Schopenhauer e Darwin in Svevo

Renato BARILLI, La linea Svevo-Pirandello

Mursia, 1972

Partendo dalla constatazione che autori letti (e prediletti) da Svevo sono Schopenhauer e Darwin, si arriva a vederne l'influenza (più o meno pretestuosa).

L'inetto è colui che ha preso coscienza dell’esistenza, al di sotto della "rappresentazione" (della realtà fenomenica), della cieca "volontà", di cui si rifuta di essere esecutore: sarebbe quindi una sorta di eroe della noluntas (o comunque un rivelatore dei limiti del vitalismo non mediato dalla riflessione) , un "contemplatore", antitetico ai "lottatori" (esecutori della voluntas ).

Più acuto il rilievo dell'influsso di Darwin (del resto sancito da due saggi dello stesso Svevo, scritti fra il 1907 e il 1909: L'uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell'anima ). L'uomo, dice Svevo, in quanto il più debole fra gli animali, è il vincitore dello "struggle for life"; gli animali adeguano necessariamente i propri organi alle necessità ambientali, l'uomo invece, in quanto colpito dalla malattia dell'anima (che è la riflessione, l'ipertrofia della coscienza) è per eccellenza "malcontento", e quindi sempre insoddisfatto (sempre allo stato di "abbozzo"), mai adattato (alla lettera, "inetto" è colui che non si adatta), e quindi in grado di sopravvivere a tutti i cambiamenti di ambiente (adattarsi è cristallizzarsi; la "corruzione" dell’anima è proprio quella per cui l’anima perde il proprio "malcontento", la propria inquietudine vitale, inseguendo, e raggiungendo, il successo, "grande seduttore"). Paradossalmente l'inettitudine è sì tormento, insoddisfazione (sconosciuti agli animali), ma anche garanzia di sopravvivenza: è rovesciato l'assunto di Darwin.

E' questo un modo per leggere in positivo l'inetto sveviano. Ma è fondato? Il discorso sul gabbiano, cosiccome il finale della Coscienza di Zeno sembrano celebrare la naturalità assoluta (il vero progresso è quello della rondine, che adatta il muscolo al volo migratorio...) e non invece la capacità di sopravvivenza dell' "occhialuto uomo".

 

 

Leopardi e Svevo: una diagnosi ante litteram

 

In Una vita, Macario invita Alfonso a fare una gita con lui in barca; in mare, guardando i gabbiani, filosofeggia sul fatto che sembrano fatti esclusivamente per prendere pesci. E conclude: "Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello che è la sventura del pesce che finisce in bocca al gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall'alto. Ma il cervello! Cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce, non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda, non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare, o anche inabili a tenere." (1)

E' un rimpianto per la naturalità-animalità perduta, per un rapporto con la natura senza le mediazioni dell'intelletto, che diventano fatalmente motivo di irresolutezza, e quindi di malattia.

Così per Leopardi, nel Dialogo della Natura e di un'anima, a quest'ultima che chiede come mai grandezza e infelicità siano inscindibili, la Natura risponde: "...l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento della infelicità propria... Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini (sono) impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell'eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più efficaci. Ma le tue pari... soggiaciono il più tempo all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni... attingerai con facilità le conoscenze più difficili... ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sè, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo." (2)

 

Inettitudine ed ebraismo in Svevo

G. DEBENEDETTI, Svevo e Schmitz (1929),

in Personaggi e destino,

ed. Il Saggiatore (1977), pp. 49-92.

L'inetto è generato da uno scompenso fra l'orientamento (il progetto) che l'individuo dà alla propria vita e la curva che poi effettivamente la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo; agisce come i bambini, ai quali il meccanismo associativo non ancora esercitato impedisce di raggiungere col tatto gli oggetti percepiti con la vista. E' una tara congenita e di cui non si è responsabili, ma rimorde e fa soffrire come una colpa.

Zeno contraddice questa figura solo apparentemente; il successo gli arride senza merito; anche lui non sa cogliere l'oggetto, ma in compenso se ne trova tra le mani un altro, non cercato, che è proprio quello buono.

Le due caratteristiche di fondo dell'inetto sono queste:

1) è un eterno adolescente (vedi Zeno che non si è mai laureato) per il quale la vita resta sempre un indecifrabile enigma, incapace di acquisire una reale esperienza (sentimentale, non solo mentale) dagli smacchi subiti;

2) per sopravvivere, malgrado questa impossibilità di vivere come gli altri, si è creato un rifugio dove nascondere il capo: la presunzione di valere di più nell'ambito della produzione spirituale (così si rivalgono i "letterati" Alfonso ed Emilio; meno chiaro per Zeno).

Tale figura di inetto non è altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato (privo) di ogni felice istinto del vivere; femminilmente passivo (analogamente, del resto, è definito Emilio rispetto al Balli).

 

 

La crisi d’identità del personaggio in alcuni scrittori e opere del ’900

 

1) La crisi d’identità del personaggio (che troviamo rappresentata in tanta narrativa del Novecento) non è altro che uno dei modi in cui si esprime quella più vasta crisi di certezze (politiche, morali, filosofiche) che investe l’Europa nella cosiddetta "età del decadentismo";

2) Sul piano filosofico, più che il pensiero di Nietzche o Bergson (che pure sono significativi, perché rompono il modo tradizionale di concepire, ad esempio, la morale o il tempo), è la psicanalisi di Freud che pone in termini nuovi la questione dell’identità dell’individuo: la psicanalisi, in quanto scopre che la coscienza è spezzata fra conscio e inconscio, fra Es, Io e Super-io, spezza anche l’illusione che i comportamenti dell’individuo siano univoci e coerenti, che ci sia perfetta corrispondenza fra quel che si pensa e quel che si fa, fra quel che si fa e quel che si vorrebbe fare (la parte conscia rispetto a quella inconscia è come la punta di un iceberg rispetto al suo corpo sommerso; gli istinti, pulsioni - Trieb - sono mostri paurosi che sfuggono ad ogni controllo morale e razionale; ecc.);

