DIARIO DI VIAGGIO IN EGITTO

Viaggio con un gruppo di Avventure nel Mondo dal 6 al 21 marzo 1999
A distanza di tre mesi dal ritorno dal Marocco comincia a farsi avanti con prepotenza il bisogno di un nuovo viaggio

VOGLIA DI VIAGGIARE

Ad appena tre mesi di distanza dal ritorno dal Marocco comincia a farsi avanti con prepotenza il bisogno di un nuovo viaggio in un paese esotico. Questa volta saremo soli perché Alberto e Ornella ci hanno detto di non essere in condizione di partire di nuovo e allora, visto che loro ci sono già stati alcuni anni fa, la meta si sceglie da sola: l’Egitto. Sfogliamo qualche catalogo ma subito la scelta cade su una proposta di Avventure nel Mondo della durata di 15 giorni con percorso interamente in pulmino con autista: Nilo, Sinai e Mar Rosso. Oltre alla visita delle incredibili e infinite meraviglie archeologiche dell’Antico Egitto, potremo quindi abbinare un tuffo nel mar Rosso e soprattutto la scoperta del Sinai, il monastero di Santa Caterina, per la gioia di Grazia, e la mistica salita al Jebel el-Musa o monte Sinai, il biblico monte dove Mosè verso il 1250 a.C. avrebbe ricevuto da Dio le tavole dei dieci comandamenti. Questa volta però ai consueti problemi da affrontare quando partiamo per un viaggio, se ne aggiunge un altro: Valentina sta attraversando un periodo critico con segni di stanchezza e strani dolori nervosi allo stomaco e quindi non ce la sentiamo di lasciarla sola a Livorno……..e allora, di getto, si decide, partiremo tutti e tre insieme! E così, seppur con un certo timore che nessuno di noi ha il coraggio di confessare, ci iscriviamo al viaggio del mitico Avventure nel mondo, restando poi in attesa della conferma che arriverà solo una settimana prima della partenza: una sera finalmente ci telefona la capogruppo, una certa Adriana di Mareno di Piave in provincia di Treviso, che, nel confermarci l’effettuazione del viaggio come da noi richiesto, ci dà appuntamento all’aeroporto di Roma per le ore 12 di sabato 6 marzo.

INIZIA L’AVVENTURA CON AVVENTURE NEL MONDO

Raggiungiamo Fiumicino in treno, percorrendo una costa tirrenica interamente imbiancata da una incredibile e fastidiosa grandinata che già ci aveva salutati alla stazione di Livorno al momento di scaricare le valigie dalla Panda. A Roma troviamo solo una parte del gruppo, otto partecipanti più noi tre, mentre gli altri sei, in partenza da Milano con la capogruppo, si uniranno a noi all’aeroporto di Atene dove tutti faremo uno scalo intermedio. Il nostro primo impatto con i partecipanti che troviamo al punto di incontro non è estremamente rassicurante né confortante. Si tratta di Corrado e Franco che, appena vengono a sapere che siamo alla nostra prima esperienza di viaggio con Avventure nel mondo, ci squadrano con una certa aria annoiata e superiore da veterani viaggiatori del mondo e con una certa commiserazione, ridacchiando sotto i baffi, ci dicono: "Auguri!". Lì per lì mi sento gelare, ma poi mi riprendo, cerco di mantenere un atteggiamento compassato e tranquillo e faccio notare ai due "veterani" che, tutto sommato, se loro continuano a viaggiare con Avventure nel mondo, nonostante lo scetticismo dimostrato, vuol dire che alla fine qualche cosa di positivo deve pur esserci!

Comunque partiamo in orario con un volo della Olimpic Air diretto ad Atene, dove, come da programma, dopo una trentina di minuti, ci congiungiamo con i nordisti e Adriana, la capogruppo. Sono solo in quattro perché una coppia non è partita per motivi di salute e quindi l’intero gruppo risulta formato da 15 persone. Ci presentiamo e ci osserviamo: ci sono giovani e meno giovani, uomini, sette, e donne, otto, coppie e singles; il tutto per un gruppo adeguatamente vario, senza un’antipatica predominanza di qualche categoria. L’unica maggioranza schiacciante è quella dei……..toscani: siamo ben sette, contro due umbri, due marchigiani, un romagnolo, un lombardo, un piemontese e la capogruppo veneta.

Decolliamo da Atene con un po’ di ritardo e arriviamo al Cairo dopo un volo tranquillo ma con un ritardo complessivo di un’ora. Qui purtroppo sembrano diventare giustificati gli scetticismi espressi a Roma da Corrado e da Franco: all’uscita dell’aeroporto non c’è nessuna traccia del pulmino che avremmo dovuto trovare per essere accompagnati all’albergo già prenotato del quale, oltretutto, nessuno conosce il nome. Adriana ha subito l’occasione di far vedere di che pasta sia fatta e, con l’aiuto della polizia turistica, fa una serie di telefonate all’agenzia egiziana, ad Avventure nel Mondo a Roma, a casa dell’autista del pulmino e agli alberghi utilizzati da precedenti gruppi. Niente; trascorre così un’ora e mezza facendoci restare praticamente quasi soli nell’aeroporto. Corrado e Franco, visibilmente contrariati, dicono: "sempre così con Avventure!" e mi guardano, ma senza avere il coraggio di dire " te l’avevamo detto!"; Eleonora e Debora solidarizzano subito con Adriana e cercano di aiutarla a farsi capire in inglese dalla polizia egiziana; Giampiero e Lorella, la coppia di Porto S.Elpidio che già tutti ritengono in luna di miele, se ne stanno in piedi accanto alla distesa dei nostri zaini e valigie che giacciono abbandonati in mezzo al salone dell’aeroporto. Quando ormai avevamo iniziato una serie di telefonate per trovare una camera a buon prezzo per la sistemazione della prima notte – poi domani si vedrà -, finalmente e miracolosamente, l’autista si fa vivo per telefono e ci dice che tra pochi minuti sarà all’aeroporto. Il motivo del disguido e del ritardo verrà poi imputato dal titolare dell’agenzia egiziana ad Avventure nel Mondo, colpevole, secondo lui, di avergli indicato una diversa ora di arrivo. Comunque, contenti per il problema risolto, prendiamo d’assalto il pulmino trovandolo sufficiente a contenere abbastanza comodamente tutti noi (tranne Franco, il caimano di Cesenatico, per le sue lunghissime gambe) e i nostri bagagli che sistemiamo ammucchiati sulle poltrone di fondo. Una trentina di minuti di strada e arriviamo all’Atlas Hotel, un albergo nel centro della città, dove, dopo la distribuzione delle camere e l’incontro con il titolare dell’agenzia per la definizione degli accordi con Adriana, ci concediamo un brindisi di benvenuti con birra egiziana e coca-cola gentilmente offerte dal direttore e, poco prima di mezzanotte, ce ne andiamo a letto.

IL CAIRO: OLTRE 22 MILIONI DI ABITANTI!

Il Cairo, con i suoi 12 milioni di abitanti più altri 10 nelle periferie, pari a un terzo della popolazione dell’intero Egitto, è la città più grande e popolosa dell’Africa e l’unica ad avere la metropolitana. La sua fondazione risale ai tempi dell’invasione musulmana e precisamente al momento della conquista dell’Egitto da parte della dinastia dei fatimidi che nel 969, in segno di omaggio per una decisiva vittoria in battaglia, fondarono a nord di Fustat una città alla quale dettero appunto il nome di Al-Qahira che significa "la vittoriosa". Da allora Il Cairo non ha mai smesso di crescere, richiamando continuamente sempre nuovi abitanti attratti dal miraggio di facili ricchezze che peraltro all’occhio del turista occidentale risultano quanto meno improbabili. Questa esplosiva crescita urbana ha determinato naturalmente una irregolare e confusa distribuzione della popolazione, che infatti vive per oltre 5 milioni di persone nei bassifondi della città e in migliaia di piccole casette in muratura incredibilmente sorte sugli antichi cimiteri tanto da far meritare a tali zone l’appellativo di "città dei morti". Trattandosi di una città così grande è naturalmente impensabile riuscire ad averne anche una minima idea in una sola giornata da visita. Ma così vuole il piuttosto rigido programma già consegnato alle autorità di Polizia, e quindi dobbiamo contentarci di quel poco che ci viene fatto vedere: l’antica Cittadella, la Moschea di Hassan e il Museo Egizio. Peccato perché dobbiamo rinunciare ai vicoli e alle viuzze dei quartieri islamici come Darb al-Ahmar pieni di vivaci mercati e di splendide ed imponenti moschee; non vediamo la Moschea e università di Al-Azhar, la più antica del mondo islamico; non possiamo salire su qualche minareto per godere di vedute sicuramente suggestive; non visitiamo Khan al-Khalili, uno dei bazar più grandi del mondo; ci fermiamo, solo per il tempo di scattare una foto, dal margine della strada, a una minima parte della Città dei morti suddivisa dalla Cittadella in due giganteschi sobborghi; non ci rendiamo conto di dove né come sia il Cairo copto con le sue chiese cristiane e ebraiche; e infine non percepiamo neppure l’esistenza di due grandi isole sul Nilo, in pieno centro della città, sulle quali sorgono gli splendidi sobborghi di Gezira e Zamalek. Pazienza! E come succede sempre in questi frangenti, non possiamo far altro che rimandare a quando torneremo in Egitto, una visita più esauriente della città.

Al mattino di domenica, giornata lavorativa per gli egiziani che normalmente riposano il venerdì, dedichiamo la visita del Museo Egizio che raggiungiamo dal nostro albergo con una passeggiata di una trentina di minuti lungo alcune grandi strade del centro del Cairo. Sosta ad una banca per il necessario cambio della moneta in Lire Egiziane ( una LE ha un valore di poco superiore alle 500 lire italiane), alla posta per acquisto di francobolli e schede telefoniche e a un tipico punto di ristoro dove osserviamo con curiosità uomini egiziani mentre fanno uno spuntino in piedi, intorno a tavoli imbanditi di tanti piattini in alluminio pieni di fagioli, pomodori, cipolle, sottaceti e focacce. All’ingresso del Museo ci ritroviamo con Adriana che nel frattempo era andata a procurarsi, in maniera non del tutto chiara, le tessere di studenti per tutti i componenti del gruppo, necessarie per ottenere lo sconto del 50% su tutti gli ingressi dei luoghi storici e archeologici dell’intero Egitto. Di colpo, come per miracolo, mi ritrovo così con un documento ufficiale, munito di una mia vera fotografia, dal quale risulto nato nel 1970! Speriamo che la cosa funzioni!

Il Museo Egizio, situato in un grande edificio circondato da un giardino, contiene oltre 100.000 oggetti a testimonianza delle splendide civiltà fiorite in questo paese dal 3000 a.C. (Antico Regno) sino al 400 d.C.(Impero Romano). Il merito di aver iniziato nel 1858 questa stupenda collezione spetta all’archeologo francese Auguste Mariette al quale infatti è dedicato un monumento in bronzo nel giardino del museo. Gli oggetti sono esposti in ordine cronologico in oltre cento sale disposte su due piani dell’edificio. In poco più di un paio d’ore visitiamo il museo, soffermandoci ad osservare con attenzione solo i pezzi più famosi ed interessanti: due statue colossali di Amenofi, i modelli delle barche usate dai faraoni per il loro viaggio nell’aldilà, vasi di alabastro, dipinti su papiro, il trono in legno di Tutankhamon adornato da uno stupendo rilievo a vivaci colori che lo raffigura insieme alla moglie, un gioco da tavolo con pezzi in avorio, una interessante serie di sarcofaghi dorati, splendidi gioielli e incisioni in oro di incredibile raffinatezza, eleganti scritte in geroglifici incise su granito e su basalto e infine le sale dedicate al tesoro di Tutankhamon. Questo tesoro rinvenuto solo nel 1922 è costituito da ben 1700 pezzi, ma su tutti si distingue, all’interno di una vetrina di cristallo in mezzo ad una sala buia, la leggendaria maschera mortuaria del faraone, costruita in un oro plasticamente lavorato e battuto, intarsiato con lapislazzuli e altre pietre preziose. Anche se si tratta di un oggetto già visto in centinaia di riproduzioni fotografiche, non mi stancherei mai di guardarlo e di osservarne lo straordinario, affascinante accostamento tra il colore giallo dell’oro e l’azzurro scuro dello smalto steso a strisce sulla parte del tipico copricapo del faraone.

