GLI ARTICOLI DI FRANCESCO CHIEPPA



verde brinato verde brinato


CANARICOLTURA: COPPIA FISSA O VOLANTE?

Il nuovo anno, ripropone il consueto appuntamento con la tanto sospirata ed attesa riproduzione dei nostri beniamini alati. Fase topica di tutto l’intero ciclo produttivo ornicolturale. Fatidica “ prova della verità ”, circa il valore del nostro ceppo! Una buona riproduzione, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, sarà indice di uno stock di riproduttori di pregio. Anche se il cosiddetto “ management “, cioè la tecnica di conduzione dell’aviario, può influenzare non poco, la performance riproduttiva dei nostri razzatori. In questo periodo, allorché ci si accinge a preparare cestini da cova, sfilacce, bambagia da imbottitura e le tradizionali – sempre “ magiche ” – uova finte di plastica, a molti canaricoltori si riproporrà il dilemma di sempre: assortire coppie fisse, o utilizzare i migliori maschi razzatori, con più femmine? Vediamo allora di analizzare la questione, cercando di esaminarne i vari aspetti. E’ a tutti noto che la capacità procreatrice del maschio è, sotto l’aspetto quantitativo, assai maggiore di quella di una qualsiasi femmina. Ciò non solo nei mammiferi, ma pure tra le specie di uccelli non strettamente monogami, come il nostro canarino. In campo zootecnico, sfrutta questa naturale prerogativa del maschio, praticando il miglioramento genetico del bestiame da reddito, soprattutto per via maschile. Accoppiando cioè maschi valenti razzatori, con più femmine anche mediante il ricorso alla pratica della fecondazione artificiale – così da ottenere, in un ristretto arco temporale, molti discendenti del riproduttore di rango. In questo modo, si accelera la penetranza dei caratteri genetici di pregio, in una circoscritta popolazione animale (razza/ceppo). Ciò ha erroneamente fatto ritenere, da parte dei meno esperti e dei profani di zoocolture, che il maschio fosse dominante nella trasmissione dei caratteri ereditari e comunque sempre dotato di un potenziale di miglioramento genetico, riferito alla singola coppia, assai più elevato di quello della femmina. Questa teoria è corretta, solo se riferita alla quantità del miglioramento genetico ottenibile per via maschile, accoppiando un ottimo razzatore a più fattrici. Tuttavia, per produrre progenie di valore, la scelta della femmina è importante quanto quella del maschio. Non dimentichiamo infatti che lo zigote: prima cellula somatica del nuovo individuo, è prodotto dalla fusione dei gameti maschile e femminile, con il loro corredo genetico aploide. Il maschio può decisamente “ accelerare ” il lavoro selettivo, allorchè detentore di un geno-fenotipo molto valido, attraverso il suo ripetuto accoppiamento, durante una sola stagione riproduttiva. Mentre la nostra canarina, nello stesso periodo, potrà contare solo su un limitato numero di uova da essa deposte, per trasmettere il proprio patrimonio di geni alla discendenza. Tutto qui! Allora, coppia fissa o maschio volante? Ci sono vantaggi e svantaggi in entrambi i sistemi riproduttivi. La coppia fissa, riduce il lavoro dell’allevatore, nella gestione della fase riproduttiva dell’aviario. Con questo metodo, non si dovranno ripetutamente spostare i maschi, di gabbia in gabbia, nel corso della giornata e svanirà l’incognita, circa lo svezzamento dei pullus che si pone quando la nutrice è in procinto di una nuova nidificazione, ed ancora i suoi novelli non sono pienamente autonomi. Notoriamente i nidiacei di canarino delle razze leggere, possono considerarsi svezzati intorno ai trenta giorni d’età, un pocopiù tardi gli allievi di razze pesanti. Mamma canarina invece, quando i suoi piccoli avranno all’incirca quindici giorni di vita, sotto l’effetto della