Diciotto o
Ottantuno . . .
“Non solo
la perdiamo, Padre; il peggio è che si perderà anche lei!”…
E il povero papà mi snocciolò una storia di angoscia e pena
simile a tante già udite, purtroppo.
Sconvolta
da un assurdo e irrazionale amore per un giovinastro alla
deriva, senza arte né parte e per di più schiavo della
droga, già da tre anni (ancora quindicenne!) la figlia s’era
allontanata non solo dalla fede ma anche dagli affetti più
cari. Tentata di abbandonare casa e famiglia, sempre più
spesso frequentava un branco di sbandati, fin che l’aveva
bloccata il male del secolo... e ora languiva in ospedale,
inconsapevole di essere condannata a una morte rapida e
atroce. “Dovesse solo intuire la verità - concluse il padre
- temo farebbe una pazzia...”
Era venuto
il fratello Marcello a chiamarmi - un bravo studente in
medicina - che mi aveva narrato la tragedia incombente.
L’avevano ricoverata per misteriosi dolori allo stomaco, ma
ai primi esami non era apparso nulla di particolare, al
punto che avevano pensato a un caso psico-somatico, e
volevano rilasciarla con un vago trattamento a base di ‘placebo’,
tanto per tranquillizzarla. Poi, all’ultimo
momento, un professore si disse inquieto e aveva insistito
che si doveva aprirla per controllare meglio… ed era a un
tratto apparsa la terribile, devastante realtà: tumore in
piena metastasi! Le avevano dato tre mesi di vita.
“Devi fare
qualcosa, padre - aveva concluso il ragazzo - ma non devi
presentarti come prete, se no non vorrà nemmeno vederti”.
Ambedue in borghese, andammo all’ospedale di
Vergato. Mi presentai come amico del fratello e subito
intavolai un colloquio leggero, scherzando e facendola
ridere per conquistarne la simpatia. La cosa mi riuscì oltre
ogni speranza, al punto che un’ora dopo, quando mi accinsi
ad accomiatarmi, fu lei stessa a insistere che dovevo
ritornare a trovarla... Prima di uscire dalla stanzetta,
però, sentii il dovere di rivelare la mia vera identità.
“Luciana... io sono un frate, sai?” Pensò a uno scherzo: “Se
tu sei un frate, io sono una vescova”, disse ridendo.
Insistetti, con dolcezza e serietà: “No, sono frate davvero;
missionario, per giunta!”... Quando capì che era proprio
vero, si lamentò con disappunto: “Questa non me la dovevi
fare!”… Protestai scherzoso: che lo sapesse o meno,
prete lo ero già quando mi aveva accettato come amico... e
se a lei piacevano i preti, di chi la colpa? Rise,
finalmente e mi pregò ancora di tornare a trovarla. . .
cosa che mi feci scrupolo di fare ogni giorno, fino a quando
la dimisero dall’ospedale.
Una volta
uscita, chi sa perché, sembrò rifiorire, come se avessero
sbagliato diagnosi. Riprese colore e parve perfino
rimettersi in carne. A volte veniva a trovarmi e si
sbilanciava in lunghi dibattiti sulla ‘non esistenza’ di
Dio... Finché una bella Domenica me la vidi entrare in
chiesa mentre mi accingevo a leggere il Vangelo della messa
delle 12.00. A messa finita mi raggiunse in sacrestia e
prese a snocciolarmi i vari punti dell’omelia su cui -
diceva - non era affatto d’accordo... ma la Domenica
seguente la rividi puntuale all’appuntamento.
Una sera
mi fece chiamare in parlatorio. Era col suo ragazzo, che
subito mi aggredì vociando che “era tempo che la
smettessimo, noi celibi, di parlare d’amore nelle nostre
chiese fumose d’incenso...!” E che l’amore lui voleva
“vederlo in carne e ossa sulle strade e nei crocicchi della
vita...” Stavo per aprire bocca quando inaspettatamente
Luciana sbottò: “Ma sta zitto, va là! Di che amore vai
cianciando, proprio tu che sfrutti tutti quelli che dici di
amare! Umberto qui, non mi ha mai chiesto nulla; mi ha solo
dato: il suo tempo, la sua amicizia, il suo rispetto, ma tu
...” Non mi sarei mai aspettato una difesa così
appassionata!
Tornò la
settimana seguente e quando, dopo il colloquio,
l’accompagnai alla fermata del bus, vidi che non prendeva la
solita corriera: “Ma questa non va a Sasso Marconi”, dissi.
“No, non vado a casa subito”. “Dove vai, Luciana?” “Beh...
ho promesso...” Sentii un brivido freddo lungo la spina
dorsale, e non saprò mai spiegarmi quello che seguì. “No
Luciana, tu ora vai subito a casa!” “Ma perché?” “Perché
oggi voglio così”, dissi brusco. “Se non vuoi ascoltarmi, è
meglio che la smetta di venire a vedermi”. “Ma non é
giusto!”, si lamentò ... e mi sentii tremendamente
colpevole. Aggiunsi con dolcezza: “L’hai detto anche tu: non
ti ho mai chiesto nulla... Oggi sento che debbo farlo. Per
favore...” Molto riluttante, prese la corriera di casa.
