DIARIO DI VIAGGIO IN TURCHIA

Tour organizzato dal 22 giugno al 1° luglio 2002

"COSE" TURCHE

Di ritorno da un viaggio in Turchia, mi ritrovo a pensare a quante sono le cose per noi familiari che si portano dietro l'appellativo di "turche" e mi viene da chiedermene il perché, visto che l'Italia ha avuto tanti dominatori lungo i secoli della sua storia, ma mai è stata invasa né tantomeno dominata dai turchi, siano essi i selgiuchidi o i più potenti e moderni ottomani.

E allora vediamole queste "cose" turche.

Il divano alla turca o ottomana, un semplice letto accostato al muro senza spalliere; il celeberrimo gabinetto alla turca (a parte la forma che tutti conosciamo in effetti la sua principale caratteristica è l'incorporazione dell'acqua corrente per la pulizia); il bagno turco; fumare come un turco; caffè alla turca; calzoni alla turca; perdere la trebisonda (dalla omonima città turca sul Mar Nero); bestemmiare come un turco; il ferro turco; sedersi alla turca; il popolarissimo "mamma li turchi" del quale debbo ancora riuscire a scoprire la provenienza e chi lo diceva, e per finire il granoturco cioè a dire il mais pianta originaria dell'America tropicale e importata in Europa da Cristoforo Colombo: già, ma allora, perché grano"turco"?

Da dove e perché tutta questa popolarità e importanza? Questo terrore atavico, che sembra risalire a scorrerie piratesche piene di sangue e di violenze, mescolato ad un senso di profondo riconoscimento per invenzioni tuttora valide.

Ma insomma questi "turchi" chi erano? Ed erano buoni o cattivi? Erano portatori di civiltà o barbari?

Pur senza la pretesa di chiarire le questioni partiamo insieme per un viaggio di una decina di giorni verso l'Anatolia e la sua capitale.

Questa volta viaggio organizzato per evitare problemi. E ora posso dire organizzato benissimo ma che ancora una volta ha messo in evidenza i lati negativi, oltre a quelli innegabili positivi, di questo modo di viaggiare.

Partenza da Roma Fiumicino il 22 giugno 2002 con volo di linea della Turkish Airlines destinazione Istanbul. Qui, nella sala di attesa dell'aeroporto, volenti o nolenti perché ho l'impressione che le partenze dei voli interni siano temporaneamente sospese, abbiamo modo di assistere al secondo tempo della partita dei quarti di finale dei Campionati del mondo di calcio che vede appunto la Turchia contro il Senegal. E visto che l'Italia è ormai eliminata siamo contenti di unirci alla gioia dei turchi per la loro vittoria e passaggio alle semifinali.

Appena finita la partita ci chiamano per l'imbarco e con volo interno arriviamo all'aeroporto di Ankara, la capitale, verso le 17 ora locale.

Ci ritroviamo in dieci partecipanti riuniti sotto il cartello con il nome del nostro TO: appena il tempo di contarci e di guardarci in faccia e poi, accompagnati da un giovane turco che ci da il benvenuto in italiano, ci trasferiamo all'hotel Hilton, attraversando il centro di Ankara dove cortei di auto strombettanti e decine di bandiere rosse con quarto di luna che tappezzano le strade e i palazzi, ci fanno capire l'intensità dell'entusiasmo dei turchi per la recentissima vittoria sul Senegal.

Consuete procedure di assegnazione delle camere, consegna dei bagagli, doccia e poi al buffet internazionale dell'hotel cominciamo a fare la conoscenza con gli altri partecipanti al viaggio.

Autopresentazione della guida: si chiama Alì, parla bene l'italiano, ha studiato a Perugia per qualche mese, età circa 35 anni, occhi e capelli scuri, grossa dentatura, corporatura robusta. Istruzioni per la sveglia e la partenza di domani mattina e buona notte a tutti.

Prima di salire in camera facciamo due passi nei dintorni dell'hotel e cominciamo a prendere contatto con la buffa realtà della moneta locale: per una bottiglietta di acqua minerale ci chiedono 500.000 lire turche! Con una certa titubanza pago sfilando dal portafoglio una delle tante banconote locali appena cambiate alla reception dell'hotel. Il cambio sembra favorevole. Per un Euro mi hanno dato 1.500.000 lire turche. Siamo tutti milionari.

Buona notte. Ah, dimenticavo. Le tariffe delle camere parlano di una doppia a 290 dollari, che espressa in lire turche equivarrebbe a circa 450.000.000 di lire turche. Mi gira la testa.

UN VIAGGIO NELLE CIVILTA' ANATOLICHE

Il risveglio di domenica 23 giugno ad Ankara in una camera al settimo piano dell'Hilton con finestra che mi fa godere di un ampio panorama sulla città dominato da un primo piano sul grattacielo dello Sheraton, è piacevolissimo. Il viaggio in Turchia è ormai una realtà.

Magnifica prima colazione e poi trasferimento in pullman sino al Museo delle civiltà Anatoliche di Ankara. Il pullman è nuovo e comodissimo: una cinquantina di posti per 19 partecipanti più autista e guida.

L'attraversamento della città mi consente di constatarne la modernità e l'incredibile sviluppo avuto negli ultimi ottanta anni. Infatti Ankara nel 1922, prima di diventare capitale della neonata repubblica turca, era una anonima cittadina di appena 30.000 abitanti; oggi ne conta oltre quattromilioni e queste cifre sono sufficienti per far capire la natura dell'attuale città.

Ankara, come del resto un po' tutta la Turchia, deve il suo sviluppo dopo la prima guerra mondiale al grande statista e generale Kemal Atakurk al quale è naturalmente dedicata la piazza principale della città dominata da una imponente statua equestre di questo eroe nazionale e padre della patria,

Non che Ankara sia priva di storia. Infatti le sue origini risalgono all'antica civiltà Ittita nel secondo millennio a.C., successivamente importante centro frigio, poi via via ellenistico, seleucide, romano, bizantino, selgiuchide e ottomano. Ma proprio sotto gli Ottomani perde sempre più importanza fino a divenire una modesta cittadina di poche migliaia di abitanti famosa solo per le sue capre.

Il museo delle Civiltà anatoliche è ospitato in un antico mercato coperto del primo periodo ottomano, oggi restaurato e adattato alla bisogna e caratterizzato dalla presenza di dieci tipiche cupole rotonde che movimentano il tetto e che identificano un po' il paesaggio turco. Cupole molto interessanti anche quando viste dall'interno ne possiamo apprezzare la precisa e elegante costruzione per mezzo di mattoni in argilla aggettanti uno sull'altro fino a chiudere la volta. A fianco di questo primo edificio ne sorge un altro, che in origine era un caravanserraglio, e che oggi ospita gli uffici di ricerca e la biblioteca.

Forse potrebbe sembrare un po' troppo didattico iniziare un viaggio in un paese straniero partendo da una visita museale. Ma penso che questa volta la cosa sia veramente indovinata perché la visita mi consentirà di approfondire al meglio l'importanza della Turchia, o meglio sarebbe dire dell'Anatolia perché di Turchia si può cominciare a parlare solo dall'XI secolo dopo Cristo con l'espansione del sultanato dei turchi selgiuchidi. E questo museo contiene reperti appartenuti a civiltà preellenistiche quando appunto il territorio si identificava con l'Anatolia, un immenso altopiano grande due volte e mezzo l'Italia, che si innalza verso est fino alle catene del Caucaso.

La disposizione delle sale è in ordine cronologico aiutando così ad entrare nello spirito storico.

Si comincia con le vetrine dedicate all'epoca paleolitica (pietra scheggiata) seguite poi da quelle del neolitico (pietra levigata). E già qui c'è la prima sorpresa. Resti e ricostruzione di uno dei più antichi e evoluti centri abitativi della storia dell'umanità: Catal Hoyuk. Situato all'interno dell'Anatolia a 52 Km. da Konya con le sue case costruite in argilla, senza fondamenta, ma con mura contigue e indipendenti, contende a Gerico il primato di più antica città del mondo e risale ad un periodo tra il 6800 e il 5700 a.C. Interessanti alcune teste di toro che adornavano le stanze e soprattutto una serie di statuette in terracotta aventi per oggetto la maternità: su tutte ricordo una figura di donna seduta appoggiata a due animali sacri con seni e pancia molto pronunciati raffigurata nell'atto di partorire.

L'evoluzione delle civiltà prosegue con l'epoca calcolitica o età del rame con altre statuette della Dea madre e vasi in terracotta con ornamenti geometrici dipinti.

Ma sarà la successiva età del Bronzo - 2500/2000 a.C. - con alcuni splendidi simboli rituali in bronzo raffiguranti cervi e tori provenienti dal sito di Alacahoyuk appartenenti alla civiltà degli Hatti ad attirare la mia attenzione. Grazia invece vede in una serie di idoli in alabastro, le figure stilizzate alle quale potrebbe essersi ispirato Gaudi per creare i suoi famosi funaioli di Casa Milà a Barcellona.

Alcune vetrine contengono poi una serie di vasi e suppellettili raffiguranti animali e uccelli in terracotta, bronzo, avorio, e alcune tavolette cuneiformi tutte di provenienza dalle colonie commerciali assire presenti in Anatolia dal 1950 al 1750 a.C.

E arriviamo così alla civiltà degli Ittiti, una popolazione indoeuropea proveniente dalle regioni caucasiche, alla quale sono dedicate diverse vetrine nonché tutta la parte centrale dell'edificio.

La civiltà ittita, come avremo modo di approfondire più tardi direttamente in loco sui resti della loro capitale Hattusa, dura oltre dieci secoli e precisamente dal 1750 al 700 a.C. In questo lungo periodo vengono identificati due fasi, la prima fino al 1200 vede l'impero ittita raggiungere per due volte l'apogeo della sua potenza tanto da essere in grado di contrastare l'esercito egiziano di Ramses II nella famosa battaglia di Qadesh in Siria. La seconda invece dal 1200 in poi vede la civiltà ittita, dopo la distruzione dell'impero da parte dei "popoli del mare", continuare a vivere in alcune piccole città stato tra l'Anatolia e l'alta Siria che appunto vengono chiamate neo-ittite.

La produzione ittita è abbastanza nutrita e su tutto ricordo una coppia di elegantissimi tori in terracotta con funzione di recipienti, una serie di possenti bassorilievi su arenaria raffiguranti animali, re, regine, divinità e scene di caccia e di guerra e infine i tipici leoni in basalto che sono un po' il simbolo di questa civiltà.

La civiltà frigia che sostituì per importanza quella ittita dopo le confuse invasioni dei "popoli del mare" provenienti dall'Egeo, è presente con alcuni incredibili tavoli intarsiati in legno e due splendidi secchi in bronzo terminanti uno con una testa di montone e l'altro con una testa di leone.

Una vetrina contenente oggetti in bronzo, avorio e gioielli in oro è dedicata alla civiltà degli Urartei che fiorì all'inizio del I millennio a.C. nella zona orientale dell'Anatolia.

Gli ultimi spazi contenenti modeste opere, monete e gioielli delle successive civiltà, da quella persiana alla ottomana, passando per l'ellenistica, la romana, la bizantina e la selgiuchide, servono più che altro da completamento storico del museo.

Terminata la visita del museo debbo fare i conti con la realtà del tour organizzato rinunciando ad una seppur breve visita di Ankara o almeno della sua antica Cittadella dominata da un Castello bizantino. Mentre usciamo da Ankara Alì richiama la nostra attenzione sulle centinaia di costruzioni abusive in mattoni e cemento, ad u unico piano, che riempiono le decine di colline sulle quali si estende la periferia della città.

Dopo un centinaio di chilometri attraverso un bel paesaggio collinare colorato da infinite distese di campi di grano maturo arriviamo alla piccola località di Bogazkale dove, prima di iniziare la visiti dei siti Ittiti, ci concediamo un assaggio di specialità gastronomiche turche a base di zucchine ripiene, melanzane in stufato con carne di montone e uno yogurt insaporito da cetriolo e menta (cacik).

GLI ITTITI

Inevitabile quindi la visita del sito nelle prime ore del pomeriggio: per fortuna il sole cocente è mitigato da un prezioso venticello che unito all'altitudine del luogo, oltre 1000 metri, rende ugualmente piacevole la visita.

I resti architettonici portati alla luce della città di Hattusa, antica e più importante capitale dell'impero, si trovano sulla sommità di una collina che raggiungiamo in pullman. Possenti sono le mura con un perimetro di oltre cinque chilometri, costruite utilizzando grossi blocchi di pietra adeguatamente sgrossati. La prima sosta alla Porta dei Leoni, così detta per la presenza di due leoni in pietra che sembrano proprio essere messi lì a difesa della città.