particolare congiuntura ormonale di questo periodo, inizia ad avvertire lo stimolo di una nuova nidificazione. L’imminenza di un’ulteriore ovulazione, la predispone spesso a trascurare i figli invocanti l’imbeccata, per impegnarla nella costruzione di un nuovo nido. Assai spesso, essa arriva a mutilare i suoi piccoli, per liberare il sito di nidificazione, qualora non disponesse di un secondo nido o – nella migliore delle ipotesi – a spiumarli , avida di soffice piumino per rifinire l’incavo del nuovo nido. Secondo la mia datata personale esperienza, la coppia fissa garantisce la deposizione di più uova “ gallate ” e, lo svezzamento di un maggior numero di novelli. Il maschio “ monogamo “, offre infatti il vantaggio di poter attendere allo svezzamento della nidiata, quando la sua femmina sarà in procinto di una nuova deposizione. Praticando il metodo della coppia stabile, in questa delicata fase della riproduzione dei nostri canarini, è sufficiente suddividere la gabbia da cova in due scomparti - con l’apposito tramezzo in grigliato metallico collocandovi da una parte i giovani in fase di svezzamento e dall’altra la coppia prossima ad un’ulteriore covata . La femmina si occuperà quasi interamente del nuovo nido, mentre il maschio si dividerà equamente, tra doveri coniugali ed assistenza alimentare agli allievi imploranti l’imbeccata, provvedendo a nutrirli attraverso le sbarrette del separé, sino a completo svezzamento. Inoltre, con questo sistema d’allevamento, si ottiene il vantaggio di limitare lo sfruttamento dei maschi razzatori. Se, viceversa, si disponesse di un numero limitato di riproduttori molto selezionati e si desiderasse sfruttarne al massimo la capacità riproduttiva, si potrà optare per il maschio cosiddetto“ volante “, con le seguenti accortezze. Si disporranno le canarine da riproduzione, una per gabbia. Appena queste avranno iniziato ad edificare il nido, si inizierà ad introdurre il maschio prescelto, preferibilmente nel tardo pomeriggio, consentendogli di pernottare con la partner e provvedendo a ritirarlo il giorno successivo, di buonora. Questa operazione verrà quotidianamente ripetuta, sino alla deposizione del 3°/4° uovo, quando si avrà la certezza – per la particolare costituzione fisio-anatomica dell’apparato riproduttivo della canarina – che l’intero grappolo ovarico in maturazione sia stato fecondato. Nella successiva fase di avvio dell’incubazione delle uova, si potrebbe adottare un semplice stratagemma, capace di garantirci una migliore riuscita della covata. Separata la gabbia, con il consueto tramezzo metallico, si proverà ad introdurre al 2°/3° giorno di cova della chioccia nel vano opposto a quello che ospita il nido, un maschio “balio”, destinato cioè al semplice ruolo di“ allevatore “ della futura nidiata. Non appena introdotto il “ balio “, ci si dovrà sincerare che la femmina intenta alla cova, non dimostri intolleranza alla sua presenza, sentendosene minacciata ed abbandonando il nido, per scendere sul fondo della gabbia ed andare a controllare - timorosa l'inusuale situazione. Se questo dovesse avvenire, ma la femmina subito dopo ritornerà sulle uova e vi rimarrà tranquilla, senza effettuare ulteriori frequenti sortite, allora è segno che l’espediente potrà funzionare! Il “ balio “, tuttavia, resterà rigorosamente separato dalla femmina, sino al compimento della schiusa delle uova. Allorchè il lieto evento si sarà realizzato, riuniremo i due piccoli conviventi piumati, i quali senz’altro coopereranno nel tirar su la nidiata. Intorno al tredicesimo/quindicesimo giorno di vita dei novelli, isoleremo in altra gabbia i giovani con il loro papà adottivo, lasciando libera la femmina con un nuovo nido da preparare. A questo punto, quando