Ho ricevuto da Piero Lumia e Peppino Pizzuto un articolo apparso sulla "Sicilia" il 3 novembre 2003. Leggerlo è stato come ricevere un pugno sullo stomaco. Nell'articolo non c'è nulla di nuovo. Ci sono, a mio avviso, diverse inesattezze e certe ricostruzioni un po' romanzate delle cose successe nel nostro paese.

Sinceramente, non riesco a dare giudizi. Manco da 33 anni e i brevi periodi che trascorro a Villalba non sono certo sufficienti per farmi avere un'idea precisa.

L'impressione che ho avuto, nei miei brevi soggiorni, è che ci sia un certo benessere (forse l'essere rimasti in pochi ha qualche vantaggio!): i giovani sono ben vestiti, istruiti, hanno il telefonino,  girano in motorino o in macchina... Ci sono delle belle case e diverse famiglie hanno la seconda casa in campagna.

Allora, si potrebbe obiettare: "Dove sta il problema?". Il problema è che, a parte l'azienda creata dai F.lli Messina, non ci sono sbocchi professionali per i giovani. Non può certo essere l'impiego in "Comune", i "lavori socialmente utili" o la speranza che il nipote dell'emigrato negli Usa porti lavoro e ricchezza ad assicurare un futuro alla gente del paese.

 

Non dico altro. Riproduco l'articolo sperando che questo susciti un dibattito fra i Villalbesi. Io mi dico sin da ora disponibile a pubblicare, in questo sito, le opinioni di chi vorrà inviarmele.

 

 

Lunedì 3 novembre 2003  - "LA SICILIA"


 

"Poco più che un villaggio contadino, un centro di miseria, di costrizione, di fatica e di servitù. Ma è, a suo modo, una capitale, e le vicende che vi si sono svolte l'hanno resa, non senza ragione, famosa" (Carlo Levi)

 VILLALBA

LA PACIFICAZIONE. C'era una volta don Calò, il capo della mafia. E c'erano oltre 5 mila abitanti. C'erano pure due grandi nemici

 

 

 

Al Club Juventus ci sono flipper e videogame, ma i ragazzi giocano a briscola in cinque come fanno i pensionati. Al Bar Favata, in piazza Vittorio Emanuele, la sala è piena di ventenni con le carte in mano e i gesti lenti. Hanno i capelli con la cresta, i telefonini, il piercing, e quando si stancano dicono "Me ne vado ad Albenga". L'ultima emozione che ha scosso il paese risale a due anni fa quando Favata pensò a un sistema per il Superenalotto e venti persone vinsero, a primo colpo, 120 milioni. Da allora le stesse venti persone ci riprovano ogni settimana, ma Favata ha dovuto affiggere un avviso per sollecitare i versamenti. Ci si stanca presto a Villalba, la cui unica animazione è offerta dai ragazzi della media che colorano Via Roma. Quelli delle superiori, che ogni mattina prendono il treno per Caltanissetta, si sono pur'essi stancati di occupare i binari quando vedono arrivare un solo vagone da Palermo. Da anni chiedono alle Ferrovie di impiegarne almeno due, visto che il treno si riempie già a Vallelunga: vedendosi scontentati si ricordano dello studente di Tienanmen e si mettono davanti alla motrice. Chi non studia bivacca leggendo il Corriere dello sport di giorno e vedendo la televisione di sera. FinchÈ non annuncia: "Me ne vado ad Albenga".

L'anno scorso l'hanno fatto in 17, nel 2001 in 23. Ad Albenga vivono oltre 3500 villalbesi, mentre in paese sono meno di 1900. Altri settecento compaesani hanno creato una comunità a Pollezza, sul confine svizzero. Chi va via vende tutto, anzi svende. Un palazzo con mille metri quadri di terreno è stato dato per 110 milioni. Ad Albenga una ragazza nata e cresciuta a Villalba, Rosy Guarneri, è diventata assessore comunale e leghista. Il 13 dicembre, la festa di Santa Lucia di Albenga è tutta di tipo meridionale: la cuccìa è diventato lassù un piatto tipico. I villalbesi sono oramai albenghesi e in estate tornano sempre più raramente in paese, non attirando più nÈ San Giuseppe nÈ la Sagra del pomodoro. Villalba sta morendo. La media è di 30 morti l'anno contro 15 nascite. In dieci anni il calo è stato di 250 abitanti. Se si vuole si può calcolare quando Villalba scomparirà come un'antica città sicana.

