Morire da Uomo
P. Umberto Davoli
Nel '68 - anno destinato a restare fatidico nel bene e nel male -
io ero un pivello di missionario neofita, pieno di velleità
ma piuttosto sguarnito di consistenza e Cisanina era una stazioncina
missionaria in capo al mondo. Quando Giove pluvio esagerava, nella
stagione delle grandi piogge, la si poteva raggiungere soltanto con
la bici o in moto, e mentre dicevi la S. Messa sotto il grande mupundu
delle assemblee di lusso, sentivi i gargarismi degli ippopotami che
sguazzavano nel Lufwanyama, a qualche chilometro di distanza.
Quella volta c'ero arrivato col macinino comprato da poco - di
terza mano - per la bella cifra di seicentomila lire. Avevo appena
terminata la liturgia ed ero tutto sudato per la fatica dell'omelia
nel mio Cibemba ancora approssimativo; ma la gente di Cisanina -
la più semplice e simpatica del mondo - non esigeva panegirici
né oratoria di sorta, e mi colmò di complimenti, riempiendomi
il baule di fresche e deliziose papaie. Mi stavo accingendo al ritorno,
quando improvvisamente una donna mi chiese: "Non vai a vedere
João? Sta molto male." "E chi è?"
"Quello che arrivò qui l'anno scorso, fuggendo dalla
guerra d'Angola. Sta morendo". Certamente ne aveva parlato
a chi mi aveva preceduto alla missione, non a me; ma feci finta
di nulla e le chiesi di accompagnarmi alla capanna del malato.
Eravamo ancora a qualche metro dall'entrata, quando avvertii un
fetore nauseabondo. Mi feci violenza e, piegandomi in due per varcare
la porticina, entrai nella stanzetta buia e senz'aria. Lo vidi solo
dopo un bel po', quando gli occhi si assuefecero al buio, e fu una
vista ben penosa! Avrà avuto sì e no quarantacinque
anni, ma ne dimostrava settanta. Pressoché nudo sul lordo
pagliericcio, il volto deformato da pustole rigonfie, enormi piaghe
purulenti all'inguine e tutto il corpo scosso da violenti contrazioni:
ogni spasmo era un urlo silenzioso che rendeva tragicamente visibile
il suo dolore. "Che ti succede, João?"...
rantolò a fatica: "E' finita! . . . Fino a qualche
giorno fa ce la facevo ancora ad arrancare fuori dalla capanna.
. . ma ora è proprio finita!" Si trattava certamente
di sifilide all'ultimo stadio, ma forse anche di tubercolosi. La
denutrizione aveva fatto il resto. Non era possibile lasciarlo morire
in quella desolazione.
Quel giorno (a differenza di tanti altri che non amo raccontare)
quel po' di umanità e di compassione che mi ritrovo in cuore
ebbero il sopravvento sulla mia innata pigrizia e sul mio egoismo.
Mi caricai João sulle spalle e, giunto alla piccola vettura,
a fatica riuscii a sistemarlo in cabina, al mio fianco. Fu un lunghissimo
viaggio di nozze con Colui che Francesco amava chiamare "l'Amore
non amato": l'uomo dei dolori, umiliato e sfigurato, eppure
grande della grandezza e della dignità supreme di figlio
di Dio. Dopo un po', mi sentii investito anch'io d'una grandezza
nuova e mi parve di star vivendo quasi un momento mistico . . .
Neppure più feci fatica a rintuzzare la nausea e i conati
di vomito che avevo provato nei primi chilometri.
Giunto alla missione di S. Giuseppe, con una strana esaltazione,
corsi dalle Suore Battistine e chiamai quella grande donna - semplice
e santa come poche - che era Madre Cornelia. "Madre, ti
porto il Cristo in persona: è un po' malconcio e irriconoscibile,
ma non ci si può sbagliare: è lui! Trattamelo bene,
ti prego". Fu davvero grande. Lo lavò e lo spidocchiò
tutto, disinfettandogli le piaghe e carezzandolo sul capo come se
fosse un povero bimbo suo! Lo mise nell'unico letto ancora a disposizione
nel piccolo ospedale . . . Dopo nemmeno un'ora però, venne
da me col volto triste: "Non è per me, padre, ma
gli altri malati non lo accettano: hanno paura del contagio, ma
anche di lui: dicono che lo conoscono come un uomo cattivo, che
porta malocchio e morte e noi non abbiamo una camera d'isolamento!".
