Il sottoscritto Giancarlo Candrilli,
residente in Roma, via La Spezia 37,
COMUNICA
AI Signor Avvocato Bruno Pietta, nato a Martignacco
(Udine) il 6 febbraio 1906 e domiciliato in Manerba del Garda, via
Torquato Tasso 24, quanto segue.
Le scrivo quale figlio di Manlio Candrilli, il maggiore dei bersaglieri,
questore fascista repubblicano di Brescia, che Lei ebbe " d'ufficio
l'incarico di difendere nel giugno 1945 davanti alla locale Corte d'Assise
Straordinaria.
E sono persuaso che la semplice constatazione di essere stato Lei attore e
testimone di un avvenimento storico (quale è indubbiamente un processo
politico a conclusione del quale l'imputato viene condannato a morte e
successivamente fucilato) dovrebbe aiutarla a rendersi conto agevolmente
dell'obbligo morale di non rifiutare il Suo personale contributo alle
improrogabili esigenze della documentazione storica, soprattutto oggi che
ci troviamo ormai ad oltre trent'anni di distanza dall'avvenimento stesso.
Come Le è noto, in occasione del nostro primo incontro Ella mi concesse
in visione il fascicolo di causa (del quale era ancora in possesso) e mi
descrisse verbalmente sia le circostanze che l'avevano portato ad
accettare l'incarico difensivo, sia altri particolari della vicenda, quali
ad esempio: "l'aver provveduto al recapito, in unione ad un
componente della Segreteria Vescovile (il ragionier Gino Bui), di una
missiva indirizzata al Cardinale Schuster dalla stessa Segreteria
Vescovile, a nome del Vescovo di Brescia". Scopo della visita era
quello di sollecitare un passo del Cardinale, in favore dell'imputato,
presso la Sezione speciale della Corte di Cassazione, allora funzionante
in Milano. (In merito Ella ha precisato che il Principe della Chiesa, dopo
avere ascoltato la Sua descrizione dei fatti, delle varie fasi del
processo e della irrogata condanna a morte, espresse fra lo stupore dei
presenti, la propria decisione di "non volersi occupare della
faccenda").
L'intervento presso di Lei di un ufficiale inglese del Governo Militare
Alleato (il maggiore FALK) che, dopo la conclusione del processo
Candrilli, venne a chiederLe proprio in considerazione del ruolo da Lei
avuto, alcuni ragguagli sullo svolgimento del processo stesso (e, fra
l'altro, se si fosse trattato o meno di un processo condotto nel rispetto
delle norme di procedura e di diritto sostanziale, specie in ordine ai
diritti dell'imputato e della difesa). Declinò invece il mio invito a
redigere una dettagliata relazione dei fatti, con la narrazione di tutti i
particolari a Lei noti (per diretta conoscenza), delle condizioni
ambientali in cui la vicenda processuale aveva trovato compimento, nonché
delle impressioni che Lei stesso aveva riportato nel conoscere e nel
trattare il Suo assistito. E motivò tale Sua decisione con la
preoccupazione di non voler apparire "esibizionista".
lI 24 ottobre 1967, rientrato in sede, Le scrissi per restituire i
documenti e gli appunti concessimi gentilmente in visione e per rinnovare
la richiesta già rivoltaLe a voce (di potere avere una Sua relazione
sulle suddette circostanze), precisando, in merito alla Sua preoccupazione
di potere apparire esibizionista, il mio impegno ad utilizzare tale
relazione soltanto quale fonte preziosa e riservata di notizie.
Non ebbi il piacere di ricevere una Sua cortese risposta. Né poi ritenni
più di ritornare sull'argomento dopo il nostro secondo ed ultimo
incontro, avvenuto l'anno successivo, durante il quale, con l'unico
intento di avvicinarmi il più possibile alla realtà dei fatti, Le posi
tutti quegli interrogativi che si erano via via presentati alla mia mente
nel corso dell'esame retrospettivo eseguito anche in base ai documenti da
Lei fornitimi oltre che con l'aiuto di tutti gli altri elementi valutativi
di cui ero già in possesso.
Ebbi modo di sensibilizzare che Ella non gradiva l'argomento oggetto della
nostra conversazione che si traduceva, sotto alcuni aspetti, in un esame
chiaramente critico del Suo operato di difensore "d'ufficio".
Ed a parte il tono evasivo e generico delle Sue risposte, tono da Lei
giustificato adducendo il lungo tempo trascorso quale plausibile scusante
per il mancato ricordo di alcuni particolari, appariva visibile il senso
d'insofferenza che Lei dimostrava nei confronti dei quesiti che Le
venivano rivolti. Proprio per questo sono ora costretto, mio malgrado a
disturbarLa nuovamente e, affinché nessun particolare possa sfuggire alla
Sua memoria, mi faccio cura di riassumere nel modo più sintetico i
dettagli di quelle ore decisive del 1945, quali risultano dalla narrazione
che Lei a suo tempo me ne fece e da altre testimonianze e documentazioni.
lI 9 giugno 1945 "lI Giornale di Brescia", nel preannunziare per
il giorno 12 successivo l'inizio del processo contro l'ex questore,
riferiva tra l'altro: "Tutti gli avvocati di Brescia, che Candrilli
aveva incaricato della difesa, si sono rifiutati decisamente di
assisterlo".