avrà iniziato ad imbottire un nuovo cestino da cova, torneremo a riunirla giornalmente al razzatore, con le modalità predette, in attesa di una nuova deposizione. E’ molto importante non attardarsi a separare il canarino “ balio “, pena l’indesiderata fecondazione della fattrice, da parte di un soggetto decisamente privo del proverbiale “ physique du role “ . Non appena la canarina avrà ultimato la deposizione ed il maschio da balia, divezzato la precedente figliata, potremo riunire i due fringillidi domestici, sempre però prudentemente con interposizione della grata-divisorio, onde scongiurare il verificarsi di perigliose dispute tra gli uccellini, coabitatori dello stesso sito per mera esigenza di mutuo soccorso. Se tuttavia la chioccia non dovesse accettare – in qualsiasi fase del ciclo riproduttivo – la presenza del secondo maschio, introdotto dopo la permanenza del razzatore, sarà meglio rinunziare a detto “giochino di astuzia “, pena una irreparabile turbativa della fase riproduttiva. Il maschio razzatore, nel corso del primo anno di servizio riproduttivo, non dovrà essere accoppiato a più di tre femmine, meglio ancora solo due. Per evitare il suo sfruttamento eccessivo che, oltre ad essere causa della deposizione di molte uova infeconde – in particolare nelle ultime covate – potrà irreparabilmente minare la salute fisica del nostro beniamino alato. Nel secondo/terzo anno di attività procreatrice, si potrà ragionevolmente elevare il numero delle sue “ concubine “ portandolo a quattro, massimo cinque, per canarini di razza rustica e fisico vigoroso. Un’ultima importante raccomandazione. Se si privilegia il sistema riproduttivo a “ maschio volante “, non si dovrà mai lasciare il razzatore permanentemente in compagnia della chioccia, sino a deposizione ultimata. Altrimenti le successive, ravvicinate copule con altre canarine, potrebbero non essere efficaci. Il canarino infatti godrebbe di una fertilità, influenzata dal ciclo sessuale della femmina con la quale fa coppia fissa. In altri termini, ripetute esperienze inducono a ritenere che la fecondità del maschio di molte specie di uccelli monogami, possa essere influenzata dalle fasi del ciclo riproduttivo della femmina, con un netto declino della virilità maschile, durante l’incubazione delle uova da parte della partner. E’ scientificamente acclarato che l’asse ipotalamo-ipofisi– inequivocabilmente coinvolto sotto l’aspetto ormonale nella regolazione dell’attività delle gonadi – soggiace a differenti stimoli e percezioni ambientali di tipo uditivo e visivo. Il comportamento della femmina intenta alla cova, avrebbe allora effetti per così dire “sedativi” sulla foga riproduttiva del maschio ad essa permanentemente unito, ponendolo in una sorta di transitorio “ sopore sessuale “. Se questo importante accorgimento predisposto da Madre Natura, è ordinariamente finalizzato ad assicurare alle chiocce la meritata tranquillità di coppia, durante l’incubazione delle uova, certamente è di grosso svantaggio per un razzatore che debba, in rapida successione, fecondare altre canarine. Motivo per cui, sarà d’obbligo ricollocare il riproduttore nella sua gabbietta, rigorosamente da “ single “, dopo i servizi riproduttivi qualora venisse utilizzato in poligamia se desideriamo che non faccia “cilecca “ con alcune femmine! La sua alimentazione dovrà essere particolarmente curata. Semplice, sostanziosa, ma mai eccessivamente ingrassante se non vogliamo fargli fare “ brutte figure “... Una buona integrazione vitaminico-minerale (con apporti in specie di vitamine liposolubili e selenio) contribuirà a mantenerlo in ottima forma amorosa. Credo di avervi riferito proprio tutto. Non mi resta che augurarvi: Buona stagione riproduttiva 2002!

