Corriere della
Sera – Domenica 22 ottobre 2000
«Troppo
cemento, il Po si è ripreso ciò che gli apparteneva»
«C’è un problema di memoria corta che va
combattuto. Appena le acque si ritireranno, tutti ricominceranno a pensare di
farsi la casetta vicino agli argini, di sfruttare terreni che dovrebbero
appartenere esclusivamente ai fiumi», dice Achille Cutrera, padre putativo,
nel 1989 e nel ‘94, di due ottime leggi sulla difesa del suolo e delle fasce
fluviali che, se applicate, avrebbero per lo meno attenuato il disastro di
questo e di altri autunni.
«Passeranno dieci giorni dall’alluvione, la memoria
perde colpi. Appena dopo i morti di Soverato, un sindaco del Nord ha chiesto all’Autorità
di Bacino del Po l’autorizzazione a costruire un ostello in una area golenale
del fiume. La memoria evapora e pervicacemente si ripetono, nella lotta al
dissesto idrogeologico, gli errori del recente passato, anche se non esiste più
alcun possibile alibi di ignoranza tecnica», dice Michele Candotti, segretario
del Wwf Lombardia e Emilia Romagna.
Questa non memoria giustifica quel che afferma
Cutrera se gli si domanda che cosa il governo, le istituzioni locali, la
comunità debbano imparare dagli eventi dei giorni scorsi, dal morti, dalla
devastazione del territorio: «Insegna quel che sapevamo avrebbe insegnato: che
la natura non può essere violentata, che ogni intervento dell’uomo deve
essere studiato con attenzione e cautela, altrimenti determina effetti contrari.
Il concetto di difesa non è univoco. A volte, per difendere, occorre costruire
e si scopre che certi interventi non sono stati realizzati. A volte, bisogna non
costruire, togliere, demolire. Non è mai stato fatto. Anzi, ha sempre prevalso
la logica opposta. Il principio di fondo deve essere la libertà del Po, di ogni
corso d’acqua di dispiegarsi nel proprio alveo naturale, nelle golene e nelle
aree di possibile esondazione. Negli ultimi 50 anni, la fame di suolo ha portato
produzioni, coltivazioni, case, abusive condonate o con il “visto” di piani
regolatori sbagliati in buona o cattiva fede, sempre più vicino al fiume,
restringendo i suoi spazi vitali». Le cronache dell’alluvione testimoniano
che il Po si è ripreso parte di quel che gli apparteneva, che a San Benedetto
ha «resuscitato» la golena chiamata emblematicamente «Po morto», che è
stato necessario tagliare argini perché il fiume premeva ed era consigliabile
aprirli la porta prima che la sfondasse con danni maggiori. Le cronache dell’alluvione
danno drammaticamente ragione agli ambientalisti, a Roberto Passino, timoniere
di quell’Autorità di Bacino del Po, che è tutt’altra cosa dal Magistrato
del Po, e a quanto stabiliscono i suoi programmi: Piano Stralcio delle Fasce
Fluviali (maggio 1998); Piano di Assetto Idrogeologico (maggio ‘99) per la
messa in sicurezza di gran parte del Nord Italia.
«Se non si vuole
che ogni autunno sia esiziale, bisogna “rinaturare” i fiumi, “ricostruirli”,
sostiene lo stato maggiore del Wwf, «il che significa restituire ai corsi d’acqua
spazi per le loro naturali dinamiche. Bisogna ripristinare i “rami” morti.
Da Piacenza a Mantova e oltre, il Po scorreva in più alvei, distribuendo e
attutendo la sua forza, nei momenti di piena. Ma la cecità è totale. Dieci
giorni dopo Soverato e poco prima dell’alluvione, si è tenuto un convegno a
Parma sul sistema idroviario padano-veneto e tutti, dalla Confindustria al
ministro Bersani, si sono detti d’accordo nel progettare un Po-autostrada per
le merci, piazzando, fra Foce Mincio e Ostiglia, cinque “pennelli”, cinque
opere trasversali all’alveo, un’ulteriore violenza sul fiume».
La stessa cecità si è saziata di cemento sulla Dora
Baltea che si è purtroppo macabramente vendicata. Il 15 settembre, Wwf, e due
associazioni di pesca hanno denunciato alla Regione Valle d’Aosta interventi
di regimazione delle acque cosi scriteriati da aumentare il rischio
idrogeologieo. Un mese dopo, tutto sì è dolorosamente avverato e, oggi,
Daniele Guaita, un pescatore, uno fra i firmatari di quell’allarme, va giù d’accetta:
«Si sono mangiati il fiume con le ruspe. Prima hanno costruito stadi,
stabilimenti, case sugli argini, a filo dell’acqua. Poi, hanno alzato
muraglie. Persino la Dora di Val Venyé stata messa in gabbia. La Dora di Val
Ferret è stata trasformata in un rettilineo e il Savaranche, nel Parco
nazionale del Gran Paradiso, cosparso di cartelli “Rispettate la natura”, è
stato canalizzato, non ha più un ciottolo. Il risultato è quello che abbiamo
vissuto noi valdostani e la gente di Ivrea. Lo scempio è cominciato nel ‘93 e
non ha avuto tregua».