Circostanza non rispondente al vero in quanto nel asso di tempo
intercorrente fra l'arresto (15 maggio), l'avvio dell'istruttoria (21
maggio) e l'inizio del dibattimento (12 giugno) all'imputato non fu
consentito di richiedere, né personalmente, né tramite terzi,
l'assistenza di un legale. Fra gli atti istruttori, infatti, esistono
soltanto i documenti comprovanti via via il conferimento dell'incarico
difensivo "d'ufficio" agli avvocati Ercoli Paroli senior,
commissario dei colleghi avvocati e procuratori (in data 31 maggio),
Emilio Bernardelli (in data 7 giugno) e Piero Grassi (in data 11 giugno).
Anche ai familiari del detenuto non fu possibile assumere un difensore di
fiducia giacché la notizia dell'avvenuto arresto e del prossimo processo
giunse ad essi in Sicilia soltanto l'undici giugno (cioè il giorno prima
dell'inizio del dibattimento).
Quando nell'imminenza del processo, gli organi competenti si occuparono
della necessità di un difensore, sia pure d'ufficio, si verificarono
delle circostanze significative:
vecchiaia, malattie ed altri motivi non esplicitamente dichiarati
falcidiarono letteralmente gli avvocati bresciani.
Sempre il 9 giugno, "Il Giornale di Brescia" continuava nella
sua cronaca: "Il Presidente della Corte ha dovuto procedere
successivamente alla nomina di più difensori d'ufficio che, tutti, hanno
chiesto insistentemente di essere esonerati dall'incarico. Il Presidente
si è rivolto allora al Commissario del Collegio degli avvocati e
procuratori per incaricarlo della difesa d'ufficio con facoltà di
subdelegare. Della quale facoltà il Commissario si è subito valso
nominando un suo collega a difensore. Ma anche questi si é rifiutato. Il
che dimostra come sia invincibile la ripugnanza che in tutti suscita il
miserabile sgherro".
Certamente diversi fattori - faziosità, paura, opportunismo, interesse
personale - contribuivano a distogliere i legali bresciani dal compiere un
dovere professionale in vista di un processo politico nel corso del quale,
come il clima e l'ambiente rendevano prevedibile, la posta in gioco
sarebbe stata la vita stessa dell'imputato. Dal canto suo l'ex questore,
come ha lasciato scritto, faceva risalire l'avversione dimostrata nei suoi
confronti dai suddetti avvocati anche ad un risentimento personale"
dovuto ad una disposizione, valevole per tutti, da lui stesso impartita
nell'ambito della questura.
Il 12 giugno 1945 " Il Giornale di Brescia così scriveva:
"L'avvocato Paroli senior, commissario dell'ordine degli avvocati e
procuratori, che siede, in mancanza dei difensori d'ufficio designati dal
Presidente, sul banco degli avvocati, chiede di essere esonerato dal
gravoso incarico per le sue condizioni di salute. Viene re perito in aula
l'avv. Milana, che riesce però a farsi esimere dall'ufficio. Appena il
Presidente ha dichiarato sospesa l'udienza, in attesa di un difensore,
questi viene trovato nella persona dell'avv. Pietta che accetta per dovere
d'ufficio e che chiede un termine per conferire con l"inaspettato
cliente ". In proposito Ella ha riferito che, trovandosi in uno dei
corridoi attigui al locale dove era insediata la Corte d'Assise
Straordinaria, vide venire verso di Lei, in atteggiamento pieno di
sconforto e di disperazione, il vecchio avvocato Paroli, di cui era stato
discepolo.
Il decano degli avvocati bresciani si rivolse a Lei, con accento accorato,
chiedendo: "Pietta, sono rovinato! Non posso concludere la mia
carriera forense con una condanna a morte. Salvami tu. Accetta l'incarico
di difendere il questore Candrilli".
E, ricevuto il Suo assenso, lo rese noto al Presidente Basile,
sopraggiunto in quel momento. Quest'ultimo disse subito: " Venga,
venga, avvocato, così cominciamo". Ed avendogli Lei fatto presente
che per lo svolgimento del suo mandato aveva necessità di conferire con
l'imputato, aveva soggiunto: "Le concederò ciò che chiede, ma non
perdiamoci in eccessive formalità". In aula, esperiti gli
adempimenti iniziali e dopo che le parti erano state invitate dal
Presidente a proporre le questioni preliminari, il Pubblico Ministero
chiese l'ammissione di alcuni testi (non elencati nel decreto di
citazione), che vennero poi escussi in dibattimento senza che risultasse
preventivamente da nessun atto l'indicazione specifica, come vuole la
legge, del tema da provare. Al riguardo sul verbale del dibattimento e
sull'ordinanza di ammissione ditali testi si leggo no rispettivamente le
seguenti annotazioni riguardanti la difesa: "nulla ha da opporre alle
richieste del PM" e "non si é opposto 11 difensore".
