Ci è andata male!
P. Umberto Davoli


Sul finire del 1979 la guerriglia per la liberazione della Rhodesia di Smith era al suo apice. Anche lo Zambia pullulava di guerriglieri del fronte patriottico di Nkomo e gli incontri imprevisti erano all’ordine del giorno, soprattutto per chi si avventurava in foresta, come spesso dovevo fare io per raggiungere le stazioni missionarie di Kapiri Mposhi, dove fungevo da parroco.

Una domenica dei primi di dicembre già avevo avuto la mia bella avventura. Stavo andando – tutto solo – verso la stazione di Mkushi West, quando un manipolo di guerriglieri armati fino ai denti era sbucato da dietro un cespuglio, coi Kalashnikov puntati e mi aveva sottoposto a un tutt’altro che amichevole interrogatorio. Nel giro di pochi minuti un lungo convoglio s’era come materializzato dal nulla attorno a noi… e solo l’intervento di un ufficiale benigno mi aveva salvato da una situazione delicata. Due settimane più tardi (Sabato 15) un altro gruppo di guerriglieri aveva sparato alla macchina del P. Taylor, Vicario Generale della Diocesi di Lusaka, colpendolo a una spalla. Era riuscito miracolosamente a fuggire…

Questo spiega perché non fui entusiasta quando, il lunedì mattina seguente, il confratello P. Cornelio Tessari mi annunciò che intendeva andare con Fra Bony - un fratello Zambiano - e con i chierichetti, alla discarica della vetreria. “Hanno rifatto le fornaci, e hanno gettato via un sacco di mattoni seminuovi! Ottimi per le fondamenta delle casette che vogliamo costruire ai vecchietti abbandonati…”. “Occhio ai guerriglieri!”, avevo scherzato… ma non troppo.

Chiamato in ufficio da alcune coppie di fidanzati, non pensai più al confratello. Fu solo dopo un paio d’ore che cominciai a sentirmi inquieto. “Sarà successo qualcosa a quel rottame di furgone”, pensai, immaginando l’anziano confratello sdraiato sotto il cofano e alle prese con le chiavi inglesi. Presi la mia macchina e andai a cercarlo. Giunto alla grande curva presso le colline di Kapiri, a circa 8 Km dalla chiesa, presi il sentiero che scendeva verso la discarica della vetreria: quasi subito vidi il furgoncino abbandonato presso il cumulo di mattoni scartati. Non c’era anima viva. Mi affiancai alla vettura cercando spiegazioni all’i-nattesa situazione, quando un fracasso improvviso mi fece sobbalzare: decine di guerriglieri emersero urlando dall’erba elefante dove s’erano acquattati alla mia venuta; lo stridore dei caricatori innestati nei mitra non prometteva nulla di buono.

Pensando fossero soldati Zambiani in esercitazione sulle colline, uscii dalla macchina, salutando in lingua Bemba. Mi zittirono, minacciandomi con le baionette innestate. Mi strapparono la borsa a tracolla e cominciarono a perquisirla. Poi uno mi puntò la baionetta alle spalle, spingendomi sul crinale opposto, verso il folto della foresta. A quel punto, un piagnucolio lamentoso mi fece voltare: vidi i chierichetti circondati da altri guerriglieri sull’altura alle mie spalle. Controllando l’emozione, cercai di rassicurarli che tutto andava bene… ma sentii la baionetta pungermi al fianco: “Cammina! Sei il terzo che facciamo fuori oggi!”, disse il guerrigliero in Inglese. Con raccapriccio pensai: “Hanno ammazzato P. Cornelio e Fra Bony” e pregando mi avviai al mio destino. Mi sentivo stranamente calmo e sereno e ricordo che ne gioii perfino, con gratitudine.

Camminammo per una decina di minuti… finché vidi i due confratelli seduti ai piedi di un albero, attorniati da una cinquantina di guerriglieri. “Sono vivi – mormorai con sollievo – Signore ti ringrazio”. Non appena mi vide arrivare, il P. Cornelio balzò in piedi: “Siamo a posto! Ora possiamo darci l’assoluzione a vicenda… e poi facciano quello che vogliono!