Dalla Porta dei Leoni proseguiamo verso la cima della collina dove ci sono i resti della seconda porta, detta delle Sfingi - sfingi che oggi si trovano nei musei di Berlino e di Istanbul - nei pressi della quale è interessante percorrere una galleria di settanta metri che conduce dalle mura fino ad una uscita segreta. Forse era utilizzata dagli Ittiti durante gli assedi per effettuare uscite improvvise e prendere così alle spalle gli assalitori. L'esterno delle mura si presenta qui con un imponente declivio in pietra che possiamo risalire utilizzando una scala monumentale. Dall'alto della collina è bello guardarsi intorno soffermandosi sui resti degli edifici ittiti riportati alla luce che riescono a dare un'idea della potenza di questa civiltà che, se la memoria non mi tradisce, ai miei tempi scolastici non aveva neanche l'onore di una menzione nei nostri libri di storia.

Ora però che sono qui è inevitabile un pensiero alla famosa battaglia di Kadesh. Questa battaglia è un classico esempio di come la manipolazione delle notizie sia una abitudine vecchia come l'uomo. Se leggiamo le iscrizioni presenti nel tempio di Abu Simbel in Egitto veniamo a sapere che la vittoria di Ramses è stata schiacciante; dall'altra parte se leggiamo invece i documenti ittiti, il loro re Muwatallis afferma di aver sconfitto gli egiziani e di aver fermato la loro avanzata.

Molto probabilmente la verità, come sempre, sta nel mezzo tanto è vero che dopo quella battaglia vennero confermati i precedenti confini dei due imperi e ebbe inizio un periodo di pace tra le due potenze sfociato addirittura in un matrimonio tra la figlia del nuovo re ittita Hattusililis III e il faraone Ramses II.

Il giro prosegue sempre lungo le mura con una ultima sosta presso la Porta dei Re che contiene, scolpito su uno stipite, il possente bassorilievo (qui c'è una copia in quanto l'originale l'abbiamo visto poche ore fa al museo di Ankara) del Dio della guerra.

Completato il giro delle mura, ci inoltriamo all'interno di quella che una volta era la città, dove vediamo una grotta artificiale, chiamata Camera dei geroglifici, interamente rivestita da pietre ben tagliate e levigate sulle quali figurano alcune iscrizioni in geroglifici ittita. Le pareti della camera sono oblique e in alto vanno ad incontrarsi creando una specie di arco grazie all'utilizzo di originali chiavi di volta curvate: considerando che l'arco fu inventato molti secoli dopo dai romani, questo realizzato dagli Ittiti può essere considerato uno dei suoi più ingegnosi antesignani.

Della città Ittita sono state riportate alla luce solo le fondamenta di una serie di templi, abitazioni, strade, botteghe che possono dare solo un'idea dell'elevato grado di civiltà raggiunto da questo popolo e del quale noi siamo venuti a conoscenza solo all'inizio del XX secolo. All'interno di quello che era il Grande Tempio è conservata una strana pietra liscia e squadrata di colore verde che sembra avere avuto poteri divini.

Nei pressi di Hattusa sorge poi un altro sito dal nome difficile di Yazilikaya che aveva la funzione di santuario a cielo aperto e che si rivelerà come la parte più interessante e suggestiva del sito. Qui infatti, passando attraverso aperture nelle rocce si possono ammirare bellissimi bassorilievi scolpiti nelle pareti delle rocce, raffiguranti tra l'altro le due più importanti divinità ittite - Teshub, il dio della tempesta e Hepatu, la dea solare - che vengono onorate da re e guerrieri e una famosa processione di dignitari con il caratteristico cappello conico che sembrano procedere verso il Re.

Verso le cinque del pomeriggio lasciamo Hattusa e riprendiamo il viaggio verso la Cappadocia.

Il paesaggio, seppur abbastanza costante, è molto bello e colorato. Le stupende geometrie delle colline e dei campi coltivati richiederebbero continue richieste per soste fotografiche delle quali io, insieme a Renato e a Gaetano, pure loro appassionati di fotografia, cerchiamo di non approfittare troppo.

Ma questo non ci impedisce di reclamare a gran voce e tutti insieme una sosta di fronte ad uno stupendo tramonto che colora di rosso, rosa e giallo le nubi addensate sulla Cappadocia regalandoci anche uno sprazzo di arcobaleno. Una corsa fuori dal pullman attraverso un campo di erba pungente alla ricerca del punto giusto e nella speranza di non perdere l'attimo per una immagine da urlo: purtroppo l'affanno giocherà un brutto scherzo e le foto riusciranno sì stupende, come colori e scenario, ma inevitabilmente mosse.

Dopo pochi chilometri quando ormai è quasi buio, siamo a Nevsehir, la anonima cittadina della Cappadocia dove pernotteremo per due notti.

LA CAPPADOCIA

Lunedì 24 giugno è la giornata dedicata interamente alla visita della Cappadocia, la regione che occupa la parte centrale dell'altopiano anatolico e che costituisce uno dei più famosi richiami turistici della Turchia. Le principali attrattive sono contenute nella parte delimitata da un triangolo con agli angoli i tre centri di Nevsehir, Avanos e Urgup e al centro Goreme.

La spettacolarità e l'unicità del paesaggio sono dovute ad una serie di eruzioni vulcaniche risalenti a milioni di anni fa uscite dai crateri del monte Argeo e dell'Hasan Dagi che sommersero tutta la zona circostante con un tufo vulcanico particolarmente tenero. Questo tufo con il passare dei millenni ha subito continue modifiche per erosioni atmosferiche e per lo scorrimento di rivoli d'acqua, creando una serie infinita di scenari originali ai quali, per una volta, il successivo lavoro e intervento dell'uomo si è felicemente sposato creando un'architettura armonica e quasi naturale. A tutto questo va aggiunto anche la presenza mista al tufo, di pietre più dure che sono rimaste integre non consentendo al tufo sotto di loro di consumarsi. Questo fenomeno unico al mondo ha fatto sì che il territorio circostante sia ora popolato da centinaia di coni, torri, cilindri, piramidi dalle forme e dalle misure più svariate, sormontate dalla pietra che in qualche misura le ha protette dalle erosioni.

Questo in poche parole è quanto è dato di leggere sulle guide. Ma la realtà supererà ogni aspettativa e dimostrerà che ci sono al mondo spettacoli naturali talmente unici che è veramente difficile descrivere e farne comprendere le caratteristiche e le bellezze a chi non ha l'opportunità di poterli vedere dal vero.

Prima di partire però è opportuno un brevissimo accenno alla storia della Cappadocia. Come il resto della parte centrale dell'Anatolia, anche la Cappadocia fu abitata dagli Hatti e poi dagli Ittiti. Poi i soliti frigi, persiani, greci e finalmente negli ultimi quattro secoli avanti Cristo vi fiorì un regno indipendente che poi inevitabilmente fu annesso all'impero romano.

Ma fu con la decisione di Costantino di liberalizzare il culto cristiano che la Cappadocia acquistò importanza. La zona, proprio grazie alla presenza di abitazioni rupestri, era particolarmente adatta alla diffusione del monachesimo e degli anacoreti. La facilità di escavazione del tufo venne sfruttata per la realizzazione, oltre che delle case rupestri come era sempre stato fatto, anche di splendide chiese che ricalcavano le forme delle basiliche cristiane, spesso ricche di affreschi. E se gli abitanti non ritenevano sufficientemente sicure le case rupestri ricavate dalle montagne di tufo, allora si rivolgevano al sottosuolo, anche quello sempre in tufo dove proprio i cristiani per sfuggire alle persecuzioni degli arabi prima e dei turchi selgiuchidi poi, proseguirono, fino all'ottavo piano, la costruzione di incredibili città sotterranee risalenti all'epoca preistorica.

Ed è proprio dalla visita di una di queste città sotterranee, Kaymakli, che iniziamo la scoperta di questo mondo fantastico.

Esternamente Kaymakli è un semplice e anonimo villaggio agricolo ma attraverso una grotta che si apre in una collinetta si entra nella città sotterranea, interamente scavata nella roccia, senza alcun apporto di materiale esterno, che attraverso una serie di stretti e bassi cunicoli che percorriamo piegati a 45 gradi e scale ricavate dalla roccia, scende fino a otto piani sotto il livello dell'ingresso. Noi ci limitiamo a scendere fino al quarto livello ma è più che sufficiente per farci avere un'idea della straordinarietà della realizzazione. I passaggi e le stanze visitabili - che erano adibite a magazzini, camere, cucine e chiese - sono oggi illuminati ma non è difficile andare con il pensiero a quando gli abitanti vi vivevano al buio, con la scarsa, fumosa e puzzolente luce di qualche torcia e come se ciò non bastasse con la paura di attacchi o scoperte da parte di nemici. Già perché i cristiani si rifugiavano in questa città proprio quando avevano bisogno di nascondersi dalle incursioni degli arabi o dei turchi selgiuchidi; chiudevano e nascondevano l'accesso e come unico collegamento con il mondo esterno restavano alcune prese d'aria adeguatamente mimetizzate. Si parla di migliaia di persone che potevano resistervi anche fino a sei mesi.

Finalmente tornati all'aria aperta ci trasferiamo a Uchisar dove abbiamo una prima rivelazione di quello di cui è capace la Cappadocia; un enorme picco in tufo dalla vaga forma di cono contorto e irregolare, pieno di finestre e di porte sovrasta il piccolo centro, che con una serie di analoghe anche se più piccole abitazioni , si snoda incredibilmente sino alla base della collina chiamata Valle di Argilase. Se non fossi sicuro di essere sveglio penserei di trovarmi di fronte ad un irreale paesaggio da fiaba.

Come sempre succede di fronte a scenari fantastici non è facile sapere che cosa e come fotografare: da una parte verrebbe la voglia di fotografare tutto, perché tutto appare interessante e degno di nota; dall'altra vorrei prima guardarmi intorno, studiare, tentare di conoscere per poi scegliere soggetti e inquadrature. Ma non c'è tempo.

Scesi alla Valle di Argilase, dominata dal maestoso picco in tufo che viene chiamato kale cioè castello, non resisto alla tentazione di addentrarmi nel villaggio, lungo una stradina tortuosa che unisce e avvolge quelle dimore fiabesche, arricchite qui anche dalla fresca e leziosa presenza di alberi e giardini fioriti. Fortunatamente non ci sono turisti, rimasti tutti, compreso un paio di pullman di giapponesi, giù lungo la strada all'assalto di alcune bancarelle di souvenir, e quindi in solitudine riesco a provare emozione quando vedo arrivare da lontano, lungo una bianca stradina tufacea di campagna, un vecchio contadino in groppa al suo asinello che attraversa questo paesaggio fiabesco come fosse, e per lui lo è, la cosa più comune e scontata del mondo.

Sarebbe bello continuare a salire per arrivare sino al kale ma la necessità di rispettare i tempi del gruppo mi richiama presto all'ordine e torno velocemente verso il pullman.

Breve trasferimento sino a Zelve dove, non ancora ripreso dallo spettacolo di Uchisar, mi trovo immerso in uno scenario simile ma questa volta più rustico e meno fiabesco. Il vecchio villaggio di Zelve è formato da una serie di abitazioni rupestri ricavate lungo i due fianchi di un bacino di origine fluviale che si insinua all'interno di montagne tufacee. La nostra visita si limita ad una passeggiata lungo un fianco con brevi escursioni all'interno delle case di facile accesso salendo anche ai piani più alti.

E' ancora presente una piccola moschea in parte scavata nella roccia e in parte edificata, con uno strano minareto che tradisce le sue origini cristiane. All'interno della moschea è visibile la nicchia del Mihrab che indica ai fedeli la direzione della Mecca verso cui rivolgere le preghiere.

Poco distante una chiesa cristiana, la Chiesa dei Pesci, scavata interamente nella roccia e con l'ingresso arricchito da affreschi, impossibile da visitare per paura di crolli e cedimenti, rischi questi sempre più reali e con i quali i turchi debbono purtroppo fare i conti in queste zone.

Utilizzando passaggi interni originali e una scala esterna posticcia, visitiamo fino al secondo piano una casa a più piani.

Per la maggior parte si tratta di abitazioni che erano regolarmente abitate sino al 1950 e quindi solo da una cinquantina d'anni sono divenute un prezioso museo all'aperto fonte di sostanziali introiti turistici

Mentre torno indietro percorrendo il fianco opposto, sempre più affascinato dal paesaggio, penso insieme a Gaetano a come sarebbe bello poter tornare qui al momento del calare del sole visto che la valle è messa in una posizione tale che i raggi del sole al tramonto la prenderanno tutta d'infilata: ma per questa volta possiamo solo fantasticare sulle svariate sfumature di colori che a sera assumeranno i tufi e piangere su una serie di fotografie mancate.

