Un
uccellino sulle grucce
Era il primo del mese e le famiglie delle
“adozioni a distanza” di Ndola mi attendevano per la loro
‘mensilità’. Stavo uscendo dalla nostra missioncina di
Itimpi, quando vidi una giovane donna handicappata che
arrancava sulle grucce. Mi fermai e le chiesi se voleva un
passaggio. Si fece per tre volte il segno della croce, in
ringraziamento a Dio per l'inattesa gentilezza (non doveva
essere troppo avvezza a certi gesti... anche perché è
piccola e bruttina e pare che questo – purtroppo! – sia un
particolare che fa molta differenza per chi è al volante.)
Sale sulla macchina e dopo avermi sbirciato a
lungo mi fa: "Tu sei un uomo del Vangelo, vero?" E al mio
assenso, continua: "Allora forse posso azzardarmi ad
approfittare della tua compassione." "Non della ‘compassione’,
reagisco sorridendo; meglio dire... dell’amore." "Ma se non
mi conosci nemmeno?" "Come no. Non sei mia sorellina?"
Seguì un lungo silenzio... e quando riprese a
parlare mi accorsi che due lacrime le rigavano le gote. “Tu
non sai cosa mi dai...” Mi impedii di commentare, e dopo un
lungo silenzio lei riprese in un sussurro: “Ne ho piu’
bisogno dell’aria che respiro”. Altra lunga pausa. Capii che
stava combattendo tra il desiderio di aprirmi il cuore e la
paura di restarne ferita, e continuai a tacere. Poco dopo
infatti sbottò, sottovoce ma tutto d’un fiato, come in
un’ansia improvvisa di liberazione: “Tu ti trascini sfinita,
dolorante, con un’infinita pena che ti rode dentro, ma
nessuno ti vede... O almeno, sai con certezza che nessuno ti
guarda davvero!” Altra pausa. “Vorresti sempre che fosse
notte, ma poi quando viene il buio sospiri l’aurora... e
vorresti solo morire!”
Fu il mio turno di sentire una struggente
voglia di piangere, ma non me lo permisi, anzi, la guardai
col piu’ tenero sorriso che seppi sfoderare. “Tu non sai
quanto sei cara a Dio... e ora anche a me”. Parve
assaporare le mie parole, tanto che il volto le fiorì
lentamente in un sorriso: “E’ la prima volta che uno mi
parla con tenerezza... da quando successe il fattaccio”.
Eccoci al capolinea, pensai, e sempre in
silenzio attesi il seguito, ormai inevitabile. “Quanto fui
stupida!... Mi aveva convinto con dolcezza irresistibile ad
accettare il suo amore. Un artista consumato!... Era la
prima volta che mi capitava in vita mia, e gli credetti con
tutta l’anima: era un sogno cui avevo rinunciato da tanto
tempo!... Due
figli, mi fece fare. Poi, dieci mesi fa, mi
disse che doveva tornare al villaggio per il funerale di un
parente... Non tornò più... e non si fece più sentire!”
Avrei voluto stringermela al cuore come una
bimba ferita e bisognosa di conforto, ma mi accontentai di
carezzarle la fronte. “Smetti di piangere, ti prego. Devi
essere forte... per dar gioia e fiducia ai tuoi bimbi”. E
subito cambiai argomento, per distrarla. “Ma non volevi
chiedermi qualcosa di cui hai detto d’aver gran bisogno?...”
“Sì, ma è molto costosa.” La incoraggiai prospettandole un
pagamento a rate, nel caso che... “Vedi, io ho fatto un
corso di taglio e cucito; potessi avere una macchina da
cucire... Solo che viene un capitale!” “Maiuscolo o
minuscolo?”, scherzai.
Si trattava di 400.000 Kwacha: la bellezza di
60 Euro! Pensai di fermarmi in città e comperargliela
subito, ma poi, mi dissi, come sarebbe andata a casa con la
macchina da cucire? Avrei dovuto cercarle un taxi... che da
Kitwe alla periferia ovest di Chambeshi (40 Km) sarebbe
costato una bella cifra! E a un tratto mi venne un’idea
brillante, per cui le dissi: “Ora non potrei portarti a
casa: sono già in ritardo. Vieni con me fino a Ndola; al
ritorno comperiamo la macchina da cucire e ti porto a casa”.
Mentre proseguivamo in silenzio, elaborai il mio piano.
Giungemmo al Centro Francescano e appena
videro la macchina, il centinaio di ‘clienti’ (per lo più
mamme e nonne) sparsi nel vasto cortile si affrettarono
verso la saletta della distribuzione, ma io puntai deciso
verso il boschetto di pini, chiamandoli a raccolta col
clackson. Si disposero a cerchio, attorno alla macchina e io
uscii, invitando la mia nuova amica a seguirmi.
“Vi presento Chibesa, vedova e mamma di due
angioletti, che il Signore ha posto oggi sul nostro cammino.
Seguirono i saluti tradizionali, con triplice stretta di
mano-pollice-mano, seguita dal duplice battito delle mani.
Moltiplicando per cento, ci vollero dieci minuti buoni, ma
visto che “mwapoleni akulile mushi” (è il saluto che costruì
il villaggio), si fu tutti d’accordo che furono dieci minuti
spesi bene.
Spiegai brevemente l’urgenza di procurare la
macchna da cucire a Chibesa e conclusi: “Ma la macchina non
basta! Come fa Chibesa a cominciare il lavoro se non le
procuriamo anche rocchetti e spole di filo di vari colori,
aghi e altre parti di riserva e una buona scorta di stoffe
... almeno dei tipi più necessari? Ora, la macchina costa
400.000 Kwacha... e quella gliela compero io; non vorreste
anche voi sacrificare per l’amica Chibesa 2.000 Kwacha a
testa... così che la nostra mammina si porti a casa tutto il
necessario per cominciare domattina il suo lavoro?”
Le urla e i battimani parvero ratificare un
unanime consenso, senonché vidi la stazza obesa di mamma
Gondwe (una donna meravigliosa che da anni si arrabatta per
mantenere ed educare una tribù di figli e nipotini orfani)
alzarsi faticosamente per chiedere la parola. Mi affrettai a
precisare: “Tu no, mamma Gondwe, tu sei esente: ne hai
abbastanza dei tuoi da mantenere... E anche tu, mamma Banda,
con i tuoi bimbi handicappati e i nonni ciechi a carico!” .
. . Ma non avevo capito proprio nulla!
“No, Padre, non è giusto! Tu dai a tutti noi
e poi vuoi dare anche a lei il doppio di quanto le daremmo
noi tutti insieme? Niente affatto, la macchina da cucire
gliela comperiamo noi! Le vuoi prendere tutte tu le
benedizioni del Signore? Le 4.000 Kwacha a testa gliele
diamo noi!” ...E qui si scatenò l’entusiasmo dei miei
poveri: “Certo! Gliela vogliamo dare noi la macchina!”
...“Trattieni 4,000 Kwacha ciascuno!” “A tutti, senza
eccezione”, urlava anche mamma Banda...
E chi li fermava più? Fu un’autentica lezione
di “povertà di tasca e ricchezza di cuore”... una lezione
che spesso soltanto i poveri sanno dare. Ci mancò poco che
mi commuovessi ancora, ma per la seconda volta tenni duro.
Chi non seppe trattenere le lacrime, invece,
fu la povera Chibesa: in piedi, aggrappata alle grucce come
uno scricciolo sul ramo. Non s’era mai sentita tanto
amata... Per una volta almeno, furono lacrime di gioia.
P. Umberto Davoli - Zambia