Come risulta dal predetto verbale Ella, successivamente, chiese
"congruo rinvio del processo onde poter prendere visione almeno degli
atti processuali e conferire con l'imputato". Ottenne soltanto un
breve termine di due ore dalle 12,30 alle 14,30 dello stesso giorno (12
giugno). Peraltro, come risulta dal verbale stesso, il dibattimento
riprese alle ore quattordici. Cioè mezz'ora d'anticipo sul tempo
stabilito.
A questo punto non esiste traccia di atti da Lei compiuti per opporsi alle
decisioni della Corte, in rapporto all'inutile brevità del rinvio
concesso ed all'anticipata ripresa del dibattimento rispetto all'orario
fissato. Neanche la lettura e l'esame del "decreto di citazione"
suggerirono l'opportunità di sollevare, in via preliminare, una formale
eccezione di nullità "per assoluta incertezza dell'oggetto". Il
documento, infatti, conteneva la "rubrica" delle imputazioni che
si limitava a riportare gli articoli delle leggi, la cui violazione si
attribuiva all'imputato ed al posto del "fatto " che avrebbe
dovuto integrare la contestazione delle norme violate una serie di
insignificanti perifrasi della fattispecie delle norme stesse: non un
nome, non un'indicazione di località, non una circostanza o una data.
Esso era, quindi, privo degli elementi di determinazione necessari acchè
la difesa fosse in grado di poter esercitare il suo diritto di prova
contraria.
L'aperta denuncia di tali irregolarità non avrebbe dovuto essere
trascurata: con chiara evidenza, in una causa come quella di Manlio
Candrilli, non si poteva rinunziare a nessun diritto, a nessuna facoltà,
senza tradire il mandato ricevuto ed accettato, senza tradire il dovere
professionale, anche di coraggio, che incombe sulla toga.
Inoltre, nella terz'ultima pagina del verbale del dibattimento si legge
testualmente: "Dei testimoni a discarico ammessi non sono comparsi il
col. Bettoni, perché assente da Brescia, Io Zappa Luigi non comparso
benché regolarmente citato e l'Alessandri non citato per mancanza di
recapito". E di seguito: "La difesa non ha insistito
sull'audizione degli altri testi non avendo sollevato formale
incidente". Frase che risulta cerchiata (per annullarla, in modo da
lasciarla leggibile) e sostituita con la seguente La difesa dichiara di
non rinunziare ai testi a discarico non comparsi, ma non solleva incidente
perché la Corte decida sulla richiesta citazione". Quindi il PM
pronunciò la sua requisitoria e concluse chiedendo per l'imputato la
condanna alla pena capitale. Infine Lei stesso espose la difesa con la
quale chiese che Manlio Candrilli fosse condannato a pena detentiva
degradando il capo d'imputazione. La conclusione di carattere strettamente
giuridico che è derivata da questo comportamento difensivo risulta dalla
stessa motivazione - riportata in appresso - della sentenza con la quale
la Suprema Corte decise il ricorso successivamente interposto.
Si può ipotizzare che il suddetto comportamento sia scaturito da diversi
fattori. Quali ad esempio: limitata esperienza professionale in campo
penale, mancanza di coraggio morale e fisico di fronte alla situazione di
fatto esistente in aula, soggezione per l'ambiente così ostile e
prevenuto nei confronti dell'imputato.
Ma è certo che Lei non formula nessuna protesta (più o meno vibrata),
non solleva alcun incidente e sente la necessità d'iniziare l'arringa
difensiva - chissà poi perché -precisando "di avere assunto la
difesa dell'imputato per dovere d'ufficio e di avere rifiutato qualunque
compenso (da "Il Giornale di Brescia" numero del 14 giugno
1945). Asserzione quest'ultima che se valeva al momento, non rispecchiò
la realtà successiva.
Infatti quando Saverio Candrilli, fratello dell'ex questore, giunse a
Brescia a processo concluso, Lei ebbe corrisposto un importo di L. 6.000
(seimila) quale onorario.
Subito dopo la condanna il detenuto compilò per Lei un
"promemoria" nel quale riassunse in alcuni punti i motivi
"che egli riteneva più efficaci e validi per essere evidenziati nel
ricorso da presentare in Cassazione:
1) mancata difesa;
2) mancata citazione testi a discolpa. Il V. Questore Sciabica detenuto
nelle carceri di Brescia non è stato fatto comparire;
3) testi a carico presentatisi in udienza; conseguente mancata
confutazione delle loro accuse, perché si sarebbero dovuti citare altri
testi e richiedere il rinvio del processo;
4) l'art. i del D.L. 22 aprile 1945 precisa quali sono le autorità per le
quali va applicato l'articolo suddetto. Vi è compreso il Capo Provincia e
ne è escluso 11 Questore.
