La Fuga

racconto medioevale di Maurilio Lovatti

 

Aveva nevicato tanto in quel freddo Natale del 1354. Aveva iniziato nel pomeriggio della vigilia in tutta la Val Varaita, con fiocchi minuti e radi, ma poi durante la notte la neve era scesa copiosa sulle case, sui boschi e sulle montagne e non aveva più smesso per tre giorni.

Era ormai quasi buio quando Eligio raggiunse la baita. Dovette scavare con le mani, semicongelate nonostante i rudimentali guanti di panno. Ci volle quasi un quarto d’ora per riuscire ad aprire la massiccia porta di legno. Quando fu dentro, accese affannosamente il fuoco: tremava come una foglia e temeva di non farcela. Adesso poteva stare tranquillo: la baita era in un avvallamento e dalle case di Sant'Eusebio era impossibile vedere il fumo. Conosceva quel rifugio da quando era bambino e sua madre, nella bella stagione, lo mandava ad aiutare i pastori del Conte. Sapeva che partendo il mattino presto da Pontechianale, sarebbe arrivato prima della notte.

 

 

Mise i suoi abiti fradici e gelidi ad asciugarsi vicino al fuoco. Nella cassapanca c’erano fave e fagioli secchi, carne salata e un pezzo di formaggio stagionato. Si sarebbe riposato un giorno e due notti prima di tentare: costeggiando la gran montagna, avrebbe potuto raggiungere Prazzo in Val Maira, dove avrebbe trovato ospitalità dai contadini. I loro vecchi, la sera, nelle stalle, raccontavano ancora con orgoglio l'incredibile storia di Bianca Lancia e dell'imperatore Federico II, e non avevano dimenticato i bei tempi quando la Val Maira era ancora dei marchesi di Busca. Se fosse riuscito ad arrivare a Cuneo, evitando Dronero, era salvo. La città era presidiata dai soldati dei Visconti e nessuno l'avrebbe riconsegnato all'odiato marchese di Saluzzo, Tommaso II, o al Conte suo vassallo. A tavola, mentre serviva, aveva sentito con le sue orecchie Tommaso II, galvanizzato dall'alleanza col Marchese del Monferrato, che esponeva al Conte i suoi piani per la conquista di Cuneo; ma non aveva nulla da temere. Prima della fine dell'inverno non sarebbe cambiato nulla.

 

La sua abilità di cuoco lo aveva portato a lavorare nelle cucine del castello e spesso serviva a tavola, quando il Conte aveva ospiti di riguardo. Si diceva che nessuno era più bravo di lui a cucinare la porchetta dorata e a preparare il ripieno per le pernici. Ma la sua specialità erano le quaglie arrostite su una pietra rovente e il barbera speziato. Anche Galeazzo II ne aveva chiesto due botti al Conte, per il suo banchetto nuziale con Bianca di Savoia. Quando i vassalli del Marchese avevano bevuto troppo, parlavano senza ritegno e lui, senza farsi notare, era attentissimo…  

 

Steso sul pagliericcio, esausto, non riusciva a prender sonno. Il silenzio era totale, interrotto solo dal crepitio del fuoco: gli tornavano alla mente i ricordi delle prime notti trascorse al pascolo, i cani che abbaiavano in lontananza, il vento che sibilava, la paura soffocante della prima volta che dormiva lontano dalla mamma, che non avrebbe rivisto se non dopo settimane. Si rigirava sul pagliericcio, e ogni tanto sfiorava con la mano la borsa di cuoio che aveva accanto, voleva essere certo che fosse davvero lì: tutto il suo futuro dipendeva da quella borsa.

Fra due giorni si sarebbe giocato tutto: sapeva che ci volevano almeno undici ore di marcia sostenuta, e in quella stagione la luce durava solo nove ore. Sarebbe dovuto partire due ore prima dell'alba; con la torcia imbevuta di resina poteva orientarsi in quei luoghi da lui conosciuti alla perfezione, ma doveva assolutamente arrivare prima di sera a Prazzo o sarebbe morto congelato.  