Il gruppo si ricompone presso un self-service dove ci gustiamo un ottimo shawerna, tipica focaccia morbida aperta a sacchetto, riempita con verdure cotte e carne di manzo o di agnello tagliata a piccoli pezzetti direttamente dallo spiedo. La giornata continua con la visita alla Cittadella che raggiungiamo con il nostro pulmino.

La Cittadella, prima fortezza e poi dimora dei governatori d’Egitto dal XII al XIX secolo, è costituita da un insieme di moschee, musei, strade e ampi spazi, racchiusi da mura e da torri merlate costruite a scopo difensivo su una collina ai margini orientali della città. Sul punto più alto si eleva la mole della Moschea di Mohammed Alì, costruita nel 1840, che con le sue bianche e lucenti cupole ( quella centrale misura 52 metri di altezza) e i suoi sei minareti a matita è diventata uno dei simboli del Cairo. Stupendo è il panorama che godiamo dalla piazza antistante questa moschea: subito sotto di noi, ai piedi della collina, si dominano le due imponenti e importanti moschee di Hasan e er-Rifà-i, costruite una accanto all’altra appena separate da una stretta stradina.; poi lo sguardo, abbagliato dal sole, spazia su un mare infinito di palazzi e piccole costruzioni, tutte rigorosamente color ocra, su decine di minareti e moschee, su una serie di moderni grattacieli che sembrano circondare la città, finchè, la ricerca inconfessata viene incredibilmente premiata dalla surreale , anche se purtroppo lontana e seminascosta da una cappa di foschia, visione delle mitiche piramidi di Giza. Si vedono solo due minuscoli triangoli spuntare alla fine della città, ma l’immagine è di quelle impossibili da dimenticare.

Ancora abbagliato dalla luce del panorama, entro a piedi nudi nella moschea di Mohammed Alì costruita nel XIX secolo, notando con soddisfazione come qui in Egitto, a differenza del Marocco, la visita delle moschee sia consentita anche ai non musulmani. La moschea vera e propria è preceduta da un ampio cortile quadrato, circondato da pareti arricchite da belle vetrate e da un portico interno con al centro la fontana per le abluzioni. Infine l’interno della moschea, interamente ricoperto da rossi tappeti e sormontato dalle alte cupole, ove è conservato il sarcofago di Muhammed Alì.

Proseguiamo la visita della Cittadella passeggiando, insieme a turisti egiziani e non, per le sue stradine e piazze sino ad arrivare ad una porta secondaria sormontata da una antica abitazione e infine uscire dalla porta principale che si apre sulla grande Piazza del Saladino. Subito dopo visitiamo la imponente Moschea di Hasan situata proprio ai piedi della collina della Cittadella. Si tratta di una delle moschee più importanti del Cairo costruita nel XIV secolo dal sultano Hasan utilizzando, si dice, pietre provenienti dalle grandi piramidi di Giza. L’ingresso, che si apre lungo la stradina in discesa che la separa da un’altra grande moschea, immette in alcuni locali coperti – che insieme ad altri circondano la moschea vera e propria e ospitano diverse scuole coraniche - e poi in un cortile quadrato con la fontana per le abluzioni e con decine di lampade ad olio attaccate a lunghe catene che pendono dall’alto; da qui si entra nelle sale con volte a botte, destinate alla preghiera. Come al solito gli interni di questi edifici religiosi islamici, rigorosamente privi di immagini e di un qualche punto di riferimento conosciuto, non riescono a farci provare sensazioni interessanti e quindi dopo pochi minuti ci ritroviamo tutti fuori.

Di nuovo in pulmino diretti all’albergo accontentandoci di una semplice sosta sul ciglio di una strada per dare un’occhiata dall’alto alla Città dei morti: benché ai nostri occhi si presenti solo una anonima distesa senza fine di piccole casette apparentemente disabitate, leggiamo dalla guida che in effetti si tratta di una immensa necropoli mammalucca – formata sia da migliaia di semplici fosse coperte da una lastra in pietra destinate alla sepoltura della gente comune, che da ricchi mausolei per sultani e principi con abitazione annessa per ospitarvi i familiari durante le celebrazioni – utilizzata, a partire dalla guerra del 1967, per ospitarvi le centinaia di migliaia di profughi provenienti dalla regione del Canale di Suez e successivamente per accogliere le sempre più numerose persone che, attratte dalla grande città, decidono di lasciare le campagne. Ancora una volta debbo restare con la voglia di sperdermi nell’intrico di queste stradine alla ricerca di immagini rubate da fissare sulle mie pellicole fotografiche. E con me tutti gli altri "fotografi" del gruppo! Pazienza.

A questo punto inizia la lunga odissea per raggiungere in taxi le piramidi della zona di Giza dove, su suggerimento di Franco, decidiamo di andare ad assistere allo spettacolo serale di suoni e luci. A fatica troviamo quattro taxi che, dopo estenuanti trattative sia sul luogo da raggiungere – ma è credibile che un tassista del Cairo non sappia dove si trovano le Piramidi ??!! – sia sul prezzo da pagare, ci fanno salire e partono nel caotico traffico della sera. Dopo qualche centinaio di metri un taxi perde i contatti perché fermato da un vigile. Gli altri tre proseguono per una decina di minuti, poi, inspiegabilmente si fermano ai lati di una strada e ci dicono che per il prezzo convenuto possono solo condurci sin lì! E dove siamo? Discussioni tra noi e due tassisti finché, grazie all’intervento di un passante egiziano, ci accordiamo per un aumento del prezzo purché ci portino all’ingresso dello spettacolo. Si riparte e, come prima, durante il percorso un taxi perde contatti. Dopo qualche minuto si arriva al termine di una larga strada buia dal quale – per nostro conforto - possiamo vedere la splendida sagoma di una piramide che, accompagnata da una voce che sembra venire dall’oltretomba, cambia colore e illuminazione. Siamo arrivati, ci fanno capire i due tassisti, e noi, come bischeri – mi sia concesso il toscanismo – paghiamo e restiamo lì in mezzo a questa strada mentre le auto si allontanano velocemente. Ci guardiamo intorno. Ma l’ingresso dove è? Vediamo spuntare un paio di cavalli (!) e qualcuno ci dice che per raggiungere l’ingresso situato a oltre un chilometro dalla parte opposta delle piramidi, dobbiamo andarci a cavallo, naturalmente dietro adeguato compenso! Siamo rimasti solo in sette e confesso che, per un attimo, non sappiamo che fare. Per fortuna c’è un ufficio di polizia turistica che capisce la situazione e ci consente di salire tutti insieme su un’auto per essere trasportati come pacchi, due davanti accanto al guidatore e cinque (!) dietro, sino all’ingresso dello spettacolo, che nel frattempo sta quasi per finire. E gli altri componenti dei due taxi precedentemente perduti dove saranno? Comunque finalmente scendiamo al punto voluto, paghiamo il biglietto, entriamo, assistiamo agli ultimi cinque minuti di suoni e luci e all’apparire della luce vediamo con sollievo che gli altri nostri compagni erano stati più fortunati di noi e si erano goduti l’intero spettacolo comodamente seduti. Contenti comunque per l’avvenuta ricomposizione del gruppo, saliamo su due taxi station-wagon con tripla fila di sedili- solite trattative- e ci facciamo portare al Museo Egizio dove, come da accordi, troviamo il titolare dell’Agenzia turistica. Seguendolo, facciamo una lunga e veloce camminata attraverso una serie di strade cairote, fino a raggiungere un tipico e affollatissimo locale dove, affamati, divoriamo medaglioni fritti di verdura, fagioli, fave bollite, pomodori, cipolle e salsine non meglio identificate. A questo punto penso sia giusto andarcene a letto.

LE PIRAMIDI

Lunedì di buon mattino viene a prenderci l’autista che ci scarrozzerà per tutto l’Egitto con il solito vecchio pulmino Toyota, carico di una decina di anni di onorato servizio in chissà quale parte del mondo. La prima tappa, che raggiungiamo in pochi minuti, è, come previsto, la visita delle mitiche piramidi di Giza e della misteriosa Sfinge, già intraviste nel buio la sera precedente. Pur essendo ormai praticamente attaccate al Cairo, dal cui centro distano infatti solo una dozzina di chilometri, posso dire che una volta entrato nell’ampio sito desertico sul quale sorgono a 3/400 metri di distanza l’una dall’altra, mi dimentico di essere in prossimità di una città e riesco ad isolarmi e a calarmi senza difficoltà nella loro magica atmosfera.

Siamo di fronte all’unica meraviglia del mondo antico ancora in piedi, delle sette menzionate dagli storici prima di Cristo. La prima piramide che incontriamo è quella più grande e più vecchia: Cheope. Sono necessarie alcune notizie numeriche per poter dare una seppur minima idea di quale miracolosa opera mi trovo di fronte. Risale al 2600 a.C., nata di 146 metri è oggi alta solo 139 metri, ha un lato di oltre 230 metri, è formata da 2,5 milioni, dico milioni, di blocchi di calcare da oltre un metro cubo ciascuno, squadrati e levigati a mano con l’ausilio di altre pietre più dure. Tempo di costruzione ipotizzato: 10 anni per costruire le rampe in terra e mattoni poi smantellate portate chissà dove, e altri 20 anni per erigere la piramide. Il tutto solo per custodire il sarcofago di un faraone oppure, come ipotizzano altri studiosi, per motivi più profondi quale l’affermazione di particolari credenze religiose? A questi appassionanti misteri logistici e organizzativi sono poi da aggiungere quelli astronomici, matematici ed anche esoterici dei quali cito a solo titolo di esempio: il corridoio di ingresso è rivolto verso il nord e la stella polare; la diagonale della base della piramide procede esattamente da nord-est a sud-ovest; i due cunicoli di aerazione che partono dalle due sale interne e salgono obliquamente verso l’esterno (ma furono costruiti durante la costruzione o al termine? E come?) sembra siano collegati ad una misteriosa religione delle stelle che vedrebbe quello che parte dalla camera del Re puntare verso le stelle della cintura di Orione, associata al dio Osiride, mentre quello che parte dalla camera della Regina puntare verso Sirio, la stella della dea Iside creando così una specie di percorso stellare che teneva uniti i due dei sposi. E infine, sempre per infittire ancora di più il mistero di queste costruzioni, un accenno alla disposizione apparentemente casuale delle circa ottanta piramidi sul territorio: molti ritengono infatti che sia stato seguito un preciso disegno unitario e citano le tra piramidi di Giza, per le quali viene ipotizzata una precisa riproduzione sulla terra delle tre stelle della cintura di Orione. Rimando ad un altro momento la soluzione di questi enigmi e arriviamo alla piramide di Cheope percorrendo a piedi una breve strada asfaltata costruita in mezzo alla zona desertica. Durante il percorso non mancano venditori abusivi di souvenir e di falsi reperti archeologici e cammellieri che ti invitano a salire sul loro dromedario o si offrono di posare per una foto. Arrivati ai piedi della piramide alzo lo sguardo che corre incredulo sino alla cima. Tocco con mano uno dei 2,5 milioni di blocchi di calcare. Faccio qualche foto sapendo già che non riuscirà comunque a dare l’idea di cosa ho davanti. Percorriamo un lato della piramide, quello orribilmente fiancheggiato da una moderna costruzione nella quale è visibile una barca solare. Guardo l’orologio: sono già passati oltre 30 minuti e il tempo accordatoci per motivi di scorta della polizia è di solo un’ora e mezzo. Come si può fare in così poco tempo??! Si rinuncia a vedere la barca, si rinuncia a visitare l’interno della piramide; si dà solo un’occhiata alle tante mastabe, tombe riservate ai funzionari rinvenute nei pressi della piramide; ci dirigiamo alla piramide di Kefren; rinunciamo ad arrivare a quella piccola di Micerino e infine scendiamo verso la Sfinge che se ne sta accucciata, proprio come a guardia, ai piedi della leggera altura delle piramidi. Anche qui ci troviamo di fronte ad uno dei misteri della storia e dell’arte e non possiamo non restare affascinati e sconcertati da questa enorme scultura ricavata direttamente dalla roccia del luogo, con la faccia di un faraone ( Cheope o Chefren?) alta 22 metri su un corpo leonino lungo 50 metri. Lo sguardo, fisso verso l’infinito, ha mantenuto tutto il suo mistero nonostante i gravi danni al naso irrimediabilmente provocati in segno di spregio dai conquistatori mamelucchi. Una nuova occhiata all’orologio ci ricorda che è ormai interamente consumato il tempo stabilito per la visita e allora, a malincuore, ci avviamo verso l’uscita passando attraverso la zona delle tombe dei funzionari, consapevoli che, per quanto bello sarà quello che vedremo nei giorni successivi, resteremo comunque e sempre con la voglia insoddisfatta di trascorrere ancora qualche ora, magari all’alba o al tramonto, in un lento e vago girovagare tra queste surreali costruzioni.