Ma la Cappadocia non ha ancora finito di stupirmi e infatti dopo il pranzo e l'inevitabile shopping al Centro dell'artigianato, eccoci ancora immersi in un nuovo scenario fantastico: la Valle dei camini delle fate, o Vigna del Pascià come ce la presenta Alì, lungo la strada tra Zelve e Urgup.

Effettivamente mi riesce difficile anche solo tentare di descrivere questo nuovo paesaggio. Decine di pinnacoli naturali in tufo dalla forma vagamente cilindrica o conica, simili appunto a camini, a colonne, a obelischi o a enormi falli, popolano tutta la valle: di diverse misure, isolati, a coppia o in gruppi più numerosi, tutti hanno la sommità coperta da una pietra dura e scura, quella che ha protetto il tufo sottostante impedendogli di venire eroso dal vento e dalla pioggia, pietra che poggia su uno strato di altro materiale quasi bianco che svolge la funzione di capitello naturale e poi finalmente comincia la parte in tufo di un colore bianco ocra che scende sino al terreno nel quale si confonde.

Il tutto, come se non bastasse, fiancheggiato al lato della valle da un villaggio costituito da abitazioni anche a più piani che definire fiabesche è poco, sempre ricavate da questi grossi coni vulcanici ingegnosamente scavati all'interno e circondati da vigne che si inseriscono piacevolmente tra una casetta e l'altra.

E non è ancora finito. Ci aspetta infatti, se possibile, la zona più ricca di manifestazioni artistiche della Cappadocia e cioè un vero museo a cielo aperto, quello di Goreme, centro simbolo della regione, che all'interno di un villaggio di case rupestri contiene moltissime chiese anche queste rupestri impreziosite da affreschi risalenti ai secoli a cavallo tra il primo e il secondo millennio.

La visita delle chiese, si parla di circa 3000 nell'intera Cappadocia, è chiaramente limitata ad alcune, anche perché sono aperte al pubblico a rotazione per evitare il rischio della sudorazione dei visitatori che può danneggiare gli affreschi.

Queste chiese rupestri risalgono ai primi secoli del cristianesimo, quando appunto in Turchia e in modo particolare in questa zona si erano formate congreghe di fedeli che approfittarono della facilità di lavorazione del tufo per ricavare queste chiese. Si ritiene che le più vecchie fossero affrescate con figure poi inevitabilmente cancellate e distrutte durante il periodo iconoclasta dal 726 al 843. Evidentemente risalgono a quel periodo o agli immediati decenni successivi gli affreschi tuttora visibili in alcune chiese a soggetto unicamente geometrico o floreale. Gli affreschi più belli invece, quelli che raffigurano scene della vita di Cristo, di Maria, e anche di soggetti biblici, vengono datati invece ad un periodo compreso tra il IX e il XIII secolo.

Così tanto per memoria provo a ricordare le chiese che abbiamo visitato cercando di evidenziarne le caratteristiche principali. Iniziamo con la Yilanli Kilise ( Chiesa di Sant'Onofrio) ad una unica navata decorata con belli affreschi tra i quali si riconosce San Giorgio e San Teodoro che attaccano il drago.

Purtroppo la documentazione fotografica di questi affreschi sarà molto scarsa perché è fatto divieto assoluto di fotografare all'interno delle chiese: con il flash, giustamente, perché i lampi potrebbero danneggiare irrimediabilmente i colori degli affreschi e senza flash perché così gli interessati saranno costretti ad acquistare cartoline e libri presso il bookshop all'ingresso.

Poco distante visitiamo la Elmali Kilise o Chiesa della Mela - già infatti l'ottimo tè alla mela si chiama elmaçai - a pianta basilicale coperta da otto cupolette e da una centrale più grande, tutte affrescate sia con scene religiose che con decorazioni iconoclastiche.

Poi passiamo alla piccola Chiesa di santa Barbara, a croce greca, decorata con motivi vegetali e animali stilizzati, come il gallo e lo scarafaggio che potrebbero voler rappresentare la figura di Cristo contrapposta a quella di Satana.

Salendo per una stradina tortuosa raggiungiamo un nuovo nucleo religioso; a piano terra un piccolo locale che fungeva da sala del refettorio del monastero nel quale esiste tuttora il lungo tavolo da pranzo interamente in tufo e realizzato naturalmente con il solito sistema di escavazione.

Salendo poi per una scala posticcia esterna, entriamo invece nella splendida Chiesa dei Sandali o Carikili Kilise, a tre navate, interamente coperta da affreschi ben conservati, che, pur risalendo all'anno 1000, evidenziano una tecnica di raffigurazione delle persone più evoluta e meno stilizzata rispetto alle altre. Le scene hanno come soggetto episodi del Nuovo Testamento - tra tutti ricordo quella bellissima del tradimento di Giuda - nonché figure di angeli, di evangelisti, della Madonna e infine un affresco dedicato ad Abramo che ospita tre viaggiatori nella sua tenda nel deserto e che costituisce l'unica raffigurazione di episodi tratti dal Vecchio Testamento.

A questo punto è terminata la visita al complesso delle chiese rupestri di Goreme e seppur a malincuore, assecondiamo Alì nella inevitabile e prevista visita alla fabbrica dei tappeti. La visita sarà comunque abbastanza piacevole sia per le interessanti lavorazioni che avremo modo di conoscere, come la tessitura dei tappeti, la produzione della seta dai bozzoli dei bachi da seta, la tintura della lana e in ultimo un tambureggiante srotolio di tappeti uno più bello dell'altro, sia anche perché un'oretta di riposo al riparo del sole ci fa bene specie se confortata da un bicchiere dell'ormai indispensabile tè alla mela rigorosamente bollente e servito in piccoli bicchieri senza manico più stretti nella parte centrale.

Dopo cena alcuni compagni di viaggio vanno ad assistere ad una esibizione mistico-religiosa dei dervisci danzanti che viene presentata in un antico caravanserraglio.

VERSO IL NEMRUT DAGI

In lingua turca "dagi" significa monte; e questa, insieme a "elma" e "çai", rispettivamente mela e tè, saranno le uniche parole turche che resteranno con me anche dopo la fine del viaggio.

Al mattino di martedì 25 giugno purtroppo Gaetano e Giovanna, ai quali poi si aggiungeranno anche Piero e Ruggero, denunciano di essere stati colpiti dalla maledizione di Montezuma o chi per lui e quindi passeranno l'intera giornata, oltretutto interamente dedicata al lungo trasferimento da Nevsehir fino a Katha per circa 520 chilometri passando per Kayseri, Goksun, Kahramanmaraş e Adiyaman, con forti disturbi di stomaco.

La strada è comunque buona e nell'insieme, tranne quando attraversa centri abitati, comunque molto rari, decisamente poco transitata. Anzi mi colpisce in modo particolare la quasi totale assenza di movimento di persone, di lavoratori che vanno o tornano dal luogo di lavoro, di contadini intenti al lavoro nei campi peraltro molto estesi e lavorati.

Il paesaggio è un misto di pianura, anche se non dobbiamo dimenticare che percorriamo un altopiano alto mediamente 1200 metri, spesso movimentato da colline più o meno boscose e da passaggi montani che ci portano fino ai 1890 metri del colle Racun.

Una veduta indimenticabile sarà quella del mitico Monte Argeo, con le sue eruzioni vulcaniche di milioni d'anni fa l'artefice principale del paesaggio della Cappadocia, che preceduto da campi coltivati e da stupendi cespugli coloratissimi di fiori spontanei, si erge in lontananza con la sua forma perfettamente triangolare ancora coperto di neve: Alì ci dice con orgoglio che mancano appena 16 metri perché la sua cima arrivi a 4000 metri.

Oltre alla coltivazione di grano, che predomina incontrastato nel paesaggio con i suoi estesi campi color giallo oro, sono presenti anche vigneti a pianta bassa, campi di patate e di cotone.

Le colline invece, quando non coltivate, sono piuttosto pietrose e coperte da radi alberi di pistacchi, abeti, forse cedri del libano, giuggioli e cupressidi, una via di mezzo tra cipressi e tuie.

Si incontrano piccoli accampamenti di pastori nomadi costituiti da precarie abitazioni in muratura dove essi trascorrono l'estate per poi scendere di quota all'arrivo dell'inverno.

Nei rari centri abitati, decine di grandi blocchi di abitazioni popolari di recente costruzione sembrano ergersi dal nulla, circondati solo da vasti spazi di terreno desolato, privo di strade e di infrastrutture.

Unica caratteristica che li qualifica come cittadine turche è la presenza di lunghi e affusolati minareti che si stagliano verso il cielo come missili sulla rampa di lancio.

Alcuni chilometri dopo Kayseri, la romana Cesarea, della quale ricordo una squallida periferia di capannoni e botteghe, sosta forzata per problemi di surriscaldamento dell'acqua del motore. Mentre il nostro autista, senza agitarsi, fa raffreddare l'acqua nel radiatore e poi la sostituisce, io ne approfitto per girellare lungo la strada alla ricerca di qualche buona inquadratura fotografica: nota particolare, il termometro segna oltre 40° centigradi di temperatura e sono passate da poco le 13.

Si riparte augurandoci che il problema non si ripeta e

poco dopo facciamo una sosta a Kahramanmaraş per un pranzo in piena libertà.

In netto contrasto con la solitudine del paesaggio attraversato sino ad ora, la cittadina si presenta con un movimento di persone e di mezzi veramente eccezionale, anche tenendo conto dell'ora e della tremenda canicola: camminando per la strada alla ricerca di un posticino all'ombra per mangiare, sento il calore dell'asfalto salirmi lungo le gambe.

Il senso dell'afa opprimente viene esaltato ancora di più dalla vista delle donne, giovani a parte ormai quasi tutte vestite all'occidentale, che camminano per strada indossando incredibili cappotti, spero in cotone, di color avana, abbottonati sul davanti e lunghi fino ai piedi; naturalmente con la testa coperta dall'immancabile foulard.

Senza avere il tempo di rilassarsi troppo. riprendiamo subito dopo lo spuntino il viaggio verso Katha. Alì se ne sta in silenzio assecondando il nostro bisogno di pennichella. Poi quando finalmente ci vedrà svegli, ci racconterà da par suo, con il suo italiano sintetico ma efficacemente colorito, alcune abitudini della popolazione contadina turca: il perdurare di matrimoni stabiliti dalle famiglie; l'obbligo di pagare alla famiglia della futura sposa, magari di appena 14 o 15 anni, somme fino a 10 miliardi di lire turche più una quantità di gioielli; la celebrazione della festa di nozze con balli di sirtaki e manifestazioni di forza e di violenza; l'uso di ricorrere ancora a matrimoni tra parenti per evitare la frammentazione dell'eredità; l'assoluta importanza della verginità della donna; la disperazione per un ragazzo di accorgersi di essere omosessuale; l'importanza di avere un figlio maschio che viene accolto e considerato come fonte di potere, lavoro, fiducia e protezione. E infine il continuo e inarrestabile trasferimento di popolazione dalle campagne alle città alla ricerca di un lavoro e una speranza di vita migliore. I contadini una volta trasferiti in città mantengono le loro abitudini, il loro modo di vestire e di vivere, ma i loro figli cominciano piano piano a guardarsi intorno contribuendo così alla definitiva e integrale europeizzazione della Turchia strenuamente voluta da quell'Atakurk che è giustamente considerato il più grande eroe nazionale turco.

Ascoltando con piacere i racconti di Alì, passiamo tutto il pomeriggio in viaggio. Alle 18, ad una ventina di chilometri da Adiyaman, il pullman effettua una nuova sosta forzata per i soliti problemi di raffreddamento. Nuova sostituzione dell'acqua e poi finalmente, dopo aver avuto anche l'opportunità di vedere in lontananza la vetta del Nemrut Dagi, verso le 20 siamo a Katha, una squallida e anonima cittadina della quale ricordo solo la dritta strada principale dove sorge il nostro albergo.

SALITA AL NEMRUT DAGI

Mrcoledì 26 giugno è la giornata della temuta sveglia alle 2.30, necessaria per consentirci di arrivare per tempo a vedere il sorgere del sole dalla cima del monte Nemrut. E così sarà.

Con tre minibus guidati con un po' di spregiudicatezza da autisti locali, percorriamo 45 chilometri di strada asfaltata e poi ci inerpichiamo per altri 25 per una strada stretta e tortuosa interamente ricoperta da un approssimativo pavé. Siamo particolarmente fortunati perché è una notte fantastica con una luna piena che ci consente di vedere il paesaggio circostante.