3) la letteratura europea, o perché influenzata direttamente o perché respira la stessa aria, non può non risentirne: le Memorie del sottosuolo di Dostojevskij, del 1864, sono un’anticipazione clamorosa della scoperta che accanto a un "io" tranquillo e conformista esiste un "io" distruttivo ed autodistruttivo; Proust, Joyce, Kafka non sono comprensibili senza riferimenti alla scoperta dell’inconscio da parte della psicanalisi; ed opere come The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson (1886) e Heart of darkness di Conrad (1906) sono perfettamente leggibili entro queste categorie;

4) sul versante italiano, Svevo e Pirandello, in modi diversi ma accostabili, esprimono questa stessa condizione: è vero per ambedue che il personaggio non si sente più "uno" (ma si sente "nessuno" e "centomila"), ed è vero per ambedue che la "malattia" consiste in un eccesso di sviluppo (una ipertrofia) della coscienza che inibisce irrimediabilmente naturalità ed immediatezza ("ma il cervello... cosa ci ha a che fare il cervello col prendere pesci?" dice Macario commentando il volo del gabbiano in Una vita);

5) più precisamente, in Pirandello il personaggio inizia la ricerca della propria identità, dal momento in cui scopre di non essere autenticamente se stesso (scopre la dissonanza fra le "forme", entro cui è costretto a vivere, e la "vita", che scorre altrove; si accorge di indossare delle "maschere", attore suo malgrado, mentre il vero "volto" è sconosciuto; ecc.): così è per Mattia Pascal (che diventa Adriano Meis, per sbarazzarsi di una "forma" o "maschera", quella di Mattia, nella quale non si riconosce più); per Vitangelo Moscarda (che paga con l’emarginazione e la "pazzia" il tentativo di conoscersi al di sotto della "maschera" di usuraio che ha ereditato dal padre); e così è per i protagonisti di tante novelle (il professore de La carriola, Belluca de Il treno ha fischiato, ecc.); d’altra parte, proprio in certe pagine del saggio su L’umorismo Pirandello chiarisce come sia proprio dell’arte il compito di svelare questa "doppiezza" della condizione umana (ed è emblematica l’immagine dell’erma bifronte che da una faccia ride del pianto dell’altra); il che equivale a dire che l’arte demistifica l’apparenza convenzionale della realtà e rivela l’emergenza del contrario per eccellenza: l’esigenza di una vita autentica che, ovviamente, si manifesta come il contrario della presunta normalità;

6) analogamente, in Svevo il personaggio è alla ricerca della "salute" perduta, della ricomposizione dell’unità originaria fra coscienza e vita: e questo è vero non solo per Zeno (per il quale la malattia è il punto di partenza; e per il quale è evidente che si tratta di compiere un viaggio attraverso la propria coscienza, con l’aiuto della psicanalisi - salvo poi ricredersi nel finale, quando riconosce che la malattia appartiene alla società tutta, e non all’individuo singolo), ma anche per un "inetto" come Alfonso Nitti o un "senile" come Emilio Brentani (non è difficile riconoscere nella "inettitudine" e nella "senilità" nomi diversi per una stessa malattia). E’ interessante notare come l’alternativa malattia-salute si manifesti, in maniera ricorrente nei diversi romanzi, come sdoppiamento fra il protagonista ed una sorta di alter-ego, che è rappresentato da un personaggio che è contemporaneamente, e non a caso, amico e rivale del protagonista: così è per le coppie Alfonso-Macario in Una vita, Emilio-Balli in Senilità, Zeno-Guido ne La coscienza di Zeno (e qualcosa di analogo si potrebbe riscontrare per le coppie femminili: Annetta Maller-Lucia Lanucci; Amalia-Angiolina; Ada-Augusta);

7) dal punto di vista sociale tale crisi d’identità può essere interpretata come il riflesso di una crisi che investe la piccola e media borghesia fra la fine dell’’800 e i primi decenni del ’900 (tale è la condizione sociale dei personaggi sveviani e pirandelliani: impiegati, professionisti, piccoli proprietari, piccoli imprenditori): una classe schiacciata fra le elites del potere da una parte e l’emergere delle grandi masse operaie e contadine dall’altra; una classe, quindi, che soffre di una vera e propria crisi d’identità sociale, che non ha più certezze sul proprio ruolo e sulla propria funzione. Tale interpretazione può essere legittimata da un romanzo come I vecchi e i giovani di Pirandello o da certe pagine (ad es. quelle finali de La coscienza di Zeno) di Svevo, ove il male di cui si soffre è visto non come un dato esistenziale-metafisico, ma come il prodotto di una ben determinata evoluzione storica.

 

NOTE

1) Un concetto analogo è espresso nel finale de La coscienza di Zeno: la salute non può appartenere che alla bestia, che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo; sono gli "ordigni", e il loro sopraffare l'uomo, la causa della malattia. Non si tratta del rimpianto topico per la natura benigna, ma della denuncia della "reificazione universale".

2) Il parallelo Leopardi-Svevo è rintracciabile anche in un altro momento: la conclusione de La coscienza di Zeno ("ci sarà un'esplosione enorme... e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie ") rimanda alla conclusione del Cantico del gallo silvestre ("Tempo verrà che esso universo e la natura medesima, sarà spenta... parimente del mondo intero non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso...").