Con una trentina di minuti di inevitabile ritardo che costringe Adriana a rivolgerci la prima e unica raccomandazione per il rispetto dell’orario, partiamo da Giza scortati da un’auto dell’esercito piena di soldati armati. Nel corso del trasferimento sino ad Asyut, dove pernotteremo e dove si verificano spesso scontri tra i copti e i fondamentalisti islamici, avremo un continuo cambio di scorta armata ogni 30/40 chilometri, passando dalla semplice auto al pick-up ricoperto da una casetta in legno con buco posteriore dal quale sporge minacciosa la canna di un kalashnikov, fino ad arrivare alla autoblinda con mitragliatrice in cima alla torretta! Noi facciamo finta di niente e ci godiamo il paesaggio egiziano. La strada, che fiancheggerà sino ad Assuan il corso del Nilo, passa in mezzo a una striscia di territorio interamente coltivata e attraversata da canali per l’irrigazione, larga poco più di un chilometro al termine della quale si intravede o si immagina l’arido e polveroso giallo del deserto.

Facciamo una breve sosta a quel poco o niente che resta di Menfi, fondata nel 3100 dal re Menes e prima capitale dell’Antico Regno dopo l’avvenuta unificazione del Basso con l’Alto Egitto. Visitiamo il piccolo museo all’aperto dove ricordo una gigantesca statua in calcare di Ramses II distesa sulla schiena all’interno di un piccolo edificio e una grossa sfinge di alabastro del peso di ottanta tonnellate che vigila al centro del giardino. A circa 500 metri dal museo si trovano i pochi resti del tempio di Ptah, il potente dio creatore del mondo e di Menfi.

Di nuovo in pulmino per raggiungere, leggermente spostato verso occidente, l’importante sito di Saqqara, un tempo necropoli di Menfi, dominato dalla mole della piramide a gradoni di Zoser costruita nel 2700 a.C. dal geniale architetto Imhotep. Molto probabilmente si tratta della piramide più antica e certamente la più antica costruzione monumentale della storia arrivata sino a noi. L’area archeologica di Saqqara, situata in pieno deserto al termine delle terre coltivate, è molto vasta e comprende circa 15 piramidi di varie dimensioni più o meno ben conservate, alcune mastabe di funzionari del re, 250 tombe private e i resti di alcuni templi e edifici tutti risalenti all’Antico Regno. Forse ancora più che nel sito di Giza, qui, aiutato dalla veduta di un deserto che dietro la piramide sembra non avere fine e soprattutto non disturbato dalla presenza di turisti e venditori, riesco a godere il fascino di queste antiche costruzioni. Prima di raggiungere la piramide si incontra la grande sala ipostila, della quale restano solo la parte bassa di 40 grosse colonne scolpite a fascio coperte da un moderno soffitto, che conduce in un grande cortile. Poi entriamo in una piccola casa a fianco della piramide, caratterizzata da antichissimi graffiti: si tratta delle incisioni per ricordo fatte da studiosi o turisti tebani del XII secolo a.C. E infine ecco la piramide di Zoser, circondata da resti di pietre cadute nei 47 secoli della sua esistenza dai 6 gradoni che la compongono: alta 62 metri, è costruita con blocchi di pietra calcarea molto più piccoli di quelli usati per le successive piramidi di Giza tanto da sembrare fatta di mattoncini di argilla. Vado avanti da solo sotto un sole luminoso che splende al centro di un cielo azzurro, attratto dalle distese di deserto di sabbia mista a terra che, mosse da un continuo alternarsi di piccole dune sembrano continuare sino all’infinito. Mi soffermo nel punto più alto di una duna e in lontananza, in mezzo al deserto, mi appaiono le sagome di tre piramidi. Non si tratta di quelle di Giza come in un primo momento avevo pensato ma di quelle, ben più piccole, di Abu Sir risalenti alla V dinastia. Ecco, vorrei poter arrivare sin laggiù, senza il pensiero del tempo, per vederle da vicino, toccarne le pietre, fotografarne le facce durante i mutamenti della luce alla ricerca di magiche prospettive. E invece continuo a camminare sulla cima della duna limitandomi a spaziare con il solo sguardo, che si sofferma curioso sui resti di mastabe, tombe, e altre costruzioni che non ho il tempo di identificare neppure con l’aiuto della mia Lonely Planet. Arrivo poi ad una grande mastaba dove un beduino mi invita ad entrare ma, vuoi per il solito maledetto timore dell’incerto vuoi per il tempo limitato a disposizione, rifiuto cortesemente e inizio il riavvicinamento verso la piramide di Zoser passando nei pressi dei resti della piramide di Uni e percorrendo la strada lastricata fiancheggiata dai resti di più di 200 mastaba fino a ritrovarmi vicino al punto di ritrovo del pulmino: la zona mi aveva talmente affascinato che mancavo solo io per poter riprendere il viaggio!

Prima di lasciare definitivamente Saqqara ci fermiamo a visitare la tomba di Mereruka composta da 31 camere con pareti interamente coperte da iscrizioni e da eleganti incisioni raffiguranti una serie di scene della vita del proprietario della tomba e di sua moglie. Questi rilievi, come tutti i rilievi egizi in interni, sono solo leggermente incisi e non colpiscono direttamente l’occhio, concedendosi e rivelandosi solo a chi sappia ammirarli con pazienza, lasciandosi prendere dall’armonia delle linee. E infatti mentre osservo le scene di caccia e di pesca, la grande varietà di animali e di pesci raffigurati, le processioni di uomini che vanno ad onorare il proprietario, la mia osservazione si fa piano piano sempre più attenta e comincio a leggere e a soffermarmi sui particolari, scoprendo dettagli curiosi e interessanti e soprattutto innamorandomi dell’armonia e dell’eleganza delle linee. Sono proprio queste le cose che mi affascinano di più: sono le tombe, i templi, i reperti, i disegni, le incisioni considerati di secondaria importanza che non si vedono riprodotti su libri e riviste e che, quando ce li troviamo davanti, abbiamo l’impressione di scoprire.

Riprendiamo il viaggio verso sud sull’unica strada che, attraversando campi interamente coltivati con il solo aiuto di asini e buoi, costeggia come sempre il corso del Nilo. Facciamo una breve sosta a Beni Suef dove, in un mercato lungo la strada, accompagnati passo per passo da un paio di soldati con mitra, acquistiamo frutta e acqua minerale . C’è un discreto movimento di uomini che stanno aspettando l’arrivo di alcuni furgoni. Le donne, pur a volto scoperto, sono tutte vestite in maniera tradizionale, con lunghe gonne e capo rigorosamente coperto da una mantella che scende sino alla vita. Dal finestrino del pulmino osservo e resto con la voglia di fotografare, decine di immagini di uomini con galabiyya bianca, grigia o celeste completata da una specie di turbante bianco, che si armonizza elegantemente con l’ambiente intorno a loro, fatto dalle solite casette di fango cotto al sole. E così per donne e bambini radunati in cerchio sulla povera aia di una casa, contadini che lentamente, cavalcando un asino sul ciglio della strada o al bordo di un campo, stanno facendo ritorno a casa prima del tramonto del sole, uomini che giocano a domino o a backgammon seduti ai tavoli di un bar fumando il narghilè e infine gli instancabili asinelli quasi sommersi da incredibili carichi più grossi di loro. Tra continui cambi di scorta e un mega-ingorgo di camion, auto, carrozze e carretti vari nel quale ci troviamo coinvolti nell’attraversamento della cittadina di Al-Minya e dal quale usciamo grazie all’intervento della nostra scorta, arriviamo poco prima delle ventidue alla cittadina di Asyut dove resteremo solo per una notte. Anzi, trattandosi di zona calda per il problema della lotta tra copti e fondamentalisti islamici, ceniamo in albergo senza uscire e per fare una telefonata all’albergo di fronte veniamo addirittura scortati da un poliziotto armato.

UN SALTO DI 1300 ANNI

Martedì 9 marzo partenza di buon mattino dopo una nottata non troppo tranquilla a causa del rumore e fischio dei treni che si fermavano alla stazione proprio sotto il nostro albergo e della monotona, continua litania di alcuni fedeli islamici iniziata verso le 4 di mattina.

La destinazione finale di oggi è Luxor, distante circa 350 chilometri da Asyut, facendo alcune soste per visita a siti archelogici e templi risalenti al periodo del Nuovo Regno e quindi con un salto in avanti di ben 1.300 anni rispetto alle piramidi e alle altre costruzioni viste sino ad ieri. Le prime cose da vedere dovevano essere i due monasteri Bianco e Rosso nei pressi di Sohag, ma, evidentemente per mancata comunicazione alla scorta da parte dell’agenzia, vediamo passare la cittadina e dobbiamo rassegnarci a proseguire verso Abydos. Il paesaggio è ormai quello conosciuto: gli asinelli si confermano il principale mezzo di trasporto della zona; le case si fanno sempre più misere e le persone vivono letteralmente in mezzo alla polvere, allo sporco e agli animali; a Sohag, una cittadina con un bel viale fiancheggiato da eucalipti, una bambina a cavalcioni di un asinello controlla una bambina ancora più piccola, di due o tre anni, che sta rovistando in un mucchio di spazzatura alla ricerca di un qualche rifiuto di un certo interesse. Ma che cosa? Ci fermiamo ad un passaggio a livello incustodito per consentire il lento passaggio di vagoni scoperti carichi di canna da zucchero: nell’attesa del passaggio del treno, dietro a noi cinque o sei uomini scendono dal loro furgoncino e sfilano alcune canne dai vagoni; Franco li imita e così, ripreso il viaggio, anche noi possiamo assaporare il dolce sapore della canna.

Verso mezzogiorno arriviamo finalmente al sito archeologico di Abydos. Pur trattandosi di uno dei luoghi più antichi e sacri dell’Egitto, ove infatti si facevano seppellire i sovrani della prima dinastia, i due templi che oggi possiamo ammirare risalgono "appena" al 1300 a.C. e sono intitolati a Sethi I e a suo figlio, Ramses II. Il primo, preceduto da due ampi cortili quadrati, è costituito da due stupende sale ipostile sorrette rispettivamente da 24 e da 36 colonne in calcare interamente decorate con incisioni e geroglifici, suddivise in file da 12, che anticipano le sette cappelle dedicate a Seti I, Ptah, Ra-Harakhty, Amon, Osiride, Iside e Horus e cioè alle maggiori divinità egizie e allo stesso faraone regnante. I soffitti delle cappelle sono blu, decorati con stelle a cinque punte per rappresentare un cielo stellato e le pareti, ricoperte di stucco bianco, sono adornate da figure dipinte in rilievo cavo, ancora capaci di dare una sensazione di vivacità colorica e di freschezza. Il tempio prosegue poi in una serie di stanze e gallerie, tutte piene di immagini in rilievo e di migliaia di geroglifici, quando disposti in senso orizzontale e quando in senso verticale per una maggiore armonia ed eleganza, che raccontano le gesta del faraone e delle varie divinità. Uscendo dal tempio, sul retro, si vede in una grande buca nel terreno, una delle sale ipostile del cenotafio, o falsa tomba, di Seti I con atrio centrale circondato dall’acqua; in alcuni punti delle pareti del corridoio sono ancora leggibili i testi tratti dal Libro dell’aldilà. La visita di Abydos termina con il tempio di Ramses II situato a poca distanza da quello di Sethi, del quale sono rimaste solo colonne e pareti di appena due metri di altezza.

