Che male abbiamo fatto noi?
P. Ferdinando Severi
Ci uccidono... ci bruciano le case.. Che male abbiamo fatto
noi, che ogni giorno non facciamo altro che lavorare la nostra terra
là sulle colline?". E' il lamento straziante di una
mamma originaria della superpopolata isola di Giava, che da anni,
con altre migliaia di coloni, è emigrata qui in Aceh. E' accampata
di fronte all'edificio del consiglio comunale di Takengon, la capitale
dell'Aceh. Ai giornalisti cerca di raccontare la sua sciagura: "Sotto
i miei occhi ... mio figlio... ". Qui la sua voce si spegne
in un pianto straziante. Suo figlio di 12 anni è stato preso
a calci e poi gli hanno strappato un occhio!
Dall'inizio del mese di giugno, bande di uomini armati sistematicamente
assaltano i villaggi degli immigrati giavanesi e mettono a ferro
e fuoco tutto. Dal 6 al 12 giugno sono stati già trovati
62 cadaveri. Alle vittime viene sparato e poi tagliato il collo.
Molti cadaveri si pensa siano ancora sparsi in foresta. Inoltre
dal 6 al 16 giugno sono state date al fuoco 800 case. Oltre 10 mila
i profughi già accampati lungo le strade di grande comunicazione.
Molti si pensa siano in viaggio attraverso la foresta verso zone
più tranquille, portando sulle spalle i bimbi e un po' di
masserizie...
Chi sono questi uomini violenti che terrorizzano l'altipiano della
tribù dei Gaio? Certamente sono bande dell'esercito regolare
o dei guerriglieri, che lottano per l'indipendenza della provincia
di Aceh. Ma la gente preferisce mantenersi neutrale... accusando
di questi crimini persone sconosciute" (Orang tak dikenal).
OTK è l'esecutore di tutti i misfatti di ogni giorno qui
in Aceh. Tutta questa provincia è avvolta nelle tenebre della
morte. In città o nei villaggi di campagna ogni giorno ci
sono scontri armati e morti.
Nella stessa capitale della provincia, Banda Aceh, il 18 giugno
l'ospedale civile ricevette almeno 9 cadaveri, raccolti nei dintorni
della città. A dispetto di tutto questo, il comandante militare,
responsabile della sicurezza della zona, afferma che l'ordine comincia
a regnare e la situazione è sotto controllo!
Gli immigrati giavanesi rappresentano in qualche modo il Governo
centrale, "coloniale" di Giacarta, dicono i libelli. Solo
per questo gli immigrati da Giava, bravi, diligenti e molto gentili,
stanno vivendo un doloroso calvario. Chi non ha soldi per rientrare
a Giava affolla i campi profughi in attesa di aiuto. Il Governo
stesso, che li ha trasferiti qui per alleggerire il superpopolamento
nell'isola di Giava, dovrebbe darsi da fare per trasferirli in altra
provincia o riportarli a Giava.
Domenica 17 giugno mi metto in viaggio verso uno di questi campi
profughi giavanesi, presso Meulaboh, a 260 km dalla casa parrocchiale
di Banda Aceh. Il viaggio in macchina non può essere spedito:
ogni 5 km, di fronte ai posti di polizia o militari ci sono ostacoli
vari; devi rallentare, a volte fermarti. I militari sono abbastanza
gentili con me: "Stasera, Padre, lei per chi tiene, per Roma
o per Parma?". "Certo per Roma, almeno 2 a 0", rispondo.
Ogni domenica, la TV indonesiana trasmette in diretta partite del
Campionato Italiano.
Presso la città di Teunom , ai bordi della strada, vedo
due grandi sacchi bianchi gonfi di merce. Una signora, sui 35 anni,
sta in piedi lì vicino, in attesa dell'autobus. Presso i
due sacchi siede sull'erba un vecchio, forse il papà della
signora. Sembra paralizzato; accanto a lui siedono pure due ragazzini.
Indovino che e' una famiglia giavanese appena scesa dalle colline
circostanti. "Signora, come sta? E' in difficoltà?".