Nel ‘93, la legge per la difesa dei suoli aveva
già quattro anni e imponeva un opposta politica del territorio. Ma le leggi,
soprattutto quando sono buone, paiono destinate a rimanere lettera morta. Nel
‘94, viene approvata quella sulla difesa delle fasce fluviali, la legge
Cutrera dal nome del suo primo proponente: detta regole «ecologiche», vieta
costruzioni nelle aree del demanio idrico, impone un limite di rispetto almeno
di 150 metri dalle sponde. Quello stesso anno, arriva l’alluvione e si corre
al cemento che, spesso, è stato ora soverchiato dalla forza delle acque
perché, dice Cutrera, «ogni volta si presenta maggiore di quel che si era
previsto quando l’opera di difesa è stata realizzata».
Sulla Dora Baltea, hanno arginato persino l’isolone
di Pont Saint Martin dentro all’alveo e sull’isolone c’è solo qualche
arbusto. Lo ricorda Vanna Bonardo, presidente di Legambiente Piemonte,
snocciolando una lunga serie di «follie» sui fiumi della propria regione:
«Aree di esondazione, casse di espansione? Niente di niente o quasi, perché un
esempio positivo c’è: al torrente Orba sono stati allargati gli argini.
Abbondano invece le canalizzazioni, le inutili camicie di forza sul Malone, il
Tanaro, il Belbo, il Bormida, la Stura di Lanzo che ha in alveo un grande
impianto dell’Agip e che, poco più a monte, ha sbriciolato il ponte di
Robassomero. I sindaci dei Comuni piemontesi avrebbero dovuto mettere a norma la
cosidetta fascia di piena catastrofica, adeguando i piani regolatori. Pochi,
pochissimi l’hanno fatto».
Non si tratta di bazzecole: quasi 800 paesi
«dentro» al bacino idrografico del Po hanno almeno una parte del loro
perimetro in questa fascia fluviale. Prima di quest’ultima mazzata, i Comuni
si sono comportati come se non avessero coscienza del rischio. Così, hanno
permesso insediamenti in zone espostissime che poi hanno obbligato a ulteriori,
costose opere di difesa dalla minaccia del fiume, magari valide a livello locale
ma compromettenti per il Comune più a valle o per quello sulla sponda opposta.
Il primato di menefreghismo ambientale spetta,
comunque, allo Stato che ha utilizzato suoli di «pertinenza fluviale» per
opere pubbliche e grandi infrastrutture, come autostrade, superstrade (quella
del Trebbia è a pelo dell’acqua) e ferrovie senza porsi il problema di quanto
aumentino il rischio. Se il comune di Suzzara, in alleanza con il Wwf, programma
un parco nel suo tratto di fiume, il Demanio, gestito dal ministero delle
Finanze, fa resistenza perché perderebbe i soldarelli che gli vengono dall’affitto
ai pioppicoltori. I Comuni, adesso, sanno. E non solo perché, in parecchi
casi, sono stati colpiti dall’inondazione. Dalla primavera del ‘99, l’Autorità
di Bacino del Po ha segnalato a 3132 Comuni le aree vulnerabili della loro
geografia, obbligandoli ad assumersi le proprie responsabilità, ad aprire gli
occhi e ad aprirli alle popolazioni che, anche dopo l’emergenza, devono
ricordare le condizioni di pericolo del proprio territorio, averne sempre
coscienza perché nessuna strategia di salvaguardia, non esclusivamente
cementizia, sarà possibile senza il consenso, l’appoggio delle comunità,
nessun abbattimento, anche incentivato (ma gli stanziamenti sono ridicoli) ,là
dove sarà necessario per un recupero dei terreni di sfogo dei fiumi, nessuna
limitazione alle cave («E’ un business miliardario: rispetto al totale di
materiali prelevati, l’abuso è del 90-95%», dice Roberto Passino) e al
pioppeti, nessun divieto. E’ venuto il tempo, si spera, della memoria
lunga.
Guido Vergani
Altri articoli:
Colpa
di un suolo... - Reportage - Gli ultimi dieci anni sono
stati i più caldi del secondo millennio
di F. Martin;