 

Qualsiasi piccolo errore o imprevisto gli sarebbe stato fatale. Per vincere la paura indugiava con la fantasia: s'immaginava ricco e rispettato, in una bella casa col giardino, come un facoltoso mercante in pensione. Sarebbe andato ad abitare in Liguria: la repubblica di Genova era ormai sotto la Signoria dei Visconti e là sarebbe stato al sicuro. E poi avrebbe finalmente visto il mare: nessuno degli abitanti di quelle valli aveva mai visto il mare. Nelle lunghe sere d'inverno, nelle chiacchiere davanti al fuoco, si riportavano i racconti dei mercanti provenzali che risalivano la valle per vendere abiti e stoffe preziose ai Signori e il mare era descritto come un cielo capovolto e le onde come muri d'acqua che crollavano: lui si sforzava, ma non riusciva ad immaginarlo, il mare… Lo attendeva un futuro giocoso di sole, di calore, di vita all'aperto, senza la neve e il freddo delle sue montagne.

Tutto era cominciato quasi per caso. Una notte estiva, una passeggiata prolungata fantasticando nel cortile del castello. Aveva visto la contessina Beatrice con Ermanno, il figlio di uno dei mercanti più ricchi della valle. Era impaurita: non osava pensare cosa sarebbe successo se suo padre li avesse scoperti. La vide aprire una porticina e guidarlo su per una scala a chiocciola di cui non conosceva l'esistenza. Intagliato nella pietra del muraglione c'era un piccolo vano, chiuso da una lastra di marmo. A Beatrice la scala serviva per raggiungere le sue stanze senza esser vista. Ma lui, in pochi mesi, con pazienza, aveva scoperto come aprire il piccolo ripostiglio segreto. Ma quella era stata solo un'occasione fortunata. Da sola, non sarebbe bastata a dargli il coraggio.  

 

Se Emma non lo avesse trattato così…Le immagini dell'estate gli tornavano alla mente con una nitidezza dolorosa. Era una giornata limpida di fine agosto e a Sant'Eusebio la fiera era affollata e chiassosa. I mercanti per la festa di S. Bartolomeo venivano anche dai paesi del fondo valle, da Venasca e da Rossana e qualcuno perfino da Saluzzo o da Busca. All'osteria della piazza gli uomini sedevano all'aperto a chiacchierare, a bere vino e a guardare le ragazze. Lui rimaneva senza fiato quando la vedeva passare, col vestito bianco della festa, i capelli raccolti con un nastro rosso. La montagna splendeva nel sole al tramonto e gli sembrava di sentire ancora l'odore della carne arrostita e la musica e i canti in lontananza. L'aveva pensata e sognata per mesi.

 Non gli era stato facile trovare il coraggio per avvicinarla. Aveva pregato a lungo S. Bartolomeo nella cappella del castello e sperato nel suo aiuto. Ma lei fu rapida e decisa nel troncargli ogni speranza. Negli occhi di lei vide il disprezzo per la sua condizione di servo e la cortese alterigia di chi coltivava ben altre speranze. Volle essere sincero fino in fondo con se stesso: forse non era stata quella la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. La rabbia verso il conte gli era esplosa dentro quando sua madre, prima di morire, gli aveva raccontato gli anni tremendi della giovinezza. Il tono della sua voce era rassegnato e quasi sereno, pareva disposta al perdono, ma lui vi lesse i segni di un dolore e un tormento profondi. Non aveva ancora quindici anni e già si era guadagnata la fiducia di Teresa, la cameriera personale della Contessa madre. Sempre l'aiutava, talvolta la sostituiva, trascorreva gran parte della giornata nelle stanze della vecchia Contessa. Un giorno il Conte indugiò a lungo a guardarla mentre vestiva la Contessa. Fu per capriccio che con un pretesto le ordinò di recarsi nelle sue stanze. La prese sul suo letto a baldacchino, senza un minimo di gentilezza, come se fosse un suo diritto. Per quasi un anno, alle ore più impensate del giorno e della notte, la mandava a chiamare; talvolta ubriaco fradicio si assopiva accanto a lei, quasi senza toccarla.