Francesco Chieppa












L'ARRIVO DELLA PRIMAVERA

Con l’avvento della primavera si ripete - come di consueto - quel magico insieme di fenomeni naturali, tipico di questo periodo climatico. Gli alberi a foglia caduca si rivestono di gemme. Spuntano qua e là nei prati: le calendule selvatiche, i mughetti, gli anemoni, i ranuncoli e, nei luoghi umidi ed ombrosi, le primule. Mandorli e peschi s’agghindano di soavi candidi fiori, sui quali si portano - in continuo viavai - a far bottino le utili api. Gli uccelli iniziano quella complessa e delicata fase del proprio ciclo biologico che è la riproduzione. Alcuni di essi: Passeri, Picchi, Upupe, sono soliti scegliere quale sito di nidificazione, la cavità naturale di vecchi tronchi, o anfratti di rupi e pareti rocciose. Altri invece, tra i quali i comunissimi Fringuelli, Cardellini, Verzellini e Lucherini, intessono con mirabile maestria delle coppette di fibre vegetali, nel folto intreccio di cespugli e conifere d’alto fusto. Ha luogo così la deposizione e la cova, al termine della quale i nidi si riempiono di nuova vita ed i cinguettii degli implumi affamati esserini, riecheggiano per boschi e frutteti, contribuendo a creare quell’armonia di suoni e di colori, tipica della stagione primaverile. E’ questo un momento molto importante per gli uccelli. Già pesantemente provati dai rigori della cattiva stagione, dall’attività venatoria e dall’imperversare di una serie di altri fattori, certamente non favorevoli all’esistenza di queste miti creature piumate ( inquinamento ambientale, distruzione degli habitat, ordinamenti agrari monoculturali ), gli alati cercano con la riproduzione di perpetuare per atavico istinto, l’esistenza della specie. Occorre precisare che la nidificazione non avviene solo in campagna. Anche nelle nostre rumorose città, tanto lontane dagli originali ambienti naturali, dimorano colonie nidificanti di volatili. Per facilitare allora la riproduzione di questi piccoli ospiti urbani, si potrà mettere a loro disposizione, idonei siti artificiali, ove possano edificare il loro talamo riproduttivo, al riparo dalle insidie più comuni. Sono disponibili, presso negozi di articoli per animali e garden center, apposite cassettine-nido. Disporre uno di questi contenitori nella parte più alta e tranquilla di un terrazzo, del balcone, o giardino di casa: è già un intelligente, utile accorgimento. Collocare nelle immediate adiacenze dei siti di nidificazione, delle mangiatoie dove gli uccelli possano reperire becchime e pastoncino, è un’altra buona idea per aiutare gli amici alati ad allevare più agevolmente le proprie voraci nidiate, spesso assai numerose. Se poi ci capitasse di imbatterci per strada, in uno di quegli implumi esserini di pochi giorni, caduto accidentalmente al suolo, non perdiamoci d’animo! Anzitutto mettiamoci alla ricerca del nido di provenienza e, se riusciamo