Poco dopo le quattro arriviamo alla base della cima del Nemrut, a 1950 metri di altezza, e da qui, dopo un corroborante tè alla mela, affrontiamo a piedi il ripido sentiero che consente di superare i 200 metri di dislivello che ci separano dalla vetta dove il re Antioco I del regno della Commagene nel I secolo a.C. si fece costruire uno spettacolare e gigantesco monumento funerario.

La storia della Commagene ha inizio con il 250 a.C. quando questa piccola provincia dell'impero seleucida, situata ai confini orientali a stretto contatto con l'altro potente impero dell'epoca, quello dei Parti, si dichiarò indipendente grazie all'iniziativa del suo governatore Tolomeo. La durata complessiva del regno della Commagene supera di poco i 300 anni tra periodi di piena indipendenza e altri che lo videro alleato dei Romani o dei Parti. Fu proprio durante il periodo romano, nell'anno 80 a.C., che il suo re Mitridate scelse Arsameia, situata ai piedi del Nemrut, come capitale del regno. Ma fu il figlio di costui, il nostro Antioco I, che regnando dal 64 al 38 a.C. portò la Commagene a vivere il suo periodo aureo. E forse proprio per tramandare ai posteri il senso della sua impresa, Antioco volle che venisse costruito questo favoloso mausoleo sulla cima della montagna più alta della regione per esservi poi sepolto.

A puro titolo di cronaca il regno di Commagene restò in piedi sino al 72 d.C. quando l'imperatore romano Vespasiano lo annesse alla provincia romana dell'Asia facendolo cadere nel dimenticatoio. Tanto è vero che è solo da pochissimi anni, e precisamente dal 1953, che i resti di questo straordinario monumento funebre sono stati scoperti e fatti conoscere al mondo intero.

Il mausoleo di Antioco I è formato da tre terrazze disposte rispettivamente a est, nord e ovest, dominate da un enorme cumulo di pietre a forma conica alto 50 metri e con un diametro di 150. Gli esperti ritengono che proprio questo cumulo nasconda al suo interno la camera funeraria e relativo sarcofago del re, ma sino ad oggi, nonostante ripetuti tentativi di scavare gallerie, non è stato ritrovato niente.

La ripida salita lungo un sentiero lastricato richiede una camminata di una ventina di minuti che comunque, grazia alla luna piena che illumina uno spettacolare panorama di montagne, ripaga ampiamente della fatica. Arrivo in cima quando è ancora buio ma già si comincia ad intravedere un barlume di chiarore. Ci sono già qualche decina di persone, e altre ne stanno arrivando, sedute sul ciglio della terrazza est in attesa dell'alba. E' inevitabile quindi un leggero brusio che però non rovina più di tanto il fascino del luogo.

Io preferisco girellare tra i tanti pezzi di statue sparsi sulla terrazza tra i quali spiccano alcune enormi teste alte oltre due metri: sono le teste che nel corso dei secoli i vari terremoti, dei quali purtroppo la zona è ricca, hanno staccato dai cinque colossali personaggi in pietra - 9 metri - e fatto cadere sulla terrazza sottostante. Ed è proprio lo spettacolo offerto da queste teste e dai busti seduti in alto con il loro cambiare di colore mano a mano che il sole spunta da dietro le montagne, la più affascinante caratteristica del luogo.

Dalla suggestiva colorazione spettrale, priva di profondità, offerta dalla luce lunare, si passa, non appena i raggi del sole cominciano ad illuminare il mondo, ad un rosa cupo che poi diventa rosso acceso per poi attenuarsi passando dall'arancio e finire in un giallo luminoso, con i rilievi e le ombre sulle statue che acquistano mano a mano sempre più risalto.

Le cinque statue raffigurano quattro divinità e al centro, più alta di tutte senza falsa modestia, quella di re Antioco I. Fanno poi da contorno a questi cinque personaggi alcune imponenti figure di animali tra le quali giacciono per terra una stupenda testa di aquila e una altrettanto bella di leone.

Esaminando con occhio approfondito l'insieme architettonico e in modo particolare le statue, è facile ritrovarvi una serie di inequivocabili influenze: quella degli ittiti, suggerita dalla monumentalità della costruzione e dalla presenza del leone che monta la guardia; quella dei persiani achemenidi per la delicata decorazione delle statue; quella dei parti per il tipico copricapo e il costume reale armeno; quella ellenistica per le figure di Zeus e Eracle. E azzardo anche un riferimento agli egizi ricordando sia le gigantesche figure sedute che coprono la facciata del tempio di Ramses II ad Abu Simbel sia le piramidi alle quali senza dubbio deve essersi ispirato Antioco chiedendo di farsi seppellire sotto quell'enorme cumulo di pietre.

Dalla terrazza est ormai completamente illuminata dal sole, costeggiando la base del cumulo in pietra, passo a quella nord che in realtà non presenta niente di particolare tranne un panorama fantastico sul paesaggio sottostante. E quindi all'altra terrazza monumentale, quella ovest, nella quale sono sparse per terra altre enormi teste scolpite in pietra e una serie di lastroni ornati di figure a bassorilievo che in origine ricoprivano le mura delle terrazze.

Ma qui, pur in presenza di opere simili a quelle della terrazza retrostante, manca la magia della luce del sole: questa terrazza risplenderà di tutta la sua bellezza alla sera, quando il sole, tramontando, farà rivivere il tutto con la magia dei suoi colori di luce.

Concordiamo con gli autisti dei minibus un pagamento extra per evitare di tornare a Katha per la stessa strada del mattino e passare invece per una strada più lunga che ci consentirà però di visitare Arsameia e altre località interessanti.

Qualcuno che soffre di vertigini si pentirà poi di questa scelta perché la discesa si rivela piena di difficili tornanti spesso affrontati con eccessiva disinvoltura dai nostri autisti nonostante i sottostanti strapiombi non indifferenti.

I pochi ma significativi resti della capitale del Commagene si raggiungono camminando per un breve sentiero sul crinale di una collina. Si incontra una stele che domina tutta la vallata sottostante: sul davanti la figura ormai consumata di una donna e sul retro iscrizioni in lingua greca. Poi, salendo verso la cima della collina, un bellissimo bassorilievo che raffigura Mitridate mentre stringe la mano a Eracle e che controlla l'ingresso di un tunnel che scende per 158 metri sotto terra. In cima alla collina infine si possono intravedere i pochi resti delle fondamenta della città e soprattutto godere di una veduta mozzafiato nella quale è stupendamente inserito un piccolo villaggio di pastori abbarbicato sulla cima di una montagna sottostante e formato da casette ad un solo piano con una caratteristica copertura piatta di argilla rinforzata con legno.

Da Arsameia proseguiamo poi per una strada asfaltata che scende verso Katha per otto chilometri passando dal Ponte romano su un affluente dell'Eufrate, ponte risalente a Settimio Severo che è tuttora corredato di tre delle quattro colonne originarie. Un deviazione ci porta infine sulla cima di una collina dove resistono ancora quattro colonne e dalla quale si vede in lontananza la vetta del Nemrut. Forse proprio per questo sembra che la collina venisse utilizzata come luogo di sepoltura delle regine della Commagene.

Sono appena le nove del mattino e abbiamo già visto un sacco di cose. Veloce ritorno in albergo, doccia e una necessaria e sostanziosa colazione.

Poco dopo le dieci siamo già sul nostro pullman, che ci dicono adeguatamente riparato del problema del raffreddamento, pronti per affrontare il trasferimento odierno che almeno sulla carta non sembra essere troppo leggero.

I LUOGHI DELLE RELIGIONI

Dopo una ventina di chilometri viene reclamata una sosta a furor di popolo nei pressi di un ponte sul mitico Eufrate. Attraversando a piedi il ponte si passa come per incanto dall'opprimente caldo della strada ad un delizioso venticello che sembra accompagnare il corso del fiume. Appoggiato al parapetto guardo scorrere sotto di me le invitanti acque di un magnifico colore verde-azzurro e mi viene spontaneo ripensare ad un paio di anni quando mi trovavo sulla sponda dello stesso fiume qualche centinaio di chilometri più a sud, in Siria.

Ma la strada da percorrere è tanta e l'autista ci richiama all'ordine. Si riparte, si passa il ponte e....il pullman si ferma di nuovo. Momento di panico. L'autista scende come al solito in perfetto silenzio, senza dire niente.... L'impianto di aria condizionata è naturalmente spento. Urlo unanime: "Ci risiamo!" e ci aspettano oltre 400 chilometri mentre il termometro segna implacabile 42 gradi all'ombra.

Stai a vedere che alla fine faremo veramente un tuffo nell'Eufrate!

Evidentemente l'autista non aveva approfittato della notte passata a Katha per far sistemare adeguatamente il radiatore; comunque dopo una decina di minuti durante i quali qualcuno comincia già a dare segni di follia, si sente di nuovo il motore ripartire e l'aria condizionata che si riaccende. Si riparte.

Poco dopo una nuova sosta ma questa volta per ammirare la grandiosa diga di Atakurk sull'Eufrate, costruita in nove anni dal 1973 che da sola produce il 18% dell'energia elettrica del paese e contribuisce in maniera determinante all'irrigazione delle zone circostanti.

Proseguendo verso sud arriviamo a Sanliurfa che altro non è che la storica Urfa alla quale è stato recentemente aggiunto l'appellativo "Sanli" che vuol dire "gloriosa".

Oggi è una città di quasi trecentomila abitanti dominata ancora dall'antica fortezza di origini incerte, forse ellenistiche poi via via rivista dai bizantini, dai crociati e infine dai turchi selgiuchidi. Su consiglio di Alì, subito ben accolto dal gruppo che comincia già a sentire gli effetti della fatica - ricordiamoci l'odierna sveglia mattutina alle 2,30 - e del caldo, rinunciamo a salire fino alla fortezza peraltro con un interno di scarso interesse.

Va invece sottolineato il lato mistico della città che vanta una serie di luoghi e di leggende religiose che la rendono particolarmente interessante da questo punto di vista.

A parte la leggenda di essere la patria di Abramo, le origini accertate risalgono al secondo millennio a.C. quando con il nome di Osra risulta essere stata abitata dagli hurriti. Poi, forse per contrastare l'avanzata dei vicini ittiti si alleò con gli egiziani e proprio da questa alleanza ha origine uno dei miti religiosi della città: sembra che dal faraone eretico Akhenaton abbiano copiato e adottato l'adorazione monoteistica del sole.

Seguirono poi le consuete dominazioni ellenistica e seleucide; Osra divenne Edessa e subì per qualche decennio l'influenza alternata degli armeni e dei parti fino alla inevitabile completa sottomissione a Roma. E fu proprio qui, a Edessa, che il cristianesimo venne adottato come religione ufficiale già dal 200 e quindi molto prima della decisione di Costantino, contribuendo non poco a far sì che la lingua liturgica del cristianesimo divenisse l'aramaico. Ma poi, quasi come per non tradire la propria natura di città inquieta in continua ricerca spirituale, sempre qui vengono adottate l'eresia monofisita e quella nestoriana.

Le solite lotte tra persiani e romani precedettero poi la conquista da parte degli arabi e sotto di loro Edessa rimase sino all'arrivo della prima crociata quando divenne una contea latina. Nuovo cambiamento di padroni nel 1144 con i turchi selgiuchidi ai quali poi succedettero gli ottomani. Sotto il loro impero, nel 1637, Edessa diventò finalmente Urfa.

Forse sarà la suggestione per aver letto in anticipo tutte queste vicende, ma ora che sono in questa città mi sembra di percepire un fervore religioso particolarmente accentuato.

Magnifico l'insieme costituito dal quartiere Golbasi e dal complesso della Dergah, che racchiudono al loro interno alcune moschee e madrase e un piacevole giardino pubblico arricchito da due lunghe vasche dove nuotano e mangiano voracemente migliaia di grosse carpe che la tradizione vuole essere sacre e quindi in perfetta sintonia con lo spirito del luogo.

Il mistico esotismo del luogo è enfatizzato anche dalla presenza di gruppetti di donne a passeggio nei giardini che qui più che altrove sono ancora vestite alla maniera tradizionale con lunghi mantelli completamente neri e l'immancabile chador. Così come mi sembra di riconoscere in tanti vecchietti con barba e papalina seduti sulle panchine il comune patriarca delle religioni monoteistiche, il biblico Abramo.

Vedo poi un uomo seguito in rigorosa fila indiana da alcune donne che, se non fosse per il fatto che la poligamia in Turchia è stata abolita dal solito Atakurk, avrei creduto esserne le mogli

Prima di proseguire nella visita della città, facciamo una sosta pranzo con Alì presso un locale nei pressi dei giardini dove gustiamo per la prima volta l'ottima pizza turca, lahmacun, una focaccia sottile cosparsa di pomodoro, spezie e carne.

