione ottima della giornata e della famiglia. Non si era accorto che aveva trascorso tutta la giornata con la madre e la sorella dello sposo, mentre questi era stato allontanato ad arte. Non è detto che non avrebbe fatto anche lui la sua figura: l’aspetto fisico era quello di un grande attore: alto, magro, atletico, con due occhi azzurri belli e accattivanti, la parlata simpatica soprattutto quando raccontava le avventure di guerra, ma l’ingenuità caricaturale e la totale mancanza di quella piccola dose di malizia che aiuta i rapporti sociali avevano fatto ritenere prudente alla madre, molto lungimirante, tenere lontano il futuro genero dagli occhi del futuro suocero.

Tante volte mi sono chiesta, durante e dopo l’università, che sindrome fosse quella di mio padre, così strano, così diverso da tutte le persone che ho conosciuto in vita mia, pur tanto numerose, essendo sempre vissuta in mezzo alla gente: in un negozio prima e in un ospedale poi. Ho passato in rassegna le varie sindromi psichiatriche: depressione, psicosi, nevrosi, mania, ritardo mentale, ma le stranezze del genitore non s’inquadravano neanche lontanamente in nessuno dei capitoli del trattato di psichiatria. Ho concluso che doveva essere colpa dei sette anni passati in guerra, trascurando il piccolo particolare che la maggioranza dei suoi coetanei aveva avuto la stessa esperienza ma era ben diversa. 

Col tempo questi pensieri sono stati completamente abbandonati, sopraffatti dalla vita presente, sempre più lontana dall’infanzia e dall’adolescenza, ricca di impegni, di interessi, di amici e soprattutto della nuova famiglia formata con un marito che era l’esatto contrario del padre, a dispetto dei principi freudiani sulla scelta del coniuge. Pensavo che le stranezze del comportamento facessero parte di un passato ormai chiuso e che non avrei più dovuto conviverci tra le mura domestiche. Ero lontana le mille miglia dal pensare che la stranezza si annidava dentro di me, nella profondità dei cromosomi e che era impossibile allontanarvisi.

Il nome della sindrome paterna, che prende il nome dal Dr. Hans Asperger che l’ha descritta nel 1944, l’ho trovato quando ormai non lo cercavo più da anni, mentre ero impegnatissima a cercare di capire e curare la sindrome tanto più grave, ma con tante affinità, che affliggeva mia figlia: l’autismo infantile. Lo studio dell’autismo in tutte le sue sfaccettature porta a studiare le sindromi affini, più pure e meno gravi, quelle in cui non c’è il grave handicap con il mancato sviluppo di tutti i settori comportamentali, ma solo ed elettivamente la distorsione e il deficit dell’interazione sociale reciproca, della capacità di sintonizzarsi con gli altri, di recepire le atmosfere sociali, di non fare gaffe che imbarazzano gli altri e che fanno ridere o piangere a seconda dell’umore, come mettersi tra un uomo e una donna che si stanno parlando teneramente, parlare a voce alta e camminare con passo rumoroso quando tutti sono in religioso silenzio, eccetera eccetera eccetera.
Ai numerosi convegni sull’autismo spesso viene descritto il profilo comportamentale dell’Asperger: quoziente intellettivo normale, linguaggio normale ma incapacità di capire le situazioni sociali, ingenuità caricaturale, infantilismo, incapacità a prendersi la benché minima responsabilità. L’aspetto fisico normale e talora attraente, l’ingenuità che talora dà fascino e viene scambiata per virtù, la sincerità senza ombra di malizia possono favorire la conquista della compagna con la quale viene poi formata una normale famiglia, salvo poi il comparire nella vita famigliare di quelle peculiarità per cui il padre-marito ha un comportamento e un ruolo molto più simili a quelli di un figlio svitato, che viene rimproverato da tutti, figli compresi, senza che questo cambi minimamente le sue stranezze, che si ripetono tali quali nel tempo, resistenti a qualsiasi approccio educativo.

La mia esperienza di vita, che credevo unica al mondo, mi veniva descritta come tipica dell’Asperger e quindi era stata vissuta da tante altre famiglie e persone in ogni parte del mondo: quante? Sette su mille secondo lo svedese C. Gillberg, e in tutte queste situazioni si ripete quell’insieme di riso, soprattutto da parte dei lontani, di pianto da parte dei vicini, e di duro giudizio morale (fannullone, buono a niente) per una condizione determinata dall’incapacità costituzionale di capire le atmosfere, di prendersi responsabilità e via dicendo.
Qui si impone quella considerazione, tanto lontana dal senso comune, secondo la quale tale sindrome meriterebbe un riconoscimento a fini pensionistici o, meglio ancora, meriterebbe un inserimento lavorativo protetto. Sotto l’apparenza di normali capacità lavorative e sociali si cela la più grande fragilità, la più profonda incapacità di farsi accettare dalla società. Chi sta vicino spesso non capisce che la volontà degli Asperger non è malvagia, ma debole, malata, inesistente e la società bolla con epiteti dispregiativi persone che necessitano di aiuto e protezione.
Sono tante le persone meno fortunate di Antonio che, non sostenute da una famiglia e da un intorno sociale tollerante, vengono abbandonate a se stesse ed emarginate, finendo i loro giorni sulla strada come “senza fissa dimora”.

mamma Nela