a reperirlo, ricollochiamovi il pulcino, non prima però di averlo intiepidito per qualche attimo con il nostro fiato. Nel caso che il nido non venisse individuato, scartando a priori la cinica ipotesi di abbandonare il pullus ad un destino scontato, lasciandolo sul selciato a lenta ed inevitabile agonia, non ci resterà che portarlo a casa, imbarcandoci nella non facile impresa di allevarlo artificialmente *. Ecco, come comportarsi allora in questa seconda evenienza? Occorre anzitutto individuare se trattasi di volatile appartenente a specie insettivora, o frugi-granivora. Gli uccelli insettivori, differiscono da quelli granivori per le fattezze del becco, sempre esile ed allungato, al contrario di quello tozzo e robusto dei secondi. Quale pastoncino d’imbecco, si potrà adoperare uno dei tanti prodotti specifici preconfezionati, impiegati in ornicoltura; oppure altro di produzione domestica, ottenuto amalgamando del rosso d’uovo sodo, biscotto o galletta polverizzati, con l’aggiunta di succo d’arancia o mela grattugiata. Agli insettivori arricchiremo l’impasto con dell’omogeneizzato carneo, o del midollo di bue e, somministreremo giornalmente qualche larva di Tenebrio molitor ( larva della farina ), sì da fornire le proteine indispensabili per il corretto sviluppo dei nidiacei. Le imbeccate vanno in ogni caso somministrate con frequenza inversamente proporzionale all’età dei pullus ( a partire da una ogni 20 minuti ), dall’alba al tramonto, servendosi di uno stecchino spuntato, pennellino, o apposita siringhetta ( molto utili quelle del tipo per insulina ). Il pastoncino va preparato al momento, eliminando sempre gli avanzi, facilmente deteriorabili ed assai pericolosi per l’incolumità del delicato organismo del nidiaceo. Gli uccelletti saranno sistemati in luogo caldo e riparato, eventualmente in prossimità di una fonte di luce artificiale (basta una comune lampada ad incandescenza a tenerli caldi, disposta naturalmente a debita distanza, onde non ustionarli ) in un comodo e soffice giaciglio, approntato con della bambagia o altra fibra naturale, da rinnovare appena risulterà insudiciata dagli escrementi. Con molta cura ed un pizzico di sacrificio, è possibile salvare la vita a queste indifese creature che, potranno essere poi gradualmente abituate al ritorno alla vita in libertà, sino a lasciarle libere di scegliere tra il comodo, ovattato rifugio domestico e le sconfinate dimensioni dei cieli, delle albe e dei tramonti, ove continuare a librarsi in ataviche, acrobatiche evoluzioni. Un gesto questo di doverosa riconciliazione, nei confronti di un mondo naturale – animale e vegetale – soggetto a continue e dannose interferenze, da parte dell’uomo e del suo disordinato espansionismo. Un atto che ci verrà ricompensato dal piacere di udire tanti gai cinguettii, nel monotono contorno degli odierni agglomerati urbani di acciaio e cemento.