Ciò per l'evidente ragione che il Questore è alle dipendenze del Capo
Provincia ed è l'esecutore materiale degli ordini di questi;
5)Il Vice Proc. Generale Santi non ha inserito nel verbale
d'interrogatorio la mia affermazione che era un Maggiore dei Bersaglieri
già in S.P.E., invalido di guerra e decorato al valore. Ciò ha fatto
perché la mia poteva essere una falsa dichiarazione ed aveva bisogno di
essere dimostrata. Così facendo il Santi mi ha fatto perdere
l'applicazioni delle attenuanti;
6) la collaborazione con i tedeschi non è stata dimostrata in
dibattimento; si è solo affermato che io avevo invitato a pranzo degli
ufficiali tedeschi ed ho fatto un omaggio floreale alla sig.ra del
capitano Priebke;
7) i rastrellamenti, fatti per ordine del Capo Provincia, hanno avuto
sempre risultati nulli. Non vi sono stati nè morti, né feriti, né alcun
invio di uomini in Germania. Solo sono stati, d'ordine del Capo Provincia,
inviati al Distretto alcuni giovani per regolare la loro posizione
militare. Nel periodo in cui si sono svolti i detti rastrellamenti, non si
effettuavano invii di operai in Germania perché vi andavano volontari;
mancava l'ordine d'inviarli a/lavoro obbligatorio. Alcuni dei
rastrellamenti non furono tali bensì operazioni di fermi di indiziati per
reati vari. Tali quelli di 5. Eufemia, Cailina, Nave; (desidero conoscere
le località dove si svolsero i rastrellamenti per potere essere
preciso)."
il 18 giugno, Le venne dato avviso dell'avvenuto
deposito in Cancelleria della sentenza di condanna a morte. Ed il 21
giugno, nell'assoluto rispetto dei termini prescritti dall'art. 17 del
Decreto Legge istitutivo delle Corti d'Assise Straordinarie, si ebbe la
presentazione del ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna.
Il testo del ricorso in minuta era stato scritto da Lei, mentre il
documento originale venne firmato dall'avv. Paroli, che così ne fu
ufficialmente il presentatore.
A questo punto è lecito chiedersi come mai ritornava sulla scena del
dramma quell'avv. Paroli che in precedenza, con il suo comportamento, si
era assunta la gravissima responsabilità di aver reso praticamente
impossibile all'ex questore, sia durante la istruttoria che nella fase
preliminare del dibattimento, l'esercizio del sacrosanto diritto della
difesa.
Era stato Lei stesso, allora non abilitato a patrocinare in Cassazione, a
rivolgersi al suo vecchio maestro ed anche a persuadere il condannato a
conferire a quest'ultimo l'incarico in questione. Solo Lei potrebbe
conoscere appieno l'effettivo motivo dell'intervento dell'avv. Paroli.
Infatti il suddetto professionista potrebbe aver compiuto l'atto di
firmare il ricorso per molteplici ragioni. Ad esempio:
perché spinto dal desiderio di ricambiare a Lei la personale cortesia di
avere aderito di accettare l'incarico della difesa d'ufficio
dell'imputato; oppure per resipiscenza nei confronti del proprio operato
precedente; o forse per timore di possibili future eventualità.
Sta di fatto che il condannato fece esplicito riferimento alle gravi
responsabilità che si erano assunte, con il loro atteggiamento nei suoi
confronti, il Paroli e gli altri avvocati che si erano rifiutati di
difenderlo, in due appunti da lui stesso versati a matita su carta
igienica e consegnati al fratello Saverio nel corso dei colloqui avuti con
quest'ultimo durante il periodo detentivo.
D'altra parte, sottoponendo ad un attento esame il testo del ricorso,
sorgono alcune perplessità che non si possono passare sotto silenzio.
Purtroppo tali dubbi investono l'operato dell'estensore e del firmatario
del documento. Infatti non è chiara la ragione per cui il difensore si
sia limitato a sintetizzare i "motivi" di ricorso in due unici
punti, quando aveva a disposizione elementi, numerosi e validi, come
quelli contenuti nel "promemoria" stilato proprio per lui
dall'imputato.
E soprattutto è difficile comprendere come mai Ella non denunziò, quale
primo motivo di ricorso, la grave omissione commessa dal sostituto
procuratore "politico" avv. Santi nel far verbalizzare le
dichiarazioni rese dallo stesso imputato nel corso dell'istruttoria.
Particolare di fondamentale importanza che costituiva una palese
violazione di legge e che aveva fatto perdere all'ex questore
l'applicazione in suo favore sia delle attenuanti di cui all'art. 26 del
CPMG (sostituzione automatica della pena di morte con degradazione con la
reclusione per un periodo intercorrente fra i 10 ed i 20 anni) che di
quelle generiche.
Beneficio quest'ultimo che la Corte d'Assise Straordinaria di Brescia
aveva negato affermando che il Candrilli aveva operato "con la
scienza e coscienza di favorire il tedesco invasore che era il nemico del
legittimo Stato italiano, costituito dal Regno d'Italia. Per questo
delitto pena adeguata é quella di morte che non può essere evitata da
nessuna attenuante, perché l'attività del Candrilli ha sparso tanto
orrore e tanto strazio in molte giovani vite da non destare alcuna pietà
ma deve essere colpita dalla severa giustizia punitrice con la più grave
sanzione che essa può infliggere ".