Mi presi ancora una volta João in macchina e andai a Kitwe,
all'ospedale centrale. Era ormai il tramonto e con cento scuse si
rifiutavano di ricoverare il mio malato: non c'era referto medico
. . . né l'incaricata della biancheria e nemmeno quella dei
ricoveri. Dovetti andarle a cercare a casa loro e vincere la loro
riluttanza ungendo le ruote con qualche mancia sostanziosa. Mi sentii
un po' come il Buon Samaritano della parabola, "trattamelo
bene, e al mio ritorno!". . . Finalmente lo ricoverarono
in una cameretta tutta per lui! Seguirono due giorni intensi alla
missione e m'ero quasi scordato di João, quando venne a cercarmi
un giovane uomo: "Ero andato a visitare mio fratello all'ospedale
di Kitwe. Non appena sentirono che ero di S. Giuseppe, mi pregarono
di andare da un certo João, che aveva un messaggio urgente
per il padre Umberto. . . Ti vuole subito, oggi stesso! Dice che
sta morendo, ma che non vuole e non può morire prima di averti
visto!" Presi la macchina e mi precipitai a Kitwe, agitato
da cupi pensieri: "Non vorranno mica sbarazzarsi di lui!
Forse non ho pagato abbastanza?" Giunto all'ospedale, senza
chiedere nulla ad alcuno corsi nella cameretta del mio povero malato.
. . Come aprii la porta e mi vide, il suo volto ansioso si illuminò
d'un sorriso che non avrei dimenticato mai più. Mi tese la
mano: "Vieni, padre! Vienimi vicino. . . Non posso morire
senza avertelo detto!" Mi sedetti accanto al suo letto
e gli presi la mano, carezzandola teneramente. Non riuscivo a dire
nulla, e d'altronde capivo che stavo vivendo un momento sacro e
solenne, in cui qualsiasi parola sarebbe stata di troppo. Dovevo
solo ascoltare. "Vedi, padre. . . io sto raccogliendo il
frutto della mia dissolutezza e dei miei peccati, e non mi merito
nulla di meglio. Il fatto è che ho sempre vissuto come una
bestia! . . . Ho fatto soffrire quella povera donna di mia moglie...
l'unica persona che mi abbia mai amato veramente; ho distrutto la
mia famiglia al punto che ora anche i miei figli mi odiano. Da bestia,
ho vissuto. . . da bestia!". Fece una lunga pausa, il volto
teso, gli occhi un po' allucinati e fissi nel vuoto, come se stesse
rivedendo il film della sua vita travagliata; poi una lacrima liberatoria
gli brillò sulle ciglia e piano piano il volto si distese
nuovamente nel sorriso di poco prima. . . e riprese: "Sì,
ho vissuto da bestia, ma tu, padre. . . tu mi fai morire da uomo!"
Commosso come non mai, seppi solo farfugliare: "Ma io non
ho fatto nulla! Ho solamente. . .", ma non mi lasciò
continuare. No, tu mi fai morire da uomo! Mi hai fatto
riscoprire che esiste l'amore. Ora so che c'è davvero un
Dio che è amore, un Dio che perdona e che ama nonostante
tutto. . . perché solo lui poteva farti agire come hai fatto
tu. Credimi, padre, è a te che lo devo: ho sempre vissuto
da bestia, ma ora posso morire da uomo". . . e mi stringeva
la mano con tutte le forze che gli restavano.
Non so dire per quanto tempo restammo così, in un silenzio
interrotto soltanto dal suo ritornello, sempre più fievole:
"Da bestia ho vissuto. . . ma tu mi fai morire da uomo,
padre. Ora mi sento amato. . . Grazie, padre!. . . Da uomo. . .
grazie!". . . Mi accorsi che era spirato solo quando
la mano gli cadde inerte. Ma quel sorriso non s'era ancora spento
del tutto. Dio, che teologia mi insegnò João quel
giorno! Mai prima avevo capito così profondamente e in un
modo così 'incarnato' che non si può né vivere
né morire 'da uomo' se non si è scoperto l'Amore.
Perché si nasce davvero solo il giorno che s'incontra l'Amore.
Solo quel giorno nasce un essere umano. . . se no, è tutta
un'inutile e assurda fatica 'da bestie'! Incontrare l'Amore scaturigine
di vita; l'Amore sorgente unica della gioia; l'Amore, DNA del nostro
essere umani; creature, cioè, evocate dall'Amore, dal non
essere all'essere, e all'Amore destinate, per intrinseca vocazione.
E questo Amore è Lui: Dio-Amore. E' solamente in Lui che
questi quattro giorni del nostro cammino terreno, così intrisi
di fatuità e di provvisorio, vengono proiettati oltre la
morte; una morte umana, che rivela a un tratto il suo più
dolce profilo di Sorella (Sorella Morte, amava chiamarla Francesco),
né più ci fa paura, al punto che si può ben
darle il benvenuto col miglior sorriso. Credetemi, non vale la pena
vivere, se non da uomo. Non merita rischiare di spegnere la luce
recalcitrando, con l'amara coscienza d'essere vissuti invano e senza
Amore. Vivere da uomo è la sola garanzia che anche la nostra
morte non potrà che essere un 'morire da uomo'.
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