ELEGIA PER UNA PICCOLA MONGOLOIDE MORENTE SULL’ASFALTO.
P. Umberto Davoli


Nonostante fossi ancora assai lontano, capii che era successo qualcosa di tragico e rallentai fino a procedere a passo d’uomo. La vidi subito, in mezzo al capannello di curiosi: una piccola mongoloide di dieci, undici anni, investita da un pirata della strada che si era velocemente dileguato per evitare ogni responsabilità. Non fosse stato per quel gonfiore osceno sulla fronte e quelle stille di sangue che le scendevano sull’occhio sinistro, si sarebbe detto dormisse sull’asfalto.

Mi precipitai fuori del furgoncino per costatare se dovessi portarla all’ospedale. In ginocchio, mi chinai su di lei e le posi l’orecchio sul cuore, poi sulle labbra, sperando di coglierne il respiro. Si, era ancora viva!.

Stavo pensando a come trasportarla nel modo più delicato su quel mio scomodo trabiccolo, senza sottoporla ad eccessivi sbalzi pericolosi, quando sentii i commenti incoscienti e crudeli.

“Doveva capitare, prima o poi: era sempre sulla strada!…”, “Forse è meglio così…Non capisce nulla! E poi… non ha nessuno che la tenga! Tanto cosa farebbe mai nella vita?”.

Un pensiero improvviso mi trafisse, dandomi quasi un senso di nausea: e se capisse?

La guardai in volto, cercando di coglierne una qualsiasi reazione, angustiandomi all’idea che dovesse morire nell’orribile consapevolezza che nessuno la voleva… che non c’era nessuno che l’amasse! Subito le posi le labbra sull’orecchio e cominciai a sussurrarle: “Non temere! Ci sono io ora… Ti voglio bene!”.

Aprì gli occhi e mi sorrise: Dio mio, mi sorrise! Un sorriso dolcissimo che le trasformò il volto rendendolo quasi bello. Fui colto alla sprovvista. Un nodo di disperazione mi serrò la gola, nella certezza che la piccola capiva davvero: forse aveva capito tutto! Persi il controllo della mie emozioni e mi misi quasi a gridare: “Non avere paura: ti terrò sempre con me! Ora ti porto all’ospedale: vedrai, tutto andrà bene…”.

La piccola mongoloide alzò una manina e con l’indice teso disegnò alcuni geroglifici sulla mia fronte, come volesse sincerarsi che ero un uomo in carne ed ossa e non un sogno. Poi il braccino ricadde inerte.

Mi morì in braccio così, mentre me la stringevo al petto, quasi volessi trasfondere in lei la mia vita. Mi misi a singhiozzare con un senso di disperata impotenza.

La polizia mi trovò così, in lacrime, con il cadaverino in braccio. “E’ stato lui vero?” C’era una rabbiosa minaccia nella sua voce. Gli assicurarono che io ero appena arrivato, il colpevole era fuggito.

Il poliziotto non sapeva raccapezzarsi del perché mai dovessi piangere così sconsolatamente, e mi si avvicinò con malcelata deferenza: “Che… l’avevi adottata tu?”, “Si – risposi d’istinto - cinque minuti fa!”.

La sera, mentre tornavo verso la mia missione di Kapiri Mposhi col furgone carico di materiale per la chiesa in costruzione, appena uscito da Lusaka ebbi una prima foratura. Cambiai la ruota. Pochi chilometri dopo, una seconda foratura. Un amico che guidava un furgoncino dello stesso modello del mio mi offrì la sua ruota di scorta. La terza foratura avvenne proprio sul luogo dell’incidente. Mi dissi che la mia piccola mongoloide voleva la veglia funebre, per questo decisi di passare la notte in macchina, pregando per lei. Mentre pregavo, vedevo i suoi occhini strani e dolcissimi e mi pareva di sentire quel suo ditino sulla fronte…

Ad un certo punto, in un moto di ribellione mi arrabbiai con Dio. Litigai con Lui, rinfacciandogli il suo incomprensibile silenzio di fronte al nostro affanno. Che senso aveva avuto quella breve esistenza senza scopo senza amore, quei quattro giorni di pena, destinati ad una così assurda conclusione?

Ovviamente – come sa sempre fare Lui - Dio mi rispose, e piano piano tutto mi parve chiaro: l’ultimo istante della piccola vittima non era stato il termine assurdo di un percorso cieco, bensì l’inizio di un dialogo di amore, perché è sempre l’amore che ha l’ultima parola, quella definitiva.

Uscii dalla cabina e guardai in su, alla sterminata cupola di stelle nitide e grandi come lampioni, e mi parve di sentire ancora il sussurro di Dio: “Ogni notte ha la sua stella, ogni tramonto è seme del domani, la morte è seme a vita che non muore”.

Improvvisamente decisi di comporre una poesia alla mia piccola mongoloide. Optai per un sonetto, perché – mi dissi - qualora essa non ne capisse il senso, potesse gustarne almeno la metrica e la rima. Suonò così:

Tragica bimba che nessuno ha amato

e che – morta - nessuno ora ha rimpianto,

ci sarà pur, sull’arpa del creato

per te una nota, un fiore, un suono, un canto…

Una piccola lacrima segreta

su quel tuo corpicino ora straziato

che non conobbe baci, e senza meta

sul mondo, triste e inutile è passato!

Ma nell’ultimo istante tu hai capito:

è in me, nella tristezza non più mia

che forse vuole pianger la natura.

Mi sfiorasti la fronte con un dito;

mentre la morte ti portava via

m’hai sorriso, senz’ombra di paura.

Mi appisolai in macchina, rappacificato e sereno e quando l’alba si decise finalmente a sgominare il buio, la foresta ai lati della strada si incendiò di gloria.

…Perché anche la notte è progetto di amore.


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