Da Abydos proseguiamo sulla strada sino a Qena, una cittadina situata su un’ansa del Nilo e dalla quale parte la strada che attraverso il deserto orientale porta ad Hurghada sul Mar Rosso, per visitare il vicino tempio di Dendara. Si tratta di un magnifico tempio costruito in epoca tolemaica, verso il 150 a.C. e quindi ai tempi della imminente conquista romana, e dedicato al culto della dea Hathor, dea del cielo e dell’amore e sposa di Horus. E’ uno dei templi meglio conservati dell’Antico Egitto grazie anche al fatto che è restato interamente sepolto dalla sabbia sino al 1800 (sul ciglio della sua terrazza si notano infatti una serie di graffiti datati 1809 e 1827 incisi dai primi archeologi che lo riportarono alla luce). L’ampio cortile del tempio, preceduto da un altissimo portale in pietra, conduce all’atrio ipostilo con 24 colonne con capitello a forma di testa di Hathor. Questa dea, secondo l’abitudine egizia che finisce con il creare una certa confusione interpretativa, oltre che come donna, viene anche rappresentata quando da una vacca, quando da una donna con testa di vacca e quando da una donna con cappello fatto dal disco del sole tenuto tra le corna di un bovino. Sulle pareti e sulle colonne sono raffigurate scene di offerte e di devozione alla dea da parte di imperatori Romani come Augusto, Tiberio, Caligola e Nerone. Dall’atrio si accede alla sala dell’apparizione con colonne e cappelle e infine alla stanza delle barche circondata da un corridoio sul quale si aprono 11 piccole cappelle. Purtroppo, come avremo modo di ritrovare anche in altri templi, molte figure umane risultano rovinate da una fitta serie di scalpellate appositamente procurate, in periodi successivi alla costruzione, da qualche faraone in segno di disprezzo per la persona raffigurata. Da una scala interna si sale sul tetto del tempio dal quale si gode una veduta sulle campagne, dalla parte verso il Nilo, e sul deserto, dalla parte opposta. Sul tetto si trovano anche alcuni piccoli edifici tra i quali la cappella di Osiride con soffitto adornato dal calco in gesso dello zodiaco di Dendara (originale al Louvre) con una rappresentazione circolare del cielo.

Terminata la visita dei templi di Dendara, riprendiamo il viaggio arrivando così a Luxor prima che faccia buio. Sistemazione nel centrale hotel Emilio, cena al buffet internazionale dell’albergo, passeggiata sino alla strada lungo il Nilo e poi a letto.

MITICA TEBE, ORA LUXOR

Nuova levataccia alle cinque di mattina per arrivare in tempo utile per poter far parte dei 150 visitatori giornalieri ammessi alla visita della tomba di Nefertari. Con il nostro pulmino raggiungiamo quindi il punto di ingresso ai mitici siti archeologici nascosti tra le montagne rocciose situate sulla sponda ovest di Luxor. Scatto bruciante di Adriana per precedere alla biglietteria la guida di un grosso pullman carico di turisti tedeschi e…..siamo tra i 150 privilegiati della giornata! Ognuno di noi si è costruito un itinerario di visita personalizzato e, per quanto riguarda Grazia, Valentina e io, abbiamo deciso di limitare la visita ad una tomba della Valle delle Regine ( visto che siamo arrivati in tempo sarà la tomba di Nefertari), a tre tombe della Valle dei Re da scegliere al momento e, per finire, al grandioso tempio di Hatshepsut. In attesa dell’apertura dei siti e soprattutto in attesa di Franco che è dovuto tornare in albergo a prendere la macchina fotografica dimenticata ( se fosse successo a qualcun altro chissà quante ne avrebbe dette!), ci guardiamo intorno. Ai piedi della catena di montagne splendidamente illuminate dal sole radente del primo mattino, è adagiato un piccolo nucleo di povere casette, colorate in varie sfumature di giallo, che chiede di essere fotografato. Insieme a Stefania e a Valentina, la cui compagnia mi rendeva più intraprendente nell’avvicinare le persone a scopo fotografico, mi avvicino al paese. Invitati da una bambina, entriamo curiosi in una casetta e qui una donna, fraintendendo qualche nostro gesto o parola, capisce che vogliamo mangiare e fa il gesto di uccidere un coniglietto vivo che teneva per le orecchie per potercelo cucinare: urla di disperazione Valentina e, faticando non poco per far capire che non vogliamo assolutamente mangiare, usciamo non senza aver lasciato qualche lira a titolo di bascisc (mancia). A piedi raggiungiamo le due gigantesche statue di Amenhotep III, faraone del Nuovo Regno, che sembrano vigilare sulla strada che conduce verso le montagne ove venivano sepolti re e regine. Si tratta di due statue alte 18 metri raffiguranti il faraone seduto, unici resti di un imponente tempio, chiamate i Colossi di Memnone perché durante il periodo greco-romano i "turisti" greci ritenevano che rappresentassero appunto Memnone, re d’Etiopia ucciso da Achille durante la guerra di Troia.

Tornato Franco con la macchina fotografica, entriamo con il pulmino nell’immenso sito archeologico e raggiungiamo la zona denominata Valle delle Regine perché vi sono state trovate circa 75 tombe di regine e principesse della XIX e XX dinastia e quindi risalenti al periodo d’oro del Nuovo Regno, dal 1300 al 1155 a.C. Qui la visita alla tomba della regina Nefertari, bellissima moglie di Ramses II, si rivela subito meritevole della sveglia all’alba e dello sproporzionato costo del biglietto di ingresso: tre tombe della Valle dei Re 20 L.E. e la sola Nefertari ben 100 L.E. Per fortuna che noi, essendo studenti con tanto di documento di riconoscimento dell’Unesco, godiamo della riduzione del 50%! Questa tomba è stata scoperta nel 1904 - comunque già profanata e depredata - da una missione archeologica guidata dall’italiano Schiaparelli ed è aperta al pubblico solo dal 1995, dopo anni di studi e di restauri strettamente conservativi. La tomba, alla quale si accede tramite una scala che scende a circa sette metri sotto terra, è costituita da una anticamera quadrata con piccola saletta annessa e dalla sala del sarcofago sorretta da quattro pilastri. Le pareti sono interamente dipinte con scene a colori stesi su un fondo bianchissimo che nonostante la scarsità delle luci riesce quasi ad illuminare l’ambiente. Le scene rappresentano Nefertari, sempre vestita da un abito lungo bianco e trasparente, nell’atto di compiere gesti di omaggio agli dei e sono corredate da storie scritte con centinaia di geroglifici e i soffitti delle varie camere sono coperti da stelle su fondo blu. I dieci minuti di tempo che abbiamo a disposizione per la visita della tomba passano in un attimo, ma ci consentono quanto meno di avere una idea della vivacità dei colori, dell’armonia dei disegni, della straordinaria eleganza dei geroglifici che, mi rendo conto, non possono essere considerati solo una scrittura ma anche una forma d’arte grafica. Resta insoddisfatta la solita voglia di leggere le storie e le scene raffigurate, ma il guardiano ci chiama e dobbiamo uscire.

Dalla Valle delle Regine andiamo in pulmino, lungo una strada che costeggia una superba catena di montagne rocciose sempre più esaltate nel loro colore giallo-rosso dal salire del sole, all’ingresso della Valle dei Re. Si tratta di una gola larga e profonda che si addentra e si ramifica all’interno di queste montagne dove i faraoni della 18°,19° e 20° dinastia, con l’intento – poi rivelatosi vano - di sfuggire alle continue razzie dei ladri di tombe, decisero di farsi seppellire. Anche qui sono state scoperte più di settanta tombe, ma solo cinque risultano oggi aperte al pubblico. Gli ingressi alla maggior parte delle tombe si aprono sul livello della strada e poi scendono sotto la montagna per qualche decina di metri, tramite larghi corridoi con pareti spesso piene di disegni e pitture, sino ad arrivare alla sala del sarcofago. Altre tombe invece, sempre per una maggior sicurezza, risultano scavate nella roccia, nascoste in qualche anfratto che si apre lungo le pareti delle montagne. In mezzo ad uno scenario fantastico percorriamo quindi l’intera tratto di strada che si addentra nella valle sino alla tomba più lontana, quella di Thutmosi III, che essendo scavata nel fianco di una parete di montagna a circa dieci metri di altezza, raggiungiamo salendo per una ripida scaletta in ferro. Una galleria lunga una trentina di metri ci porta all’interno della montagna sino alla camera funeraria, anche questa decorata ma non certamente a livello di quella di Nefertari, nella quale si trova il sarcofago vuoto in arenaria rosa. Ripercorrendo al contrario la strada della valle visitiamo quindi la tomba di Ramses III e quella di Ramses VI. La prima è una delle tombe più grandi ma non eccessivamente interessante, mentre la seconda, che si estende per 83 metri sotto la montagna, ha un corridoio ricco di piacevoli pitture murali. Tornati alla luce del sole, ci rifocilliamo con un tè caldo, e ci trasferiamo in pulmino sino al tempio funebre della regina Hatshepsut in località Deir al-Bahri.

Districandosi tra le solite bancarelle di souvenirs e insistenti venditori di immagini di dei egizi in finto basalto, ci troviamo in un immenso spazio aperto, interrotto sullo sfondo da uno stupendo semicerchio continuo di picchi di roccia calcarea color giallo ocra, perfettamente allineate sulla cima; al centro della base , quasi come se fosse parte integrante e naturale delle montagne stesse, si apre un tempio dello stesso colore, costituito da tre terrazze collegate da una rampa centrale di scale, tutte scandite da un lungo porticato di pilastri quadrati. Mi distraggo un attimo da questo scenario mozzafiato e leggo sulla guida la storia della regina Hatshepsut, figlia di Thutmosi I, che alla morte di quest’ultimo ebbe la meglio sul nipote del faraone, il futuro Thutmosi III, e si aggiudicò il controllo del paese divenendo la prima donna-re della storia. Quando, dopo 20 anni di regno caratterizzati da pace e prosperità, la regina morì, le successe finalmente Thutmosi III, il quale, per vendicarsi dei soprusi patiti, fece cancellare con colpi di scalpello tutte le immagini di Hatshepsut dalle pareti e dalle colonne del tempio funebre.

Terminata così la visita ai principali siti della sponda occidentale di Luxor, torniamo in albergo e, tanto per non restare in ozio, noleggiamo una feluca – tipica imbarcazione a vela - per goderci un’ora di rilassante navigazione lungo il Nilo fino al tramonto del sole. Con il vento in poppa - si fa per dire perché soffia solo una leggera brezza, comunque sufficiente a far volare irrimediabilmente in acqua il cappellino con i colori viola della Fiorentina di Mauro detto Mimmi lasciandolo stordito per il resto della giornata – raggiungiamo l’isola delle Banane sulla quale approdiamo pagando 5 L.E. a testa per l’attracco. E’ un isolotto privato, interamente coperto da una ricca vegetazione di banani, aranci e mandarini in fiore che riempiono l’aria di un profumo dolcissimo e intenso. Durante il percorso di ritorno, effettuato contro vento a zig-zag, assistiamo al tramonto del sole che sparisce dietro la silhouette delle palme della riva occidentale del Nilo mentre il cielo si colora di giallo e di rosso.

Trascorriamo l’ultima parte dell’intensa giornata tra acquisti di scarabei e cartigli d’oro, prenotazione biglietti aerei per Abu Simbel, cambio valuta e cena all’aperto al ristorante Amon di Luxor.

Il giorno successivo è dedicato alla visita dei templi di Luxor. Al mattino raggiungiamo a piedi il grande complesso dei templi di Karnak, situato a circa un paio di chilometri a nord dal centro di Luxor, dove abbiamo appuntamento con una guida locale. Qui ci troviamo all’interno di un gigantesco complesso monumentale costituito da cinte murarie, templi, piloni, cappelle, sale ipostile, colonnati, cortili, obelischi e statue costruiti, smantellati, modificati e decorati in un periodo di tempo di circa 1500 anni a partire dal Medio Regno, quando il dio Amon era al centro del culto egizio, sino al Nuovo Regno. Tutto questo insieme di costruzioni più o meno integre e apparentemente disordinate, oltre a farmi meravigliare ancora una volta delle incredibili capacità costruttive di una civiltà risalente a circa 4000 anni fa, finisce con il disorientarmi un po’ e, nonostante la presenza e le spiegazioni della guida, non riesco a seguire un percorso logico. Osservo le sfingi con la testa di ariete che fiancheggiano il viale di ingresso; guardo incredulo gli altissimi piloni che scandiscono il succedersi di grandi cortili; ammiro le ormai consuete grandi statue in granito rosa di Ramses II; mi perdo nella grande sala ipostila formata da una indimenticabile foresta di un centinaio di gigantesche colonne di pietra con capitello a forma di papiro; alzo lo sguardo verso la punta degli obelischi risparmiati dai Romani e da Napoleone; mi riposo sulle rive del lago sacro ove si purificavano i sacerdoti di Amon e infine tento di ingraziarmi la fortuna, facendo qualche giro intorno ad un grosso scarabeo in pietra.

Dai templi di Karnak ci trasferiamo in carrozza al tempio di Luxor, anche questo dedicato ad Amon e attribuito al regno del faraone Amenhotep III, il predecessore di Akhenaton e di Tutankhamon. Anche qui viale delle sfingi con testa di donna, altissimo pilone di 24 metri, due gigantesche statue del solito onnipresente Ramses II con piccola figura della moglie Nefertari ai suoi piedi, obelisco in granito rosa identico a quello portato a Parigi in Place de la Concorde, grandi incisioni che mostrano le vittorie del faraone e così via tra sale ipostile, cortili con porticati, templi, cappelle e sacrari.