Francesco Chieppa

per gentile concessione dell’Autore

* rammento ai lettori che: oggi è severamente vietata la detenzione in cattività, di specie di volatili indigene, appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato. Pertanto, nel caso recuperassimo un nidiaceo in difficoltà, dobbiamo provvedere ad informare dell’accaduto, il Corpo Forestale dello Stato, e/o la sede della Lega Italiana Protezione Uccelli (LIPU) a noi più vicina, consegnando eventualmente a loro il pullus rinvenuto, perché possa essere avviato ad un centro di allevamento e recupero della fauna selvatica.

Francesco Chieppa












CANARINI PER TERAPIA

Canaricoltura come terapia; ornicoltura per mantenersi in forma, ritemprare lo spirito e la mente, tenere lontano i disturbi dell’età senile, vivendo più a lungo. Non è un bizzarro bisticcio di parole, ma l’ultima frontiera della medicina psicosomatica. L’uso terapeutico degli animali da compagnia, battezzato con anglosassone primigenia: “Pet Therapy”, è stato proposto per la prima volta dal neuropsichiatra infantile Boris Levinson nel 1961, con il lavoro “The dog as co-therapist”. Ulteriori contributi di ricerca, forniti a più riprese da medici e psichiatri di fama, hanno confermato l’intuizione del Levinson e di come gli animali possano effettivamente costituire dei preziosi ausili terapeutici, per la prevenzione e finanche la cura, di svariate forme di patologia e disturbi del comportamento; nonché al fine di ridurre violenza e conflittualità negli istituti di pena, lenire la solitudine degli anziani, ridestando in loro interesse per la vita. Naturalmente, quando si parla di uso degli animali d’affezione con finalità prettamente terapeutiche, non ci si riferisce solo agli uccelli da gabbia, ma anche a gatti, piccoli roditori e, soprattutto, ai tanto più “umanizzabili” cani. Tuttavia, nell’ormai vasta letteratura scientifica dedicata all’argomento in parola, vi sono numerosi riferimenti all’impiego dei nostri beniamini alati. In sostanza, la vicinanza di un animale domestico è in grado di contribuire al mantenimento di un buon equilibrio psicofisico nell’uomo ed alla riacquisizione di tale prezioso stato di benessere in individui sofferenti di particolari psicosi. Non per niente le prime esperienze di “Pet Therapy”, sono state realizzate negli ospedali psichiatrici. Nel 1792 in Inghilterra, lo psichiatra William Tuke del nosocomio di York Retreat, dispose che ad alcuni suoi pazienti venissero affidati degli animali da cortile e rilevò che gli infermi, curando creature assai più deboli e vulnerabili di loro, acquisivano un maggiore autocontrollo. Vastissima è stata al riguardo la sperimentazione effettuata dal Levinson negli anni 1961 – 1974. Levinson trovò che gli animali da compagnia erano utilissimi sussidi terapeutici per bambini con inibizioni, turbe della parola; come pure nei soggetti autistici, con difficoltà di socializzazione. Nel 1983 Pethers, nel corso di uno studio statistico condotto in Ungheria, constatò quanto poco frequente fosse il suicidio in nuclei familiari con presenza di animali d’affezione. Ai nostri giorni l’uso terapeutico dell’animale da compagnia viene indicato per gli individui depressi, per quanti vivono in solitudine o soffrono di stati emotivi di scarsa autoconsiderazione. in tali circostanze gli animali possono costituire delle fonti inesauribili, non competitive, di affettività; vere e proprie “valvole di sfogo” capaci di ridestare, con i loro ritmi biologici, l’entusiasmo e la voglia di vivere. Autentici stimolatori di risate, in virtù del proprio repertorio etologico, condizionante comportamenti che ci sembrano goffi e buffi, alla luce di una superficiale, ricorrente lettura antropomorfica. Parimenti, la “Pet Therapy” sembra costituire il toccasana per gli anziani soli e demotivati, ai quali il pensionamento e/o l’emancipazione dei figli, conferisce un immanente senso di inutilità e disinteresse per la vita. L’introduzione nelle abitazioni di un animale, pur se solo di un canoro canarino, basta a determinare un sensibile miglioramento dell’umore dei vegliardi, con positive ripercussioni sulla loro stessa forma fisica. E’ infatti acclarato il ruolo determinante della psiche, sul benessere del soma e – di converso – il pernicioso influsso di stati depressivi e di autocommiserazione, sull’integrità del corpo. Se poi l’animale da compagnia è un cane, da portare quotidianamente a spasso ad orari prestabiliti o, magari, un piccolo allevamento di canarini, imponente una costante dedizione: tanto meglio, poiché l’anziano sarà costretto a compiere con continuità, un