E la stessa Corte non si accorgeva che tale motivazione non rispondeva
certo al precetto della legge "poiché nessuna ragione logica esclude
che colui, che abbia ricoperto cariche importanti commetta una grave in
frazione alla legge penale, non possa per i precedenti di illibatezza, per
opere di bene compiute e per altre ragioni accertate dal giudice"
"nel caso del maggiore Candrilli, in particolare, la ferita subita e
gli atti di valore compiuti in guerra, premiati con due decorazioni al
valore militare, la cui esistenza proprio il magistrato aveva il dovere e
l'obbligo di accertare) "essere ritenuto meritevole della concessione
delle attenuanti generiche" (Sentenza Cassazione 26.9.45 - imputato
Luigi Sangermano).
Perché mai Ella non si soffermò nel ricorso sul reato di "omissione
di atti d'ufficio "compiuto dal Santi, che si prestava, in modo
particolare, per far sì che la Corte Suprema sindacasse la procedura
seguita dai giudici di primo grado? Né vale, in proposito, osservare che
il ricorso stesso si concludeva con la seguente argomentazione:
"Consideri in fine, la Corte, che il Candrilli ufficiale
dell'esercito Regio, riportò in Libia (invece esattamente, in Somalia)
"una ferita per la quale venne dichiarato inabile di guerra (anche un
profano di terminologia militare sa che nel linguaggio abituale si dice
invalido di guerra) "ed inviato in congedo nel 24' (altra inesattezza
perché il tenente Candrilli venne collocato a riposo per infermità
proveniente da cause di servizio di guerra ne/luglio 1931).
"Tale circostanza non poté dimostrare al dibattimento per la
ristrettezza del tempo e per la impossibilità di produrre una
documentazione adeguata"i
E fu proprio questa una conclusione, a dir poco, imprevedibile ed assurda.
Perché non spettava all'imputato fornire la documentazione di quanto da
lui dichiarato, bensì al giudice di controllarne la veridicità
- nel ricorso non veniva fatto alcun cenno alle ricompense al valore
militare meritate in guerra dal Candrilli;
all'atto in cui si attingeva a redigere il ricorso, il difensore era
perfettamente al corrente dei particolari relativi alle suddette
decorazioni.
Particolari appresi dalle ripetute dichiarazioni verbali dell'imputato,
dal contenuto del "promemoria" che questi aveva redatto per
suggerirgli i motivi" di ricorso ed anche da un accertamento
personalmente svolto, consultando gli annuari degli ufficiali in SPE. Da
quanto precede si e-vince che Ella accettò supinamente il ragionamento
capzioso ed errato dell'avvocato Santi (esternato allo stesso imputato per
giustificarne la mancata verbalizzazione delle dichiarazioni rese in
istruttoria e riguardanti il passato militare del medesimo) senza peraltro
manifestare alcuna volontà di reazione sul terreno pratico all'assurda
argomentazione del suddetto inquirente.
E questo stato d'animo proprio Lei dovette contagiare, sia durante il
dibattimento che nei giorni successivi, anche al suo assistito. Infatti,
il 22 giugno 1945, cioè all'indomani della presentazione dei ricorso,
l'imputato sentì il bisogno di confermarLe in un altro appunto le ormai
note circostanze: 'Non ho detto in aula che ero decorato di una medaglia
di bronzo (Somalia) 1924) e di una croce di guerra al valor militare
(Libia 1921) perché quando sono stato interrogato in carcere dall'avv.
Santi, funzionante da Sostituto Procuratore Generale (a suo dire),
avendogli dichiarato che ero Maggiore dei Bersaglieri, invalido e
decorato, mi disse: "Lo dite voi occorre la prova; e non verbalizzò
nulla". E cosa fa, allora Lei?
Lo stesso giorno 22 presenta il seguente esposto al Comando del Distretto
militare di Brescia:
"Il sottoscritto avv. Bruno Pietta di Brescia,
nella sua qualità di difensore d'ufficio di Candrilli Manlio, ex questore
di Brescia, chiede che codesto Comando voglia rilasciargli una
dichiarazione da cui risulti quanto lo scrivente ha potuto constatare
dagli annuari 1930/1931 degli Ufficiali in SPE e cioè che il Candrilli,
allora tenente di fanteria nel quinto Reggimento Bersaglieri, è insignito
a) della medaglia di bronzo al v.m.
b) della croce di guerra al v.m.
c) della medaglia della campagna di Libia 1917/18.
d) della medaglia della campagna Italo-Austriaca 19 15-18.
Tanto si chiede per dovere d'ufficio e anticipatamente si ringrazia.
Con ossequio. F. to avv. Bruno Pietta ".
A questo punto sorge spontanea la domanda: cosa si
riprometteva di fare Lei una volta venuto in possesso del documento
richiesto? Forse di trasmetterlo alla Corte di Cassazione, in allegato ad
una "memoria suppletiva" da far seguire al ricorso? Perché mai,
allora, non citare esplicitamente già nello stesso ricorso tutte le
circostanze, riservandosi di provarle successivamente?
lnterrogativi sconvolgenti che fanno logicamente concludere che il
questore fascista, nel corso della sua vicenda giudiziaria, non venne
difeso con decisione ed efficacia.