 

Dopo qualche mese il Conte cominciò a disinteressarsi di lei, poi all'improvviso le ordinò di sposare un ufficiale delle guardie: il padre che Eligio nemmeno ricordava, se non nei racconti della madre e che era morto nel 1312 durante l'assedio angioino di Saluzzo, rimasta fedele all'imperatore Enrico VII. Ormai era vano indugiare nei ricordi. Doveva pensare solo a non commettere errori o sarebbe stata la fine. Aveva con sé una grossa candela di sego, con una tacca ben visibile: accendendola al tramonto, la fiamma sarebbe arrivata al segno due ore prima dell'alba. Dopo aver riposato un giorno intero per riprendere le forze, accese la candela quando ormai una pallida luce si stava spegnendo accanto ai ghiacciai del Monviso.

 

Durante la notte si svegliò all'improvviso: tremava, sudava, faticava a respirare, sentiva la gola arsa. Si rese conto di avere la febbre alta. Fu preso del terrore. Non voleva morire lì, solo come un cane, e proprio ora: toccava la borsa gonfia di monete e gioielli, come per accertarsi che non fosse tutto un incubo. Quando tentò di alzarsi, si rese conto d'essere debolissimo. Non doveva lasciarsi prendere dal panico: se fosse riuscito a non far spegnere il fuoco, forse poteva ancora farcela. Non sapeva quanti giorni fosse restato in uno stato di semicoscienza, con l'otre d'acqua accanto a lui, bevendo con avidità ogni volta che si svegliava. Sognava Emma sorridente, in una casa bianca col giardino, che splendeva nel sole; c'era tanta luce e tanto calore…
 

Infine la febbre gli passò. Cominciò a nutrirsi e a riprendere le forze. Doveva fare presto; ogni giorno che passava, cresceva il rischio di essere scoperto. Quando si sentì pronto per rischiare, accese al tramonto una seconda candela di sego, su cui aveva riportato la tacca. Uscì dalla baita due ore prima dell'alba. Nel buio fitto, la sua torcia lanciava tenui bagliori in un paesaggio deserto e spettrale. La mulattiera era invisibile sotto la neve, ma lui non sbagliò: conosceva ogni albero ed ogni roccia di quel versante. Giunse al primo passo quando la luce dell'aurora s'intravedeva appena, proprio come aveva previsto. Gettò la torcia, perché la resina era ormai quasi del tutto consumata. Si sentiva debole e affaticato, ma la possibilità di farcela gli infuse un vigore inaspettato. Marciò tutto il giorno, senza soste, con le gambe che affondavano nella neve fino alle ginocchia. Il sentiero s'intuiva solo a tratti, ma riuscì a mantenersi a mezza costa, con la vetta sempre alla sua destra. Solo a metà del pomeriggio cominciò a vedere Prazzo, lontanissimo giù nella valle. Si rese conto che non sarebbe arrivato prima del buio. Sentiva i piedi gelidi e ormai poco sensibili. Non sarebbe sopravvissuto ad una notte nella neve. Prese rapidamente la sua decisione: lasciò il sentiero e cominciò a scendere lungo il ripido pendio e dopo un'ora era già accanto alla pineta. Era ormai allo stremo, ma con altre due ore di ripida discesa sarebbe arrivato in tempo.

Accadde all'improvviso: un sordo rumore alle sue spalle e la valanga investì in pieno il bosco. Lui si trovava proprio ai margini. Una massa di neve lo coprì. Sentì un forte dolore alla gamba. Con le braccia riuscì a spostare un po' di neve per respirare. La gamba gli era rimasta incastrata sotto un tronco trascinato dalla valanga. Per quanto si agitasse, non riusciva a liberarsi e anzi sprofondò di più nella neve. Lottò come un disperato, ma fu tutto inutile. Venne la notte, sentiva le sue membra intorpidirsi per il congelamento, tremava, ma non voleva arrendersi. Non voleva pensare alla sua morte, anche se in fondo sentiva di meritarsela: un servo non può pensare di cambiare così la sua condizione. Il gelo ormai lo assaliva in ogni parte del corpo. Vaneggiava e sognava il mare che non avrebbe mai visto: vedeva il cielo capovolto e sentiva il rumore dell'acqua, familiare come quello delle cascate del torrente, e gli pareva dolce lasciarsi trascinare nel nulla da quella corrente d'acqua tiepida. Rivide ancora una volta il sorriso rassicurante di sua madre. L'ultimo suono che sentì era quello delle campane di Prazzo che suonavano a festa.

 Era la mattina del 6 gennaio 1355, Epifania del Signore.

 

 

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