Con il dovuto rispetto, per oggi ci riteniamo abbastanza sazi dell’arte egizia e allora, dopo il tentativo di andare a visitare con il nostro pulmino il villaggio di Armant sulla sponda ovest del Nilo, non riuscito perché bloccati dalla polizia che ci ha impedito di viaggiare senza scorta, preferiamo dedicare il resto della giornata ad un più vivace giro per le strade di Luxor alla ricerca di immagini da rubare e cose da acquistare. Con Stefania e Valentina giriamo senza meta distribuendo caramelle e bascisc a frotte di ragazzini, acquistando direttamente da un sarto un paio di tipici pantaloni egiziani, fotografando incredibili botteghe, facendosi fare un tatuaggio di hennè sulle mani e concedendo ad un intraprendente piccolo lustrascarpe di pulire le mie logore scarpe da barca reduci da viaggi nei tre continenti. Stanchi della zona commerciale, ci spostiamo sulla strada lungo il Nilo, sempre alla ricerca di immagini, e infine andiamo sull’altra sponda utilizzando un grosso barcone che svolge un servizio continuato di traghetto. Nonostante il gran numero di persone che incessantemente vanno e vengono da una sponda all’altra, noi vediamo solo un piccolo nucleo di casette e ci fermiamo ad un bar a bere un tè e a fare una partita a domino con alcuni egiziani.

Cena al buffet internazionale dell’albergo e poi nuovo attraversamento in notturna del Nilo per andare a trovare un italiano che da qualche tempo vive qui in Egitto. Due nostri compagni, Eleonora e Stefano, lo avevano conosciuto occasionalmente nel pomeriggio e avevano accettato il suo invito. Con una certa difficoltà troviamo la sua abitazione in una buia stradina. Si chiama G. N. giornalista in pensione, vive da solo in una casetta sulla riva occidentale del Nilo e ha scelto di vivere in Egitto perché è appassionato di egittologia, sta scrivendo un libro sui misteri di questa antica civiltà e, non ultimo, perché solo qui può vivere decentemente con una pensione di 900.000 lire italiane. E’ un tipo strano, ha avuto cinque mogli, ma nessuna ha resistito più di tanto; ha un paio di figli che vivono a Roma più strani di lui; ha una mamma che aveva provato a vivere qui ma dopo un mese se ne è tornata a Roma disperata; ha sempre lavorato pochissimo, quel tanto che bastava per sopravvivere e appena ha potuto se ne è andato in pensione. Accettiamo volentieri un buon caffè italiano e un martini, ma ci troviamo tutti d’accordo nel rifiutare l’offerta di fumare uno spinello! Ha un modo piacevole ed accattivante di raccontare le cose e se non fosse per la stanchezza e il timore che magari il traghetto del fiume possa interrompersi ad una certa ora della notte, resteremmo volentieri ad ascoltare le sue storie. Ma il dovere ci chiama e domani mattina la partenza è prevista per le 6,45! Salutiamo Gianni e torniamo a Luxor senza problemi.

ANCORA LUNGO IL NILO VERSO SUD

Venerdì 12 aprile ci ritroviamo alle sette di mattina in una piazza di Luxor con altri pulman, furgoni e auto di turisti, per il proseguimento in colonna verso Assuan debitamente scortati dalla polizia. Dopo poco più di 50 chilometri abbandoniamo la colonna e facciamo una deviazione per Esna. Al centro di questa cittadina, tra il solito intrico di vicoli e casette, si trova, in una enorme fossa profonda nove metri scavata per riportarlo alla luce, il tempio di Khnum, il dio dalla testa di ariete. E’ un tempio risalente al periodo tolemaico-romano e precisamente a quando a Roma era imperatore Claudio. Anche qui grande sala ipostila con 24 colonne molto simile a quella già vista a Dendara, soffitto ancora integro, serie di incisioni raffiguranti faraone e imperatori romani nell’atto di porgere omaggi al dio. Questa sosta a Esna ci costerà un’ora di tempo, perduta in attesa dell’arrivo della macchina di scorta della polizia. Torniamo quindi sulla sponda orientale del Nilo passando su una specie di diga e dopo un’altra cinquantina di chilometri ci fermiamo di nuovo nel piccolo centro di Edfu dove visitiamo il grande tempio di Horus, anche questo risalente al periodo tolemaico-romano e completato pochi anni prima della nascita di Cristo da Tolomeo XIII, padre della famosa regina Cleopatra. Si tratta di un nuovo tempio, grandioso e spettacolare quanto si vuole, ma che non fa che ricopiare passivamente la forma e lo stile architettonico dei templi di Abydos, Luxor e Karnak risalenti a più di mille anni prima, templi questi ultimi che già erano stati costruiti ispirandosi ad opere ancora più vecchie di altri mille anni. Questa ripetizione continua di forme e di stili nell’arco di 2000 anni, non consente, a turisti frettolosi come noi, di effettuare una qualche distinzione tra i vari templi pur risalenti a periodi così lontani tra loro. Anche qui pilone di ingresso alto 36 metri con grandi incisioni di faraoni nell’atto di omaggiare Horus; due grandi e splendidi falchi in granito simboleggianti appunto il dio Horus, che sorvegliano l’ingresso; un vasto cortile circondato da un porticato e infine una serie di sale, corridoi e piccole cappelle decorate da pregevoli incisioni, che circondano il sacrario di Horus. Di nuovo in viaggio proseguendo ancora sulla strada che, salvo alcuni tratti in pieno deserto, segue fedelmente il Nilo offrendoci il consueto paesaggio: campi coltivati, orti, palme e piccoli centri costituiti da povere casette di argilla cotta al sole, qualche volta colorate a tinte vivaci, con tetto di canne e foglie di palma intrecciate, sovrastate magari da esili minareti e spesso anche da una grande e nuova moschea.

Terza ed ultima sosta della giornata a Kom Ombo per visitarne il tempio di Sobek – dio dalla testa di coccodrillo – e di Haroeris, situato su un piccolo promontorio sulla sponda del Nilo. Breve visita del tempio, costruito tra il 200 a.C. e il 30 d.C. quindi in epoca greco-romana, e bella vista sul Nilo proprio nel punto dove anticamente i coccodrilli sacri si crogiolavano al sole. Arriviamo ad Assuan nel primo pomeriggio e prendiamo subito possesso delle camere in un albergo lungo la Corniche, la strada principale della città che costeggia il Nilo: siamo tra i pochi fortunati ad avere una camera con splendida vista sul fiume, sull’isola Elefantina e sulla riva opposta dominata da gialle collinette desertiche.

ASSUAN

Dopo una doccia e un riposino usciamo alla scoperta di Assuan, la città più a sud dell’Egitto e frontiera di passaggio per la regione della Nubia. E’ una città dove ci orientiamo subito perché in pratica è distesa lungo la riva orientale del Nilo ed è interamente percorsa da tre lunghe strada parallele: prima la Corniche, la strada principale asfaltata e con un intenso traffico che costeggia il Nilo; quindi, pochi metri verso l’interno, una strada più stretta incredibilmente sterrata – siamo nel pieno centro di Assuan! - e occupata da due file interminabili di negozi e venditori ambulanti che costituiscono lo splendido mercato all’aperto della città e infine, sempre verso l’interno, una terza strada ancora fiancheggiata da negozi che in pratica delimita il centro di Assuan. Richiamati come al solito dall’irresistibile fascino dei suq orientali – io per le fotografie e Grazia per gli acquisti - ci ritroviamo inevitabilmente a passeggiare lungo la strada centrale. Anche se ormai, dopo la Birmania, la Thailandia e il Marocco, dovremmo essere abbastanza sazi di mercati, ogni volta che ci ritroviamo in mezzo a questi venditori assillanti, a queste botteghe piene di attraenti oggetti di artigianato locale, a mucchi di frutta e ortaggi sparsi per la terra, a carretti pieni di tè, carcadè, grani di pepe rosso, verde e nero e di polvere di indaco incredibilmente azzurra, a strade affollate di donne, uomini e bambini in costume locale, a uomini seduti sugli scalini o in qualche ritrovo a fumare il narghilé o a giocare a domino, ci facciamo prendere dalla curiosità e dall’entusiasmo e non ci stancheremmo mai di guardare, osservare, scoprire, domandare, toccare, scattare e…..comprare. Camminando tra la polvere e non poca sporcizia percorriamo buona parte della lunga strada centrale e poi arriviamo anche a quella più esterna dalla quale vediamo, su una leggera altura in mezzo ad un grande spazio, una bella moschea di recente costruzione fiancheggiata da due altissimi ed esili minareti.

Chiudiamo la giornata con una piacevole cenetta in un ristorante galleggiante sul Nilo e una passeggiata lungo la Corniche.

Sabato 13 marzo, giornata senza spostamenti in pulmino dedicata alla visita dell’altra sponda del Nilo con le sue affascinanti collinette desertiche e di alcuni dei vari isolotti che sporgono dalle acque del Nilo nel tratto che da Assuan, per oltre 17 km verso sud, arriva sino alla grande diga.

Mi sveglio di buon mattino, giusto in tempo per fotografare il Nilo appena illuminato dal primo sole, e vado in giro per Assuan. Qui, evidenziati dallo scarso movimento del mattino, osservo con una certa angoscia i diversi posti di blocco dei militari, armati di mitragliatrici, che stazionano 24 ore su 24 nei punti nevralgici della città; angoscia comunque ridotta dai bambini e soprattutto dalle tante ragazze che, elegantemente vestite di blu con scialle bianco in testa, se ne vanno tranquillamente a scuola come in qualsiasi altra parte del mondo civile. Alla riva del Nilo ci sono attraccate diverse navi da crociera e i turisti cominciano a scendere a terra sparpagliandosi per le strade di Assuan.

Subito dopo la prima colazione andiamo nei pressi della vecchia diga dove noleggiamo un barcone per il traghetto fino alla isola Agilika. Su questo isolotto è stato ricostruito negli anni 70, dopo averlo smontato pezzo per pezzo, l’ampio complesso architettonico dell’isola di File sommersa a seguito della costruzione della nuova diga di Assuan. Il tempio di File, con alcune parti risalenti al IV secolo a.C., è costituito soprattutto da strutture dell’epoca tolemaica ed è dedicato al culto di Iside, di Osiride e di Horus. Ricca di fascino risulta comunque la sua ambientazione, tra palme e oleandri, su questo isolotto lambito dal Nilo. Dopo la visita torniamo ad Assuan passando per la strada che attraversa il fiume proprio sopra la grande diga costruita dal 1961 al 70 con lo scopo di un migliore sfruttamento delle acque del grande fiume, giustamente chiamato "madre dell’Egitto". Ad Assuan ci imbarchiamo finalmente sulla feluca noleggiata da Adriana che ci accompagnerà per il resto della giornata sino a tarda sera. Iniziamo con la visita dell’orto botanico che occupa interamente l’isola di Kitchener: vialetti fiancheggiati da altissime palme roystonia regia caratterizzate da un fusto dritto, incredibilmente bianco e liscio; giganteschi ficus varello ; belli esemplari di bombax malabarjcum l’albero dai fiori rossi conosciuto in Birmania; un curioso albero tropicale con frutti identici a lunghi salami e, per finire, alberi simili al nostro salice che sporgono i loro rami pieni di bianchi ibis sulle acque del Nilo.