Dopo lo spuntino visitiamo la moschea all'interno della quale si trova la leggendaria grotta natale del profeta Abramo. La grotta, che si trova nella parte della moschea riservata alle donne e quindi visitabile solo da loro, è protetta da una grata in ferro . La zona riservata agli uomini non ha niente di particolare: piccola stanza con pavimento coperto di tappeti e un paio di fedeli inginocchiati.

Poi una breve passeggiata tra le viuzze del vicino bazar giusto per rendersi conto della potenza del tifo calcistico turco. Alla televisione stanno trasmettendo in diretta la semifinale tra Turchia e Brasile e nelle stradine del bazar è un continuo incontrare gruppetti di uomini e ragazzi incollati estasiati davanti ad un apparecchio televisivo. L'entusiasmo è alle stelle anche se mi sembra di capire che la Turchia stia perdendo.

La giornata è caldissima e quindi è con un certo sollievo che saliamo sul nostro pullman per raggiungere Harran, un piccolo centro situato ad appena 10 chilometri dal confine siriano, anche se questa visita comporterà una deviazione di ben 45 chilometri all'andata e altrettanti al ritorno.

Comunque alle tre del pomeriggio arriviamo in questo villaggio famoso per le sue abitazioni ad alveare. Si tratta di piccole costruzioni circolari realizzate in argilla mista a paglia e sormontate da un tetto in mattoncini che forma una cupola appuntita, raggruppate in 10/12 unità intorno ad un cortile. La forma è identica ai trulli di Alberobello, così come a quelli che due anni fa abbiamo visto in un villaggio siriano nei pressi di Ebla, distante poche decine di chilometri da qua. Leggo infatti sulla guida che questi tre sono gli unici posti al mondo dove esistono abitazioni di questo tipo: sarebbe interessante scoprirne il punto di partenza.

Anche questa città, oggi ormai ridotta ad un modesto e polveroso villaggio di poche migliaia di abitanti, ha la sua storia più o meno fantastica.

Sembra addirittura che sia stata fondata da uno dei figli di Noè. E viene poi nominata nell'Antico Testamento quando Abramo, proveniente con moglie e tribù da Ur dei Caldei e diretto alla terra di Canaan, decide di sostarci per qualche tempo.

Dopo le solite innumerevoli dominazioni, tra le quali meritano un ricordo quella dei Mitanni e degli Assiri, Harran venne invasa nel 1271 dai Mongoli e distrutta pressoché definitivamente perché da quel momento non riuscì mai più a risollevarsi dal modesto villaggio come appare tutt'oggi.

Il pullman si ferma in una piazza terrosa al centro del paese e qualcuno, tra cui Grazia, decide di rinunciare alla visita preferendo l'aria condizionata del nostro mezzo di trasporto.

Io mi incammino sulle strade terrose dietro ad Alì sotto un sole implacabile mentre sento salire dal terreno il caldo dai piedi su su fino alle gambe. Vediamo in lontananza in mezzo ad una landa desolata i resti di una moschea omayyade, l'Ulu Cami, costruita nell'VIII secolo, che ci dicono sia la più antica dell'Anatolia.

E proprio di là vedo arrivare lungo un sentiero di terra ocra alcune donne vestite con ampi mantelli neri e chador bianco in testa. Nello stesso momento appaiono alla mia destra altre tre donne, queste vestite con mantelli coloratissimi abbinati ad un chador indaco chiaro, che apostrofano le donne che stanno arrivando. Tra i due gruppi si scatena un vocio per me incomprensibile tanto che resterò nel dubbio circa l'oggetto di tanto accanimento: manifestazioni di gioia o minacce verbali?

Entriamo in una abitazione preceduta da un cortile nel quale è curiosamente disposto un letto rialzato che viene utilizzato per dormire nelle notti troppo calde. L'interno del trullo è in un primo momento accogliente e fresco, ma dopo un po' che aspettiamo il tè o una bibita fresca, è inevitabile che il calore sprigionato dai nostri corpi assolati abbia la meglio e guasti quella frescura che ci aveva accolto.

Ci vengono incontro bambini per offrirci strani oggetti fatti di tanti piselli secchi legati tra loro che dovrebbero avere una funzione di porta fortuna per le case. Mentre qualcuno di noi, non so se più interessato agli oggetti o forse più desideroso di aiutare i bambini sta per intavolare una trattativa, improvvisamente questi ultimi scappano di qua e di la: una macchina della polizia, praticamente l'unico segno di civiltà attuale presente nel villaggio, appare e impedisce loro di realizzare forse l'unico affare della giornata. Resta difficile capire il motivo della presenza della polizia in questo villaggio fuori del tempo per non dire della realtà.

Continuando nella camminata masochista, saliamo sino in cima a quello che resta del castello fatimide restaurato nell'XI secolo sui resti di qualche fortezza precedente. Possiamo avere un'idea delle sale e delle torri di difesa e soprattutto merita la fatica la veduta che si gode dall'alto sul villaggio di Harran: il nostro pullman è là, solitario, in mezzo alla piazza centrale del paese completamente assolata.

Come previsto, per raggiungere la meta serale dobbiamo tornare indietro sino a Sanliurfa dove ci aspetta una nuova e sempre più preoccupante sosta forzata per il solito problema al raffreddamento del motore.

Ne approfitto per girellare tra i tavoli di una specie di circolo dove gli uomini stanno giocando ad un gioco simile al nostro ramino ma eseguito con le pedine del domino.

Si riparte ma alla periferia di Sanliurfa l'autista si ferma definitivamente presso un'officina autorizzata (sic!) della Mercedes per una necessaria e adeguata riparazione. Parlare di officina autorizzata per quella specie di fondo nero e sporco che a malapena poteva contenere un'auto è un po' azzardato, ma così c'era scritto su una cartello. E comunque in poco meno di un'oretta il pullman è finalmente riparato e possiamo così ripartire alla volta di Gaziantep dove arriviamo verso le 22 percorrendo i 140 chilometri senza ulteriori fermate.

ANTIOCHIA, ANTAKYA, HATAY

Senza degnare di uno sguardo la città di Gaziantep, città peraltro non piccola con i sui settecentomila abitanti ma di scarsa importanza turistica, al mattino partiamo subito per Antiochia, la meta più meridionale dell'intero viaggio, situata in una striscia di terra lungo il mar Mediterraneo entrata a far parte della Turchia solo dal 1939.

I duecento chilometri di strada non offrono niente di particolarmente interessante se non gli ormai consueti immensi campi coltivati.

Arriviamo ad Antiochia giusto per l'ora di pranzo e quindi prima di iniziarne la visita seguiamo Alì in una simpatica trattoria dove, seduti ai tavoli di una terrazza al primo piano, ci gustiamo l'ormai conosciuta lamachun e una nuova specialità, l'adana, una sfoglia di pane contenente carne macinata, prezzemolo, pomodori, peperoncini verdi da urlo e tante cipolle. Ottima anche questa.

Antiochia che conta oggi poco più di 130.000 abitanti ha avuto il suo periodo di maggior fulgore negli anni successivi alla sua fondazione, avvenuta nel III secolo a.C. per opera di Seleuco I, quando arrivò ad avere una popolazione intorno al mezzo milione di abitanti. Oltre che alla vicende storiche, che la videro contesa da romani, persiani, bizantini, arabi, armeni, selgiuchidi, crociati, saraceni e infine dai mamelucchi egiziani che la distrussero nel 1268, anche Antiochia è particolarmente legata ad alcune significative vicende religiose.

Si dice che proprio qui il termine "cristiano" fu usato per la prima volta e qui si trova una grotta-chiesa, considerata la prima chiesa della storia, dove l'apostolo Pietro predicava e dove l'altro apostolo Paolo guidava la sede di una importante comunità cristiana.

Sempre a dimostrazione che si tratta di terre e località particolarmente stimolanti per la religione proprio ad Antiochia si sviluppò l'eresia dell'arianesimo in contrapposizione allo strapotere della chiesa di Roma.

Prima di venire annessa alla Turchia fu per pochi mesi uno stato indipendente con il nome di Hatay staccatosi dal protettorato francese in Siria.

Il richiamo principale di Antiochia è il suo Museo Archelogico dove è conservata una significativa collezione di splendidi mosaici romano/bizantini dei primi cinque secoli d.C. provenienti da ville della zona. All'interno del museo ci sono alcune studentesse turche vestite all'occidentale che copiano i mosaici. I soggetti sono come al solito mitologici e vengono considerati, sia per il disegno che per la realizzazione fatta con migliaia di piccolissime tessere colorate, tra i più belli mai rinvenuti.

Dopo le sale dedicate ai mosaici c'è una sala piena di vetrine dove, tra l'altro, sono esposte monete d'oro, due leoni ittiti in basalto nero e una bellissima e vivace testina in diorite verde risalente al 19° secolo a.C. raffigurante il re di Aleppo Yarim-him rinvenuta in un tell siriano.

Ma la sorpresa più grande del museo, peraltro non ancora riportata dalla guida Lonely Planet né da quella del TCI, è un grandioso sarcofago romano in alabastro da poco rinvenuto durante alcuni scavi nel centro di Antiochia e risalente al III secolo dopo Cristo. Le misure del sarcofago sono imponenti(circa mt. 3x2x1,20), così come incredibilmente raffinata e armoniosa è la fattura degli splendidi bassorilievi che ne occupano interamente le quattro facciate. Il coperchio è invece sormontato da una donna sdraiata con la testa incompiuta, si pensa, per sopravvenuta morte dello scultore per ora sconosciuto. La sala del sarcofago è preceduta da vetrine contenenti gioielli e tre scheletri - un uomo, una donna e una giovane ragazza - forse appartenuti ai presunti proprietari della villa romana.

Pienamente soddisfatti di questa visita al museo di Ankara che effettivamente da solo può valere la lunga puntata verso il profondo sud della Turchia, saliamo sul pullman per raggiungere nella periferia della città, a circa 3 chilometri dal museo, la mitica grotta-chiesa di S.Pietro.

Nonostante che Alì avesse tentato di farci rinunciare a questa visita - chissà perché, forse per farci risparmiare qualche milione di lire! - la chiesa si rivela interessante.

Anche se in realtà, a parte la facciata che ha una sua bellezza ma risale al periodo delle crociate, la chiesa originaria altro non è che una grotta molto ampia (larga 9 e profonda 13 metri), alta oltre 7 metri, di forma irregolare, ricavata nel fianco del monte Stauris e rimasta alla stato grezzo. Niente a che vedere con le chiese rupestri della Cappadocia che, seppur piccole, contenevano navate, colonne, altari e affreschi murali. Qui niente di tutto questo, a parte alcune quasi invisibili tracce di affresco. Pochi sono i segni che possano far pensare ad una chiesa. Ai piedi di una parete c'è una vaschetta poco profonda dove arriva l'acqua da una sorgente sotterranea, acqua che dicono miracolosa. Al lato opposto invece si apre un piccolo tunnel che permetteva ai fedeli di mettersi in salvo in caso di attacchi improvvisi.

Ma come sempre mi succede, la visita e i racconti mi aiutano a fantasticare e a fare un salto all'indietro di secoli facendomi immedesimare nei panni dei primi cristiani che a rischio della vita si radunavano qui per ascoltare le prediche trascinanti di Pietro e di Paolo. Ci resta ora un pomeriggio senza mete precise e sarà quindi assai stimolante per me l'idea di seguire Alì a spasso tra le viuzze dell'antico quartiere ebraico di Antiochia, pronto con la mia Canon a cogliere quelle scene di vita quotidiana che tanto mi piacciono.

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In breve raggiungiamo il quartiere, che si estende al di là della riva orientale dell'Oronte, quasi nascosto da una fila di moderni edifici che fiancheggiano il fiume.

Ci ritroviamo a passeggiare per stradine strette, senza marciapiede, nelle quali il traffico automobilistico è pressoché inesistente tanto da apparire come un isola pedonale nel centro della città. Vecchie e modeste abitazioni di solo terreno o al massimo rialzate al primo piano con balconi sporgenti finestrati in legno, fiancheggiano le viuzze.

Rare le botteghe. In una di queste alcuni di noi acquistano caramelle da regalare ai bambini che incuriositi dalla nostra presenza ci seguono con speranza ma senza eccessiva invadenza. L'interno di un'altra bottega rivela la presenza di un atelier di vestiti da sposa: alle pareti sono appesi spumeggianti vestiti di trine e veli, incredibilmente colorati in rosa, giallo, rosso.