A luglio è venuto a Villalba un Plumari. Si chiama Giuseppe ed è nipote di un emigrato negli Usa. Ha un'azienda di assicurazioni con 50 sedi in tutta l'America e 43 mila dipendenti. Non parla una parola in italiano, ma vedendo Villalba, il paese degli avi dove è venuto per un debito di coscienza, ha detto che farà qualcosa.

Il paese aspetta con ansia di sapere cosa. E, mentre teme che rifarà una delle tante strade dissestate, vagheggia un point informatico che crei posti di lavoro e assuma giovani che lavorino per gli Usa stando a casa. "Con internet oggi si può emigrare solo virtualmente" dice il sindaco Eugenio Zoda, che freme nell'attesa di una risposta d'oltreoceano.

L'ultima perdita di posti di lavoro è stata pesantissima: la ditta Messina che lavora nell'indotto della Fiat di Termini ha dovuto rinunciare a una trentina di operai dopo il fermo della produzione imerese.

Altri posti di lavoro, non più di venti in tutto, li offrono in ambito familiare quattro aziende semenzaie e una fungaia.

Per il resto l'unica azienda vera è il Comune. Villalba ha perso anche il carcere mandamentale, chiuso dal '95 e rifiutato anche da don Gelmini per farne un centro di tossicodipendenti. Opere pubbliche rimaste inattive sono il centro ortofrutticolo, il macello, la condotta idrica con annesso serbatoio. L'anno scorso è stato scoperto un villaggio neolitico di particolare interesse perchÈ privo di successive edificazioni: è stato ricoperto e abbandonato. Da sito archeologico poteva divenire meta turistica, ma Villalba ha perso tutti i treni. La chiesa madre è chiusa da due anni per una frana interna. Padre Achille Lomanto celebra nell'altra chiesa, chiamata "piccola".

Tutto qui si rimpicciolisce.

La piazza sulla quale in un'alba invernale Carlo Levi posò a lungo gli occhi dalla finestra di casa Pantaleone scorgendovi la rappresentazione di antichi riti è sempre vuota quando un tempo pullulava di uomini intabarrati e di capannelli di coppole e berretti. Questa piazza per decenni è stata l'emblema di una certa idea di Sicilia suggerita da Levi: "Vi è tutto, assolutamente tutto quello che fa l'antica società siciliana, tutto raccolto in quei pochi metri, in quelle poche case, in quelle poche persone". C'era la chiesa, la casa di don Calò Vizzini, che era il patriarca della mafia, la sede del Sicilbanco, le sedi della Dc e del Pci, la casa di Pantaleone il mafiologo, la caserma dei carabinieri, due bar, più sotto il carcere.

Il tempo ha disperso questa concentrazione di poteri prospicienti in "un palcoscenico di teatro di tragedia" e ha lasciato solo i bar, la banca e la sede dei Ds accanto a quella di An. La chiesa ha chiuso, il carcere è sparito, il boss è morto, i Cc si sono trasferiti, Pantaleone non c'è più. In quel tempo Villalba amava concentrare: il palazzo oggi sede del solo municipio ospitava a pianoterra la casa mandamentale, al primo piano la scuola, al secondo il Comune e al terzo la pretura. L'ombelico della Sicilia era qui e Carlo Levi vedeva in Villalba una vera capitale, fatta di "tredici strade parallele e sei trasversali". Philip Sabetti, un politologo canadese di origne pugliese, scelse proprio Villalba per raccontare la mafia siciliana in un libro nel quale il nome del paese è Camporano e quelli delle persone sono degli pseudonimi. Arrivò un giorno con il suo berretto rosso e i suoi modi gentili, affittò una casa e ci rimase due anni. Andava in giro chiedendo come si fa il pane e perchÈ le lenticchie sono così buone. Conquistata la fiducia della gente, cominciò a fare domande su don Calò e sulla mafia. Nel libro che pubblicò in America, "Politica e potere in un comune siciliano ", dimostrò che non fu la mafia a sopraffare la Dc ma viceversa, che la commissione antimafia riportò in vita la mafia quando era moribonda, che lo sviluppo della mafia in Sicilia fu il prezzo della sfiducia verso il governo e che tra mafia e antimafia il male minore fu la mafia. Sabetti è tornato l'anno scorso a Villalba ed è andato a trovare alcuni suoi amici, fra cui Rosario Alessi, che oggi è impiegato all'anagrafe comunale ed è stato il presidente del circolo culturale "La Lucciola" quando, negli anni Settanta, la passione civile aveva preso il posto della congestione mafiosa e l'attenzione era tutta per la guerra a carte bollate tra Michele Pantaleone e Luigi Lumia.