Si aggiunge, per completezza di cronaca, che il Comando del Distretto
militare di Brescia non rispose nemmeno alla richiesta rivoltagli e che la
"memoria suppletiva" non venne mai presentata in Cassazione. E
dire che tale memoria avrebbe potuto utilmente integrare il ricorso con
tutti quegli altri elementi che l'imputato stesso aveva ritenuto di
ribadirLe con il citato appunto del 22 giugno e precisamente:
tra i testimoni citati vi era Sciabica, detenuto, ed il Presidente non lo
fece venire a deporre;
i testi d'accusa ammessi a deporre in udienza hanno affermato 11 falso ed
11 Sig. Presidente non mi ha dato modo di poterlo provare. Infatti per la
Pasotti (che nella sua testimonianza aveva dichiarato: "in una stanza
c'erano due giovani alti che per ordine di Candrilli mi hanno
frustrata". Sarebbe bastato che si facessero presentare i fratelli
Speciale che non sono affatto alti di statura; per Robustelli, Romelli e
Rondinelli sarebbe bastato sentire alcune guardie della squadra politica
presenti alle bastonature, come: Romagnoli, Napoli, Oteri ecc. ed il 5.
Ten. Spinelli - art. D.L. 1945: i Questori non sono compresi".
Ma non è tutto! Ella trascurò inspiegabilmente di mettere in evidenza
nella stesura del ricorso la falsità del teste Mario Crocitti richiedendo
la ricognizione del certificato penale dell'imputato che l'avrebbe
ampiamente dimostrata. (Il Crocitti, funzionario di P.S., nella sua
deposizione aveva affermato testualmente: "Mi dichiarò che da
giovane aveva appartenuto alla mafia e che aveva commesso un
omicidio". Ed a richiesta della difesa aveva ripetuto:
"Confermo che il Questore mi ha dichiarato che da giovane aveva fatto
parte della mafia e che se era stato assolto per insufficienza di prove
dall'imputazione di omicidio ciò era avvenuto perché aveva saputo
gabbare i giurati".
Inoltre Lei omise di inserire nel ricorso, e non si comprende come un
particolare del genere possa essere sfuggito ad un uomo di legge, un altro
valido motivo che avrebbe potuto essere determinante per una decisione
favorevole alla Cassazione. La violazione, da parte della CAS di Brescia
del precetto di legge contenuto nell'ultimo comma dell'art. 348 del Codice
di procedura penale: "Non possono essere assunti, a pena di nullità,
come testimoni gli imputati dello stesso reato o di reato commesso, anche
se sono stati prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento sia
stato pronunciato in giudizio per non avere commesso il fatto".
E la Corte aveva invece fatto testimoniare quali testi d'accusa, il
maresciallo di PS Guido Spinelli ed il colonnello Francesco Giordano, a
quell'epoca entrambi "detenuti in attesa di giudizio" per avere
collaborato con il tedesco invasore. Per di più, inspiegabilmente, Ella
non rivelò dalla lettura del verbale di dibattimento che le generalità
di alcuni testi (precisamente Robustelli Giorgio, De Petris Settimo,
Lanciano Carlo, Pandolfelli Alfredo, Sella Alessandro) erano state
riportate in modo difforme (rispettivamente Robustelli Eugenio, De Petris
Giuseppe, Luciano Carlo, Pandolfelli Angelo, Sella Giovanni) da come
figurano annotate negli atti istruttori (decreti di citazione o verbali di
interrogatorio). Uso il termine "non rilevò " perché la
mancata inclusione nel testo del ricorso per Cassazione di un particolare
del genere, d'importanza così fondamentale, non potrebbe essere
altrimenti giustificata. In relazione a quanto precede non si può fare a
meno di dedurre che la sua linea di condotta fu certamente condizionata da
un diffuso stato di paura e di timore reverenziale verso la Corte e si è
estrinsecata in uno stile non esplicito, sempre in bilico fra il dire ed
il non dire, che non assunse mai le caratteristiche necessarie di
coraggiosa difesa e di vigorosa protesta.
I giudizi che scaturiscono dall'esame dei Suoi atti trovano conferma nei
termini di paragone che in quei giorni non mancarono, giacché gli uomini
rivelano la loro tempra proprio nei frangenti difficili ed eccezionali.
Cito il caso del valoroso avvocato Riva di Bergamo che fu il difensore
dinnanzi alla CAS di Brescia dell'avv. Vincenzo Federici, ex pubblico
accusatore presso il Tribunale Speciale per la difesa dello stato, e del
Maggiore Ferruccio Spadini, comandante del presidio di Breno della G.N.R.
stralciando i seguenti passi dai resoconti dei due dibattimenti ( è da
notare che quello del Federici fu il primo processo politico che si svolse
a Brescia dopo il 25 aprile), quali apparvero su Il Giornale di Brescia
26 maggio 1945 - "Appena aperta
l'udienza l'avv. Riva di Bergamo solleva un incidente sostenendo
l'incompetenza territoriale della Corte di Brescia. In subordine che
l'udienza venga almeno rinviata, poiché alcuni testi non sono presenti e
altri dovrebbero venire citati.
L'avvocato anticipa, a chiarimento del suo protetto, una delle tesi
difensive affermando che il Federici fu gerarchicamente comandato al posto
di pubblico ministero anche nel primo processo che egli sostenne a Brescia
e che quindi era obbligato a compiere, a sensi di legge, quello che era un
dovere d'ufficio.