Da questa isola passiamo all’altra sponda del fiume, dove, con una discreta camminata in mezzo al deserto e sotto un sole abbagliante, arriviamo sino ai resti del Monastero di San Simone. Posso finalmente accertarmi della assoluta diversità delle due sponde del Nilo: di là Assuan, con i suoi palazzi, le sue strade, i suoi alberi e i suoi campi coltivati, di qua, subito, incredibile, il deserto. Il monastero risale al VI secolo d.C. ed è stata una roccaforte cristiana sino alla definitiva conquista araba del XIV secolo che ne uccise e cacciò tutti i monaci che vi vivevano. Costruito come una fortezza, è circondato da una cinta muraria che conteneva una chiesa, magazzini, dormitori, una cucina e così via. Oggi è quasi diroccato e un guardiano ci fa vedere i resti della chiesa cristiana con le tracce di un affresco raffigurante gli apostoli intorno al tavolo dell’ultima cena. Affascinato dallo stupendo contrasto di colore tra il giallo ocra delle mura ancora in piedi e l’intenso azzurro del cielo, mi aggiro tra le rovine alla ricerca di qualche bella inquadratura. Poi discendendo verso la nostra feluca passiamo vicino al mausoleo dell’Aga Khan costruito proprio su questa riva di fronte ad Assuan. Di nuovo una piacevole, silenziosa, scivolata in feluca sino all’isola Elefantina, così chiamata o per gli elefanti che nell’antichità passavano con le carovane sulle sponde del fiume oppure per i grossi macigni di granito grigio che, simili proprio ad un branco di elefanti che fa il bagno, si vedono intorno all’isola. Sull’isola visitiamo un pittoresco, ma assolutamente vero, villaggio nubiano fatto da modeste casette di argilla, divise da un intrico di vicoletti. Qui i soliti bambini ci assaltano per chiedere bon bon, penne, cappellini mentre le donne, intabarrate nei loro ampi vestiti, se ne stanno sedute sulle soglie delle case e ci fanno, con il dito indice ripiegato ad amo, il tipico gesto di richiesta di una lira o di un bascisc per l’ennesima foto rubata. Presi dagli scatti di queste immagini, Stefania, Corrado ed io finiamo con il perderci e solo dopo qualche vano tentativo che ci riportava al punto di partenza, riusciamo a ritrovare il punto della riva ove ormai ci stava aspettando il resto del gruppo già da tempo a bordo della feluca.

Di nuovo in navigazione sul Nilo mentre il sole sta per tramontare. Scendiamo su una nuova isoletta dove, districandosi tra i soliti assalti di donne e bambini che vendono collanine, ci dirigiamo verso l’interno. Abbiamo prenotato la cena in un villaggio nubiano. Ci accompagnano in una casetta dove, in una stanza appena sufficiente a contenere una grande tavola già apparecchiata, ceniamo, seduti su scomodi letti. Chi ha bisogno del gabinetto viene gentilmente accompagnato fuori…..in fondo alla strada, al termine del paese! Viva l’aria aperta! Mangiamo comunque con grande appetito patate fritte, fagioli e patate in umido e pollo arrosto, il tutto cucinato come se fossimo a casa nostra: resteremo con il dubbio se hanno cucinato così per noi oppure se veramente quella è la cucina tipica nubiana. Al termine della cena, insieme a ennesime proposte di vendita di collanine e altri oggettini, ci viene offerto un buon bicchiere di carcadé che degustiamo seduti in un piccolo ambiente all’aperto sul quale si affacciano le varie stanze della casa.

Quando lasciamo la casa è buio pesto e il villaggio è ormai deserto. Di nuovo feluca per il ritorno ad Assuan dove, prima di andare a letto, ci beviamo una birra su un chiattone galleggiante sul Nilo, mentre un Franco in piena forma ci fa scompisciare dalle risate con una serie ininterrotta di battute su Mimmi, ribattezzato "gioiello del Nilo" e Stefano, ribattezzato "Mr.Bean".

Il giorno successivo, domenica, sveglia di buon’ora, brutta sorpresa di trovare il pulmino con una gomma a terra, sostituzione della ruota, corsa all’aeroporto per prendere l’aereo per Abu Simbel, attesa di oltre un’ora e finalmente, con un volo di una ventina di minuti, atterriamo nei pressi dei mitici templi della Nubia. Di nuovo ci troviamo immersi in uno scenario fantastico interamente desertico bagnato da un immenso lago artificiale, il lago Nasser, formatosi con la costruzione della grande diga di Assuan. A un centinaio di metri dalla riva del lago si elevano sulla piana desertica due picchi di roccia arenaria, ognuno dei quali contiene, come per incanto, una grandiosa facciata di tempio preceduta da gigantesche statue scolpite nella montagna stessa. Lo spettacolo è di quelli da mozzare il fiato. Quattro figure alte 20 metri del faraone Ramses II sono a guardia della facciata del Grande tempio, fatto costruire appunto da Ramses II tra il 1290 e il 1224 a.C. in onore degli dei Ra, Amon e Ptah. Unite ai piedi e alle gambe di queste straordinarie figure ci sono alcune statue molto più piccole che raffigurano la madre, la moglie Nefertari e alcuni figli del faraone stesso. Lo sguardo dei quattro Ramses II fissa lontano, verso il deserto e il lago Nasser. Con una punta di soggezione passo in mezzo alle grandi statue ed entro nel tempio: una grande sala sorretta da otto colonne con altre colossali statue di Ramses , interamente ricoperta da incisioni raffiguranti le gesta del faraone impegnato in battaglia, immette in altre piccole camere tutte istoriate. In fondo, nella camera più interna siedono, addossate alla parete, le quattro divinità del tempio – Ra, Amon, Ptah e lo stesso Ramses II – posizionate in maniera tale che all’alba dell’equinozio di primavera e di autunno il sole le illumini perfettamente, con la sola esclusione di Ptah, in quanto dio delle tenebre. Senza nulla togliere alla bellezza delle incisioni e delle statue, mi sento veramente sconcertato al pensiero dell’impresa umana, risalente a ben 3200 anni fa, di scavare nella roccia un ambiente largo 38 metri, profondo 63 e alto più di 10. Di nuovo, dopo le piramidi, mi trovo di fronte ad un mistero che difficilmente, nonostante tanti libri letti e da leggere, qualcuno riuscirà a farmi capire. Al confronto, anche l’impresa del 1964 che ha provveduto a "sbriciolare" i due templi in più di 2000 blocchi di arenaria per ricostruirli identici, sempre all’interno di due montagne appositamente innalzate, fuori delle acque del lago, mi sembra una cosa da niente. Uscendo dal tempio è interessante comunque vedere l’interno della montagna ricostruita a somiglianza di quella originale ormai sommersa dalle acque del lago, che poggia sulla volta in cemento armato che, a sua volta, ricopre il tempio vero e proprio. Poco distante c’è l’altro tempio più piccolo dedicato al dio Hathor e a Nefertiti, anche questo con una maestosa facciata dove sei grandi statue scolpite nella roccia alte dieci metri, raffigurano Ramses per quattro volte e la moglie Nefertiti per due volte. Lasciamo Abu Simbel e con volo regolare, sorpres dal commento di Adriana al microfono dalla cabina dei piloti mentre si sorvola il sito dei templi, torniamo ad Assuan.

Pomeriggio interamente dedicato ad acquisti nei suq di Assuan con cena finale sul Nilo e fumata collettiva di narghilé.

VERSO IL MAR ROSSO

Lunedì mattina alle 7.30 lasciamo Assuan per risalire il corso del Nilo sino a Qena da dove prenderemo la strada verso il mar Rosso. Ancora una volta osservo in silenzio il tipico paesaggio egiziano fatto di verdi campi coltivati intorno alle due sponde del Nilo, nei quali tante piccole figurine di uomini e donne stanno lavorando aiutati dagli instancabili asinelli. Non mi stanco degli ormai consueti piccoli paesetti di fango, qualche volta anche intonacati a calce o colorati a tinte vivaci, animati dalla presenza di uomini in galabiyya bianca o grigia che, in piedi o seduti, a lavorare o a fumare, da soli o in gruppo, si armonizzano così bene con l’ambiente intorno, da sollecitarmi una serie continua di scatti fotografici destinati purtroppo a restare solo immaginati. Così come per le tante deliziose figurine di donne vestite completamente di nero che, nello svolgimento dei loro lavori domestici, disegnano magnifiche silhouette sul solito sfondo ocra. E poi cimiteri musulmani fatti di semplici sassi infilati nel terreno o al più da nude e rustiche lastre di pietra che coprono le tombe, tutto sempre assolutamente anonimo senza la minima presenza di scritte o fiori. Mi viene da pensare come tutto ciò che mi passa davanti sia incredibilmente identico, se non fosse per qualche cadente palo della luce o per qualche comunque rara antenna televisiva, a quello che altri viaggiatori avranno veduto due o trecento anni fa e anche prima. Qui tutto continua, sempre, senza mutamenti; la vita scorre uguale, giorno dopo giorno, anno dopo anno, a prescindere da cellulari o personal computer, da lavastoviglie elettroniche o da telecamere digitali, da Viagra o da Prozac. Chi è nel giusto?

Facciamo una sosta a Luxor da dove ripartiamo nel primo pomeriggio, in carovana scortata dalla polizia.

A Qena, dopo una settimana trascorsa sulle sue rive, lasciamo il Nilo e deviamo verso il mar Rosso.

Ora il paesaggio cambia profondamente; la strada passa proprio attraverso un deserto sassoso, appena punteggiato qua e là da piccoli cespugli di tamerici e da altri ciuffi d’erba spinosa incredibilmente mangiata da alcuni dromedari al pascolo. Poi, dopo una breve sosta ad un punto di ristoro lungo la strada, cominciamo a vedere, prima in lontananza e poi sempre più vicina, una serie infinita di montagne rocciose colorate di rosso. La strada, dritta e asfaltata, è comoda ed il traffico è limitato a qualche camion che va verso il Nilo. Passiamo da Port Safaga sul mar Rosso e risaliamo la costa verso nord per una cinquantina di chilometri sino a Hurghada, mentre il sole si nasconde e riappare in un continuo gioco di luci dietro la catena delle montagne, rosse e affascinanti più che mai, che ci fiancheggia alla nostra sinistra. Quando ormai è buio arriviamo a Hurghada, dove, pur non credendo ai nostri occhi, scarichiamo tutte le valigie, sempre più ingombranti e pesanti, all’ingresso di un albergo favoloso: l’illusione dura poco perché alla reception ci dicono che non esiste nessuna prenotazione a nome nostro e che qualche chilometro più a nord, in località Sigala, c’è un altro hotel con lo stesso nome. Poco male; si ricarica tutto e, tra grosse risate, ci dirigiamo dove ci stanno aspettando.

Hurghada era fino a pochi anni fa un semplice villaggio di pescatori; ora, grazie esclusivamente ai meravigliosi banchi di corallo e alle sue acque cristalline. è diventata una striscia ininterrotta di alberghi, residence, club, lunga una ventina di chilometri, che si estende lungo la costa e comprende i centri di Al-Ghardaka, Sigala e New Hurghada.

Anonima cena in albergo, breve passeggiata nel centro di Sigala, costituito peraltro da una squallida strada fiancheggiata da negozi e locali senza colore, e poi a letto sperando che domani mattina il vento si sia calmato e il mare sia liscio.

Martedì 16 marzo sveglia e occhiata fuori dalla finestra: tira vento e il pensiero corre subito al mare che immagino mosso. Tutti, tranne Franco che è un po’ nervoso o stanco, decidiamo ugualmente di partecipare alla prevista gita in barca alla barriera corallina. Andiamo al porticciolo e qui, armati di maschera e pinne, saliamo su un grosso motoscafo. Io, dapprima un po’ titubante, piano piano mi rendo conto che l’imbarcazione è abbastanza grossa da consentirci una navigazione tranquilla senza problemi di mal di mare e così, dopo pochi minuti, svanisce qualsiasi sensazione di timore e cominciamo a goderci una nuova giornata straordinaria Il saluto iniziale ce lo dà un delfino: appena entrati in mare aperto, si esibisce in due o tre salti proprio a fianco della nostra imbarcazione. Dopo poco più di un’ora di tranquilla navigazione il motoscafo getta l’ancora nei pressi di un isolotto: il mare sotto a noi è straordinario e tanti, nonostante l’acqua fredda, si fanno coraggio e si buttano con maschere e pinne. Anche Grazia e Valentina non sono da meno e solo io, dopo essermi infilato maschera e pinne, non trovo il coraggio di buttarmi. Pazienza! Dovrò contentarmi di immaginare lo spettacolo dei coralli e dei pesci tropicali attraverso i racconti degli altri. Valentina è entusiasta per aver veduto e fotografato una murena: purtroppo l’entusiasmo le fa perdere il controllo della macchina fotografica che le scivola dal braccio e va irrimediabilmente a fondo. Grazia vedendomi rimasto sul ponte del motoscafo cerca di convincermi a scendere in acqua, ma presto le prende freddo e torna a bordo. Eleonora e Dimitri invece faranno vedere a tutti di avere trovato il loro elemento naturale e si riveleranno come i migliori nuotatori del gruppo. Io, insieme a Debora e Matilde nemiche dell’acqua, mi consolo mangiando due porzioni di pesce fritto offertoci dall’equipaggio del motoscafo. Risaliti tutti a bordo, il motoscafo si sposta e approda vicino ad un isolotto con spiaggia: qui scendiamo tutti a terra e ci concediamo un’oretta di sole sdraiati sulla sabbia o chini alla ricerca di coralli e conchiglie. Poi ripartiamo concedendoci il lusso di far salire a bordo quattro turisti pisani che, arrivati con un altro motoscafo, erano stati dimenticati lì, sulla spiaggia: la loro imbarcazione era già partita e la nostra era ormai l’ultima a salpare. Poveri pisani, erano incazzati neri e completamente bagnati. Appena a bordo si qualificano subito come pisani; " non poteva essere altrimenti" , penso e mi scappa detto "io li avrei lasciati sull’isola per tutta la notte". "Sempre buoni i cugini livornesi!" la pronta e giusta replica del pisano. Facciamo una nuova sosta vicino ad un’altra barriera corallina e poi ritorniamo verso riva, per niente impressionati dal mare più agitato della mattina.