Mai si sono visti due uomini odiarsi tanto e per tanto tempo. Nè l'uno nè l'altro sono stati amati a Villalba, ancorchÈ Lumia sia stato sindaco del Pci per sei mesi e abbia lasciato un libro in due volumi, "Storia e memoria di Villalba", frutto del blitz che fece davanti alla casa di villeggiatura di don Calò Vizzini, dove gli americani lanciarono da un aereo un fazzoletto bianco per annunciare lo sbarco: qualche anno fa i parenti si disfecero della mole di documenti del boss e Lumia li raccolse nell'aia facendone fonte di ricerca. Fonte di vita fu invece l'odio che portò a Pantaleone fino a piazzarsi tra i più accaniti propalatori della voce secondo cui fosse figlio naturale di don Calò, il quale - nonostante gli improperi che il mafiologo gli versava addosso in ogni libro - mai diede ordine di alzargli un dito, prova del legame di sangue.

Un giorno Pantaleone costruì un piccolo gallinaio e il sindaco Lumia emise un decreto di demolizione perchè abusivo.

Pantaleone bussò allora alla caserma dei carabinieri e chiese al maresciallo Tommaso Arioli, che chiamavano "lo sceriffo" perchÈ era rude e truce, di denunciare tutte le costruzioni abusive del paese. In capo a due giorni Arioli firmò 186 denunce, inguaiando mezzo paese che a Pantaleone cominciò a fare gli occhi storti. Ma avrebbero dovuto ringraziarlo perchè grazie a quelle denunce ebbero successivamente certificata, ai fini della sanatoria, la loro costruzione abusiva. Invece lo allontanarono: nessun operaio voleva fare lavori in casa sua. Lui allora si rivolgeva all'ufficio collocamento, ma i chiamati si davano malati pur di non mettersi ai suoi comandi, sicchè si trovavano denunciati per iniziativa del loro cospicuo e odioso concittadino onorevole.

Finchè Pantaleone chiese ad Alessi perchè i villalbesi si voltassero dall'altra parte a solo vederlo ed ebbe l'invito a un confronto pubblico alla Lucciola. Pantaleone chiamò anche un amico giornalista da Palermo perchÈ testimoniasse il suo trionfo che fu invece una disfatta: quando raccontò di quel 16 settembre 1944, giorno in cui gli scherani di don Calò spararono contro Girolamo Li Causi facendo 18 feriti, e lui disse di essersi parato davanti fermando una pallottola, testimoni veri e lucidi dei fatti si alzarono per dirgli che era falso - le stesse parole che Vizzini pronunciò contro Li Causi per dare l'ordine di aprire il fuoco. Ma nemmeno Lumia godeva di grande stima, forse perchè era di modi spicci e arroganti o forse per via delle provvidenze che elargiva facendo particolarità che gli costarono un processo a lui e alla sua Giunta. Accettò un confronto pubblico alla Lucciola con Pantaleone e la gente andò a sentirli con l'attenzione un po' svagata che si rivolge a due litiganti forestieri.