"No,no! Sono 10 anni che non vedo i parenti, ho nostalgia di
loro e vado a Giava a trovarli. Basta poco per capire il dramma
intimo di questa donna. In un momento così difficile il marito
non appare. Forse è già diventato vittima degli OTK.
Mi colpisce profondamente la fortezza e l'equilibrio di questa mamma.
Da sola a cavarsela in una simile sventura, in un paese che le è
ora tutto ostile, dove non può fidarsi di nessuno.
Da sola a portare in salvo i suoi ragazzi ed il papà completamente
inabile. Riesce anche a negarsi lo sfogo del pianto per non tradire
se stessa. Do qualche migliaia di rupie ai ragazzi: "per comprarvi
qualche bevanda durante il lungo viaggio verso Giava". Poi
mi ritiro verso la mia jeep, tutto preso da un sacro rispetto per
questa donna.
Seduto nella jeep, ancora mi soffermo a guardare: arriva l'autobus
per Medan. Lei stessa aiuta a mettere le sue masserizie sull'autobus.
Per mano accompagna il papà a salire sull'autobus. Infine
salgono i ragazzini.
Spontaneamente il mio pensiero corre alla mia povera mamma. Gracile
fisicamente come quella mamma giavanese, ma anche simile a lei nella
fortezza, al tempo di un altro conflitto, quello mondiale, nel 1943,
quando suo marito fu ucciso dagli OTK di quel tempo. Rimase sola
a curare la sepoltura del marito: nessuno voleva compromettersi
aiutando i fascisti, anche se morti. Rimase sola a curare noi, otto
fratelli ancor piccoli. Non si abbandonò alla disperazione,
preferì assumersi la sua missione di mamma, con l'aiuto del
buon Dio. Il ricordo mi commuove fino alle lacrime.
A Meulaboh, a sera celebro la S. Messa coi pochi cattolici di quella
città. Una Santa Messa tanto attesa da quei fedeli, ma ancor
più dalle anime delle tante vittime della violenza di ogni
giorno in questa provincia.
Il giorno dopo, col capo della comunità cattolica, un cinese
che gestisce una grande panetteria, andiamo a visitare un campo
profughi giavanesi. Una mamma racconta: "Siamo stati costretti
a lasciare là, sulla collina, la piantagione di aranci già
pronti per la raccolta; anche i fagioli già maturi ora stanno
marcendo. Comunque gli OTK sono stati gentili. Ci hanno detto in
belle maniere di lasciare ed andarcene... ". "Signora,
non abbia paura di dire la verità. Io non appartengo agli
OTK".
Voglio raccogliere dati precisi riguardo al numero dei capi famiglia
presenti nel campo, ma non dico che sono venuto per dare un aiuto
per evitare imbrogli. Fingo di essere serio, ma in realtà
vorrei abbracciare quei bimbi dal volto malnutrito, vorrei mostrare
affetto a quelle mamme e ragazze dai capelli e vestiti involontariamente
trascurati da settimane. Sono 255 i capi famiglia. Decido di dare
200 mila rupie ad ogni famiglia. Dal conto in banca del dirigente
cattolico cinese, mi faccio prestare 51 milioni di rupie, che lo
stesso pomeriggio distribuiamo ordinatamente ad ogni capo famiglia,
chiamandolo per nome. La sorpresa e la gioia di questi fratelli
profughi è grande, anche se momentanea, data la cruda realtà
con cui devono ancora fare i conti. Lofferta di denaro potrà
aiutarli a programmare un viaggio ai campi profughi presso Medan,
nella provincia attigua, in una terra più amichevole, lontano
dagli OTK e dai guerriglieri.
Al momento di lasciare il campo, l'affetto e la riconoscenza dei
profughi è grande e mi dimentico perfino del debito appena
contratto di 51 milioni.
Tra i tanti brutti ricordi di questa terra di Aceh, queste persone
ricorderanno anche un gesto di carità e di solidarietà
compiuto nel nome di Dio. Non posso fermarmi oltre: urge ripartire,
prima che arrivino gli OTK ad esigere la loro parte"!
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