benefico esercizio fisico, a discapito della sedentaria “vita in pantofole” e con notevole profitto del proprio apparato cardiovascolare. Nel 1975 Mugford e McComisky resero noti i risultati di una ricerca effettuata nel Regno Unito (East Yorkshire) su persone che vivevano sole. Il campione statistico era costituito da individui d’età compresa tra 75 e 81 anni, convenzionalmente suddiviso in nuclei di sei soggetti ciascuno. Ad un primo nucleo – definito “di controllo” – non venivano imposte modificazioni del preesistente modus vivendi. Ad un secondo, si metteva a disposizione un televisore ed alcune coppie di Pappagallini ondulati. Un terzo gruppo, veniva dotato del televisore e di piante da fiore da curare. V’era poi un gruppo con sole piante ed un altro con soli Pappagallini ondulati. Dalla comparazione dei test psicofisici, realizzati prima, durante e dopo il periodo di sperimentazione, sui differenti gruppi, si stabilì che gli anziani in possesso delle ciarliere e policrome Cocorite, manifestavano la forma fisica e psichica migliore. Negli USA è stata consentita l’introduzione di animali domestici, in alcune carceri, a partire dal 1978. I detenuti sono stati autorizzati a tenere in cella degli acquari, o coppie di uccelli da gabbia. I risultati sono stati assai incoraggianti: diminuivano le violenze tra detenuti ed i tentativi di suicidio, mentre si stabiliva una maggiore cooperazione tra reclusi e guardie carcerarie. In USA però, questo genere di esperienza ha avuto un eclatante precedente negli Anni Venti. Mi riferisco, in particolare, alla ben nota e singolare vicenda del pluriomicida Robert Stroud, ergastolano rinchiuso dal 1942 nel penitenziario di Alcatraz (California), in regime di isolamento, senza alcuna possibilità di contatto con gli altri reclusi, a causa della sua indole violenta e sanguinaria. Un giorno lo Stroud, durante l’ora d’aria nel cortile che gli era stato riservato, rinvenne sul selciato un passerotto agonizzante. Raccolto, se ne prese cura, riuscendo a salvarlo. In seguito chiese ed ottenne di poter allevare in cella alcuni canarini e, da quel momento, Stroud subì una vera e propria metamorfosi. Quell’uomo rude ed attaccabrighe, autentica belva umana, si trasformò – quasi d’incanto – in un tenero ed appassionato cultore della biologia degli uccelli, sino a divenire in pochi anni, un “birdman” di fama internazionale. Particolarmente versato nello studio della patologia degli uccelli da gabbia e del canarino in particolare, Stroud diede alle stampe due trattati concernenti questa materia: “Stroud’s digest of bird diseases” e “Diseases of Canaries”. Tali pubblicazioni, in considerazione dell’origine autodidatta del loro estensore, hanno del prodigioso, per la ricchezza di nozioni scientifiche contenute e la ferrea logica sperimentale con cui l’autore va alla ricerca di nuovi rimedi per le più ricorrenti affezioni morbose dei volatili da gabbia; in un’epoca in cui la stessa scienza veterinaria ufficiale, poteva ben poco nella cura dei volatili ornamentali. Robert Stroud morì il 21 novembre 1963 nel penitenziario di Alcatraz all’età di 73 anni, dopo che i suoi trattati di ornitopatologia avevano fatto il giro del mondo, divenendo a quei tempi dei preziosi classici della materia. La strabiliante storia di Robert Stroud venne immortalata su celluloide dal regista John Frankeimer nel film: “L’uomo di Alcatraz”, teletrasmesso più volte anche dalla nostra RAI. Stroud fu interpretato da un impeccabile Burt Lancaster che, per questa pellicola ottenne la “nomination” all’Oscar. Dagli animali – dunque – e dai nostri policromi e canterini volatili in particolare, può venire un concreto quanto insospettabile contributo, a beneficio dei più sfortunati, degli handicappati, dei detenuti; ma pure per quanti – come noi – sono stati più fortunati dei primi. Canarini “a gogò”, allora… Per un’esistenza più serena, meno ansiosa, la più lunga possibile! Lo affermano – a parte umoristiche esagerazioni – autorevoli medici e psicoterapeuti. Al bando certe recenti, semplicistiche teorie,dal sapore meramente allarmistico, che vorrebbero i nostri uccelli da gabbia, addirittura, “untori” di terrificanti malanni epocali, quale il cancro. Ogni animale, se sano e mantenuto nella scrupolosa osservanza delle elementari norme di igiene, non può che giovarci, con la sua allegra vicinanza, donandoci – magari solo per un attimo – l’illusione di aver riconquistato piccoli lembi di quell’ineffabile ambiente naturale, da cui proveniamo e del quale siamo stati inesorabilmente privati, con l’inurbamento ed il mitico “Progresso”.

Francesco Chieppa