La porta di ingresso delle abitazioni, spesso serenamente aperta, dà accesso ad un cortiletto interno dove si svolge la vita familiare. Con tutto la discrezione possibile debbo soddisfare la mia curiosità. Entro in un cortile dove trovo alcune donne sedute intorno ad un tavolo mentre stanno giocando a quella specie di ramino con le pedine del domino; in un cortile successivo altre donne anziane conversano sedute per terra alla maniera turca sorvegliando i bambini che giocano: mentre le giocatrici avevano accettato con entusiasmo di farsi fotografare, queste rifiutano con gentilezza ma l'uomo presente nel cortile, come per scusarsi di questo loro rifiuto, mi invita ad entrare e a bere un tè con lui.

Il quartiere è ricco di piccole moschee, identificabili non tanto dall'edificio che spesso si risolve in una modesta stanza, quanto dalla presenza del minareto e di una fontana per le abluzioni. Alcune di queste portano inciso nella pietra l'anno di costruzione scritto in arabo. Un minareto in particolare richiama la nostra attenzione per la insolita presenza di un ampio terrazzino sulla sua cima. E il caso vuole che l'imam passando di lì proprio in quel momento e intuendo il nostro interesse, ci inviti a salire per consentirci di soddisfare la nostra curiosità e per farci godere di una veduta sull'intero quartiere.

Il prosieguo del nostro vagabondare ci porta poi ad una antica bottega di fornaio dove, non solo il padrone e gli aiutanti accettano con entusiasmo di posare per le mie fotografie, ma addirittura ci vengono offerte un paio di caldissime focacce arabe appena sfornate. Con piacere poi mi scriveranno su un pezzetto di carta l'indirizzo al quale prometto di inviare le foto.

La chicca finale sarà poi la visita alla chiesa cattolica di Antiochia, la Katolik Kilisesi, accolti con cordialità da una ragazza di Milano, che dopo alcuni mesi di studio a Istanbul, vi svolge le funzioni di suora laica da un paio di mesi. La ragazza, raccontandoci che in tutta Antiochia ci sono solo dodici famiglie cattoliche alle quali vanno poi aggiunte le circa duecento che professano il credo ortodosso, ci fa visitare la chiesa e il giardino particolarmente accoglienti e ben tenuti che si distinguono dalla sensazione di sciatteria emanata dall'intero quartiere.

Prima di tornare in albergo ci sparpagliamo tra le botteghe del vicino bazar alla ricerca di qualcosa da comprare. Io riesco a trovarvi le specialità che finora mi avevano colpito: il tè alla mela, i pistacchi e le piccole lenticchie rosse.

Consumiamo la cena su una terrazza dell'hotel dove si svolge anche una grande festa con decine di invitati. Vedo appoggiate al muro alcune corone di fiori, molto simili a quelle che noi usiamo per altre tristi cerimonie, e in un primo momento penso che si tratti di un matrimonio; poi però, quando vedo arrivare i festeggiati, mi rendo conto con un certo disappunto, che si tratta di una festa di circoncisione. Due bambini di sei sette anni, vestiti con un particolare vestito bianco, appaiono sulla pedana e vengono accolti da applausi da parte degli invitati. La festa prosegue con gli invitati che ballano su una pedana, prima al suono di inopportune musiche moderne occidentali e poi invece al ritmo di più appropriate canzoni turche.

Riflettendo sul fatto che la religione musulmana prevede che i bambini maschi vengano circoncisi ad una età variabile tra i 5 e i 10 anni, resto con il dubbio se in quel momento della festa i due festeggiati abbiano già subito l'intervento o no. Intervento che viene effettuato in anestesia locale e che tutt'oggi comporta una degenza di un paio di giorni. Comunque il dubbio mi verrà poi chiarito il mattino successivo quando alcuni compagni mi racconteranno di aver sentito le grida dei bambini provenire da una stanza dell'albergo dove appunto a festa terminata era intervenuto un medico per effettuare l'intervento.

I CASTELLI TURCHI

Venerdì 28 giugno nuova tappa di trasferimento da Antiochia sino a Mersin con soste previste lungo l'itinerario presso castelli e altre costruzioni turche medioevali.

La prima sosta la facciamo nei pressi di Iskenderum, l'antica Alessandretta fondata da Alessandro Magno, dove visitiamo un antico complesso in piena campagna costituito da un caravanserraglio, da una moschea e da una fortezza militare.

Attualmente il grande caravanserraglio risalente all'epoca selgiuchide, nonostante alcuni tentativi di riutilizzo commerciale, è completamente vuoto e serve solo da meta turistica. Ampi corridoi dove una volta si aprivano i negozi dei mercanti, un interessante hamam ben tenuto che potrebbe riprendere la sua funzione da un momento all'altro, il grande cortile rettangolare, le stalle, le sale e la cucina che ospitavano uomini e animali in sosta ristoratrice lungo le vie carovaniere.

A fianco del caravanserraglio sorge una moschea ottomana costruita nel 1574 e preceduta da un bel cortile in mezzo al quale, circondato dalle fontane per le abluzioni, c'è un gigantesco olivo che dicono abbia la rispettabile età di 1200 anni.

Terminiamo con la visita all'attigua fortezza veneziana, circondata da un fossato, della quale è ancora possibile percorrere l'intero cammino di ronda e avere così dall'alto una interessante visione aerea del caravanserraglio e del vicino mare

Proseguendo verso nord facciamo una seconda sosta in piena campagna, dove percorrendo prima un sentiero tra piantagioni di agrumi e poi attraversando campi di grano appena tagliato fiancheggiati da un ben conservato acquedotto romano, arriviamo al luogo della famosa battaglia di Issos, svoltasi nel 333 a.C. tra Alessandro Magno e il persiano Dario III e conclusasi con la definitiva sconfitta di quest'ultimo.

Il successivo castello armeno di Toprakkale costruito in scura pietra vulcanica nel XII secolo richiede una breve camminata sotto un sole sempre più forte per poterne vistare i resti.

Gli armeni, incoraggiati dai Bizantini, avevano costituito in questa zona dal 1085 al 1375 uno stato indipendente chiamato appunto Piccola Armenia, con la funzione di baluardo a difesa sia dagli islamici turchi selgiuchidi sia dai crociati cristiani.

Sosta per pranzo nella cittadina di Osmanij con soddisfatta degustazione dell'ormai familiare lamachun e proseguimento per l'ultimo castello, il più imponente ma anche il più faticoso da raggiungere, sia per l'ora sempre più calda sia per la stanchezza accumulata.

Il castello crociato di Yilankale, o Castello del Serpente, si erge maestoso in cima ad una collina ed è ben visibile dal bivio sulla strada principale quando il pullman affronta una tortuosa e stretta salita che ci conduce alla base di partenza per il mini-trekking. Discreto dislivello, durata un'ora e mezza tra andata e ritorno, ma soprattutto un sole cocente che ci illumina dall'alto.

Grazia e altre compagne preferiscono restare alla base rinunciando alle rovine del castello.

La fatica degli irriducibili verrà però ripagata oltre che dall'interessante esame dei resti delle mura, degli archi, degli architravi arricchiti da bassorilievi, delle volte fermate da originali chiavi di volta a croce, anche da un panorama a 360° sulla pianura circostante piena di coltivazioni di cotone e attraversata dal fiume Nasa.

La fatica ci stimola una riflessione sul come abbiano fatto i crociati a costruire un castello di tal fatta in un luogo così difficilmente accessibile, impiegando sembra ben una cinquantina d'anni, e dovendo oltre a tutto proteggersi nel contempo dai temibili attacchi dei turchi.

In ordine sparso torniamo alla base per ristorarci con un tè alla mela e poi, stanchi, risaliamo sul pullman diretti a Mersin.

ISTANBUL

Come da programma brutta alzataccia alle tre del mattino con trasferimento all'aeroporto di Adana e imbarco con volo interno per Istanbul.

All'aeroporto di Istanbul troviamo ad accoglierci una nuova guida: questa volta al posto del robusto Alì abbiamo una dolce ragazza di trent'anni, Rosa.

Consueta buona organizzazione e nuovo pullman comodo e fresco anche se più piccolo di quello dei giorni precedenti.

Durante il trasferimento dall'aeroporto al centro di Istanbul, Rosa ci tratteggia una sintesi storica della città.

Aiuta alla comprensione del complesso succedersi degli avvenimenti la suddivisione della storia di questa città in tre periodi, identificandoli con i tre nomi assunti dalla città nel corso della sua esistenza, Bisanzio, Costantinopoli e Istanbul.

Nasce come Bisanzio dal nome del fondatore, il comandante Byzas dei Megaresi (coloni provenienti dalla Grecia) nel 680 a.C. e subito assume una discreta importanza grazie alla posizione strategica che la vede determinante nei confronti di tutti quelli che vogliono entrare nel mar Nero.

Poi anno dopo anno la sua importanza aumenta sino a diventare nel 330 d.C. la seconda capitale dell'Impero Romano grazie all'imperatore Costantino che la ribattezza Costantinopoli.

Dopo il crollo dell'Impero d'Occidente nel 476, Costantinopoli diviene e resta poi per quasi mille anni il centro dell'impero bizantino. Ulteriore importanza le deriva poi nel 1054 quando, a seguito scisma del mondo cristiano, viene scelta come centro religioso dagli ortodossi.

Nei mille anni del dominio Bizantino viene occupata solo per qualche anno dai crociati per poi tornare nelle mani della dinastia dei Paleologi. Finché nel 1453 viene definitivamente conquistata dall'esercito Ottomano che ne fa la capitale del suo impero cambiandone il nome nell'attuale Istanbul.

Dal 1923, con la nascita della repubblica Turca, la capitale viene spostata ad Ankara, ma Istanbul rimane sempre il principale centro commerciale, storico, industriale e culturale della Turchia.

La prima singolare caratteristica che viene alla mente quando si parla di Istanbul è che si tratta dell'unica città al mondo ad essere divisa tra due continenti, Europa e Asia, e per di più tale divisione è creata da un mare, il mar di Marmara, e dallo stretto del Bosforo. La parte europea è poi ulteriormente divisa in due da un profondo fiordo lungo 7 chilometri chiamato Corno d'Oro.

Tutto questo intersecarsi di coste, per di più collinari, e di acque fa si che lo scenario naturale parta già alla grande ancor prima dell'intervento dell'uomo; se poi ci si aggiunge tutto quello che l'uomo e gli artisti vi hanno creato nel corso dei secoli non è difficile arrivare a considerarla una delle città più belle del mondo.

Oggi le due parti europee sono collegate tra loro da tre ponti sul Corno d'Oro mentre altri due ponti modernissimi sul Bosforo collegano queste con la parte asiatica.

Definire quindi Istanbul, e del resto un po' tutta la Turchia, come un ponte tra Occidente e Oriente, tra il cristianesimo e l'islamismo, tra l'antico e il moderno, non è solo un eufemismo. Il ponte c'è ed è reale; anzi ce ne sono due. Ma è tangibile anche il significato metaforico. E avremo modo di verificarne l'esattezza proprio durante la visita della città, un miscuglio armonioso di antico e moderno, una insolita convivenza di immagini sacre cristiane con arabeschi islamici come nella ex-chiesa e ex-moschea di Santa Sofia, un movimento di donne ancora vestite alla maniera tradizionale con lunghi cappotti e l'immancabile chador che fanno risaltare ancora di più la modernità delle giovani ragazze turche ormai indistinguibili dalle altre ragazze europee.

La nostra accompagnatrice può esserne un esempio. Ragazza dinamica e brillante ci racconta di aver potuto studiare e intraprendere questa attività grazie all'appoggio della madre e contro la volontà del padre. Si capirà poi che le è stato possibile superare la volontà del padre solo per la morte di quest'ultimo.

La mia prima impressione di Istanbul, quando ancora sono in pullman, è di città molto ben tenuta e pulita, assolutamente non caotica - anche se oggi è sabato e quindi, essendo giornata festiva, il traffico è ridotto - niente a che vedere con le altre capitali del mondo islamico.

Prima di andare in albergo, iniziamo la visita partendo naturalmente da uno dei simboli, storici e grafici, della città, la Moschea Blu.

Non è facile per un profano riuscire subito ad individuare questa moschea tra le molte che appaiono nella silhouette di Istanbul in quanto lo stile è abbastanza uniforme e in pratica si rifà a quello dell'edificio religioso più vecchio e cioè alla prestigiosa Santa Sofia. E per questo preferisco cominciare da quest'ultima la descrizione della visita modificando arbitrariamente il percorso reale.

Santa Sofia, nata come chiesa cristiana voluta dall'imperatore Giustiniano, fu inaugurata nel 537 e da allora con la sua architettura frutto di un connubio tra basilica e tempio rotondo, con le sue linee movimentate, la sua straordinaria cupola centrale circondata da tante cupolette più piccole, l'originale colore rosso del suo edificio centrale, ha caratterizzato i panorami di questa città, passando più o meno indenne attraverso il severo periodo iconoclastico e la successiva trasformazione in moschea.