Il presidente, secco, lo interrompe: "un magistrato non si deve mai
piegare " e la folla esplode in un tumulto ed impedisce all'avvocato
di proseguire. Ristabilito il silenzio, il difensore si richiama alla
libertà ed al rispetto della toga, soggiungendo che, come tale, egli deve
essere apprezzato per la passione ed il calore con cui esplica quella che
è sacra missione in quanto egli, e con lui tutti i suoi familiari, ha un
passato di accesa attività antifascista e di persecuzione politica; ha
conosciuto la durezza del carcere e l'umiliazione dell'esilio. La Corte si
ritira e respinge le richieste della difesa."
19 agosto 1945 - "Cosi dopo una intensa
e movimentata giornata di udienza (l'interrogatorio di Spadini ha dato
luogo ad una serie di battibecchi tra la Corte e la difesa
autoritariamente troncati, infine, dal Presidente, per non dover
rispondere. Forse ad una caustica ma esatta osservazione dell'avv. Riva)
il processo é stato rinviato a lunedì, per dar modo alla difesa di
produrre importanti testi, assentatisi nel pomeriggio di ieri, e la sorte
dell'imputato appare più che mai incerta".
Ricordo anche il caso dell'avv. Tommasini, difensore d'ufficio di Galeazzo
Ciano nel gennaio 1944. Come afferma Gianfranco Venè nel suo libro Il
processo di Verona (ed. Mondatori) "egli era un civilista:
commise, durante il processo una serie di gaffes così comiche da
incrinare, per qualche momento, la tragica atmosfera del processo. Ma la
sua arringa fu vibrante e coraggiosa, nonostante che il Prefetto Cosmin,
capo della provincia, avesse detto ai difensori che non si comportavano
bene c'era pronto del piombo anche per loro".
Considerando obiettivamente il clima
di "eccezionale tensione" esistente nell'aula dove stava per
iniziare il processo Candrilli, nessuno avrebbe potuto avere qualcosa da
eccepire nei Suoi confronti se Ella avesse rifiutato, come altri suoi
colleghi che lo avevano già fatto (nell'ordine Paroli, Bernardelli,
Grassi) l'incarico difensivo d'ufficio che Le veniva proposto: avrebbe
potuto, comunque, anche giustificare detto rifiuto con l'impossibilità di
prestare la sua opera di difensore con pienezza di libertà, in quanto era
evidente che sarebbe stato costretto ad agire sotto la pressione della
violenza del pubblico (art. 185 e 468 del C.P.P.).
Invece la Sua partecipazione, sollecitata dal Paroli, rendeva possibile la
prosecuzione del dibattimento appena iniziato ed a conclusione del quale
si aveva il noto esito fatale per l'imputato. Mentre se il processo, per
mancanza di difensore, fosse stato celebrato qualche tempo dopo si sarebbe
sicuramente risolto in maniera ben diversa tanto fragili ed opinabili
erano le accuse e di certo mutate le condizioni ambientali.
E' vero che le ipotesi e le deduzioni contano poco, ma i documenti sono
tali che servono a completare senza possibilità di equivoci la cronaca
dei fatti e ad illuminare tutti i retroscena di quella 'sporca"
storia che fu il processo Candrilli.
Come Le è noto il ricorso fu articolato in due unici motivi, di cui solo
il primo aveva un certo peso specifico, anche se il tono dell'esposizione
avrebbe potuto essere più deciso, circostanziato e colorito. Ne riporto
il testo integralmente:
"Violazione dell'art. 452 C.P.P. in relazione all'art. 524 n. 1
C.P.P.
In omaggio alla verità, va premesso che il Candrilli non ebbe modo di
assumere un difensore a suo carico; il difensore d'ufficio, nominato pel
dibattimento nella persona dello scrivente, dovette chiedere di essere
esonerato dall'incarico per le gravezze dell'età e per la malferma
salute.
Un nuovo difensore d'ufficio venne, dopo varie ricerche, trovato al
dibattimento e questi ignaro del processo, chiese ed ottenne un termine di
poche ore per conferire coll'imputato ed esaminare, molto sommariamente,
le carte. All'inizio della ripresa d'udienza il difensore proponeva alla
Corte una lista di testimoni a discarico, dei quali la Corte ammise quelli
più facilmente rintracciabili e ne ordinò la citazione per il giorno
dopo. Esaurita l'escussione dei testi a carico e sentiti gli unici due a
discarico, comparsi, il difensore dichiarò che non intendeva rinunziare
all'audizione degli altri, come il colonnello Alessandro Bettoni e tale
Zappa di Brescia, ammessi, citati e non comparsi perché assenti dalla
città.
Entrambi erano stati indotti su circostanze di rilievo: il Bettoni due
volte arrestato dal Candrilli per ordine del Ministero dell'Interno, quale
sospetto di attività patriottica e antitedesca, fu trattato con riguardo
e correttezza dall'imputato.