Il giorno
dopo, assai prima dell’alba il telefono squillò e subito mi
sentii martellare i timpani da singhiozzi convulsi: “Come
potevi sapere...? Dio mio, che orrore...” E con voce
allucinata mi raccontò che l’amica andata all’appuntamento
era stata vittima di uno stupro di gruppo per tutta la
notte... e ora giaceva in ospedale. Da allora Luciana mi
guardava con una specie di devozione e gratitudine
commoventi.
Dopo
qualche tempo dovetti andare a predicare due settimane di
‘missione’ a Tertenia, nell’aspra e pur sempre dolcissima
terra sarda. Mancavano tre giorni al termine della missione
quando il telefono ancora una volta mi riportò a una realtà
che avrei preferito ignorare: “Il male è scoppiato
all’improvviso in tutta la sua virulenza - mi disse Marcello
- vieni subito!” Quel fine-settimana tutta Tertenia pregò
per Luciana. Il Lunedì mattina trovai Marcello all’aeroporto
e mi portò subito dalla mia malatina. Per strada sussurrò
desolato: “Urla giorno e notte; deve soffrire
l’indicibile... ma si rifiuta di andare in ospedale”. Ero
ancora in strada e già sentivo i suoi urli; feci i gradini a
tre alla volta. Mi accolse con un sorriso straziante. Con
l’aiuto di Dio riuscii a convincerla che doveva farsi
ricoverare... almeno per alleviare la pena dei genitori. Poi
parlai e parlai, carezzandole la mano, fin che si
addormentò.
Il mattino
dopo - papà guidava e io le sedevo a fianco - le bisbigliai
all’orecchio: “Per la seconda volta debbo chiederti
qualcosa, Luciana”. “Che cosa?” “Voglio che tu riceva Gesù”
“Lo sai che non posso”, sbottò ad alta voce. “Comincia a
pensarci, intanto; ne riparleremo”.
Non ne
parlai più per diversi giorni, ma ingaggiai delle suore di
clausura a pregare per lei... E un bel mattino l’apostrofai
deciso: “Hai pensato a quanto ti dissi?” “Non posso,
Umberto: non me lo merito!” “E chi se lo merita? E poi...
con tutto quello che stai soffrendo! Lo sai che la
sofferenza purifica e riavvicina a Dio?” “Sono così confusa,
Umberto, con la mia fede a brandelli... e poi, come pentirmi
davvero?” “Hai solo bisogno di entrare in comunione con
Gesù, e...” “Ma dovrei confessarmi prima... e io non me la
sento, non lo farei con tutto il cuore...” “Ricevi Gesù e
tutto ti diverrà chiaro! Anche per Zaccheo il pubblicano, fu
solo dopo aver condiviso la mensa con Lui, che trovò la
forza di convertirsi davvero!” “Lo vorrei tanto!” E dopo una
lunga pausa: “Ma davvero mi porteresti Gesù domani?” “No. Te
lo do ora!”
...Tolsi
dal taschino la piccola teca che m’ero portato appresso ogni
giorno in attesa del momento di grazia. Adorammo e pregammo
insieme a lungo, e quando le diedi Gesù scoppiò in un lungo,
silenzioso pianto liberatorio. Nulla fu più come prima: si
confessò da santa, poi volle che chiamassi mamma, papà e
Marcello, e appena arrivarono li apostrofò dolcemente: “Ma
voi che credete, perché non lo ricevete tutti i giorni? E’
meraviglioso, sapete! Marcello, leggimi la Passione del
Signore... dal Vangelo di Luca, ti prego!”
Qualche
giorno dopo chiese che uscissero tutti perché voleva
confessarsi di nuovo. “Ma Luciana...” “No, falli uscire”.
Appena soli mi lanciò un’occhiata biricchina: “Non voglio
confessarmi. Voglio solo che tu mi dica tutta la verità.
Vero che sto morendo?” Non potevo mentirle. “Sí, bimba
mia... stai morendo... hai un cancro in piena metastasi.”
“Quando?” “Potrebbe essere fra un mese... oppure stanotte”
Sfoderò il suo sorriso più radioso: “Non ho paura, sai?
Prima ne avrei avuta tanta, ma non ora! Diciott’anni o
ottantuno... che differenza fa, se si è scoperto l’Amore? Se
si è capito che tutto approda all’Amore... Ma non dire a
papà che so tutto: penserebbe che potrei disperarmi...”
Richiamai i famigliari ed ella subito disse: “Papá, vero che
appena sto meglio mi porterai in montagna, a Temù?” “Ma
certo, bimba mia” le rispose con voce rotta di pianto.
La vidi
per l’ultima volta il mattino della Domenica delle Palme,
ormai in coma. Rimasi ai piedi del letto, in preghiera, fin
che venne il momento di lasciarla. “Luciana - dissi (chi sa
perché) ad alta voce - vado a celebrare la S. Messa di
mezzogiorno, poi torno”... Mi parve di vederle tremolare le
ciglia. Mi avvicinai e portai la mia bocca sul suo orecchio:
“Luciana, mi senti? Vado a celebrare... Ti porto con me
sull’altare...” Aprì gli occhi e sorrise. Poi con immensa
fatica alzò un braccio e me lo lasciò ricadere attorno al
collo... “Padre-amico, muoio felice... Grazie...” Al mio
ritorno mi dissero che era morta poco dopo che me n’ero
andato. Aveva continuato a sorridere, ripetendo il suo ‘grazie’,
sempre più fioco . . .
P. Umberto
Davoli - Zambia