Ritorno in albergo con sosta ad una pizzeria italiana per contentare chi di noi cominciava ad avvertire l’irresistibile richiamo della cucina di casa. Inevitabile delusione quando ci vediamo portare una margherita…..senza pomodoro: ma come si fa?

Riposo, doccia e corsa in taxi fino al centro di Hurghada dove ceniamo allo Scruples: bel piatto di pesce con piccola aragosta e gamberoni. Anche Hurghada, come Sigala, con le sue file di negozi nati solo per il turismo, aperti su anonime strade dritte fiancheggiate da approssimativi edifici in cemento armato, non finiti e spesso addirittura con i tondini di ferro che spuntano dai piloni per eventuali future aggiunte di piani, non fa che confermarmi la sensazione di squallore vacanziero della peggiore qualità.

Mercoledì 17 marzo sveglia alle tre, partenza in colonna scortata alle quattro con destinazione Sharm el-Sheik, situata sulla punta della penisola del Sinai e lontana circa 900 chilometri. Come se non bastasse sono previste anche due deviazioni per visita ad antichi monasteri cristiano-copti. Durata prevista del viaggio, circa 15 ore: siamo nelle mani del nostro autista che, per nostra fortuna, si rivela sempre più calmo e tranquillo e per niente impressionato dal lungo trasferimento odierno. Questo al contrario di alcuni componenti del gruppo che avrebbero fatto volentieri a meno di risalire la costa fino a Suez per poi ridiscendere verso Sharm optando per una traversata notturna del golfo di Suez in traghetto da Hurghada a Sharm; purtroppo per loro gli orari del traghetto non combinano con il nostro programma e quindi ci ritroviamo tutti quanti al completo sul pulmino.

Alle 7.15 facciamo la prima deviazione per raggiungere l’antico monastero di San Paolo eretto nel IV secolo sulle alture del Jebel al-Galala, dove appunto Paolo visse per circa 90 anni. Purtroppo, data l’ora, troviamo tutto chiuso e dobbiamo contentarci di vagare in silenzio tra i suoi vicoletti deserti. Il complesso è circondato da una piccola cinta muraria, sulla quale sono addossate piccole abitazioni e una fortezza, e comprende un piccolo villaggio, una chiesa e due case per ospitare i pellegrini. Poi, non ancora perfettamente ripresi dalla dura levataccia del mattino, torniamo sulla strada principale che scorre dritta verso nord in mezzo ad una striscia di terreno desertico di tre chilometri, limitata a occidente dalle montagne e ad oriente dal mar Rosso.

Alle 9 esatte, dopo aver deviato per una strada che si inerpica per una ventina di chilometri in mezzo a montagne color rosa, arriviamo al monastero di S.Antonio. Anche questo risale al IV secolo e venne costruito qui dai discepoli di S.Antonio. Quest’ultimo, ritiratosi da tempo a vivere come eremita nel deserto, decise poi di rifugiarsi in una grotta in prossimità del monastero dove morì all’età di 105 anni. Visitiamo il complesso, guidati da uno dei 25 monaci che attualmente vivono nel monastero dedicando la loro vita alla povertà, alla castità, all’obbedienza e alla preghiera. Vestito completamente di nero, con il capo coperto da una cuffia pure nera decorata con piccole croci bianche, ci descrive in buon inglese la storia del monastero e della chiesa. Anche qui, all’interno di una cinta muraria, si trovano una serie di chiesette, cappelle, dormitori, tutti colorati di giallo ocra in piena armonia con il paesaggio circostante, mentre, irrigati da una sorgente di acqua sotterranea, alcuni orticelli e alberi di olivo che sorgono al centro del complesso danno un piacevole tocco di verde e di freschezza. Al termine della visita guidata ci viene gentilmente offerto un bicchiere di tè caldo.

IL SINAI

Riprendiamo la strada e, dopo una interminabile distesa desertica, ci infiliamo con un certo timore nel tunnel, lungo 1600 metri, che passa sotto il canale di Suez e siamo così nel Sinai. Osservo intorno alla zona del canale squallidi quartieri formati da centinaia di caseggiati popolari, tutti uguali, sciatti, privi di qualsiasi primaria manutenzione, costruiti in pieno deserto e attraversati da strade sterrate e polverose senza traccia di asfalto; pochissime le auto parcheggiate e assoluta la mancanza di verde. Finita la zona abitata ricomincia la monotona distesa di deserto che ci accompagna per un paio d’ore. Poi, finalmente, dopo il bivio con la strada di montagna che porta al monastero di S.Caterina, dalla quale quindi torneremo tra tre giorni, cominciano ad apparire le montagne del Sinai. E così una serie continua di picchi rocciosi che spuntano dal deserto ci accompagna sino all’arrivo, inventando, grazie alla luce sempre più rossa e radente del sole, infinite forme e colori. Alle sette di sera, dopo una breve sosta a El-Tor per consentire all’autista di riposarsi e a noi di fare una passeggiata sino al mare, raggiungiamo Sharm el-Sheikh e ci sistemiamo in un discreto albergo con piscina.

La giornata successiva, giovedì, è interamente dedicata alla visita del Parco Nazionale marittimo di Ras Mohammed che occupa l'estrema punta meridionale del Sinai.

Entriamo nel Parco con il nostro Toyota e in un abbagliante paesaggio desertico che si protende nel mar Rosso. cominciamo a girare per le sue stradine, prima asfaltate, poi sterrate, poi sempre più sconnesse tanto da farci temere per la resistenza del pulmino, sino ad arrivare alla Main Beach. E’ una bella insenatura sabbiosa circondata da picchi rocciosi, con una attrezzatura limitata ad una piccola tettoia di canne sotto la quale ci mettiamo in costume. Un centinaio di metri di acqua bassa e poi, improvvisamente, uno strapiombo di 70 metri costituito dalla barriera corallina. Qui lo snorkelling è d’obbligo e anche io, messo da parte qualsiasi timore, mi godo la visione subacquea della barriera con le sue decine di costruzioni di corallo popolate da vivaci pesci colorati. Getto un’occhiata verso il fondo del mare sotto a me e vedo un incredibile azzurro senza fine, intenso e luminoso, animato da migliaia di pesci. Estasiato e turbato nello stesso tempo, resto in acqua solo per pochi minuti, anche se poi mi pentirò di non esserci stato più a lungo. Trascorriamo ancora un’oretta sulla spiaggia esplorando le rocce che la circondano e salendo su un picco altissimo dal quale di gode uno stupendo panorama sulle coste del parco e sul mar Rosso. Proprio ai piedi di questo picco, in una piccola insenatura sassosa, ci godiamo alcuni grossi pesci colorati che nuotano tranquillamente vicino alla riva nell’acqua bassa, facendosi fotografare. Tranquilli ma non troppo perché un bellissimo pesce azzurro, forse perché disturbato, riesce addirittura a morsicare un piede a Corrado. Verso la fine della mattinata ci spostiamo con il pulmino percorrendo ancora stradine impossibili alla ricerca di altri luoghi interessanti. Evitiamo una spiaggia perché troppo affollata e andiamo fino al canale delle Mangrovie. Qui siamo proprio sulla punta estrema del Sinai, su una bianchissima landa desolata che un mare celeste in fase di bassa marea lascia parzialmente scoperta e dove un piccolo canale, sul quale appunto crescono le piante di mangrovie, si getta nel mar Rosso. Sullo sfondo, dalla parte opposta del mare, si vedono catene di montagne grigie e celesti che si perdono nel cielo. Prima di lasciare definitivamente il Parco riproviamo l’ebbrezza dello snorkelling sulla barriera corallina su un altro tratto di costa rocciosa. Infine, ripassando per Sharm el-Sheikh, proseguiamo verso Dahab risalendo la costa orientale del Sinai che si affaccia sul golfo di Aqaba. Arriviamo a Dahab verso le 22.30 e qui, accolti da un gradito bicchiere di carcadè ghiacciato, ci sistemiamo in un albergo con camere in piccoli cottages vicino alla spiaggia. Cena in albergo e inutile accordo con guida locale per effettuare, al mattino successivo, un tour fuori programma in Land Rover sino al Canyon Colorato. Costo concordato, dopo le solite estenuanti trattative di Adriana, 10 $ a persona. Inutile perché al mattino, quando io con gli altri sei partecipanti ci ritroviamo pronti per la gita, Adriana ci dice che la gita non si può fare "per mancanza di mezzi". E’ evidente che si tratta di una scusa: infatti ci sono pochissimi turisti in zona ed è impensabile che non ci sia disponibilità di un fuori strada per noi; riteniamo piuttosto che sia stato il titolare della nostra agenzia, che in primo momento ci aveva offerto la gita ad un prezzo superiore, ad avere imposto alla guida locale di non effettuare il giro al prezzo concordato con noi. E così anche noi, piuttosto delusi, ci dobbiamo accontentare di trascorrere la mattinata in pieno relax sulla spiaggia di Dahab, osservando in lontananza, al di là del mare, i contorni offuscati della costa della penisola Arabica.

Poco dopo mezzogiorno lasciamo la spiaggia e, prima di intraprendere il trasferimento per il Monastero di S.Caterina, ci fermiamo per uno spuntino a Assalah. Si tratta del nucleo originario di Dahab, un tempo famoso come ritrovo di hippies e oggi, con i suoi camp – campi lungo la strada centrale occupati da filari di minicamerette – luogo di incontro per viaggiatori squattrinati. Qui mangiamo in un locale incredibilmente sprovvisto (!!) di bicchieri e sorseggiamo caffè e tè seduti in riva al mare, mentre alcune bambine del posto ci fanno dei simpatici braccialettini colorati di cotone.

Nel primo pomeriggio lasciamo il mar Rosso, risaliamo ancora per un po’ la costa del golfo di Aqaba e infine deviamo verso l’interno del Sinai con destinazione monastero di S.Caterina. Percorrendo una lunga e dritta strada asfaltata ci troviamo immersi in un magico paesaggio fatto di decine di picchi rocciosi, ammorbiditi alla base da immacolate dune di sabbia e circondati da lande desertiche. Lo scenario meriterebbe una serie di continue soste, ma non ho il coraggio di chiedere continuamente all’autista di fermarsi. Lo facciamo una volta in un ampia radura per consentire a Eleonara di raccogliere un po’ di sabbia per ricordo del Sinai e poi nei pressi di una tenda di nomadi addossata proprio alla base di una altissima parete rocciosa.

Arriviamo al monastero quando è ancora pieno giorno e qui ci vengono assegnate due stanze con il pavimento letteralmente coperto di lettini: sette in quella per gli uomini e otto in quella per le donne. Ci prepariamo il letto e poi ci sparpagliamo per le stradine del complesso religioso, curiosi di vedere che cosa ci aspetta. Il Monastero, risalente al VI secolo e costruito per volere dell’imperatore Giustiniano, si trova a poco più di 1500 metri di altezza e noi domani mattina, prima dell’alba, dovremo arrivare sulla vetta del Jebel el-Musa o monte Sinai a 2285 metri: lassù, secondo quanto narrato dalla Bibbia, Mosè ricevette da Dio le tavole dei Dieci comandamenti. In attesa della cena, fissata per le 20.30, e anche per far riposare i muscoli in previsione della fatica notturna, noi uomini ci ritroviamo tutti quanti sdraiati sui nostri lettini, al buio completo; restiamo una decina di minuti in perfetto rilassamento….finché il silenzio non viene interrotto da bruschi rumori di scarponi che si avvicinano e si fermano proprio davanti alla porta della nostra camera e da secche voci gutturali che sembrano impartire incomprensibili ordini. Resterà allora memorabile la spontanea battuta di Franco che, spezzando il silenzio della stanza, dice con voce bassa e circospetta: "Boni, ragazzi! Ci sono i tedeschi!". Per un istante ci sentiamo come proiettati in piena seconda guerra mondiale nella parte di partigiani ricercati dai soldati nazisti e poi scoppiamo tutti e sette in una fragorosa e interminabile risata. Poi scopriremo che si trattava di motociclisti israeliani appena scesi dalle loro moto, che stavano prendendo possesso di una camera accanto alla nostra.