Pur senza essere in grado di verificarne l'esattezza, mi viene da pensare che questo edificio possa essere considerato la più antica chiesa del mondo cristiano tuttora in piedi che, a parte qualche rifacimento della cupola e alcune modifiche interne, conserva intatta la struttura originale.

Da chiesa cristiana viene trasformata in moschea nel 1453 quando gli ottomani conquistano Costantinopoli e di conseguenza vengono coperti con un intonaco i mosaici delle immagini sacre - mica tanto barbari poi questi turchi, qui da noi ne hanno fatte di peggio! - viene costruito il mihrab e vengono innalzati quattro minareti.

Poi Atakurk, sull'onda dell'europeizzazione che ha caratterizzato tutta la sua politica, intuendo l'importanza storica e artistica dell'edificio, e nello stesso tempo non volendo privilegiare nessuna delle due religioni che nel corso dei secoli vi avevano lasciato interessanti opere d'arte, la trasforma in museo riportando alla luce gli stupendi mosaici bizantini con le loro immagini cristiane che convivono ora, come in una specie di sincretismo artistico-religioso, insieme agli eleganti arabeschi geometrici e floreali dell'arte musulmana.

Purtroppo la grandiosità dell'interno è oggi rovinata dalla presenza di una gigantesca struttura in tubi innocenti che ne occupa - Rosa ci dice che sono ormai alcuni anni - un buon quarto sino al soffitto impedendone un godimento globale.

Come al solito nelle moschee il mio sguardo si perde un po' alla ricerca di qualcosa su cui soffermarsi. Ma poi mi rendo conto che, in questo grande spazio sotto la cupola alta oltre 55 metri diviso in tre navate da due file di colonne, il bello sta proprio nella sua vuota grandiosità, nei milioni di tessere dorate che rivestono l'interno delle cupole, nei quattro originali giganteschi medaglioni che riportano il nome in arabo di importanti personalità dell'Islam e nella grande quantità di finestre che su più piani - solo alla base della cupola si aprono ben 40 finestre - diffondono all'interno dell'edificio una calda luce dorata.

I mosaici cristiani eseguiti dal IX al XIV secolo da artisti bizantini si trovano soprattutto nelle gallerie al primo piano, un tempo riservate alle donne, e nei due narteci. Su tutti merita un cenno quello chiamato Deisis (la richiesta) nel quale è raffigurato Gesù tra la Vergine e San Giovanni.

E naturalmente come tutti i luoghi santi che si rispettano anche qui è viva una credenza popolare, quella della "colonna sudante" che si trova a piano terra. Anzi le leggende sono due e pur riguardanti lo stesso buco sono diverse tra loro. La prima, riferitaci anche da Rosa, dice che mettendo il pollice nel buco e riuscendo a fare un cerchio completo con la mano senza muovere il dito, si realizza un desiderio. L'altra invece, che mi sembra più aderente al nome della colonna, dice di esprimere un desiderio e mettere un dito nel buco della colonna; se il dito si bagnerà in pochi secondi il desiderio sarà realizzato.

Certo è che una volta vista Santa Sofia le altre moschee di Istanbul possono sembrare, almeno ad un osservatore inesperto di arte islamica, molto simili e ripetitive. Noi ci limitiamo infatti alla visita delle altre due moschee principali, la Moschea Blu e la Moschea di Solimano.

La moschea Blu è l'unica al mondo ad avere ben sei minareti ma benché costruita più di mille anni dopo quella di santa Sofia ne ricalca le linee architettoniche principali, forse con lo scopo di superarla in magnificenza e spettacolarità. Come tutti i monumenti più importanti si trova nella parte europea, praticamente di fronte a quella di Santa Sofia dalla quale è separata da una serie di ampi giardini ben tenuti.

La porta principale sormontata da una elegante scritta in arabo su fondo verde è riservata ai fedeli e conduce al consueto ampio cortile fiancheggiato da un porticato e con al centro la classica fontana per le abluzioni.

L'ingresso per i non musulmani è consentito solo attraverso la porta meridionale. L'interno è grandioso e a differenza di quello di Santa Sofia rigorosamente privo di immagini. Forse sarà per un poco felice recente restauro, come ci dice Rosa, ma io non riesco a percepirne in pieno la giustificazione del nome con il quale viene comunemente ricordata. Viene infatti chiamata Moschea Blu, anziché con il suo vero nome che sarebbe quello di Moschea di Sultan Ahmet, per le 21.043 piastrelle di maiolica di Iznik, originariamente di un bellissimo colore blu-verde, che ne ricoprono completamente le pareti, le colonne e le cupole diffondendovi tale colore in tutto l'interno.

L'altra grande moschea, quella di Solimano, o Suleymaniye, che visiteremo il giorno successivo, è costruita invece su una vicina collina prospiciente il Corno d'Oro e con l'eleganza e l'armonia delle sue movimentate strutture, domina alla grande qualsiasi panorama di Istanbul. E anche questa, costruita dal sultano Solimano il Magnifico mille anni dopo quella di Santa Sofia, ne ricalca sia la pianta che le linee architettoniche.

Come sempre l'interno, a parte la grandiosità degli spazi, aggiunge poco a quanto invece si può godere vedendola stagliarsi con la sua grande cupola centrale e i quattro lunghi e esili minareti, su uno dei punti più alti della città.

Riprendendo il corso del nostro tour al seguito di Rosa dopo la visita alla Moschea Blu raggiungiamo a piedi l'ingresso della Cisterna Yerebatan.

Si tratta di una cisterna sotterranea, la più grande tra le 60 esistenti a Istanbul tutte costruite in epoca bizantina. Questa risale al 532, quindi contemporanea di Santa Sofia, e ha svolto ininterrottamente il suo compito di deposito e riserva d'acqua per gli abitanti di Istanbul durante le guerre e gli assedi fino al 16° secolo.

In pratica è un grande locale sotterraneo di 70 metri per 140, nel quale ben 336 colonne alte otto metri e con capitelli corinzi del V secolo sorreggono una serie di piccole volte in mattoni a spina di pesce.

Il pavimento completamente allagato e una serie di luci colorate creano poi un effetto veramente suggestivo facendo riflettere sull'acqua volte e colonne in una moltiplicazione quasi infinita. Il percorso tra le colonne è consentito da una passerella rialzata in legno che conduce sino alle due colonne che poggiano su due giganteschi volti della Medusa scolpiti nel marmo.

Dalla Cisterna passiamo a quanto resta dell'originario nucleo romano della città, il così detto Ippodromo.

In effetti oggi di questo complesso risalente a Settimio Severo e poi ampliato da Costantino fino ad avere una capienza di 30.000 posti, resta solo un lungo rettangolo occupato da giardini e circondato da una strada nel quale sono disposti, non capisco bene in base a quale criterio, una serie di monumenti appartenenti alle epoche più svariate. Un obelisco monolitico egiziano in granito, bottino di guerra romano risalente al 1500 a.C. che poggia su un basamento in marmo ricco di interessanti bassorilievi romani; un obelisco costituito da tanti blocchi di pietra murati tra loro fatto costruire da Costantino VII nel X secolo; la cosiddetta Colonna Serpentina, fatta di tre serpenti bronzei privi di testa e attorcigliati tra loro, anche questa bottino di guerra romano proveniente dal tempio di Apollo a Delfi e infine, tanto per mescolare ancora di più gli stili, una Fontana sormontata da una cupola fatta costruire nel 1898 in occasione dell'arrivo a Istanbul del Kaiser Guglielmo II, sembra addirittura con i finanziamenti concessi da quest'ultimo.

Interrompiamo per un paio d'ore la visita della Istanbul artistica per dedicarci, con inevitabile entusiasmo delle signore, ad uno shopping presso il Gran Bazar che raggiungiamo in pullman avendo anche l'opportunità di intravedere la stazione capolinea del mitico Orient Express.

Come in ogni altra città del medio oriente, il Gran Bazar di Istanbul altro non è che un immenso mercato coperto nel quale si intersecano decine di strade e stradine fiancheggiate da oltre 4.000 negozi tra i quali si mescolano poi moschee, ristoranti, laboratori e caravanserragli.

Fa piacere rilevare che qui manca quell'insistenza assillante dei negozianti verso i turisti incontrata in analoghi mercati in Egitto o in Marocco.

Sia per il poco tempo a disposizione sia per il timore di perdersi in quel labirinto con il rischio di non ritrovare in tempo il punto di incontro, Grazia ed io finiamo per girellare intorno al solito nucleo di stradine e negozi senza allontanarsi troppo ma riuscendo comunque ad acquistare un paio di tovaglie e altri piccoli souvenir. Poi stanchi usciamo dal Bazar alla ricerca di una panchina dove poter mangiare un panino. Dobbiamo accontentarci di uno scalino lungo la strada che conduce al Bazar e che è percorsa da un via vai ininterrotto di persone. Proprio di fronte a noi sorge la Moschea Nuruosmaniye e restiamo ancora una volta meravigliati nell'osservare i fedeli che prima di entrare a pregare si lavano i piedi - togliendosi scarpe e calzini! - le mani e il viso alle fontane disposte prima della scalinata d'ingresso.

In attesa di aggregarsi ad un altro gruppo per partecipare alla prevista escursione sul Bosforo, visitiamo i Bagni di lady Hurren, un antico hamam del 1556 realizzato dall'architetto Sinan sui resti di antichi bagni bizantini. Nonostante che ormai i locali siano occupati da una esposizione e vendita di tappeti, la visita ci consente di apprezzarne la magnificenza.

Saliamo poi su una imbarcazione nei pressi dell'imboccatura del Corno d'Oro e per un'ora e mezza navighiamo lungo la costa occidentale del Bosforo sino al primo ponte per poi tornare indietro costeggiando la sponda asiatica.

Per capire l'importanza strategica ed economica di questo stretto, lungo 32 chilometri e interamente su territorio turco, basta pensare che tutte le navi dirette o provenienti dai porti dell'Ucraina, della Bulgaria, della Romania, della Georgia e della Russia, quest'ultima limitatamente ai suoi porti sul Mar Nero, debbono passare esclusivamente di qui.

Ma anche prescindendo dalla sua importanza economica il Bosforo resta comunque uno spettacolo naturale veramente da godere, con le due strisce costiere movimentate da verdi colline e arricchite da prestigiosi palazzi imperiali risalenti per la maggior parte al XIX secolo, costruiti quindi quando ormai l'impero ottomano aveva iniziato la sua curva discendente. Su tutti si impone sulla costa europea il grandioso Palazzo di Dolmabahce, in stile europeo orientalizzato, famoso anche perché nel 1938 vi cessò di vivere il grande Atakurk.

Anche vista dal mare è evidente il miscuglio di antico e di moderno che caratterizza un po' tutta Istanbul. Alle costruzione ottomane che sorgono sulla riva fanno da contraltare in secondo piano i tanti palazzi moderni e alcuni arditi grattacieli che sorgono nei quartieri più interni della città. Particolarmente suggestivo mi appare l'accostamento tra l'originale moschea barocca di Ortakoy e il ponte che sembra passare sopra la sua cupola, mentre il lungo ed esile minareto crea un singolare parallelismo con l'altissimo pilone moderno.

Il ponte, costruito dal 1950 al 1973, lungo 1560 metri e largo 33 è veramente grandioso; poggia su due piloni alti 165 metri vicini alle sponde ed è sorretto da 10.412 lunghi cavi di acciaio: fa uno strano effetto passarci di sotto con la barca e vedere sopra di noi a 64 metri di altezza, una fila continua di automobili, autobus, camion che vi transitano nei due sensi. Naturalmente questo ponte, simbolo della voglia di emergere della Turchia, non poteva che essere intitolato al grande Ataturk.

Lungo la via del ritorno costeggiando la parte asiatica, anche questa ricca di costruzioni prestigiose, l'attenzione viene però inevitabilmente catalizzata dalla stupenda silhouette del nucleo originario della città all'imboccatura del Corno d'Oro, nella quale si stagliano i lunghi minareti della moschea di Solimano e l'insieme degli edifici che costituiscono il Palazzo di Topkapi.

Una volta a terra, avendo ancora del tempo a disposizione, ne approfittiamo per visitare il vicino Bazar delle spezie o Bazar egiziano, in pratica un nuovo mercato più piccolo dell'altro e specializzato nei prodotti alimentari.