Lo Zappa, dopo aver aiutato un disertore tedesco a fuggire, ricevendone fa
pistola e la divisa e dandogli un abito borghese, seppe che la gendarmeria
era a conoscenza delle cosa. Si confidò al Candrilli per averne consiglio
ed aiuto; ed il Candrilli, anziché denunziarlo o far di peggio, lo
consigliò ad occultare l'arme e la divisa e a raccontare alla gendarmeria
germanica di essere stato costretto a cedere l'abito sotto la minaccia di
morte.
La violazione di legge è evidente; l'art. 452 C.P.P. prevede il caso che
il teste citato non comparisca, e stabilisce all'uopo che il Giudice,
sentito il PM e le parti private, decide se proseguire o meno nel
dibattimento. Nella fatti-specie la Corte non ha sentito nessuno; non il
PM perché non l'ha interpellato; non l'imputato e la difesa perché non
ha neppure rilevato che nella chiara dichiarazione di non rinunziare ai
testi era implicita e trasparente la richiesta di rinvio del processo.
Comunque nel verbale del dibattimento non vi è traccia alcuna di una
decisione della Corte al riguardo. Va aggiunto che mentre in un primo
tempo, nel verbale si leggeva la dichiarazione pura e semplice della
difesa, in seguito è stato aggiunto che il difensore non ha sollevato
incidente.
L'aggiunta non ha alcun rilievo perché non spettava al difensore di far
incidenti, bensì alla Corte di decidere sulla richiesta di rinvio,
implicita nella dichiarazione di non rinunciare al testimoniale.
Io sono intimamente convinto che Lei, come i più abbia appreso, a suo
tempo, dalla stampa la notizia del rigetto del ricorso Candrilli (6 luglio
1945) e sono sicuro che, successivamente, non si sia curato di conoscere
la motivazione della decisione della Suprema Corte. Ritengo,
quindi, necessario offrirgliene ora il destro, proprio sul punto che
maggiormente
La digrada
perché bolla, purtroppo con le note irrimediabili conseguenze, il Suo
operato di difensore. Sanciva, infatti, il Supremo collegio che: "In
merito all'istanza di annullamento del giudizio e della sentenza proposta
col primo motivo di ricorso denunziando per denegata giustizia la
procedura seguita dalla Corte di merito coll'avere omesso di provvedere
sull'istanza di rinvio del dibattimento, implicita nella dichiarazione
della difesa di non rinunciare ad alcuni testi ammessi e non comparsi, va
rilevato infatti, che successivamente alla detta dichiarazione il PM e la
difesa hanno perso le loro conclusioni nel dibattimento senza sollevare
formale incidente, perché la Corte d'Assise deliberasse sull'istanza di
rinvio, né hanno comunque insistito per l'audizione dei testi non
rinunziati. Non può pertanto esservi stata denegata giustizia dal momento
che non è stato sollevato incidente che la Corte di merito dovesse
decidere con ordinanza, e d'altra parte il silenzio serbato dalla difesa
sana per acquiescenza la procedura dalla stessa seguita".
A meno di un mese dalla conclusione del processo
Candrilli, precisamente il 4 luglio 1945, cioè due giorni prima che il
ricorso dell'ex questore fosse deciso, Ella, evidentemente giudicato in
possesso di quei requisiti di" illibatezza", ineccepibili
precedenti politici e di provata "condotta morale" richiesti
dall'art. 10 della legge 22 aprile 1945 n. 142, passava dall'espletamento
del ruolo di difensore d'ufficio di un imputato fascista all'assolvimento
della funzione di membro dell'ufficio del PM della Corte d'Assise
Straordinaria di Brescia, cui era stato chiamato con provvedimento del
Procuratore Generale del Regno presso la Corte d'Appello della città.
Ed il giorno 6 successivo iniziava la Sua attività di Sostituto
Procuratore Generale "per merito politico" procedendo nelle
carceri giudiziarie di Brescia all'interrogatorio proprio di due "collaboratori"
del suo assistito del mese precedente: i funzionari di P.S. Pietro
Sciabica e Domenico Cosentino.
Nel corso del nostro secondo ed ultimo incontro,
cui ho fatto cenno in premessa, Ella tenne a dichiararmi, fra l'altro, che
"nella vita si era sempre pentito quando aveva ritenuto di porgere
una mano ad un uomo in procinto di affogare". Ora alla luce di tutti
i particolari su riportati, Lei stesso vorrà convenire che tale Sua
considerazione non può minimamente attagliarsi al caso Candrilli.
Non solo, ma sono anche rimaste indelebilmente scolpite nella mia mente
due frasi con le quali Ella ritenne di dover rispondere ad altrettanti
quesiti che Le avevo posti.
"ciò sarebbe stato sufficiente per buscarsi
una fucilata all'angolo di una strada" e
"in fin dei conti, cosa è successo? E' morto soltanto un
uomo!".
E su queste due frasi, oggi come allora, senza
rancore alcuno, ma sempre al servizio della verità, ritengo opportuno
lasciarLa, con l'augurio che Ella abbia modo di riflettere a lungo sugli
avvenimenti oggetto della presente lettera e che, nel riflettere, possa
sentire il dovere di aggiungere qualche spiegazione od ulteriore
dettaglio, in merito a quanto precede.
F.to Giancarlo Candrilli
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