Piacevole cena in foresteria dove, di fronte ad un invitante vassoio di pomodorini e cetrioli freschi, mandiamo a farsi benedire la precauzione, finora rispettata, di non mangiare verdure crude per non rischiare problemi intestinali e addirittura beviamo, forse perché fiduciosi nella santità del luogo, bottiglie di pura acqua di sorgente. Completano la cena degli ottimi kebaba e bicchiere di tè. Inutile la richiesta di Adriana di poter gustare uno sgroppino, tipico gelato veneto alla vodka e al prosecco.

Poi tutti a letto presto: sveglia alle 2.30!

LA SALITA AL MONTE SINAI

Dopo poco meno di quattro ore di sonno, accompagnate dal comprensibile concerto di rumori prodotti da sette uomini che si trovano a dormire insieme in una piccola stanza, siamo in piedi e ci ritroviamo come automi, zaino in spalla e torcia elettrica in mano, sul sentiero che conduce alla vetta insieme a qualche centinaio di turisti e pellegrini. Alzando lo sguardo è’ suggestivo osservare la lunga processione di puntini luminosi che sembra indicare il percorso lungo i fianchi della montagna. Ognuno cerca il proprio passo e il gruppo si frantuma. Corrado, con il suo passo da scalatore, parte subito in quarta e non lo vediamo più. Poi seguono, alla spicciolata, tutti gli altri. Io, insieme a Grazia, Eleonora e lo stoico Mimmi che ancora soffre di una ferita proprio sotto al piede procuratasi durante un bagno alla barriera corallina, formiamo il gruppo di coda. Saliamo, continuamente avvicinati da beduini che offrono con insistenza e speranza i servigi del loro cammello per salire sino in cima. "Camelo? Vuoi camelo? Camelo non caro. Ancora tre ore per la cima." E così via. Vado avanti senza curarmi di loro con il mio passo tranquillo e cadenzato, illuminando con la torcia la strada per evitare di inciampare in qualche pietra. Mi fermo e guardo il cielo, senza luna, ma incredibilmente pieno di stelle: riconosco la Via Lattea, la costellazione di Orione e la luminosissima Sirio. Poi guardo la processione dei puntini luminosi delle torce: non se ne vede la fine. Grazia comincia a dare segni di stanchezza ed è preoccupata soprattutto per il cuore che le sta battendo troppo forte. La convinco a salire su un cammello. Fissiamo la tariffa in 10 $ e in un attimo la vedo sparire nel buio mentre mi saluta dall’alto del cammello. Per avere accettato deve essere stata proprio stanca e affaticata. Io proseguo con il solito passo con Eleonora e Mimmi e dopo poco riprendiamo Valentina e Stefania che si uniscono a noi. Comincio ad avere caldo. Mi fermo per togliermi un maglione e sento la giacca a vento completamente bagnata di sudore. Dopo un’ora di salita senza soste, superiamo alcuni componenti del gruppo fermi ad un posto di ristoro. Continuiamo a salire senza sapere quanto ancora manca all’arrivo. La processione dei puntini luminosi è ormai sparita dietro il crinale della montagna. Si vedono alcune cime che, ancora scure, si alzano nel cielo: quale sarà la nostra? Cerco di fare coraggio a Mimmi dicendo che stiamo per arrivare. Incontriamo una nuova baracchetta e faccio la proposta – accettata con gioia da tutti - di fare una sosta. Una tavoletta di cioccolato e un tè bollente ci rimette tutti quanti a posto e possiamo riprendere con nuova lena la salita. Dopo poco meno di un paio d’ore dalla partenza, arriviamo ai piedi della montagna dove inizia una ripida salita di oltre 700 approssimativi scalini ricavati nelle parete rocciosa. Qui finisce la corsa dei cammelli e qui anche Grazia sarà scesa per proseguire a piedi. Mi guardo intorno pensando di trovarla seduta ad aspettarci e invece niente. Speriamo bene! Comunque, fiduciosi che la meta sia ormai vicina (a quel punto non sapevamo degli oltre 700 scalini che ancora ci aspettavano), ci inerpichiamo per la salita ripida concedendoci anche il lusso di superare alcune persone. Poco prima di arrivare in vetta Eleonora e Mimmi perdono i contatti. Finalmente, un po’ prima delle sei, io, Valentina e Stefania arriviamo in cima. Ormai non è più buio completo. Ritroviamo Grazia che, piano piano, era comunque riuscita a superare l’ultima e più ripida salita. Il cielo ha già cominciato a schiarire. In cima fa freddo e tira un vento fastidioso. Ci sono diverse decine di persone, tutte più o meno stanche, infreddolite, addormentate ma tutte in attesa del miracolo giornaliero del sole. Appoggio su un muretto la mia Canon e guardo lontano, verso le montagne che sotto di noi ci circondano a 360°. Anche se non siamo proprio sulla vetta più alta del Sinai (c’è un’altra montagna, il Jebel S.Caterina, che arriva a 2682 metri) ci sentiamo di dominare completamente il paesaggio.

Qui Mosè vide e parlò con Dio, qui ricevette le tavole dei Dieci comandamenti; c’è solo una modesta chiesetta in memoria del fatto biblico, ma in compenso c’è tanta natura! Crederci o no non ha grande importanza: la suggestione è comunque tanta. Purtroppo il punto dell’orizzonte da dove il sole nasce, spuntando dietro una estesa catena di montagne che vediamo di fronte a noi in lontananza, è coperto da una leggera foschia e questo non ci consente di godere di una alba limpida. Vediamo il sole alzarsi sopra le montagne quando è ancora nascosto da una inopportuna striscia di foschia; poi, quando finalmente riesce a liberarsi delle nubi, è ormai troppo tardi: tutto intorno è già giorno; è mancato il magico, repentino passaggio dalla notte al giorno.

Finito lo spettacolo della levata del sole, iniziamo la discesa che in circa un’ora e mezza ci riporterà al monastero. Qualcuno scende per la strada più veloce fatta di 3750 scalini; noi rifacciamo la stessa strada del mattino, ma ora, in piena luce, possiamo goderci a cuore aperto la fantastica visione a 360 gradi di decine e decine di cime rocciose, plasticamente illuminate dai raggi radenti del sole, che sembrano uscire con prepotenza dal buio della terra .

Ci ritroviamo tutti quanti alla foresteria del monastero per una necessaria colazione e poi visitiamo, insieme a centinaia di turisti arrivati nel frattempo con grossi pullman, i luoghi del complesso religioso aperti al pubblico. La chiesa cristiano-ortodossa, carica di oggetti e di immagini a fondo dorato, costruita nel VI secolo e profondamente modificata nel corso dei secoli successivi, tranne che nella sua splendida e ancora originale porta di ingresso, in legno di cedro del libano a due ante; una interessante raccolta di icone dal VI al XVIII secolo con immagini in stile bizantino primitivo, greco, siriaco e copto; il biblico roveto ardente; il pozzo di S.Stefano e infine l’ossario ove sono lugubremente custodite le ossa e i teschi dei monaci morti.

IL RITORNO

La visita del monastero è finita. Consapevoli che sta per avere inizio il viaggio di ritorno, carichiamo i bagagli sul pulmino e partiamo in silenzio. Il trasferimento sino a Il Cairo, come tutti i viaggi di ritorno, si rivela come la parte più noiosa e monotona dell’intero tour. Mi ricordo solo di ore e ore di deserto sassoso a destra e a sinistra e niente altro. Nel pomeriggio inoltrato entriamo al Cairo ma, coinvolti in un traffico intenso, arriviamo in albergo, il solito, squallido, Atlas, solo verso le sette.

Dopo una necessaria doccia e un controllo della cassa comune, decidiamo di dar fondo ad ogni residuo finanziario concedendoci il lusso di una degna ultima cena in un tipico locale della capitale, il ristorante Felfela Garden, segnalato dalla Lonely come uno dei migliori del Cairo. Solite trattative per concordare la tariffa con quattro taxi e anche per, memori di quanto era successo per andare a Giza la prima sera, restare tutti uniti. Ci riusciamo anche se, quando finalmente siamo tutti a bordo, il motore di uno dei quattro taxi non si accende più e quindi dobbiamo fermare gli altri tre e cercarne un altro. Alla fine, tra una risata e l’altra, ce la facciamo e arriviamo dove richiesto. Il Felfela Garden si conferma un piacevole locale, pieno di clienti egiziani e stranieri. Tra l’ormai ennesima foto ricordo e un pensiero all’ormai imminente ritorno a casa, gustiamo appetitose melanzane ripiene, le solite salsine varie con ingredienti sconosciuti , una piccante frittata con uova, carne e pomodoro, arrosti misti di carne e soprattutto gli ottimi felafel (medaglioni di verdura fritti). Concludiamo con un troppo dolce dessert di riso e un caloroso brindisi ALLA FOLLIA!!!!! rivolto anche alla povera Eleonora rimasta in albergo per un attacco di febbre.

Al mattino successivo, domenica 21 marzo, trasferimento all’aeroporto, saluti al fedele autista (grazie per averci sopportato per 15 giorni e per averci scorrazzato senza problemi per quasi 4000 chilometri) e partenza per Atene. All’aeroporto di Atene, in un salone pieno di viaggiatori che ci guardano stupiti e scettici, cantiamo per l’ultima volta la stupenda e nostalgica melodia di "Cielito lindo" e ci dividiamo in due gruppi: i nordisti diretti a Milano e gli altri diretti a Roma. Del primo gruppo fanno parte: Adriana, promossa sul campo all’unanimità come una validissima capo gruppo, anzi la migliore mai avuta a detta dei veterani di Avventure; Debora, bancaria rampante e prezioso aiuto per la capo gruppo; Stefano, anche lui bancario, tranquillo ed educato, che ha piacevolmente sopportato la presa in giro della sua somiglianza a Mr.Bean e infine Dimitri, il bello del gruppo, che ha elegantemente sfoderato il suo guardaroba di magliette e pantaloncini stretti. Il gruppo diretto a Roma è invece formato da: Corrado e Matilde, coppia di indipendenti, lui viaggiatore veterano, autonomo camminatore e accanito fotografo; lei attenta e solitaria visitatrice di templi; Giampiero e Lorella invece, ribattezzati Iside e Osiride per il fatto di stare costantemente vicini l’uno all’altra e sempre incredibilmente pronti, in ogni minima pausa o attesa, a esporre il viso verso i raggi del sole; Stefania, simpatica fiorentina, capace di rendere piacevoli le frequenti parolacce che le scappavano dalla bocca e sicura promessa del reportage fotografico; Eleonora, materna ostetrica del gruppo, rivelatasi ottima nuotatrice e valida traduttrice simultanea dall’inglese; Mauro, detto Mimmi e poi ribattezzato Gioiello, l’unico ad essere capace di girare senza portarsi neppure un marsupio, al contrario degli altri sempre carichi di pesanti borse e zaini; Franco, l’anima vivificatrice del gruppo, capace di passare da momenti di grande allegria pieni di battute irresistibili, a momenti di preoccupanti silenzi e anche a momenti di vera poesia; e infine la famiglia Morelli, formata da Grazia, Valentina ed io, pienamente soddisfatta e contenta del viaggio e della prima esperienza con un gruppo di Avventure nel Mondo.

E così, con la promessa di ritrovarsi tutti quanti tra un paio di mesi per vedere foto e diapositive, decolliamo da Atene per l’Italia con due voli separati.

EPILOGO

Sull’aereo per Roma, tra un ben ritrovato bicchiere di vino e una punta di nostalgia per il viaggio ormai concluso, scelgo, tra le impressioni di viaggio che ognuno di noi ha scritto sul quadernetto-diario di Stefania, quella di Franco, ispirata alla maledizione di Tuthankamon che a più riprese aveva colpito Mimmi, suo compagno di camera:

TRA STORIA E LEGGENDA, TRA CIVILTÀ E MITO

FRA SABBIA INFUOCATA E ASPRE MONTAGNE,

FRA TEMPLI GRANITICI E LENTE FELUCHE,

UN SOLO GRIDO

DISTINSE IL GRUPPO DAGLI ALTRI MORTALI:

" VO’ A FALLA!!!"

e ne approfitto per chiudere in allegria il diario di questo magnifico viaggio.









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