Cominciarono gli interrogatori, alternati da accuse, minacce e bestemmie. “Di chi è questo numero telefonico?”, mi abbordò quello della baionetta, sventolando un bigliettino trovato nel mio borsello. “Lascia che lo veda, se no come posso ricordarmelo?” “No, lo sai molto bene: è anche scritto in rosso!… Voi siete mercenari di Smith, non è così?”… “Noi siamo missionari, non mercenari!” “Peggio ancora! Siete voi che imbottite il popolo di menzogne per tenerli schiavi dei colonialisti!”… Erano stati indottrinati in campi d’addestramento marxisti ed era chiaro il loro odio e disprezzo per la religione.

Quando pareva che l’interrogatorio fosse concluso, appariva un nuovo "pezzo grosso"… e tutto ricominciava da capo. “In Piedi! Chi vi ha detto di sedervi!”, berciava uno minaccioso; ma dopo pochi minuti arrivava un secondo e strillava ancor più forte: “Sdraiatevi a terra! Non costringeteci a sparare!”… A un tratto, uno se la prese col fratello Zambiano: “Tu sei nato schiavo! Guarda lì: loro hanno le scarpe, tu sei scalzo; loro hanno l’orologio, tu non ce l’hai…”. “Non è vero; ho lasciato tutto a casa, ma ce li ho anch’io. Non sono il loro servo, siamo fratelli”, rispose nonostante tremasse di paura. Lo insultarono, minacciandolo. “Potete anche ammazzarmi, ma è la verità…”.

Le ore nella calura passavano lente e penose e la sete si faceva insopportabile. Nel pomeriggio mi si avvicinò ancora quello del mattino: con gli occhi iniettati di sangue, sembrava il più arrabbiato del gruppo e amava sventolarmi ripetutamente la baionetta sotto il naso. “Ora te la ficco nel ventre: entrerà come nel burro!”… All’ennesima minaccia ebbi un moto di ribellione: “L’hai già detto dieci volte: e fallo, perbacco!” Con un sogghigno mi apostrofò: “Perché non chiedi al tuo Dio che venga a liberarti?” E mostrandomi il mitra continuò beffardo: “Questo è il mio Dio!”… Non l’avesse mai detto! Era quanto avevano rinfacciato a Cristo sulla croce e la reminiscenza evangelica mi diede un coraggio inatteso. “Tu non sai quello che ti dici, povero ragazzo; (offeso, mi colpì alla spalla col calcio del mitra). Vedi la differenza tra te e me? Io sono qui inerme e non tremo; tu sei armato, ma sei più indifeso e hai più paura di me. Noi cristiani non abbiamo paura di morire: per noi la morte è soltanto l’inizio, non la fine, ma tu… quando la morte verrà a bussare alla tua porta, a chi ti attaccherai, povero disgraziato, al fucile?”… Sfinito com’era, l’anziano P. Cornelio ebbe un guizzo d’energia: “Vai avanti, che ne hanno bisogno!” “Tranquillo! E chi mi ferma più?…” Mi ascoltarono tutti in silenzio, coi mitra appoggiati a terra, e alla fine uno borbottò: “Sai predicare, eh?” Lo rintuzzai: “Hai proprio bisogno che qualcuno ti dica la verità, prima o poi…”.

Dopo un po’, mentre i soldati parlottavano tra loro in lingua Ndebele, uno fece il nome di Possenti, un missionario ucciso da poco in Rhodesia. Il P. Tessari scattò come una furia: “Dunque l’avete ucciso voi! Lo conoscevo bene: era un uomo buono… Siete degli assassini!”… Mi aspettavo che sparassero a bruciapelo, invece abbassarono gli occhi e uno mormorò addirittura di sì… Il Padre gli si scagliò contro, tempestandolo di pugni al petto, mentre il soldato arretrava, facendosi schermo con l’arma. Una scena quasi comica nella sua tragicità.