Il vero notabile del paese è stato piuttosto don Calò, "il galantuomo" per eccellenza. Se a Villalba nacque un carcere e sorse una pretura fu per raffermare la presenza dello Stato dopo la stagione dell'occupazione mafiosa, ma la gente ritiene benemerito don Calò, perchÈ senza di lui quei posti di lavoro non sarebbero mai arrivati. Don Calò è sepolto nella cappella Vizzini-Farina tra padre Salvatore e mons. Giovanni, i suoi fratelli. I villalbesi hanno sempre approvato ogni parola dell'epitaffio che è un'apologia del mafioso e un elogio della Cosa Nostra: "Precorse e attuò la riforma agraria, sollevò le sorti degli oscuri operai della miniera. Grande, generoso di animo, nemico di tutte le ingiustizie, fu difensore del diritto dei deboli raggiungendo altezze mai toccate". L'ultimo grande funerale celebrato in paese è stato il suo. Un drappo nero occupava l'entrata della matrice con su scritto un encomio che terminava con questa apostrofe: "Fu un galantuomo ".

Sono passati 49 anni. Morto lui è cominciato il declino. Nel 1950 il paese contava 5121 abitanti e dominava l'intero Vallone. Ora non ha strade che non siano scoscendimenti ritorti. Caltanissetta è oltre a un'ora di curve, l'autostrada a 35 chilometri, la scorrevole Agrigento-Palermo ben oltre Mussomeli che sembra irraggiungibile di là della Montagnola lungo la vetturale borbonica. Dentro il Vallone gli automobilisti che chiedono la strada, anzichÈ gli incroci, si sentono indicare le montagne dove dirigersi per arrivare in paese. L'autostrada ha reso la nobile statale 121, la "Catanese", che univa i paesi dell'entroterra come grani di un rosario, una pista buona per percorsi pittoreschi attraverso i feudi fondi di Tùdia e MiccichÈ, alla ricerca di una Sicilia che bisogna andare a cercare. A Villalba la 121 manteneva anche l'hotel Tripoli e il cinema Bellini e si vedevano facce nuove che non erano solo quelle dei mietitori girovaghi. Oggi qui non arrivano nemmeno gli immigrati.

In compenso è fiorita l'arte. A Villalba vive uno scultore sconosciuto in Italia e noto in Corea, Spagna e Nuova Zelanda. Si chiama Michele Valenza ed è stato custode al carcere, vigile urbano ed oggi fa l'impiegato comunale. Ma la sua vera attività la esercita in contrada San Nicola: in una casa che ha costruito con le sue mani, lavora da autodidatta il marmo duro facendone sculture che gli hanno meritato un nome a Seul, dove si reca spesso caricando navi dei suoi pesantissimi complessi di nudità torte e grottesche che di Villalba ripetono il senso della costrizione misto a un anelito di libertà. Ha eretto un monumento al contadino a Marianopoli forse perchÈ a Villalba l'agricoltura interessa oggi alla sola università di Palermo che ha creato campi sperimentali di erbe officinali a ridosso dei vigneti di Regaleali. I giovani disdegnano la campagna e i vecchi l'abbandonano.

Il disfacimento di "Robba" Trabia, lo storico casale dimora dei Palmieri, dove resiste la lapide che ricorda il pernottamento di Garibaldi tra muri medievali che cadono in miseria, è lo specchio dell'immiserimento agricolo.

La lenticchia di Villalba è la migliore al mondo per il suo ferro ma i contadini non la sanno più coltivare. Hanno usato la motozappa per arare ottenendo un cereale di qualità inferiore perchè il vomere è stato portato troppo in profondità. C'è voluto tempo per capire che occorreva tornare al mulo e all'aratro. La verità è che l'emigrazione ha privato Villalba delle competenze necessarie in fatto di coltivazione e ha lasciato solo l'apatia. Nemmeno "i vecchiariddi" sono quelli di una volta, quando per San Giuseppe chi aveva ricevuto una grazia invitava a pranzo i poveri e poi mangiava i resti che lasciavano nei piatti. Oggi "i vecchiariddi" sono un'occasione per un'abbuffata tra amici quando si cambia casa o si compra la macchina nuova.