Eccoci quindi a girellare tra invitanti vetrine piene di dolci a base di mandorle, pistacchi, frutta candita, nocciole, miele e biscotti, oppure ammirare estasiati gli incredibili colori delle spezie sapientemente disposte quasi a formare caleidoscopi, oppure ancora cercare tra una incredibile varietà di peperoncini rossi tritati quella più piccante di tutte.

Di fianco al mercato c'è l'ingresso di una Moschea, la Yeni Cami, chiamata anche Moschea dei Piccioni per la grande quantità di piccioni che affollano scalinata e cortile.

A questo punto, tutti abbastanza stanchi e soddisfatti della prima giornata trascorsa ad Istanbul, torniamo in albergo per la necessaria doccia e un meritato riposino prima della prevista serata con cena e spettacolo in locale caratteristico.

Come da copione la serata "turistica" si rivelerà un fallimento completo; il locale: uno scantinato in centro dove sono ammassate decine di tavolate per gruppi turistici che circondano una pedana rialzata; la cena: veramente penosa, da dimenticare, la peggiore in assoluto di tutto il tour; e infine lo spettacolo: una decina di numeri a base di languide danze del ventre, improbabili suonatori di tamburi, danzatori cosacchi d'altri tempi e patetici lanciatori di coltelli.

E' quindi con gioia che accolgo l'invito di Renato, non ancora rimessosi dal disturbo, di rinunciare alla visione completa dello spettacolo e di tornare in albergo.

Domenica mattina, trenta giugno, dopo una buona dormita e una altrettanto soddisfacente colazione cominciamo con l'impegnativa visita del Palazzo di Topkapi che domina su una leggera collina l'imboccatura del Corno d'Oro.

Più che di un palazzo si tratta di un complesso di edifici, circondati da una cinta di mura lunga 5 chilometri, fatti costruire dai vari sultani ottomani a partire dal 1453, anno della loro conquista della città, a titolo di residenza personale e governativa.

Il solito Atakurk poi nel 1924, dopo che dal 1856 la residenza del governo era stata ormai trasferita al Palazzo Dolmabahce sul Bosforo, lo trasformerà in museo aprendolo così alla visita dei turisti di tutto il mondo.

Nei pressi della Fontana di Ahmet III - in realtà più che ad una fontana assomiglia ad un grande chiosco - si accede attraverso la Porta Imperiale nel Primo Cortile, un ampio giardino oggi adibito a parco pubblico. Al centro si eleva l'antica chiesa bizantina di Sant'Irene che dopo aver subito l'inevitabile trasformazione in moschea, viene oggi utilizzata come sala concerti per la sua perfetta acustica.

La successiva Porta Centrale, o Porta di mezzo o Porta del Saluto - e allora diciamolo anche in turco! Bab-us Selam - fiancheggiata da due torri con tetto conico, funge da effettivo ingresso dell'intero complesso comunemente chiamato Palazzo di Topkapi o Serraglio e immette nel secondo cortile. Anche questo sistemato a giardini con platani secolari, è di forma rettangolare, 130x160 metri, e da accesso nell'angolo sinistro al complesso dell'Harem, a destra ai locali un tempo adibiti a cucine per l'intero palazzo e in fronte all'ennesima porta che conduce ad un terzo cortile più piccolo.

Sebbene la visita dell'Harem sia limitata solo ad alcune delle ben 300 stanze che lo compongono, è sufficiente a dare un'idea di come si svolgesse la vita di corte. Nell'Harem vivevano il sultano, prima autorità assoluta, la Madre di quest'ultimo, la vera padrona del complesso, le quattro mogli ufficiali del sultano, le sue tante concubine e gli eunuchi neri addetti alla gestione dell'harem il capo dei quali ne era la terza autorità.

Le stanze sono oggi prive di mobili e di suppellettili e quindi la caratteristica che più mi colpisce è costituita dalle preziose maioliche colorate che spesso ricoprono le pareti e anche i soffitti creando però qualche volta un'accozzaglia di colori non sempre, secondo me, particolarmente felice e armoniosa.

Uscendo dall'Harem e tornando nel secondo cortile si incontra il Kubbealti o Divan, un insieme di tre sale ove si svolgevano le riunioni del Consiglio dei ministri sotto la direzione del Gran Visir e il possibile controllo segreto del Sultano stesso attraverso una fitta grata che gli consentiva di vedere senza essere visto.

Sempre nel Secondo cortile, al lato opposto dell'Harem, si trovano gli ampi locali una volta destinati alle cucine nelle quali si preparavano pasti giornalieri per circa 20.000 persone tra residenti fissi, ospiti e poveri. Questi locali oggi sono occupati da una stupenda raccolta di porcellane cinesi, giapponesi e europee e altre collezioni di argenteria e di cristalleria.

Attraverso la Porta della Felicità si entra poi nel Terzo cortile, sempre più piccolo del precedente, dove si trovano tra l'altro i locali del Tesoro, i locali delle sacre reliquie del Profeta Maometto e, al centro, la Sala delle udienze.

Il Tesoro è indubbiamente la parte più eclatante dell'intero complesso e nei suoi locali completamente oscurati, si trovano all'interno di vetrine illuminate protette da vetri a prova di proiettile, una collezione incredibile di diamanti, smeraldi, rubini, pugnali e altri oggetti tempestati d'oro, pietre preziose e via dicendo. Tanto per citarne qualcuno ricordo il diamante a goccia di Kasikci di 86 carati, lo smeraldo di 3,260 chilogrammi e un magnifico pugnale d'oro incastonato di smeraldi che, essendo stato l'oggetto al centro di un tentativo di furto cinematografico nel film Topkapi, è diventato il simbolo stesso dell'intero complesso.

Un altro locale interessante nel Terzo cortile è il padiglione dedicato alla raccolta di oggetti sacri per l'Islam. Anche qui, esposti all'interno di vetrine, ricordo il mantello e le armi appartenute al Profeta, una bandiera sacra dell'Islam e, non potevano mancare, altre reliquie di Maometto come peli della barba, un dente e l'impronta del piede.

Infine nel Quarto e ultimo cortile, sempre più piccolo e di forma irregolare, sono da ricordare la piscina, la sala della Circoncisione e soprattutto lo splendido Chiosco di Bagdad dal quale si gode una bellissima veduta sul Bosforo.

Un nuovo breve trasferimento in pullman ci porta nei pressi dell'antica chiesa di San Salvatore in Chora.

E qui, forse per l'effetto sorpresa perché in fondo si trattava di un luogo che durante lo studio preliminare non avevo troppo considerato in quanto tutto preso dalle ben più famose moschee e dal Topkapi, avrò la gioia di godermi una visita di quelle che siamo soliti definire "che da sole valgono il viaggio".

La chiesa di San Salvatore in Chora nelle sue forme attuali risale all'XI secolo quando venne costruita sui resti di due precedenti chiese, la più vecchia delle quali, del IV secolo, era stata appunto chiamata in "Chora" per indicare che si trovava in "campagna" cioè fuori delle mura della città.

La chiesa ebbe poi un successivo e determinante restauro nel 1308 per merito di Teodoro Metochita, primo ministro dell'Imperatore bizantino, al quale si deve anche l'aggiunta del parecclesion e soprattutto la stupefacente decorazione degli interni a base di mosaici e di affreschi tutti risalenti quindi al periodo dell'arte tardo-bizantina che con questa opera dimostrò una vitalità eccezionale.

Come Santa Sofia, anche questa chiesa fu trasformata in moschea a seguito della conquista ottomana e vide le sue pareti ricoprirsi di intonaco per nascondere le immagini sacre vietate dall'Islam. Poi, il solito Atakurk, provvederà a riportare alla luce i suoi capolavori e a trasformarla in museo aprendola ai visitatori di tutto il mondo.

Strutturalmente era nata come chiesa a pianta quadrata, sormontata da una grande cupola centrale e da quattro cupolette angolari, preceduta da un lungo nartece e terminante con tre absidi semicircolari. In seguito viene ampliata con l'aggiunta di un nuovo e più ampio nartece che prosegue lungo tutto il lato destro creando una nuova navata, chiamata pareccleison, destinata a raccogliere le spoglie dei fondatori e familiari. Tutto questo ha portato la chiesa ad avere una forma piuttosto irregolare che come primo impatto può sconcertare ma che poi invece contribuirà a farmi provare quelle sensazioni di scoperta e di novità che influiranno sul mio amore per questa chiesa.

A questo aggiungiamoci una piacevole sensazione di "calore affettuoso" prodotta dalla luce calda proveniente dalle finestre che si aprono numerose alla base delle cupole, aiutata anche da opportune luci artificiali. Insomma sarà la suggestione, ma mi sembra di respirare veramente un'aria di cristianesimo bizantino e vorrei poter avere il tempo di guardare una ad una tutte le scene raffigurate sulle pareti, nelle volte, nelle cupole, negli archi e nei soffitti, alla ricerca di personaggi e di racconti religiosi più o meno conosciuti.

Il filo conduttore dei mosaici e degli affreschi, questi ultimi presenti solo nel pareccleison, è costituito da scene tratte dalla vita di Gesù e di Maria Vergine , nelle quali si inseriscono anche alcune storie tratte dal Vecchio Testamento. Una intrigante curiosità riguarda le scene della vita di Maria che sono ispirate da episodi tratti dal Vangelo apocrifo, o Protovangelo, dell'apostolo Giacomo detto il Minore, cugino, o addirittura fratello, di Gesù Cristo.

Fra le tantissime immagini che ricoprono le superfici della chiesa ricordo in modo particolare la straordinaria decorazione ad affresco dell'interno della cupola del paracclesion con la Madonna al centro circondata da 12 angeli che sormontano altrettante finestre alla base della cupola, la commovente Vergine Eleussa che stringendosi al petto il bambino sembra proprio prevedere quello che il destino imporrà al figlio, e infine il mosaico Deisis con una dolcissima immagine di Maria nell'atto di richiedere clemenza per i peccatori ad uno stupendo Gesù.

Esaurite ormai le visite previste nel nucleo storico originario di Istanbul, attraversiamo il Ponte di Galata sul Corno d'Oro e saliamo in cima alla Torre di Galata, alta 61 metri e fatta costruire dai genovesi nel 1348 su una collina che domina il Bosforo, il Mar di Marmara e il Corno d'Oro. Il panorama che ci godiamo dall'alto è veramente splendido e non può che confermarmi l'opinione che ormai mi sono fatto di Istanbul.

Da qui poi ci spostiamo nei pressi della piazza Galatasaray dove visitiamo il mercato del pesce e dove Rosa, alla quale abbiamo detto che vorremmo cenare in un locale dove vanno gli abitanti di Istanbul e non nel solito locale per turisti, ci fornisce le necessarie indicazioni.

Quindi percorriamo a piedi, mescolandoci in mezzo al classico passeggio cittadino delle giornate di festa. la lunghissima e larga Istikal Kaldesi che porta alla centralissima piazza Taksim. Alla consueta folla festiva si aggiunge oggi anche la massa vociante e festosa dei tifosi pieni di entusiasmo per il brillante terzo posto conquistato dalla squadra nazionale di calcio ai Campionati del mondo in Giappone appena conclusisi. Centinaia di giovani che agitano e sventolano bandiere rosse con la classica mezzaluna turca stanno aspettando in piazza Taksin il previsto arrivo dei giocatori direttamente dall'aeroporto.

Per noi invece il tour sta per finire e prima di correre il rischio di restare imbottigliati in mezzo ai festeggiamenti, risaliamo sul nostro pullman e torniamo in albergo.

Dopo la solita doccia e un necessario riposino chiamiamo due taxi e ci facciamo portare al ristorante suggeritoci da Rosa.

Con una certa difficoltà ritroviamo il nostro ristorante dopo aver dribblato le insistenti richieste di altre decine di locali situati sulla stessa stradina, tutti specializzati in piatti di pesce. L'ambiente è frequentato da locali ma naturalmente anche da turisti e la cena, a base di orate del Bosforo e di gamberetti alla griglia, non ci farà gridare al miracolo ma ci consentirà ugualmente di passare una piacevole serata d'addio.

Torniamo in albergo ancora in taxi giusto in tempo per schivare il corteo dei tifosi che dalla piazza Taksin stava invadendo la Istikal Kaldesi portando in trionfo i giocatori appena arrivati dal Giappone.

Al mattino successivo, ormai lunedì primo luglio, tutto come da programma, trasferimento all'aeroporto accompagnati e assistiti anche per le ultime pratiche all'imbarco da una ragazzina tutta pepe, figlia di un italiano e di una turca, volo senza storia per Roma dove atterriamo e salutiamo i compagni di viaggio con la solita inevitabile promessa di ritrovarsi presto per poter rivivere la bella esperienza turca attraverso le fotografie e i ricordi.

 

Luglio 2002 - Mauro Morelli

 

 









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