Dopo un altro paio d’ore arrivò un altro capo: “Ora verranno i soldati Zambiani a portarvi a casa”. E l’anziano Padre, irritato: “Siete tutti bugiardi! Non credo più una parola di quanto dite!” Verso il tramonto, vedemmo una dozzina di guerriglieri avvicinarsi, trascinando i chierichetti per mano. Ancora una volta, il P. Cornelio divenne una belva: “Disgraziati! Incoscienti! Fate quello che volete di noi grandi, ma perché torturare questi piccoli innocenti? Hanno una mamma in pena… lasciateli andare!”… Non appena ci videro vivi, però, i ragazzi si liberarono dai soldati a calci negli stinchi e ci corsero incontro. In men che non si dica, me ne trovai un grappolo addosso: mi abbracciavano e mi carezzavano, col volto rigato di lacrime.

Con tutto il loro odio, i guerriglieri non riuscivano a capacitarsi della scena: una frotta di negretti abbracciati, abbarbicati ai loro grandi amici bianchi… Incredibile! Più tardi, i ragazzi ci dissero che i soldati avevano loro raccontato di averci già sgozzato a pugnalate. Li avevano minacciati che - se non avessero dichiarato che avevamo delle armi e che eravamo stati noi i primi a sparare - avrebbero dovuto uccidere anche loro. Piangendo e urlando, essi avevano protestato che non era vero, che noi non eravamo mai stati armati... Ecco perché non ci avevano uccisi: i ragazzi avrebbero testimoniato contro di loro. I nostri piccoli amici ci avevano salvato. Uno di loro era stato preso in disparte e gli avevano offerto una mazzetta di denaro perché ci tradisse. “Non voglio i vostri soldi! Sono i miei amici, i miei Padri!” Ora lo potevano vedere lì davanti a loro, l’affetto che ci legava… e non potevano credere ai loro occhi.

Era buio pesto quando ci ordinarono di muoverci. Ci accompagnarono fino alle macchine e ci dissero di salire: “Siete liberi, potete andare!” Mi voltai verso il gruppo: “Va bene; ma prima voglio dirvi qualcosa. Vedete, noi missionari saremo anche dei poveri uomini incapaci di scuotere il mondo, nonostante il meraviglioso e rivoluzionario messaggio che ci è stato affidato… e di questo dobbiamo chiederne perdono a Dio e a voi. Però voi dovete imparare a riconoscere quali sono i vostri amici e quali i vostri nemici. Noi sappiamo molto bene che siete stati calpestati per secoli; sappiamo i giusti motivi e le giuste rivendicazioni che vi spingono… ma dovete ugualmente capire una cosa: col vostro odio, non potrete mai costruire un mondo migliore! Potrete solo capovolgere la situazione, invertendo i ruoli, per cui gli oppressi di oggi diventeranno gli oppressori di domani, e viceversa… ma il mondo resterà quello che è: un mondo di violenza e di oppressione, dove l’odio e la morte continueranno ad avere il sopravvento. Il mondo nuovo potrà essere partorito solamente dall’amore!… E ora voglio darvi la benedizione…” “Ma che benedizione, Padre: non c’è nessun Dio!…” “Per questo ti benedico: perché impari a conoscerlo! Nel nome del Padre, e del Figlio…” e quasi tutti si segnarono con devozione.

Salimmo in macchina, circondati da guerriglieri sorridenti e chiassosi: “Non teneteci rancore, Padre!”… “Siamo amici ora, vero?”… “Ci ricorderemo di quello che ci hai detto!…” e si sbracciavano per toccarci e per stringerci la mano.

Portammo i chierichetti alle loro case, uno per uno. Poi finalmente, esausti e affamati ci dirigemmo verso casa. Entrati, accendemmo la luce e ci guardammo negli occhi. Ci rendemmo subito conto che lo stesso pensiero ci stava attraversando il cervello: avevamo sfiorato l’esaltante occasione di testimoniare con la morte i valori fondamentali che hanno segnato tutta la nostra vita… Ci abbracciammo forte e – inevitabilmente, e con un sorriso un po’ tirato - sbottammo all’unisono: “Ci è andata male!”…


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