Nessuno più andrebbe a Tusa alla ricerca di maghi per levare fatture come successe a una famiglia nella cui casa entrò il demonio e si impossessò di una ragazza. Don Achille ricorda che chiese al vescovo di poter stare vicino all'indemoniata e dopo un lungo periodo riuscì a scacciare il diavolo affidandosi alla sola forza della preghiera. Oggi, uscita da quell'esperienza, la ragazza strappata al diavolo è vista come un po' strana e si pensa che abbia avuto una forma molto acuta di ossessione. Ma don Achille ancora oggi dedica molto del suo tempo a benedire le case per bonificarle. Villalba è un paese credente e fervente. Crede ancora oggi che chi raggiunga la sommità di Pizzo di Lauro, fuori paese, divenga ricco e disperda le anime vaganti che sono morte nel tentativo di riuscirci.

Dagli albori della sua fondazione, alla sommità del suo declivio sorge una collina chiamata Calvario: è un vero e proprio Golgota con le tre croci al cielo e le tante "stazioni" della Via Crucis lavorate in pietra. La collina viene lasciata incolta per tutto l'anno perchÈ il Venerdì Santo i fedeli possano calpestare l'erba. Un cancello di ferro impedisce che qualcuno vi entri fuori dalla Settimana Santa. E' la "terra santa" dei villalbesi, l'acrocoro che ha il compito di frenare la terra, sottoposta a un continuo smottamento per colpa delle falde acquifere sotterranee. La chiesa madre ha subìto un cedimento

per la presenza di una cloaca non deviata

e il fenomeno ha assunto, nella percezione

generale, il carattere di una divinazione.

Ma non è per i rivolgimenti del sottosuolo che Chiesa e Stato procedono su strade diverse. Il sindaco Zoda non smetterebbe mai di accampare capi d'accusa contro don Achille, tacciato di tenere in superficiale considerazione le vicende e i bisogni del paese. "Si estranea da tutto" tuona. Ma la sua non è un'opinione comune. Don Achille indulge ad alzare la voce anche dal pulpito, ma il suo apostolato è molto apprezzato. Convinto che "i panni sporchi non si mostrano in pubblico", allarga le braccia e sospira: "Cerco di fare di questa terra un giardino". Il suo giardino non prevede il ripristino della rappresentazione vivente della Via Crucis, considerata un eccesso teatrale e una causa di distrazione dal raccoglimento, ma produce severi canoni di professione della fede. Zoda lo contesta e ne parla pure al maresciallo dei carabinieri che naturalmente non prende parte alla "controversia" tra un don Camillo di animo rinunciatario e un Peppone di animoso accanimento. Nè comunque il maresciallo ha oggimai gli stessi pensieri dei suoi remoti predecessori. A Villalba la gente ride se qualcuno chiude la macchina a chiave; e ricorda la paura di un tempo, quando nessuno voleva vivere in campagna per non finire nelle mani dei banditi. Solo oggi il paese si è chetato. Tutta la sua storia è una sequela di rivolte popolari e carneficine.

Qui si sono radunati tutti i simboli, come nella piazza vista da Levi: non una figura dell'album della Sicilia ha mancato di avere la sua scena a Villalba: briganti, mafiosi, patriarchi, campieri, carabinieri, baroni, contadini hanno recitato la loro parte in questo cosmorama siciliano. Qui le contrade prendono nome dal sangue versato. "Quarti" è chiamato il luogo dove per lungo tempo furono tenuti appesi i corpi squartati dei briganti che osarono concepire "intentimenti pravi" nei confronti della figlia del duca Della Ferla. Che li volle pencolanti a duecento metri dalle proprie finestre. Era alla mafia che i baroni si rivolgevano per avere giustizia o ristabilire l'ordine sommosso dai villani. Poi venne don Calò e dalla sua casa che dava sulla piazza regolò la vita del paese dando soddisfazione a baroni, banditi e contadini. Oggi tre carabinieri bastano e avanzano per tenerlo sott'occhio.

Hanno i tempi lunghi e i passi tardi delle tre suore francescane che occupano un intero istituto e che, nella piazza dove all'alba il maresciallo andava a braccetto con il mafioso prendendone per primi possesso sotto gli occhi disincantati di Levi e quelli vigili di don Calò, vanno in giro come pensionate all'occhio del sole.

GIANNI BONINA

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